Dalla meccanica classica alla meccanica quantistica: alcune

March 20, 2018 | Author: Anonymous | Category: Scienza, Fisica, Quantum Physics
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CATANIA Scuola Interuniversitaria Siciliana di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (S.I.S.S.I.S. VIII CICLO)

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Dalla meccanica classica alla meccanica quantistica: alcune evidenze sperimentali ___________________ Graziella Ferini ___________________

Corso di Fondamenti di Fisica 1 Prof: V.Bellini

________________________________________ ANNO ACCADEMICO 2006-2007

INDICE Premessa…………………………………………………………………………………3 Introduzione…………………………………………………………………………… .4 1. Grandezze continue e grandezze discrete………………………………………… .5 1.1 Quantizzazione e costante di Planck………………………………………… ..7 1.2 Una “lente” per la quantizzazione dell’energia: la spettroscopia………… ...9 2. Lo spettro dell’atomo di idrogeno…………………………………………………13 3. Il modello atomico di Thomson…………………………………………………….15 4. Il modello atomico di Ruhterford………………………………………………….17 5. Il modello atomico di Bohr………………………………………………………...19 Esercizi…………………………………………………………………………………23 6. L’esperienza di Frank-Hertz………………………………………………………27 Appendice A………………………………………………………………………….. 30 Appendice B……………………………………………………………………………31 Appendice C (L’effetto fotoelettrico)…………………………………………………32 Bibliografia.……………………………………………………………………………36

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Premessa La presente tesina è rivolta a studenti della V classe di un liceo scientifico; essa si propone di illustrare alcune delle evidenze sperimentali che hanno portato alla nascita della meccanica quantistica agli inizi del Novecento, sottolineando l’inadeguatezza della meccanica newtoniana nella spiegazione di tali fenomeni. Il concetto principale con cui si vuole rendere familiare lo studente è quello della quantizzazione o discretizzazione di alcune grandezze fisiche, come ad esempio l’energia, che rappresenta uno degli aspetti peculiari della nuova teoria. Si fa notare che l’introduzione di questo concetto diventa essenziale quando si trattano sistemi di dimensioni microscopiche (ad es. l’atomo), che sono governati da leggi diverse rispetto a quelle che regolano gli oggetti macroscopici. In queste pagine viene in parte seguito lo sviluppo storico delle idee e delle scoperte che segnarono il passaggio dalla fisica classica a quella quantistica. Particolare attenzione è rivolta alla descrizione degli spettri atomici e ai modelli conseguentemente proposti per descrivere la struttura atomica, sottolineando i limiti di una spiegazione interamente basata su concetti della fisica classica. Gli argomenti sono presentati in modo didattico, con una formulazione matematica elementare; per la loro corretta comprensione sono richieste le seguenti conoscenze di base:  Concetto di momento angolare  Leggi dell’elettrodinamica classica  Onde elettromagnetiche  Nozioni di chimica di base

“Quelli che non rimangono scioccati la prima volta che si imbattono nella meccanica quantistica, non possono averla compresa” (Niels Bohr).

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Introduzione Due grandi teorie rivoluzionarie hanno mutato la fisica nei primi decenni del XX secolo: la teoria della relatività e la teoria dei quanti. La prima fu praticamente creazione di un uomo solo, Albert Einstein. La teoria dei quanti, invece, è il risultato del lavoro creativo di diversi grandi scienziati, a cominciare da Max Planck che fu il primo a introdurre nella fisica la nozione di quanto di energia. Entrambe queste teorie hanno apportato delle modifiche radicali alla formulazione newtoniana della meccanica, comunemente detta “meccanica classica”, delimitandone i limiti di applicabilità. La meccanica classica descrive infatti in modo sostanzialmente accurato gran parte dei fenomeni meccanici osservabili direttamente nella nostra vita quotidiana, ma le sue previsioni risultano in disaccordo con i risultati di esperimenti in cui sono coinvolti sistemi molto più “veloci” o molto più “piccoli” di quelli a cui siamo normalmente abituati. Così come nella teoria della relatività (ristretta) la costante fondamentale con cui confrontarsi è la velocità della luce (nel vuoto) c (e risultano quindi “fuori” dall’ambito classico i sistemi che si muovono a velocità paragonabili ad essa), vedremo che anche il “molto piccolo” della meccanica quantistica è riferito ad un’altra costante fondamentale, che è la costante di Planck h. Essa governa i fenomeni a livello atomico e molecolare, per comprendere i quali bisogna far posto ad alcuni concetti lontani dal “senso comune”. Tra questi il più importante, e l’unico che descriveremo diffusamente in queste pagine, è la quantizzazione delle grandezze fisiche, che rappresenta l’aspetto peculiare della meccanica quantistica e quello da cui tale teoria trae il nome. Esso significa che, a differenza di quello che abbiamo imparato dalla fisica classica, per l’energia, la quantità di moto, il momento angolare di un sistema non sono possibili variazioni arbitrariamente piccole, ma solo multiple di una “quantità minima” che dipende appunto dalla costante h. Un sistema quantistico che si trovi quindi in uno stato iniziale caratterizzato, ad esempio, da un dato valore dell’energia, potrà solo “saltare” ad uno stato con un altro, prefissato valore di energia, senza passare per gli stati intermedi. (Per una brevissima rassegna di altri concetti “non classici” della teoria si rimanda all’appendice A).

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1. Grandezze continue e grandezze discrete Una grandezza si può definire continua quando può assumere ogni valore entro un dato intervallo. Le sue variazioni possono perciò essere espresse da un numero reale qualunque, compreso tra zero e la differenza tra gli estremi dell’intervallo. Per esempio, la distanza tra due punti, ossia lo spazio, rappresenta una quantità continua. In un intervallo limitato da due punti si può trovare sempre un altro punto. Non esiste un “livello minimo” al di sotto del quale non si possa ulteriormente suddividere un dato segmento. Lo stesso concetto di continuità vale ancora, in meccanica classica, per il tempo, per un gas che fuoriesce da un’apertura, per un liquido contenuto in un recipiente, in quanto la loro misura quantitativa può essere variata di una quantità arbitrariamente piccola. Così, in tutta la logica insita nella fisica classica sono considerate grandezze continue la massa di un corpo, la sua posizione, la sua velocità, le forze agenti su di esso, la sua energia e, ancora, la frequenza che caratterizza i fenomeni di emissione e assorbimento delle radiazioni da parte della materia. Una quantità si dice discreta quando può assumere solo alcuni valori all’interno di un dato intervallo di numeri reali. Essa può essere perciò espressa per mezzo di un numero intero positivo o negativo, nel senso che è pensabile farla variare solo in termini di multipli di una “unità minima”. Anche a livello macroscopico esistono grandezze siffatte. Ad esempio, il peso di un mucchio di mattoni può essere variato solo cambiando il loro numero, cioè in modo non continuo. Se infatti supponiamo che un singolo mattone pesi 20 N, il peso complessivo del sistema potrà essere dato solo da multipli di 20 N: aggiungendo o togliendo mattoni al nostro mucchio non potremo mai avere un sistema che pesi, ad esempio, 67 N. Un modo semplice per illustrare la differenza tra grandezze continue e grandezze discrete è quello rappresentato in Fig. 1, nella quale vengono posti a confronto un piano inclinato e una rampa di scale.

FIG. 1. Illustrazione schematica della differenza tra grandezze continue e grandezze discrete.

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Nel primo caso la variazione d'altezza tra i punti A e B avviene in modo “continuo”, con la possibilità di accedere a tutti gli infiniti valori di altezza compresi tra i suddetti punti; allo stesso modo, l’energia (potenziale) di un corpo di massa m posto sul piano inclinato ad una data altezza h dal suolo può assumere qualunque valore compreso tra zero e mgH (detta H l’altezza di B rispetto al suolo e g l’accelerazione di gravità). Nel caso della rampa di scale (tra gli stessi punti A e B) la variazione di altezza avviene soltanto attraverso un certo numero finito di altezze predefinite (gli scalini) e quindi non è possibile accedere a tutti gli infiniti valori di altezze comprese tra A e B. Nel caso della rampa di scale diremo allora che la variazione di quota tra i punti A e B si dice “quantizzata”, cioè suddivisa in un numero finito di quantità discrete. Prendendo come spunto l’esempio precedente è comunque interessante osservare come il grado di quantizzazione dipenda dal numero di livelli in cui è suddivisa la differenza di quota tra A e B; quanto maggiore è il numero di questi livelli tanto più ci si avvicinerà alla condizione di continuità. Alla luce di questa considerazione è possibile porsi la seguente domanda: cosa succede se osserviamo il piano inclinato via via sempre più in dettaglio? È possibile che, ciò che a prima vista ci appare come un continuo, sia in realtà costituito da un insieme di quantità discrete tale da risultare a tutti gli effetti una grandezza quantizzata, cioè è possibile ritrovarsi in una situazione come quella mostrata in Fig. 2?

FIG. 2. Il continuo “in dettaglio”.

La meccanica quantistica spiega che in effetti questo è quello che accade quando si “ingrandisce” un sistema fino a scale dell’ordine delle dimensioni delle molecole o degli atomi che lo costituiscono. Volendo tradurre nel modo più semplice possibile questo concetto, si potrebbe quindi dire che un atomo è “abbastanza piccolo”, come vedremo in seguito, da poter essere in un certo senso paragonato ad una rampa di scale: al suo interno una particella (l’elettrone) può muoversi solo passando da un 6

gradino a un altro, senza occupare mai punti intermedi a due “gradini” (o livelli) contigui. La sua distanza dal centro e l’energia associata a tale posizione risultano pertanto delle grandezze discrete o quantizzate.

1.1 Quantizzazione e costante di Planck Storicamente il concetto di “quanto” nella fisica fu introdotto da Max Planck nel 1900 per risolvere un problema teorico che aveva interessato i fisici nella seconda metà dell’Ottocento, cioè quello di spiegare le caratteristiche osservate della distribuzione delle lunghezze d’onda della radiazione emessa da un corpo portato ad una certa temperatura (problema del corpo nero). L’idea rivoluzionaria di Planck è l’ipotesi che, ad una data frequenza , l’energia potesse essere emessa solo in quantità discrete, secondo la relazione:

E  nh , dove h è appunto la costante di Planck, che ha le dimensioni di una energia per un tempo o, equivalentemente, di un impulso per una distanza. Essa vale h  6.626  10 34 J  s

e il suo significato fisico sarà chiaro più avanti, quando parleremo del modello atomico di Bohr. Per il momento ci limitiamo ad osservare che le dimensioni di h sono quelle di un momento angolare. Il seguente esempio numerico ci aiuta a capire quanto sia piccolo il suo valore rispetto alla nostra esperienza ordinaria e a farci una prima idea delle “dimensioni” del mondo quantistico.

Esempio numerico La Terra ruota intorno al Sole ad una velocità di v 

2  1.5  1011 m  s 1 e, detto d il raggio medio 7 3.156  10

dell’orbita, il suo momento angolare è dato da

L  Mvd 

5.98  10 24  2  2.25  10 22 J  s  2.68  10 40 J  s . 7 3.156  10

Il momento angolare associato ad un uomo (M=70 kg) in moto lungo il bordo una piattaforma circolare di raggio pari a 10 m con una velocità di 2 m/s risulta di 1400 Js. Tra questo numero e il precedente c’è una differenza di circa 37 ordini di grandezza! Si può notare inoltre che, tra un sistema che abbia un

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momento angolare dell’ordine della costante di Planck e l’uomo del nostro esempio, c’è più o meno la stessa differenza che passa tra l’uomo e la Terra nel suo moto di rivoluzione attorno al Sole. Ciò ci aiuta a capire che la costante di Planck è un numero molto vicino a zero, ma la meccanica quantistica nasce proprio dal fatto che tale numero, per quanto piccolo, non è zero. Essa infatti non esisterebbe se fosse h=0 e grandezze fisiche come l’energia, l’impulso, il momento angolare sarebbero continue per sistemi di qualunque dimensione, in accordo con quanto siamo abituati a pensare. Potremmo dire infatti che l’altezza del “gradino” associato a tali grandezze è zero, ovvero che esse possono variare di quantità arbitrariamente piccole, come nella meccanica classica. La quantizzazione dell’energia segna la nascita della meccanica quantistica, anche se occorre ricordare che già alla fine del XIX secolo il concetto di quantizzazione non era del tutto sconosciuto. Ad esempio basti pensare alla quantizzazione della materia introdotta dagli esprimenti di Dalton, e alla quantizzazione della carica introdotta dalle leggi Faraday. La legge di Dalton fa riferimento ad una miscela di gas ideali, chimicamente inerti, contenuta in un dato volume ad una data temperatura, dove le molecole di ciascun gas si comportano indipendentemente dalle molecole degli altri gas; come conseguenza si ha che la pressione esercitata dalla miscela gassosa, sulle pareti del contenitore, è la somma delle singole pressioni prodotte dalle moli di ciascun gas componente la miscela. Più strettamente connessa al campo della fisica fu la scoperta di Faraday relativa alla quantizzazione della carica elettrica (che pertanto non è “infinitamente divisibile”); egli trovò infatti che le moli consumate o depositate agli elettrodi (durante l’elettrolisi) contenevano una carica elettrica multipla di una unità elementare. Successivamente Stoney propose di assumere come unità la quantità di elettricità liberata da un atomo di una sostanza monovalente, cui diede il nome di elettrone: e

F , NA

con F=9.64846104 C/mole (costante di Faraday) e NA numero di Avogadro. Utilizzando per NA la stima nota dalla teoria cinetica dei gas, si trovò per e un valore di circa 10-20 C. La scoperta che l’elettrone non è semplicemente un’unità di carica, ma una particella, venne fatta una ventina d’anni dopo da Thomson in una serie di esperimenti sui tubi a raggi catodici.

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1.2 Una “lente” per la quantizzazione dell’energia: la spettroscopia Nell’esempio di Fig. 2 abbiamo visto che una grandezza può apparire continua se il “quanto” elementare (il “gradino”) è più piccolo delle variazioni che noi possiamo apprezzare. Abbiamo anche detto che un atomo è un sistema quantistico… ma come facciamo ad accorgercene? Cosa è che ci permette di dire come esso è fatto e che ci porta ad affermare che al suo interno sono possibili solo energie discrete per gli elettroni? Lo strumento che, a partire dall’Ottocento, fornì agli scienziati informazioni in questa direzione fu la spettroscopia, una tecnica di indagine microscopica i cui risultati furono spiegati soltanto con l’avvento della meccanica quantistica. Storicamente la spettroscopia ebbe la sua origine quando Newton, nel 1666, mise sperimentalmente in evidenza che la luce del Sole, che ci appare bianca, è in realtà composta da diversi colori, cioè da radiazioni elettromagnetiche di frequenza o lunghezza d’onda diversa, come mostrato in Fig. 3.

FIG. 3. Scomposizione della luce solare nel visibile.

In realtà il fatto che la luce del Sole, passando attraverso un prisma, desse origine a un fascio colorato era stato osservato precedentemente, ma si riteneva (ad es. Cartesio) che la luce “diventasse” colorata per effetto della rifrazione e che il colore dipendesse dall’angolo di rifrazione. Facendo passare la luce attraverso un secondo prisma Newton dimostrò invece che la luce era “composta” da vari colori ciascuno dei quali, se fatto ulteriormente passare attraverso un prisma, non veniva ulteriormente scomposto, ad indicare che la luce di un solo colore (o, come si dice più propriamente, la radiazione monocromatica) non cambia colore se subisce rifrazione.

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Nel 1752 fu scoperto che varie sostanze, se sottoposte a riscaldamento, emettevano radiazione elettromagnetica, le cui componenti potevano essere osservate utilizzando un prisma. Ad esempio, il comune sale da cucina emetteva una tipica radiazione giallastra. L’insieme delle radiazioni emesse da una qualunque sostanza, distribuite ed espresse in funzione delle frequenze o delle lunghezze d’onda, costituisce quello che si chiama spettro della radiazione. Già a partire dal Settecento l’esperienza mostrava che sostanze diverse producevano spettri diversi e che non tutti i colori erano necessariamente presenti. In particolare, a differenza della luce solare, quello che si osservava era una semplice successione di righe colorate tra di loro distanti, come mostrato nella parte destra di Fig. 4. Ciò si esprime dicendo che la radiazione solare presenta uno spettro continuo, mentre quella prodotta da una sostanza (o di un semplice elemento chimico) presenta uno spettro discreto.

FIG. 4. Differenza tra uno spettro continuo (in alto a sinistra) e uno spettro discreto (in alto a destra). In basso è mostrato uno spettro di assorbimento.

Gli spettri vengono solitamente classificati in:  Spettri di emissione, che si hanno quando le radiazioni ottiche emesse da una sorgente vengono direttamente disperse nelle componenti monocromatiche mediante uno spettroscopio1;  Spettri di assorbimento, che si hanno quando la radiazione (normalmente con spettro continuo) emessa da una sorgente passa attraverso una sostanza (generalmente un gas o un vapore) che

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Uno spettroscopio è costituito da un collimatore che raccoglie la radiazione emessa da una sostanza, un prisma che la disperde nelle sue componenti e un cannocchiale attraverso cui lo spettro può essere osservato. Lo spettroscopio è detto anche spettrometro se è munito di una scala graduata che permette di misurare la lunghezza d’onda delle componenti monocromatiche.

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assorbe alcune componenti di determinata lunghezza d’onda. Quello che si ottiene in questo caso è lo spettro della sorgente, sovrapposto al quale si osserva una sequenza di righe scure, corrispondenti alle componenti assorbite dal gas. Un corpo, indipendemente dalla sua natura chimica, se riscaldato emette uno spettro continuo, in cui l’intensità delle varie componenti è descritta dalla legge del corpo nero di Planck (e la lunghezza d’onda della componente più intensa è data dalla legge di Wien). Un atomo invece emette uno spettro discreto, in cui il numero e l’intensità delle righe presenti possono variare con la temperatura, ma la cui posizione è fissa e caratterizza l’elemento chimico (vedi Fig. 4). Già Kirchhoff e Bunsen, nella seconda metà dell’Ottocento, misero in evidenza che la spettroscopia consente di fare un’analisi chimica degli elementi e di riconoscere la presenza di un elemento in un miscuglio di più altri. Essa è un metodo di indagine utilizzato ancora oggi e rappresenta un prezioso strumento per lo studio della materia stellare, accessibile all’uomo solo attraverso la radiazione da essa emessa. A titolo di esempio, tra i primi risultati della spettroscopia ricordiamo la scoperta di due nuovi elementi, il rubidio e il cesio, fatta dagli stessi Kirchhoff e Bunsen, e quella dell’elio, un elemento allora sconosciuto sulla Terra le cui righe furono osservate per la prima volta nello spettro solare. 2

FIG. 5. Spettri di emissione di diverse sorgenti. 2

Il nome elio deriva appunto dal greco Helios=Sole, poiché si riteneva che tale elemento fosse presente solo nel Sole.

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Confrontando gli spettri in emissione e in assorbimento, forniti da una stessa sostanza allo stato aeriforme, si nota una corrispondenza rilevata per la prima volta da Kirchhoff, comunemente chiamata principio di inversione dello spettro: ogni sostanza aeriforme è capace di assorbire quelle radiazioni che nelle stesse condizioni fisiche è anche capace di emettere. A righe brillanti in emissione corrispondono infatti in assorbimento righe scure localizzate sullo sfondo dello spettro luminoso continuo, esattamente nella stessa posizione delle righe di emissione. Anche la luce proveniente dal Sole presenta uno spettro di assorbimento: sul fondo continuo si notano infatti una serie di righe nere che vengono dette righe di Fraunhofer. Esse sono dovute all’assorbimento della radiazione solare da parte degli strati esterni dell’atmosfera solare. Prima di concludere questo paragrafo, osserviamo che in spettroscopia, per individuare le righe spettrali si utilizza solitamente, al posto della lunghezza d’onda o della frequenza, il numero d’onda  , che rappresenta il numero delle lunghezze d’onda contenute nell’unità di lunghezza. Se  è la lunghezza d’onda, si ha:

 

1



(1)

 ha dunque le dimensioni dell’inverso di una lunghezza.

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2. Lo spettro dell’atomo di idrogeno Alla fine dell’Ottocento gli spettri rappresentavano una delle evidenze sperimentali che non si riuscivano a spiegare nell’ambito della meccanica classica. Il più studiato era quello dell’elemento più semplice, l’idrogeno. Nel 1885 lo svizzero J. J. Balmer, elaborando una notevole quantità di dati sperimentali prodotti da vari spettroscopisti, riuscì per primo a trovare una relazione relativamente semplice in grado di esprimere la successione dei numeri d’onda delle righe, situate nella regione del visibile, emesse dall’atomo di idrogeno. La formula, che porta il suo nome e che permette di calcolare le lunghezze d’onda delle righe dello spettro nel campo del visibile (serie di Balmer) è:



1   1  R 2  2   n  2 1

(2)

dove n è un intero positivo maggiore di 2 ed R una costante, chiamata costante di Rydberg. Se esprimiamo la lunghezza d’onda in metri, il valore della costante risulta R  1.09677  10 7 m 1 . Lo spettro dell’atomo di idrogeno nel visibile (cioè nell’intervallo 4000-7000 Å, dove 1 Å = 10-10 m) mostra quattro righe caratteristiche, le cosiddette righe Hα Hβ Hγ H, le cui lunghezze d’onda sono rispettivamente 6563, 4861, 4340 e 4101 Å; la più intensa (la prima) fu scoperta nel 1853 da A.J. Ångström. A queste tre righe segue nell’ultravioletto vicino, un'intera serie di righe la cui spaziatura diminuisce rapidamente al diminuire della lunghezza d’onda verso un valore limite H ∞ come mostrato in figura 6.

FIG. 6. Spettro dell’atomo di idrogeno nella regione del visibile.

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Riga

N

H H H H

3 4 5 6

Valore ricavato da Balmer [Å] 6562.08 4860.8 4340 4101.3

Valore misurato sperimentalmente [Å] 6563,40 4860.14 4340.1 4101.2

Con il perfezionarsi delle tecniche spettroscopiche, dapprima Lyman nell’ultravioletto e poi Paschen e Brackett nell’infrarosso scoprirono, sempre per l’idrogeno, altre righe le cui lunghezze d’onda possono essere espresse mediante relazioni analoghe a quella di Balmer per il visibile.

FIG. 7. Spettro dell’idrogeno dall’infrarosso all’ultravioletto.

Dopo questi risultati si comprese che la formula di Balmer doveva essere considerata un caso particolare di una formula generale del tipo:



1   1  R ' 2  2   n  n 1

(3)

con il numero intero n’, caratteristico per ogni serie dell’idrogeno atomico, minore di n. Infatti, dalla relazione precedente si ottengono:

 Per n’=1 e n =2,3,4,…. la serie di Lyman nell’ultravioletto;  Per n’=2 e n =3,4,5,…. la serie di Balmer nel visibile;  Per n’=3 e n =4,5,6,…. la serie di Paschen nell’infrarosso;  Per n’=4 e n =5,6,7,…. la serie di Brackett nell’infrarosso, e così via per altre serie situate nell’infrarosso più lontano (vedi Fig. 7).

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Nel caso degli altri atomi la situazione è più complessa: in genere gli inversi della lunghezza d’onda si possono esprimere mediante la differenza di due termini, chiamati termini spettrali, di cui il primo  1   1  R ' 2  è costante e il secondo R 2  variabile. n  n 

Da questo segue una legge empirica, enunciata da Ritz e nota come principio di combinazione, mediante la quale è possibile ricavare la frequenza di una data riga combinando opportunamente le frequenze di due altre righe pure presenti nello spettro. A questo punto possiamo chiederci: da cosa hanno origine le righe? E’ la stessa domanda che i fisici si posero alla fine dell’Ottocento e alla quale si potè dare la giusta risposta solo dopo una tappa importante, l’esperimento di Rutherford, che fornì preziose informazioni sulla struttura interna degli atomi e segnò la nascita della fisica nucleare.

3. Il modello atomico di Thomson Che l’atomo dovesse possedere una sua struttura interna e che non fosse quindi indivisibile, a dispetto del suo nome3, era già chiaro alla fine dell’Ottocento dalle osservazioni dedotte da molti fenomeni come l’elettrolisi, gli spettri e la radioattività. Infatti:



Gli esperimenti di Faraday sull’elettrolisi rivelavano la presenza di particelle cariche, o ioni, in soluzione;

 La radiazione elettromagnetica emessa dagli atomi era attribuita ad una qualche carica oscillante interna al sistema atomico;



La radioattività dimostrava la capacità di alcuni atomi di cambiare alcuni aspetti della loro composizione interna.

Alla fine del XIX secolo l’elettrone fu finalmente identificato come un costituente universale dell’atomo, attraverso esperimenti sui tubi a raggi catodici. Nel 1897 Thomson riuscì a determinare il rapporto e/m (carica specifica) dell’elettrone studiando la deflessione subita da un fascio di tali particelle in un campo elettrico. Analoghi esperimenti furono condotti con ioni positivi, che Thomson chiamò raggi positivi. Rutherford propose che gli ioni più elementari fossero quelli ottenuti da atomi di idrogeno, che chiamò protoni. Gli esperimenti mostrarono poi che il rapporto e/m per queste particelle era circa 3 ordini di grandezza più piccolo che per gli elettroni. Più tardi Millikan riuscì a determinare

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La parola atomo viene dal greco e vuol dire appunto non divisibile.

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(nel famoso esperimento della goccia d’olio) il valore della carica e ed in tal modo si potè calcolare m, che è molto più piccola della massa di qualunque atomo. Poiché ciascun atomo conteneva elettroni, ma era neutro nel suo stato normale, era chiaro che esso doveva contenere anche materia con carica positiva uguale a quella degli elettroni. Inoltre, essendo l’elettrone molto più leggero di qualunque atomo, praticamente tutta la massa dell’atomo doveva essere concentrata nel suo componente positivo. Sulla base di queste considerazioni, furono proposti vari modelli di struttura atomica, tra cui quello di Thomson (lo scopritore dell’elettrone!), secondo cui l’atomo veniva rappresentato come una sfera di raggio r  10 10 m . Mentre la carica positiva, distribuita e diluita più o meno uniformemente, occupava tutta la sfera, gli elettroni, in numero tale da equilibrare la carica positiva dell’elemento considerato, erano disseminati nella materia come “l’uvetta in un panettone”.

FIG. 8. Rappresentazioni schematiche dell’atomo secondo il modello di Thomson.

Gli elettroni rimanevano in uno stato di equilibrio nell’interno dell’atomo in quanto erano soggetti sia a un sistema di forze attrattive verso il centro dell’atomo, corrispondente al centro di simmetria della carica positiva, sia alle mutue forze di repulsione, anch’esse di natura elettrostatica, agenti fra le cariche negative. In base a tale modello, quando l’atomo viene eccitato, gli elettroni cominciano a vibrare come tanti oscillatori, emettendo radiazione elettromagnetica la cui frequenza è direttamente correlata con la frequenza delle particelle oscillanti. E’ così possibile ricavare, attraverso calcoli basati solo sulla meccanica classica, i valori attesi per la frequenza della radiazione emessa.

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4. Il modello atomico di Rutherford In una serie di esperimenti tra il 1908 e il 1911, Rutherford e i suoi assistenti Geiger e Marsden mostrarono che il modello di Thomson era inadeguato per descrivere la struttura atomica. In tali esperimenti un sottilissimo foglio di oro era posto tra una sorgente di particelle  (nuclei di elio) e uno schermo al solfuro di zinco. Le particelle, dopo aver attraversato la lamina d’oro, sarebbero rimaste impresse sullo schermo. L’esperimento portò alla constatazione che i raggi  non venivano quasi mai deviati. Essi attraversavano il foglio di oro senza quasi mai esserne disturbati. Solo l’1% dei raggi incidenti era deviato dal foglio di oro e lo era in modo notevole (alcuni venivano addirittura respinti). Queste forti deflessioni potevano essere giustificate solo se le particelle  interagivano fortemente con la distribuzione di carica degli atomi di oro, che doveva perciò essere concentrata in un nucleo centrale piccolo e pesante e non diluita in tutto il volume atomico. In base al modello di Thomson, a causa della distribuzione diluita delle carica positiva ci si sarebbero infatti aspettate solo deflessioni marginali delle particelle , che avrebbero dovuto attraversare l’oro similmente a dei proiettili che attraversano una nube di polvere.

FIG. 9. Deflessione delle particelle  nell’attraversare una lamina di oro.

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Sulla base di questo risultato sperimentale, Rutherford propose un modello di atomo in cui quasi tutta la massa dell’atomo fosse concentrata in una porzione molto piccola, il nucleo, carico positivamente, atorno al quale gli elettroni ruotassero come i pianeti attorno al Sole (modello planetario dell’atomo). Mentre l’atomo ha un raggio dell’ordine di r  10 10 m , il nucleo ha un raggio 100000 volte più piccolo, dell’ordine di rN  10 15 m , unità in seguito chiamata fermi e indicata con il simbolo fm. Questo significa che l’atomo è quasi interamente vuoto (solo una frazione pari a  10 15 del suo volume è occupata da quasi tutta la sua massa!). Per fissare le idee, se immaginassimo di poter ingrandire un atomo di idrogeno fino a fargli raggiungere un diametro di 100 m, le corrispondenti dimensioni del nucleo sarebbero dell’ordine del millimetro.

FIG. 10. Modello planetario dell’atomo diRutherford.

Per concludere facciamo notare ancora che, dai risultati sperimentali sulla deflessione di particelle  da parte della materia (carbone, alluminio, oro, ecc.) discende che, essendo l’atomo un sistema elettricamente neutro, il nucleo deve presentare, a parte il segno, una carica uguale a quella degli elettroni. Se ora indichiamo con Z il numero di elettroni di un elemento (numero atomico), la carica positiva del nucleo sarà Ze, cioè il nucleo sarà costituito da Z protoni. Oggi sappiamo (dopo l’esperimento di Chadwick nel 1932) che nel nucleo sono presenti anche altre particelle, prive di carica elettrica e dotate di una massa circa uguale a quella del protone, i neutroni. 18

5. Il modello atomico di Bohr Il modello planetario di Rutherford presentava tuttavia una serie di incongruenze. Come era noto dalla meccanica, quando una particella si muove su un’orbita circolare, essa subisce un’accelerazione verso il centro dell’orbita: l’accelerazione centripeta. In base poi alle leggi dell’elettrodinamica, quando un elettrone (o, più in generale, una particella elettricamente carica) viene accelerata, essa emette radiazioni elettromagnetiche. In tal modo l’elettrone perderebbe energia e la sua orbita si restringerebbe, fino a cadere, in un tempo dell’ordine di 10-8 s sul nucleo, dopo una traiettoria spiraleggiante. In tale processo, l’elettrone dovrebbe emettere radiazione di frequenza via via crescente e si dovrebbe perciò osservare uno spettro continuo nella regione del visibile. Perché questo non succede? Perché l’atomo è stabile? E perché mostra uno spettro discreto? Un’altra evidenza sperimentale che non trovava spiegazione nella teoria di Rutherford era il fatto stesso che l’atomo avesse una sua dimensione. Infatti nel modello gli elettroni si muovono su orbite circolari, ma in linea di principio tali traiettorie potrebbero avere un raggio qualunque, arbitrariamente piccolo o grande. Non c’è nulla che renda conto del fatto che un atomo, nel suo stato “naturale” abbia un determinato raggio.

Fig. 11. Instabilità del nucleo secondo la fisica classica.

Nel 1913 Bohr propose una radicale modifica del modello planetario, che riuscì a spiegare gli spettri atomici. La teoria di Bohr contiene una combinazione di concetti della originaria teoria dei quanti di Planck, della teoria dei fotoni di Einstein e del modello atomico di Rutherford. Nel modello di Bohr sono presenti sia aspetti classici che alcuni rivoluzionari postulati che non potevano essere giustificati all’interno dello schema della fisica classica. Il modello di Bohr può essere applicato con successo 19

anche agli ioni idrogenoidi come l’elio ionizzato e il litio doppiamente ionizzato. Tuttavia esso non descrive correttamente gli spettri degli atomi e ioni più complessi. I postulati fondamentali del modello di Bohr dell’atomo di idrogeno sono i seguenti:

1. L’elettrone si muove su orbite circolari attorno al nucleo sotto l’influenza della forza di attrazione coulombiana

e2 , (4) 40 r 2 dove e indica la carica dell’elettrone (e quindi anche del nucleo) ed r la distanza nucleo-elettrone. F 

1

2. Solo certe orbite sono stabili. In queste orbite stabili l’elettrone non irradia. Pertanto l’energia è fissa o stazionaria e si può usare la meccanica classica per descrivere il moto dell’elettrone (ipotesi delle orbite stazionarie).

3. L’atomo emette radiazione quando l’elettrone “salta” da un’orbita ad un’altra (i “gradini” del sistema atomico, di cui parlavamo all’inizio), cioè da un livello a energia maggiore ad uno ad energia minore. Questo ”salto” non può essere visualizzato o trattato classicamente. In particolare la frequenza della radiazione emessa nel salto è indipendente dalla frequenza del moto orbitale dell’elettrone. Essa è invece legata alla variazione dell’energia dell’atomo dalla formula di Planck-Einstein Ei  E f  h

(5) dove Ei è l’energia dello stato iniziale, Ef è l’energia dello stato finale e Ei>Ef. 4. La dimensione delle orbite dell’elettrone permesse è determinata da una condizione quantistica sul momento angolare dell’elettrone. Più precisamente le orbite permesse sono quelle per cui il momento angolare orbitale dell’elettrone nel moto attorno al nucleo è un multiplo intero di

  h / 2 (ipotesi della quantizzazione del momento angolare),

mvr  n

n  1,2,3,....

(6)

Appare adesso più chiaro il significato fisico della costante di Planck: essa, divisa per 2, rappresenta il “quanto” elementare del momento angolare. Usando queste quattro assunzioni possiamo ora calcolare le lunghezze d’onda emesse dall’atomo di idrogeno. Ricordiamo che l’energia potenziale elettrica del sistema elettrone-nucleo è data da

U  eV  

ke2 r

(7)

20

dove k 

1

. Quindi l’energia totale dell’atomo, somma dell’energia cinetica e dell’energia 40 potenziale, è data da 1 e2 (8) E  T  U  mv 2  k 2 r Applicando la seconda legge di Newton a questo sistema, vediamo che la forza di attrazione di Coulomb sull’elettrone deve essere uguale al prodotto della massa per l’accelerazione centripeta dell’elettrone, ossia:

ke2 mv 2 (9)  r r2 Da questa espressione vediamo immediatamente che l’energia cinetica è T

mv 2 ke2  2 2r

(10)

Sostituendo il valore di T nell’equazione (8), troviamo che l’energia totale dell’atomo è ke2 E (11) 2r E’ da notare che l’energia totale è negativa, indicando che il sistema elettrone-nucleo è legato. Questo significa che bisogna fornire una quantità di energia pari a

ke2 / 2r all’atomo per allontanare

l’elettrone e portarlo ad uno stato di energia zero (a distanza infinita dal nucleo). Si può ottenere un’espressione per il raggio r delle orbite stazionarie risolvendo il sistema di equazioni (6) e (10):

n 2 2 rn  mke2

n  1,2,3,....

(12)

L’orbita con n=1 ha il raggio più piccolo; esso è chiamato il raggio di Bohr, a0, ed ha il valore: 2 a0   0.529 A  0.0529nm mke2 Il fatto che la teoria di Bohr dia un valore accurato del raggio dell’idrogeno da semplici principi senza nessun parametro ad hoc fu considerato uno straordinario trionfo per questa teoria.

Dalle considerazioni precedenti discende che il raggio rn, corrispondente al numero quantico n, è dato da rn  n 2 a 0 , per cui si ha r2  4a0 , r3  9a0 e così via.

21

La quantizzazione del raggio delle orbite porta immediatamente alla quantizzazione dell’energia. Si può vedere ciò sostituendo l’espressione rn  n 2 a 0 nell’equazione (12) e ottenendo così i livelli di energia permessi:

En  

ke2  1    2a 0  n 2 

n  1,2,3,....

Inserendo i valori numerici nell’equazione (13) abbiamo: 13.6 n  1,2,3,.... E n   2 eV n

(13)

(14)

(ricordiamo che 1eV=1.60210-19 J). Il livello di energia più basso, chiamato lo stato fondamentale, si ottiene per n=1 e corrisponde ad un’energia pari a E1  13.6eV . Come per i raggi rn, anche le energie En si possono ottenere mediante la relazione E n  E1 / n 2 . Così il prossimo stato o primo livello eccitato, corrispondente a n=2, ha un’energia pari a E2  3.4eV . Il livello massimo, limite, per

n   (o r   ) e E=0 rappresenta lo stato per cui l’elettrone è stato rimosso dall’atomo. La minima energia richiesta per ionizzare l’atomo (cioè sottrarre completamente l’elettrone, quando si trova nello stato fondamentale, dall’influenza del protone) è detta energia di ionizzazione e, per l’idrogeno, essa è appunto E  13.6eV . Questo costituisce un ulteriore successo per il modello di Bohr, poiché l’energia di ionizzazione dell’idrogeno era già stata misurata e risultava pari a quella prevista dal modello. L’equazione (13) insieme al terzo postulato di Bohr consente di calcolare la frequenza del fotone emesso nel salto dell’elettrone da un’orbita più esterna ad un’orbita più interna:

Ei  E f



h

ke2  1 1    2a0 h  n 2f ni2 

(15)

E, passando ai numeri d’onda:

ke2  1 1  ,   c 2a0 hc  n 2f ni2  con c velocità della luce nel vuoto. 1







(16)

Si può notare che tale relazione ha la stessa forma della (3) e anzi che esse sono identiche se si pone

ke2 . 2a0 hc Un semplice calcolo mostra che se si sostituiscono i valori numerici delle costanti si ottiene un valore R

che differisce dalla costante di Rydberg misurata sperimentalmente di circa l’1%! La teoria di Bohr

22

permette così di esprimere mediante alcune costanti fondamentali la costante R, introdotta per tentativi da Balmer come un fattore empirico necessario per costruire la sua formula.

A questo punto possiamo comprendere da cosa abbiano origine gli spettri discreti degli atomi: si tratta di transizioni da uno stato energetico permesso ad un altro. La situazione nel caso dell’idrogeno è schematizzata dalle figure seguenti, concettualmente equivalenti, e riferite rispettivamente alla sola serie di Balmer e all’intero spettro.

FIG. 12. Transizioni tra i livelli energetici dell’atomo di idrogeno e origine delle righe spettrali.

Esercizi Esercizio 1. Qual è la lunghezza d’onda del fotone emesso dall’idrogeno quando l’elettrone passa dallo stato con n=3 a quello con n=1? Che posizione occupa la riga corrispondente nello spettro? Soluzione: c hc     E1  E3

hc



6.626  10 34 J  s  3  10 8 m  s 1  102.6nm 13.6  1.602  10 19 J  8 / 9

1  E1 1  2   3  Si tratta di una riga della serie di Lyman, nell’ultravioletto.

23

Esercizio 2. Ricordando che la serie di Balmer per l’atomo di idrogeno corrisponde a transizioni che hanno come stato finale quello caratterizzato da n=2, trovare la lunghezza d’onda più grande e la lunghezza d’onda più corta della radiazione emessa e le corrispondenti energie. Soluzione: (a) La lunghezza d’onda più grande nella serie di Balmer corrisponde alla transizione tra n=3 e n=2.  1 1 1  Usando l’equazione  R 2  2  si ottiene quindi: n    f ni  1 1  1 1 1 5  R 2  2   R    R max 3  2  4 9  36 Da cui: 36 36 max    656.3nm 5R 51.097  10 7 m 1  La riga corrispondente a questa transizione sta nella zona rossa dello spettro visibile. L’energia ad essa associata è: hc 6.626  10 34 J  s 3  10 8 m  s 1 E min    3.03  10 19 J  1.89eV . 9 max 656.3  10 m







(b) La lunghezza d’onda più grande nella serie di Balmer corrisponde alla transizione tra n e n=2. Perciò: 1  1  R  R 2   min 2  4 4 4 min    364.6nm . R 1.097  10 7 m 1  Questa riga si trova nella zona ultravioletta e costituisce il limite della serie. L’energia corrispondente è:

E max 

hc

min



6.626  10

J  s 3  10 8 m  s 1   3.40eV 364.6  10 9 m 34

.

24

Esercizio 3. Sapendo che l’energia che compete ad un elettrone in uno stato quantico eccitato risulta Ex=-3.4eV, calcolare il corrispondente numero quantico che caratterizza lo stato e la frequenza della radiazione capace di portare l’elettrone dallo stato Ex al successivo. Soluzione: Essendo E n  E1 / n 2 , si ha:

nx 

E1 13.6  2 Ex 3.4

Lo stato successivo è caratterizzato dal numero quantico n=3 e quindi dall’energia E3=E1/9=-1.5 eV. E  E2 Si ottiene così:   3  4.539  1014 Hz . h

Per una simulazione dei livelli energetici dell’atomo di idrogeno e delle relative transizioni si veda: http://phys.educ.ksu.edu/vqm/free/h2spec.html

25

Bohr estese immediatamente il suo modello per l’idrogeno ad altri elementi in cui tutti gli elettroni, eccetto uno, sono stati tolti dall’influenza del nucleo. In generale, per descrivere un singolo elettrone in orbita attorno ad un nucleo fisso di carica +Ze, la teoria di Bohr dà:

n 2 a0 Z ke2 En   2a 0 rn 

(17)

Z2   2  n 

n  1,2,3,....

(18)

Si è detto all’inizio che, così come la relatività ristretta è necessaria per fenomeni che coinvolgono velocità prossime a quella della luce, la meccanica quantistica descrive i fenomeni a livello microscopico. La meccanica newtoniana può essere tuttavia usata nel limite di numeri quantici molto grandi. Questo principio, formulato per la prima volta da Bohr, è chiamato principio di corrispondenza. Per esempio, consideriamo l’atomo di idrogeno in uno stato per il quale n>10000. Per così grandi valori di n, le differenze in energia fra livelli contigui tendono a zero e i livelli formano quasi un continuo. Di conseguenza il modello classico è sufficientemente accurato per descrivere il sistema per grandi valori di n. Secondo la descrizione classica, la frequenza della radiazione emessa dall’atomo è uguale alla frequenza di rivoluzione dell’elettrone nella sua orbita attorno al nucleo. I calcoli mostrano che per n>10000 questa frequenza differisce da quella prevista dalla meccanica quantistica per meno dello 0.015%. Sebbene il modello di Bohr introduca il concetto fondamentale di quantizzazione dell’energia e del momento angolare e assegni un ruolo ben preciso alla costante di Planck, esso non rappresenta una trattazione “completamente quantistica”. A partire dagli anni successivi, infatti, altri fisici contribuiranno alla formulazione rigorosa della teoria, che si allontanerà ulteriormente dalle idee della meccanica classica. In particolare perderà di significato il concetto di traiettoria, ancora presente nel modello di Bohr, l’evoluzione temporale di un sistema su scala microscopica sarà descritta in termini caratteristici dei fenomeni ondulatori e si arriverà ad un’interpretazione “probabilistica della realtà”, in stridente contrasto con il carattere deterministico della meccanica newtoniana. In altre parole, mentre in meccanica classica lo stato di un sistema viene descritto attraverso il valore esatto delle sue variabili dinamiche, in meccanica quantistica è possibile determinare solo la probabilità di misurare un dato valore per una grandezza fisica ad un istante assegnato.

26

L’esperimento di Franck-Hertz Da quanto abbiamo detto finora, risulta chiaro che la spettroscopia rappresenta un modo per “osservare” la quantizzazione dell’energia per un sistema microscopico. Essa tuttavia non è l’unico. Già prima della nascita del modello di Bohr, la costante di Planck e la quantizzazione dell’energia erano stato introdotte per spiegare, come accennato, lo spettro di emissione del corpo nero. Un altro fenomeno che può essere spiegato solo tramite ipotesi quantistiche è l’effetto fotoelettrico, di cui parleremo in appendice. Qui invece illustriamo brevemente un esperimento, realizzato da Franck ed Hertz nel 1913 che consente di mettere in luce la quantizzazione dei livelli atomici a prescindere dalla spettroscopia e che fornisce al tempo stesso una verifica del modello di Bohr. L’apparato sperimentale utilizzato in tale esperimento è schematizzato nella figura che segue.

FIG. 13. Rappresentazione dell’apparato sperimentale di Franck-Hertz.

Nel dispositivo (Fig. 13), simile a un triodo, è presente un filamento che emette elettroni in seguito al passaggio di corrente, immerso in un tubo riempito da un gas a bassa pressione (dell’ordine di 10 mmHg), ad esempio mercurio. Gli elettroni emessi dal filamento vengono accelerati da una tensione variabile VG applicata ad una griglia G, oltrepassano la griglia G e raggiungono l’anodo A. Questo flusso di cariche negative attraverso il tubo dà luogo ad una corrente elettrica. Tra la griglia e l’anodo è applicata una differenza di potenziale (potenziale di frenamento) Vb, di circa 0.5 V. Gli elettroni che attraversano la griglia con energia cinetica

1 2 mv  eVG sono soggetti ad una 2

forza repulsiva che rallenta il loro moto. Essi raggiungono tuttavia l’anodo con un’energia cinetica 27

leggermente ridotta. Invece gli elettroni che, prima di arrivare alla griglia, subiscono urti anelastici con gli atomi di mercurio e cedono a questi ultimi la loro energia cinetica, non riescono a superare la barriera e ricadono sulla griglia. Se si misura, mantenendo costante il potenziale di frenamento V b, la corrente anodica in funzione del potenziale di griglia VG, si osserva una curva come quella mostrata in Fig. 14.

FIG. 14. Risultati dell’esperienza di Franck-Hertz.

Fissato Vb, si nota che per piccoli valori della tensione di griglia VG la corrente anodica aumenta. Ciò è dovuto al al fatto che gli elettroni prodotti dal filamento vengono rapidamente accelerati verso la griglia e si riduce la carica spaziale4 attorno al filamento che ostacola l’ulteriore emissione di elettroni. Quando il potenziale VG supera un certo valore di soglia attorno a 5V, la corrente diminuisce bruscamente. Aumentando ulteriormente VG, la corrente torna nuovamente ad aumentare, finchè non si riduce drasticamente a valori di VG di circa 10 V. Queste oscillazioni si ripetono ogni volta che VG raggiunge un valore multiplo di 5V. Un simile risultato può essere spiegato nel modo seguente: quando gli elettroni raggiungono un’energia di 5 eV, essi possono cedere la loro energia agli atomi di mercurio, che così passano ad un livello eccitato. Da questo essi tornano poi spontaneamente allo stato fondamentale emettendo sotto forma di radiazione elettromagnetica (che è in effetti osservata durante l’esperimento) l’energia acquistata nella collisione. Gli elettroni, d’altra parte, che hanno perso la loro energia, non sono più in grado di procedere sotto l’azione del potenziale di frenamento e perciò la corrente anodica diminuisce.

Si chiama carica spaziale la “nuvola” di elettroni che si forma attorno al filamento per effetto termoionico. Questa carica negativa, localizzata in una piccola regione di spazio attorno al filamento, crea un campo elettrico che si oppone all’ulteriore emissione di elettroni da parte del filamento. 4

28

Quando il potenziale VG aumenta, anche l’energia cinetica degli elettroni aumenta. Perciò, anche se essi urtano anelasticamente con gli atomi di mercurio e cedono loro 5 eV, possono comunque conservare un’energia sufficiente a far loro raggiungere l’anodo. Si osserva di conseguenza un aumento della corrente, finchè VG non raggiunge i 10 V. A questo punto gli elettroni hanno un’energia di 10 eV e il trasferimento di energia può verificarsi 2 volte, cioè essi possono subire 2 urti anelatici nel loro tragitto verso la griglia ed eccitare così 2 atomi di mercurio. A tale processo corrisponde quindi una nuova riduzione della corrente anodica. Lo stesso discorso vale se si continua ad aumentare il potenziale di griglia VG. Questo esperimento mostra che gli elettroni non possono trasferire agli atomi di mercurio una quantità di energia inferiore a 5 eV o, equivalentemente, che gli atomi di mercurio non possono assorbire quantità di energia minori di 5 eV. Esso costituisce quindi una brillante conferma della discontinuità dei livelli energetici degli atomi introdotta dal modello di Bohr. Anche la frequenza della radiazione elettromagnetica osservata risulta in accordo con le ipotesi del modello: hc



 E 2  E1  eV

 

hc 1240  nm  250nm . eV 5

Per visualizzare l’esperienza di Franck-Hertz: http://phys.educ.ksu.edu/vqm/free/Franck-Hertz.html

29

Appendice A Fino ad ora abbiamo discusso solo uno dei concetti rivoluzionari della meccanica quantistica, che è rappresentato dalla quantizzazione (con particolare riferimento all’energia e al momento angolare nella teoria atomica di Bohr). Tra gli altri aspetti “bizzarri” del piccolo mondo quantistico (che mi limito qui semplicemente ad accennare) ci sono poi: 

il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stabilisce che non è (e mai sarà) possibile misurare con precisione assoluta la posizione e l’impulso (la quantità di moto) di una particella, non per una limitazione “sperimentale”, ma per una caratteristica “intrinseca” della natura. In altre parole, una particella che si trovi in un punto può assumere, con la stessa probabilità, valori un po’ diversi dell’impulso. Questo implica allora che, nota la posizione di una particella ad un dato istante, non è possibile predire con esattezza dove essa si troverà in un istante di tempo successivo. Ciò porta in sintesi alla fine del concetto di traiettoria e al determinismo tipico della fisica classica. Il principio di indeterminazione che, come è stato da alcuni osservato, “sta a guardia della meccanica quantistica” ha molte importanti conseguenze. Giusto per fare alcuni esempi, esso implica tra l’altro che gli elettroni non possano stare in un nucleo. Infatti, se essi fossero localizzati (o confinati) in una regione di spazio così piccola, il loro impulso (e la loro energia) sarebbero così grandi da farli sfuggire alle forze nucleari. Ancora, in maniera meno diretta, dal principio di indeterminazione di Heisenberg segue che nel Sole si possano fondere atomi di idrogeno anche se hanno energia inferiore alla repulsione coulombiana o ancora che passi corrente tra due pezzi di materiale supercoduttore separati tra loro da un sottile strato di materiale isolante. Entrambi questi processi, che sarebbero invece vietati dalla meccanica classica, avvengono come casi particolari di un fenomeno curioso che prende il nome di effetto tunnel. Brevemente si può dire che l’effetto tunnel consiste nella probabilità finita che una particella in moto con una certa energia E possa superare una regione di spazio in cui è presente un potenziale opposto più intenso della sua energia cinetica.



L’indistinguibilità di particelle identiche, che ha come conseguenza, ad esempio, che un gas di particelle non si può descrivere secondo la statistica di Maxwell-Boltzmann, se non in condizioni particolari (alta temperatura e bassa densità). In altre parole, quando delle particelle sono molto “vicine” tra di loro e sono identiche, noi non possiamo distinguerle l’una dall’altra. Questo vale per particelle microscopiche, dato che, nella collisione tra due palle da biliardo, noi possiamo sempre dire quale di esse è la particella 1 e quale la particella 2. Nell’urto tra due 30

atomi o nuclei, invece, ciò non è più possibile e ciò ha degli effetti importanti quando di considera un sistema contenente un numero molto grande di particelle. Se si vuole, ciò può essere considerato in un certo qual modo analogo al criterio di Rayleigh nell’ottica che stabilisce una distanza minima per la distanza tra due sorgenti di radiazione affinché queste possano essere “risolte”, cioè possano apparire distinte. La “spaziatura” tra le particelle diventa sufficientemente grande solo se la temperatura del sistema è “abbastanza” alta o la sua densità è “abbastanza” bassa (e questo dipende dalle particelle che si considerano). Quando ciò non accade, si dice che si è in regime di degenerazione e bisogna sostituire la statistica di MaxwellBoltzmann con una tra due altre statistiche, quella di Fermi-Dirac o quella di Bose-Einstein, che prevedono una serie di effetti sorprendenti. Infatti dalla caratteristica di indistinguibilità delle particelle identiche scaturisce, ad esempio, la distribuzione degli elettroni negli orbitali atomici e la struttura del sistema periodico degli elementi, oppure il fatto che, in opportune condizioni di temperatura, i materiali mutino alcune loro caratteristiche e diventino superconduttori o superfluidi (cioè al loro interno il moto di cariche o materia incontra una resistenza che scende bruscamente a valori prossimi allo zero e può quindi mantenersi senza dissipazione apprezzabile di energia). 

Il dualismo onda corpuscolo, in base al quale le particelle possono esibire talvolta un comportamento ondulatorio (e dare origine, ad esempio, a fenomeni di diffrazione) e la radiazione elettromagnetica può essere descritta in termini corpuscolari, con carattere di localizzazione.

31

Appendice B Stima delle dimensioni dell’atomo (modello di Thomson) Consideriamo un atomo di idrogeno, in cui la carica positiva e quella negativa hanno lo stesso valore e (e segno opposto). Sia R il raggio dell’atomo, supposto sferico, che vogliamo determinare. La carica positiva è distribuita uniformemente nel volume della sfera con densità



e e  V 4R 3 3

Se un elettrone viene spostato a una distanza r dal centro, esso sarà richiamato verso il centro dalla carica positiva compresa tra 0 e r, che sarà una frazione

Q V r 3   3 Q V R con una forza pari a

e2r 3 F  k 2 3   Kr r R Esso si muoverà dunque di moto armonico, con frequenza



1 2

K m

ed emetterà radiazione di tale frequenza. Sostituendo alla frequenza un valore tipico della radiazione nel visibile e sostituendo i valori delle altre costanti, si può ricavare R. E’ da notare che, in questo modello, la frequenza della radiazione diminuisce al crescere di R.

32

Appendice C L’effetto fotoelettrico Un esperimento che mostra la quantizzazione dell’energia, in tal caso per il campo elettromagnetico, è quello di Millikan, che può essere tra l’altro utilizzato per misurare la costante di Planck. Già nel 1887 Hertz, cercando di produrre e rivelare le onde e.m. previste da Maxwell, aveva notato che illuminando una placca metallica di zinco con una radiazione ultravioletta, il metallo si caricava elettricamente. Questo fenomeno prende il nome di effetto fotoelettrico e può essere spiegato solo ricorrendo al concetto di “quanto di radiazione” o “fotone”, secondo quanto proposto da Einstein nel 1905 (lo stesso anno in cui egli pubblicò anche la sua teoria della relatività ristretta). In realtà si tratta di un fenomeno generale: ogni superficie metallica, se illuminata da radiazione di frequenza sufficientemente elevata, emette elettroni. L’apparato sperimentale utilizzato per studiare l’effetto fotoelettrico è illustrato nella figura che segue.

Esso è costituito da una fenditura D1 che convoglia la radiazione proveniente da un arco voltaico A su un prisma che per rifrazione la separa in componenti monocromatiche di diversa lunghezza d’onda. Regolando opportunamente l’inclinazione del prisma si possono ottenere radiazioni di particolare lunghezza d’onda. Attraverso una finestra di quarzo (materiale otticamente trasparente alle radiazioni ultraviolette), il pennello di determinata frequenza penetra successivamente in un tubo a vuoto spinto e colpisce una placca formata da uno strato metallico. Gli elettroni emessi dalla placca per effetto 33

fotoelettrico, vengono successivamente raccolti dal collettore C, carico positivamente, e di conseguenza possono originare una corrente misurabile. Si osserva che, riportando l’intensità della corrente misurata in funzione della d.d.p. applicata tra il metallo e il collettore, si raggiunge un valore di saturazione, corrispondente alla condizione in cui tutti gli elettroni emessi dal metallo (catodo) vengono raccolti dall’anodo. Se si cambia il segno della d.d.p. V, la corrente non scende bruscamente a zero, il che prova che gli elettroni sono emessi dal catodo con velocità finita. Infatti, alcuni di essi raggiungono l’anodo, finchè V=-V0, essendo V0 il valore al quale anche l’elettrone più energetico viene frenato: 1 2 mvmax  eV0 2

Variando l’intensità e/o la frequenza della radiazione che colpisce il metallo si osserva inoltre che: 

Si ha emissione fotoelettrica solo se le frequenza della radiazione incidente supera un certo valore di soglia, al di sotto del quale non si ha passaggio di corrente, indipendentemente dall’intensità della radiazione.



Il potenziale di arresto dipende dalla frequenza della radiazione incidente e non dalla sua intensità.



Il numero degli elettroni emessi per unità di tempo (e quindi il valore della corrente di saturazione) aumenta all’aumentare dell’intensità della radiazione elettromagnetica incidente.



L’emissione degli elettroni avviene non appena la luce incide sul metallo, senza alcun ritardo apprezzabile, anche nel caso in cui l’intensità della radiazione incidente sia molto bassa, purchè la sua frequenza sia superiore al valore di soglia.

Tali risultati risultano inspiegabili dal punto di vista classico, secondo cui: 

Se la radiazione è intesa come onda elettromagnetica, aumentarne l’energia equivale ad aumentare l’ampiezza del campo elettrico ad essa associata. Poiché l’energia è distribuita uniformemente su tutto il fronte d’onda, essa è trasferita continuamente agli elettroni presenti nel metallo. Qualunque sia la frequenza dell‘onda incidente, gli elettroni saranno emessi dal metallo nel momento in cui raggiungeranno l‘energia minima di fuga. Quindi si dovrebbe osservare passaggio di corrente per radiazione di qualunque frequenza, purchè sufficientemente intensa.

34



L’energia cinetica massima degli elettroni emessi (cioè l’energia degli elettroni più energetici) dovrebbe essere direttamente proporzionale all’intensità della radiazione (e invece ne risulta indipendente).



Ci sarà un tempo di ritardo tra il sopraggiungere della radiazione e l’apparire dei primi elettroni; più è bassa l’intensità, più lungo sarà questo ritardo.

Einstein riuscì a spiegare questo fenomeno estendendo alle onde elettromagnetiche il concetto di quantizzazione introdotto da Planck e, in particolare, supponendo che l’energia dell’onda fosse concentrata in pacchetti discreti chiamati fotoni. L’energia di ogni fotone è direttamente proporzionale alla frequenza secondo la relazione E=h, dove h è la costante di Planck. L’interazione tra un fotone e un elettrone nel metallo è un atto unico, elementare, in cui il fotone cede tutta la sua energia che può anche essere sufficiente per estrarre l’elettrone dal metallo.

L’energia cinetica massima dei fotoelettroni è data da:

K max  eV0  h  W dove W è chiamato lavoro di estrazione del metallo. Esso rappresenta la minima energia con cui un elettrone è legato al metallo ed è dell’ordine di pochi eV. Con l’ipotesi dei fotoni si possono spiegare tutte le caratteristiche osservate dell’effetto fotoelettrico, infatti:

35

 Il fatto che l’effetto non si osservi al di sotto di una certa frequenza di soglia discende dal fatto che l’energia del fotone deve essere maggiore o uguale a W. Se ciò non accade, gli elettroni non saranno mai emessi dal metallo, qualunque sia l’intensità della radiazione.  Il fatto che Kmax (e quindi V0) sia indipendente dall’intensità della radiazione è dovuto alla relazione precedente. Se si raddoppia l’intensità della radiazione si raddoppia il numero di fotoni, e, se si è al di sopra della soglia, di fotoelettroni, ma non la loro energia. Kmax cresce invece, come si legge nella relazione precedente, con la frequenza della radiazione.  Infine, il fatto che gli elettroni siano emessi senza alcun ritardo apprezzabile è in accordo con la teoria “corpuscolare” della radiazione in cui l’energia incidente è concentrata (localizzata) in piccoli pacchetti che interagiscono direttamente con gli elettroni del metallo.

Una conferma finale della teoria di Einstein sta nella previsione di una relazione lineare tra K max (oppure V0) e , che viene effettivamente osservata sperimentalmente. La pendenza della curva consente di ottenere il valore di h, mentre dall’intersezione con l’asse delle ascisse si determina il lavoro di estrazione del metallo.

V0

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Bibliografia  J. J. Brehm, W. J. Mullin Introduction to the structure of matter – A course in Modern Physics John Wiley & Sons, Inc., 1989  R. A. Serway Fisica per Scienze ed Ingegneria II edizione, Vol. 2, EdiSES, 1995  A. Caforio, A. Ferilli Physica2000 Vol. 3, Le Monnier, 2004  Wikipedia, l’Enciclopedia libera http://www.wikipedia.it

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