Capitani coraggiosi - Lega Navale Italiana

April 3, 2018 | Author: Anonymous | Category: N/A
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Capitani coraggiosi di Franco Maria Puddu

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Da sempre i “capitani” solcano i mari del mondo, ma oggi alcuni di loro rischiano di affondare l’immagine dell’intera categoria

aptains courageous”(Capitani coraggiosi) è un famoso libro di avventure per ragazzi che lo scrittore inglese Rudyard Kipling diede alle stampe nel lontano 1897, un periodo nel quale molti giovani di oggi non vorrebbero essere vissuti. Bisogna capirli: non esistevano cellulari, CD, DVD, PC, smartphone, iPhone, tablets e compagnia cantante. Non si poteva fotografare con il “telefonino” un incidente, un paesaggio o una ragazza per poi asfissiarne schiere di twitter, blogger e altro ancora. Di cinema non se ne parlava, la radio non esisteva, la televisione era al di là da venire e la corrente elettrica era stata impiegata solo dal 1882 per illuminare per la prima volta, e in parte, la città di New York; ma nonostante analfabetismo e arretratezza tecnologica, la gente non disdegnava di ragionare con la propria testa. Chi andava a scuola mandava a memoria la tavola pitagorica (le tabelline per capirci), brani di autori classici e poesie, e soprattutto si leggevano libri. Chi sapeva leggere spesso si incaricava di farlo per chi non ne era in grado, dando indirettamente modo alla cultura di diffondersi. Allora questo compito non era ancora stato demandato a trasmissioni di notevole spessore intellettuale come gli attuali reality show televisivi ma, si sa, erano tempi duri. Gran parte dell’azione pedagogica era portata avanti dagli scrittori e dai loro romanzi che traspo-

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nevano, in ambienti di fantasia, eventi, nozioni ed informazioni reali. Sandokan, Janez e la Perla di Labuan, per fare un esempio, sono esistiti solo nella mentalità un po’ esaltata di Emilio Salgari, ma il contesto e la cornice nei quali si muovevano questi eroi di inchiostro, erano perfettamente reali; e persino i ragazzi che non avrebbero mai avuto occasione di visitare neanche uno zoo riuscivano ad immaginare la giungla, le belve, l’avventura. Per lo stesso motivo i lettori del citato libro di Kipling, dal quale a decenni di distanza verranno tratti ben tre film, senza essere costretti a navigare avrebbero conosciuto quei valori morali in grado di trasformare un ragazzo ribelle, arrogante e bugiardo in un uomo di mare, leale e coraggioso, un vero captain, termine che, nell’accezione britannica, è il “comandante” della mercantile. In quell’epoca questi valori non avevano una funzione puramente esteriore, perché su di essi si imperniavano sentimenti capaci di governare vite e vicende umane, anche in ambiti nei quali nessuno si sarebbe sognato di andare a cercare glorie e onori, accontentandosi di fare il proprio dovere fino a che il destino non avesse ordito una delle sue trame per stravolgere quelle che avrebbero potuto essere delle esistenze, certamente di sacrificio, ma tutto sommato tranquille. Cosa ci può essere di più tranquillo, ad esempio

(salvo le intemperanze del mare al quale non comanda nessuno e che quindi sono da mettere in passivo), di una carriera di comandante della Marina mercantile?

Antipatico ma capace Forse nel 1787 la pensava così anche l’allora trentatreenne William Bligh, lieutenant della Royal Navy transitato nei ruoli della Merchant Navy, come captain dell’HMAV (His Majesty’s Armed Vessel, Vascello Armato di Sua Maestà) Bounty, che a sua volta (come dice la siUna illustrazione della rivista americana Life degli Anni 60 raffigurante l’abbandono in mare di Wilgla) non era una nave liam Bligh da parte degli ammutinati del Bounty; in apertura un manifesto del film “Capitani coragda guerra, ma un tre giosi” del 1937, con Spencer Tracy e Lionel Barrymore, tratto dal libro di Rudyard Kipling alberi militarizzato dall’Ammiragliato per compagni di sventura, che, ricambiato, disprezzatrasportare dalla Polinesia nei Caraibi (le Indie Ocva, ma per far ritrovare e impiccare gli ammutinacidentali) un migliaio di giovani alberi del pane ti, cosa che in buona parte gli riuscì. Sarà stato che avrebbero dovuto essere utilizzati per l’alimensenza dubbio una persona odiosa, ma fu anche un tazione degli schiavi. Un comandante e una nave eccellente navigatore e un uomo di parola. fatti veramente l’uno per l’altra. Però non fu solo nella Royal Navy e in ambienti inMa oltre a notevoli capacità professionali, Bligh vivibili come il Mar Glaciale Artico, le “roaring waaveva anche un gran brutto carattere che porterà ters” di Capo Horn, o quelle infestate da pirati cobuona parte dell’equipaggio ad ammutinarsi conme Barbanera, l’Olonese o Christopher Moody, che tro di lui; la questione venne risolta filando gli alvissero tanti capitani coraggiosi rimasti sconosciuti. beri del pane a mare e Bligh, con 18 marinai a lui Basti pensare ai comandanti italiani che fecero cafedeli (o forse antipatici agli ammutinati), su una botaggio per secoli lungo le coste del Mediterralancia a remi, nel bel mezzo dell’Oceano, con 4 neo, poi presero le rotte dell’Atlantico per le Amesciabole, viveri e acqua per 10 uomini (ed erano riche, o quelle dell’Oceano Indiano e, successiva19), per quattro giorni, un sestante rotto, una busmente, del Pacifico per l’Oriente. Una miriade di sola, un quadrante per rilevare l’altezza degli astri, piccole epopee da noi purtroppo misconosciute, poche tavole di longitudine e latitudine e un croperché di loro rimane poco. Mentre all’estero, innometro. Nient’altro. fatti, autori come Verne, Melville, Stevenson, Inaspettatamente, però, il nostro nevrotico eroe, London o Conrad cantavano con un realismo utilizzando memoria e intuito al posto delle carte, spinto a volte sino alla crudezza la vita di mare portò in salvo il suo strano equipaggio nel posseanche nei suoi aspetti più duri, i narratori italiani dimento olandese di Coupang, dopo 47 giorni e preferivano seguire il filone esotico, con avventu3.618 miglia di navigazione su una lancia non re che coinvolgevano i lettori più delle sventure pontata: record assoluto imbattuto a tutt’oggi. E patite dai Malavoglia di Verga. non lo fece per sopravvivere o per salvare i suoi

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La copertina della Domenica del Corriere del 30 giugno 1943 con un’illustrazione di Walter Molino sull’impari duello affrontato dal capitano Rosasco e il suo piccolo Mauro Croce contro il sommergibile britannico Olympus

venne militarizzato e destinato a quei piroscafi requisiti con i quali l’Italia tentò di mantenere il flusso di rifornimenti destinato alle nostre truppe rischierate in Nordafrica. Il 27 agosto 1942 Zotti comanda l’Istria, una piccola cisterna da acqua da 5.413 tsl appartenente alla Società Anonima di Navigazione Italia/Flotte Riunite, costruita a Trieste nel 1921 ed ora inquadrata nella II Squadra Navale nel Gruppo Navi Ausiliarie di Squadra di La Spezia, dopo essere stata requisita nel dicembre 1940 e trasformata in portamunizioni. Stipata di esplosivi l’Istria naviga da Suda a Tobruk quando a nord, nord-est di Ras el Tin viene attaccata da bombardieri inglesi; non potendo far altro, Zotti fa mettere in salvo l’equipaggio sulle scialuppe, e dal ponte fa loro cenno di allontanarsi. Poco dopo una squassante esplosione disintegra la nave uccidendolo: alla sua memoria verrà concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Si disse che, seguendo una antica tradizione non aveva voluto abbandonare la nave per morire con essa, ma forse non è vero. Il comandante Zotti era un vecchio navigatore, esperto, pratico e sapeva che sarebbe stato molto più utile alla Patria da vivo che da morto: forse aveva deciso di tornare sottocoperta per vedere se era rimasto ancora qualcuno a bordo. Sta di fatto che, mentre la sua gente lo chiamava dalle scialuppe, scelse di rischiare la propria vita per salvarne altre.

In pace e in guerra Intanto pescherecci, trabaccoli, mercantili, portarinfuse e navi passeggeri continuavano a solcare i binari marini delle rotte commerciali; solo in poche occasioni cessarono di navigare per lasciare il passo a navi dalla fisionomia ben differente: quelle da guerra. In questi casi tutti cambiavano abito: le navi con una mano di vernice grigia e un paio di vecchi cannoni imbullonati sul ponte e i comandanti aggiungendo le stellette sulla divisa come avvenne a Antonio Zotti e a Cesare Rosasco; solo gli equipaggi dovevano continuare a navigare, mugugnando come sempre. Di Antonio Zotti sappiamo che era nato a Lussimpiccolo, un’isoletta poco distante da Pola (oggi Pula, in Croazia) nel 1880, un secolo dopo la leggendaria impresa di Bligh. Diplomatosi presso il locale e rinomato Istituto Nautico, prendeva il mare agli inizi del 1900 prima sui mercantili del Lloyd Triestino, poi, dal 1907, con la Società di Navigazione Cosulich, infine, dal 1937, su quelli della Italia. Durante la Seconda Guerra Mondiale

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La vicenda di Rosasco Diversa è invece la vicenda del capitano Cesare Rosasco. Un po’ misteriosa perché in guerra è buona norma non parlare troppo (il nemico ascolta), e anche dopo la fine del conflitto è sempre meglio essere parchi di parole, specialmente se si sono verificati episodi poco gratificanti come alcuni di quelli dell’8 settembre. Forse per questo ancora oggi la motivazione della Medaglia d’Oro concessa a Cesare Rosasco parla genericamente della sua eroica resistenza all’attacco di un sommergibile nemico, senza spiegare che lui era stato una delle preziose pedine della catena logistica che aveva consentito agli operatori subacquei della X MAS di violare la base britannica di Gibilterra. Vediamo come. Sin dall’inizio del conflitto la Marina aveva predisposto che l’Olterra, un mercantile incagliatosi nella baia di Algesiras per non cadere in mano inglese, in territorio spagnolo ma ad un tiro di schioppo da Gibilterra, divenisse una piccola base

La bellissima turbonave Andrea Doria affondata nella notte del 29 luglio 1956 a seguito di una collisione causata dalla nave passeggeri svedese Stockolm. Nel riquadro, il comandante dell’Andrea Doria, Pietro Calamai, che pur avendo compiuto il suo dovere con grande professionalità e fino all’estremo limite, venne ingiustamente calunniato dalla stampa e dall’armatoria svedese senza che venisse correttamente difeso

segreta dove gli incursori della X MAS approntavano i Siluri a Lenta Corsa, i “maiali”, all’interno dello scafo, per poi uscirne nottetempo e attaccare le navi nemiche ormeggiate in rada. Questa strana base era stata realizzata con cautela e rifornita di uomini e mezzi tramite alcuni mercantili. Uno di questi era il Mauro Croce, un piroscafetto da 600 tonnellate armato di un asmatico cannoncino da 55 mm, comandato da Cesare Rosasco, un ligure sulla cinquantina che spesso, venendo dall’Italia, era costretto a sostare nei porti spagnoli per denunciare alle locali autorità la scomparsa di qualche marinaio: la guerra è brutta, la Spagna era un Paese compiacente e i marittimi dell’equipaggio, tutti civili militarizzati, quando potevano, disertavano. Questi finti disertori, in realtà, erano incursori di Marina che, entrati clandestinamente nella neutrale Spagna, proseguivano poi verso Algesiras, dove il Mauro Croce avrebbe sbarcato, giorni dopo, là o in porti vicini, carichi “di ferramenta e carpenteria” che alcuni emissari avrebbero provveduto ad inoltrare all’Olterra: erano i componenti per realizzare maiali, mignatte e bauletti esplosivi. Il 23 aprile del 1942, nelle acque di Valencia, il sommergibile inglese Olympus attacca il Croce lanciandogli contro due siluri; Rosasco li schiva e il battello emerge per attaccare in superficie. Il piroscafo si difende con il suo cannoncino, ma le artiglierie del battello lo soverchiano, colpendolo ripetutamente. Il ponte di comando è un mattatoio, ma il comandante, gravemente ferito, si fa portare al ti-

mone a mano per governare la nave; a questo punto viene colpito anche l’Olympus, dove le munizioni del cannone esplodono ferendo 20 marinai e permettendo così a Rosasco di portare la sua malconcia nave, con il prezioso carico, nel porto di Sagunto, dove sarà soccorsa.

Ingiustizia per il capitano Tuttavia la guerra non è l’unico teatro che fa emergere capacità, competenza e abnegazione, come dimostra il caso di Pietro Calamai, comandante dell’Andrea Doria, il bellissimo transatlantico, fiore all’occhiello della rinata cantieristica italiana del secondo dopoguerra che, nella notte del 25 luglio 1956 viene speronato e affondato dalla nave passeggeri svedese Stockolm al largo dell’isola di Nantucket, mentre procedeva alla volta di New York. Ci sarebbe da dire molto sulla condotta dell’equipaggio svedese; sta di fatto che questo, dopo l’incidente, facendo quadrato attacca quello italiano accusandolo di negligenza e codardia, mentre durante l’inchiesta sul sinistro i legali svedesi arriveranno a dire che il Doria era mal costruito. Il capro espiatorio di questa assurda vicenda sarà il comandante Calamai, la cui professionalità aveva consentito di mantenere il controllo della situazione tra lo speronamento e l’affondamento, limitando ad appena 52 il numero delle vittime. Se colpa ci fu, sarebbe invece ravvisabile nel comportamento dell’allora Ministero della Marina Mercantile che, assieme ai dirigenti dell’Italia Navigazione e ad altri organi di Stato e dell’industria non seppe o non volle, non si sa se per quali re-

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La portacontainer Jolly Rubino, attaccata a colpi di lanciarazzi il 3 settembre 1987 dai pasdaran iraniani nei pressi dello Shatt el Arab; nella foto piccola un barchino dei “guardiani della rivoluzione”

conditi motivi, difendere il comandante, lasciandolo preda di un forsennato linciaggio morale. Piero Calamai, ufficiale della generazione oramai estinta dei comandanti dei grande liner, come Francesco Tarabotto che tante volte aveva condotto il Rex attraverso l’Atlantico, comprese di essere rimasto solo, ma non scrisse memoriali, non si incatenò davanti al Parlamento né intraprese scioperi della fame; si limitò a rendere conto con chiarezza e precisione del suo comportamento, mentre la sua carriera, irreparabilmente compromessa, si chiudeva ingiustamente. A tutto pensava, invece, durante una normale navigazione nelle acque del Golfo Persico il comandante Alfredo Manfredino nella notte del 3 settembre 1987; la situazione internazionale nell’area era tesa, ma la tensione tra Iran, Irak, Stati Uniti e altri Paesi era quasi una prassi, quando, alle 01,15, un boato, seguito dalle suonerie dell’allarme generale, scuote la mole del portacontainer Jolly Rubino, un bestione di 190 metri della Ignazio Messina & C che gestiva collegamenti bisettimanali tra l’Italia e il Golfo Persico. Al traverso dell’isola iraniana di Al Farisijah il secondo ufficiale, Andreino Giovannelli scende verso prora per controllare alcune boe luminose, quando sente prima il rombo di un motore, poi delle urla e, guardando nel buio, scorge la sagoma

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di un barchino a luci spente con 4 uomini (si saprà che erano pasdaran, i guardiani della rivoluzione iraniana) che evoluisce sottobordo. All’improvviso una vampata seguita da un boato: sparano con un RPG, l’equivalente del bazooka del Patto di Varsavia, e al primo colpo ne seguono altri cinque, tutti verso la zona degli alloggi, la plancia forse è troppo alta per essere presa bene di mira di notte. Giovannelli fa scattare l’allarme e l’equipaggio lascia le cabine per correre al punto di raduno. Non il comandante Manfredino che, nella confusione, scivola e si frattura il femore e, malgrado la dolorosa ferita, si fa portare in plancia per dirigere la nave, dettando contemporaneamente le sue decisioni al primo ufficiale che le trascrive nel giornale di bordo: aumenta la velocità, fa lanciare l’SOS (al quale non risponderà nessuno nonostante a 10 miglia si trovino due navi da guerra USA), fa qualche evoluzione mentre il minuscolo aggressore spara i suoi razzi tenendosi a poche decine di metri dal lato dritto della nave. L’attacco dura circa mezz’ora, poi il barchino si dilegua e, solo dopo aver accertato che la situazione si è normalizzata e che nell’area circostante la Jolly Rubino non navighi più nessuna imbarcazione sospetta, il primo ufficiale rileva il comandante Manfredino che viene finalmente ricoverato nell’infermeria di bordo.

La motonave da crociera Costa Concordia, affondata sugli scogli de Le Scole, nei pressi dell’Isola del Giglio il 31 gennaio 2012 (foto Guidi)

Tristi considerazioni Come abbiamo visto, prendendo ad esempio solo poche vicende, in pace e in guerra, nel Mediterraneo o sugli Oceani i nostri capitani, senza vantarsi e battere grancassa, ma anche senza fuggire o evitare responsabilità, hanno sempre assolto i propri incarichi mantenendo alta la fama della marineria dalla quale provengono, indistintamente, sia essa ligure, campana, veneta o di altra regione. Da qualche tempo si parla però di comandanti che abbandonano la propria nave, che contravvengono alle più elementari norme del diritto marittimo e della tradizione marinara, che consegnano dei militari italiani, loro fratelli e simbolo del Paese, e poi anche le loro armi nelle mani di rappresentanti militari di un Paese straniero. È triste anche il solo sentir citare eventi di questo tipo che, d’altronde, noi non abbiamo né l’intenzione né il diritto di giudicare, anche perché le vicende dalle quali sono scaturiti questi casi sono ancora in corso di svolgimento e le verità, nel dettaglio, ancora tutte da accertare. È vero che il buono e il cattivo sono sempre esistiti, e che forse anche in altri periodi e in altri teatri si saranno svolti fatti analoghi, può anche essere; d’altronde sotto il sole, si sa, non c’è mai niente di nuovo. Però, anche se siamo certi che una esigua minoranza non potrà mai cancellare quanto è stato costruito con il duro lavoro da una maggioranza silenziosa alla quale non saremo mai abbastanza grati, non possiamo non provare un senso di smarrimento di fronte a questi atteggiamenti, convinti che, in quei frangenti, la reazione di altri sarebbe stata molto La petroliera Enrica Lexie fotografata nei pressi della costa indiana del Kerala il 16 febbraio 2012 mentre è sotto il controllo di una unità della Coast Guard indiana ■ differente.

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