Ethan Frome - Università degli studi di Pavia

March 20, 2018 | Author: Anonymous | Category: Impresa, Scienze economiche, Macroeconomia
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CAP. 1 – IL SISTEMA ECONOMICO DI MERCATO. 1. L’oggetto della scienza economica. La scienza economica si occupa del modo in cui vengono utilizzate le risorse per soddisfare i bisogni dell’uomo cercando di realizzare il massimo benessere possibile. A causa della scarsità delle risorse non tutti i bisogni possono essere soddisfatti per cui occorre effettuare delle scelte: quali bisogni soddisfare e cioè quali beni produrre. L’economia fornisce i criteri per effettuare queste scelte. I bisogni da soddisfare sono infatti quantitativamente rilevanti, teoricamente illimitati, e costituiscono un insieme eterogeneo: quelli primari, riguardanti la sopravvivenza delle persone (nutrizione, abitazione, vestiario), e quelli secondari o voluttuari, tutti gli altri. Il progresso, ma anche le caratteristiche del sistema economico di mercato, ha stimolato l’ampliarsi dei bisogni primari ma anche e soprattutto di quelli secondari o voluttuari. Buona parte di questi ultimi sono indotti dal mondo produttivo; sono bisogni che l’uomo prova in conseguenza di uno stimolo, di un condizionamento esterno (pubblicità, moda, desiderio di emulazione, ecc.). I beni e servizi che vengono prodotti e scambiati nel mercato e che servono a soddisfare i bisogni vengono definiti beni economici, ovvero i beni che dispongono della caratteristica di utilità e che sono disponibili in quantità limitata, sono cioè scarsi. I beni che non sono scarsi, disponibili in quantità illimitata, come ad esempio l’aria, non sono beni economici. In relazione ai beni economici si suole distinguere tra beni inferiori e beni normali o superiori. I primi sono quelli il cui consumo diminuisce all’aumentare del reddito, mentre per i secondi il consumo aumenta all’aumentare del reddito. Tra i beni normali si hanno quelli necessari la cui domanda aumenta meno che proporzionalmente all’aumentare del reddito, e i beni di lusso la cui domanda aumenta più che in proporzione rispetto al reddito. Come vedremo in seguito il mercato non è in grado di produrre tutti i beni e servizi richiesti dagli individui e quindi i loro bisogni. I beni pubblici quali, ad esempio, le strade, i ponti, la giustizia, la difesa, ecc. beni idonei a soddisfare i bisogni collettivi, per le loro particolari caratteristiche non vengono prodotti dalle imprese private. Sono infatti

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beni non rivali, il fatto di essere consumati da un consumatore non esclude la possibilità che altri consumatori li possano anch’essi consumare, e non escludibili e cioè il produttore non è in grado di escludere i consumatori dal poterli utilizzare e quindi di applicare un prezzo per il loro consumo. Date queste caratteristiche non vi è nessun incentivo da parte delle imprese private a produrli. Occorre che ci sia qualche altro soggetto che si sostituisca al mercato: l’operatore pubblico (cfr. cap.8). Nel caso dei beni pubblici le scelte non sono individuali ma collettive (scelte sociali); esse vengono effettuate non più mediante il mercato, ma attraverso le istituzioni politiche. Il voto politico è lo strumento che permette di manifestare le preferenze degli individui per i beni e servizi pubblici. Ricapitolando, i beni che quotidianamente consumiamo e che vengono quindi richiesti dai consumatori e per i quali viene pagato un prezzo possono essere distinti in due gruppi: beni privati (beni inferiori e beni superiori o normali), la cui quantità è regolata dalla domanda dei consumatori e dall’offerta dei produttori; beni pubblici, a fruizione collettiva, erogati dall’operatore pubblico. Un altro problema di scelta riguarda le risorse da utilizzare per la produzione dei beni e servizi: come combinare i fattori produttivi (lavoro, capitale, risorse naturali). Anche in questo caso è nel mercato che si verifica questa scelta: le imprese domandano risorse per produrre i beni e servizi e le famiglie (i consumatori), che le detengono, le offrono. Dalla contrattazione (domanda ed offerta) si determinano i prezzi delle risorse. Poiché le risorse economiche sono scarse occorre utilizzarle in modo efficiente. In economia esistono vari significati di efficienza: quella allocativa e quella produttiva. Efficienza allocativa significa che le risorse devono essere utilizzate per produrre quei beni e servizi richiesti dagli individui, dalla società. Efficienza produttiva significa invece che i beni e servizi richiesti devono essere prodotti al minor costo. Gli individui, che devono effettuare delle scelte riguardanti quali bisogni soddisfare e, di conseguenza, quali bisogni non soddisfare, sopportano un costo: il costo opportunità che è appunto il valore dei beni e servizi a cui un individuo rinuncia quando opera una scelta tra diverse alternative. Il concetto di costo opportunità mette in evidenza i problemi della scarsità e della scelta, in quanto misura, come si è già detto, il costo necessario per ottenere una unità di un prodotto in termini

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del numero di unità di altri prodotti a cui si è costretti a rinunciare che sarebbe possibile ottenere altrimenti. Ad esempio, lavorare oppure andare a scuola, lavorare oppure rimanere a casa con i bambini, acquistare un appartamento oppure affittarlo, ecc. Il concetto di costo opportunità è alla base delle scelte degli individui. Infatti, la scelta dei consumatori riguardante quali beni acquistare per soddisfare i propri bisogni avviene sulla base del confronto fra scelte alternative: tra i prezzi dei vari beni che dovrebbero riflettere i costi di tali scelte e cioè il costo opportunità. Il ruolo della domanda e dell’offerta - La domanda dei consumatori svolge un ruolo fondamentale nella determinazione del tipo e della quantità di beni da produrre. I consumatori utilizzano il loro reddito per acquistare i beni utili a soddisfare i loro bisogni. Una crescita della domanda, e cioè un aumento delle preferenze dei consumatori a favore di un determinato bene, incentiverà le imprese ad aumentarne la produzione. Viceversa, un calo della domanda e cioè una diminuzione delle preferenze del consumatore determinerà una diminuzione della produzione di quel bene. Sono dunque le preferenze dei consumatori a stabilire quali beni produrre e in quale quantità. Si parla infatti di sovranità del consumatore. I beni verranno prodotti solo se il ricavo totale è sufficiente a coprire i costi di produzione Se il ricavo totale supera i costi totali di produzione le imprese realizzeranno un profitto. L’imprenditore, nella sua attività imprenditoriale, cercherà di massimizzare i profitti riducendo i costi di produzione adottando, ad esempio miglioramenti tecnologici o organizzativi in grado di ridurre i costi. Oltre ai problemi ora elencati, riguardanti principalmente la scelta di quali beni produrre, in quale quantità e come produrli (cap.2), l’economia si occupa anche della distribuzione di ciò che viene prodotto nel sistema economico fra gli individui (cap.3), degli scambi di beni e servizi fra paesi (cap.4), di come avviene il finanziamento delle attività economiche (cap.5), del livello della produzione nazionale e dell’occupazione (cap.6), della possibilità di espandere la produzione dei beni e servizi (cap.7), dell’intervento dello Stato nel sistema economico per garantire la sua stabilità e per erogare i beni e servizi pubblici (cap.8 e 9). L’analisi dei problemi economici elencati può essere effettuata sia al livello microeconomico, sia a quello macroeconomico. La

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microeconomia analizza il comportamento dei singoli soggetti che operano nei mercati: i consumatori e i produttori. La macroeconomia studia invece il funzionamento del sistema economico nel suo complesso, lo considera come un unico grande mercato. In questo caso le grandezze economiche analizzate sono la produzione complessiva del Paese, il livello generale dei prezzi, la disoccupazione, ecc. L’analisi dei fatti economici avviene, a differenza di quella condotta a livello microeconomico, in base a varie teorie (cfr. appendice I). Sia nell’analisi microeconomica che in quella macroeconomica e, quindi, nella soluzione dei problemi elencati, rivestono importanza i concetti di domanda ed offerta. A livello microeconomico la domanda mette in relazione le quantità domandate di beni e servizi da parte dei consumatori e i relativi prezzi e può riferirsi sia al consumatore (domanda individuale), sia all’intero mercato di quel dato bene o servizio (domanda di mercato). L’offerta rappresenta invece la relazione tra prodotto offerto dalle imprese e il relativo prezzo e, anch’essa, può riferirsi alla singola impresa (offerta individuale dell’impresa) o all’intero mercato del prodotto o servizio (offerta di mercato). L’interagire tra domanda ed offerta determina il prezzo dei beni e servizi. A livello macroeconomico si parla invece di domanda ed offerta aggregata. La prima descrive la domanda di beni e servizi per l’intero sistema economico per ogni livello di prezzo, mentre l’offerta mette in evidenza le quantità prodotte per ogni livello di prezzo nel sistema economico.

2. Le caratteristiche dell’economia di mercato. Prima di analizzare i problemi elencati nel paragrafo precedente descriviamo di seguito le caratteristiche e il funzionamento di un sistema economico di mercato. Non esiste una definizione precisa e universalmente accettata di economia di mercato; occorre fare riferimento agli elementi che la caratterizzano: la libertà di scelta e la libera iniziativa, la proprietà privata, l’interesse individuale come movente principale delle azioni umane, la divisione del lavoro, la concorrenza, il ruolo dei prezzi, il ruolo dello Stato.

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La teoria economica tradizionale parte dall’ipotesi della libertà e dell’indipendenza assoluta delle scelte o preferenze dei consumatori e la libera iniziativa delle imprese. L’uso delle risorse dipende dalle decisioni autonome dei singoli consumatori e produttori, senza che vi sia un coordinamento da parte di un’autorità centrale. Questa impostazione è stata messa in discussione da numerosi sociologi ed economisti. In molti casi esistono dei limiti alle libere scelte dei consumatori. La legge impone divieti e limiti in base a considerazioni politiche legate alla morale. Ad esempio, il consumatore di eroina non è libero di stabilire le proprie preferenze. Ma le critiche più diffuse riguardano la manipolazione del consumatore determinata dalla pubblicità volta ad ingenerare nuovi bisogni: i bisogni indotti. Spesso, le stesse imprese, per mezzo di opportune tecniche di marketing, prima producono il bisogno nel consumatore per poi iniziare a produrre i beni che soddisfano tale bisogno. Si può affermare che una delle caratteristiche delle società moderne è il diffuso atteggiamento consumistico degli individui e la tendenza ad incoraggiarne il comportamento di acquisto, spesso alimentando falsi bisogni, che hanno trasformato il possesso dei beni in una vera e propria fonte di felicità. La teoria tradizionale si basa sull’ipotesi che i soggetti che operano nei mercati (consumatori e produttori) sono liberi di agire senza alcuna interferenza. Essi operano in modo da perseguire il proprio interesse: i consumatori acquistano beni e servizi e nel fare ciò cercano di massimizzare l’utilità derivante dall’uso del proprio denaro; e i produttori nell’offrire beni e servizi cercano di massimizzare i profitti. In entrambi i casi, produttori e consumatori si comportano in modo egoistico. In modo inconsapevole, dal loro comportamento egoistico, volto a migliorare la propria condizione e a realizzare il proprio interesse o guadagno, si ottiene il benessere della società. I consumatori e i produttori nell’effettuare un’azione, un’attività, valutano i rispettivi costi e benefici, si comportano cioè in modo razionale. È questa l’ipotesi di razionalità nelle scelte su cui si basa l’analisi dei fatti economici. I consumatori nell’utilizzare il proprio reddito per acquistare una data quantità di beni e servizi cercano di massimizzare l’utilità mentre i produttori cercano di massimizzare i profitti. I soggetti che operano nel mercato agiscono in modo egoistico (in base al vantaggio personale): “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla

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considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo” (A. Smith, 1776). È nell’interesse del fornaio darci il miglior pane al miglior prezzo. Se non fosse così acquisteremmo il pane da un altro fornaio. Per avere un buon pane ad un buon prezzo occorre dunque che ci siano più fornai. Occorre cioè che ci sia concorrenza. L’antagonismo concorrenziale è la condizione che consente di far derivare il massimo da ciascuno e, conseguentemente, realizzare il massimo del bene collettivo. È in questo modo che l’individuo “è condotto da una sorta di mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni” (A. Smith, 1776). Il sistema economico si regola da solo, e la mano invisibile pensa a tutto. Le regole del mercato e i diritti di proprietà - In realtà, nel sistema economico di mercato i comportamenti degli individui sono improntati all’osservanza delle regole senza le quali non sempre gli scambi si realizzerebbero in modo efficiente. È compito dello Stato definire le “regole” che garantiscono gli scambi e assicurarsi che esse vengano rispettate. Se le regole sono buone e rispettate (sono condivise), attraverso il sistema di mercato si dovrebbero ottenere buoni risultati. Se non ci sono regole le relazioni di produzione e di scambio sarebbero impossibili. Alcune regole vengono volontariamente introdotte come vincoli dagli stessi soggetti che operano sui mercati, altre sono imposte dall’autorità pubblica. In ogni modo deve essere assicurata e garantita la libertà di effettuare gli scambi e la finalità del sistema di mercato, che non è quella della massimizzazione del profitto dell’imprenditore né del salario del lavoratore, ma è il benessere dei consumatori. Le regole devono: a) essere continuamente adeguate all’evoluzione della società; b) avere una valenza etica. Al fine di consentire il pieno dispiegarsi delle potenzialità del mercato, occorre che ci sia una cornice di regole entro la quale può liberamente svolgersi l’organizzazione degli scambi. Le istituzioni giuridiche servono a tale scopo. Una delle principali istituzioni giuridiche che è alla base del sistema economico di mercato è l’esistenza di un sistema di diritti di proprietà che danno alle persone la possibilità giuridica di detenere o vendere i beni. L’attribuzione o la modifica del sistema dei diritti di proprietà agisce sul comportamento dei soggetti economici e, quindi, sull’allocazione

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delle risorse, sulla composizione della produzione, sulla distribuzione del reddito, ecc. Perché ciò avvenga in modo efficiente i diritti devono possedere due caratteristiche: - l’escludibilità. Con l’escludibilità (o esclusività) l’individuo, che possiede il diritto di proprietà di un bene, è in grado di escludere gli altri dal poterlo utilizzare; - la trasferibilità. Il soggetto deve avere la possibilità di procedere alla loro alienazione, al loro scambio; è attraverso lo scambio che i soggetti possono utilizzare i diritti nel modo migliore. Ovviamente i diritti devono essere tutelati; un diritto che non è possibile fare valere o, comunque, non viene esercitato, equivale a un non diritto. La specializzazione e la divisione del lavoro – Un’altra caratteristica del sistema economico di mercato è la specializzazione e la divisione del lavoro. La specializzazione si ha quando gli individui concentrano i propri sforzi su un particolare insieme di attività affinché ogni individuo possa utilizzare al meglio le proprie capacità; il lavoratore che si specializza nella produzione di un dato bene tende ad acquisire elevate abilità tecniche che si traducono in un aumento dei livelli di efficienza. La divisione del lavoro è alla base della specializzazione. Essa comporta la suddivisione della produzione in numerosi fasi o compiti specializzati e consente di aumentare la quantità di beni prodotti e quindi l’esigenza di avere un regime di liberi scambi e di mercati più ampi. La divisione del lavoro ha avuto notevole rilevanza nel passaggio dalla produzione artigianale a quella di massa, con l’introduzione di nuovi metodi organizzativi del ciclo produttivo basati sulle teorie di Frederick Winslow Taylor, il taylorismo, e sulle sue applicazioni da parte di Henry Ford, il fordismo. Il principio fondamentale su cui si basava la teoria di Taylor consisteva nella rigida divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale e nella parcellizzazione del lavoro manuale. Questi concetti trovarono applicazione pratica nella produzione di massa, al cui sviluppo contribuì in maniera decisiva Henry Ford con la creazione della catena di montaggio per la produzione delle automobili (la Ford T4). La nuova organizzazione permise di ottenere un aumento straordinario della produttività del lavoro.

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Negli ultimi decenni del ‘900 il modello fordista è stato in buona parte superato. A partire dagli anni settanta del ‘900 ha iniziato a diffondersi una nuova forma di organizzazione della produzione industriale nota come toyotismo, dal nome del gruppo industriale fondato da Sakichi Toyota, che cercava di ridurre il principale motivo di inefficienza insito nel meccanismo fordista-taylorista: la rigidità della linea di produzione. Secondo Taiichi Ohno, considerato il padre del toyotismo e della filosofia della “qualità totale”; la rigidità del fordismo era causa di difetti di fabbricazione, difficili da correggere in un secondo tempo; comportava la necessità di mantenere in magazzino stock eccessivamente ampi di accessori e ricambi, e determinava una generale sotto utilizzazione del potenziale umano presente in fabbrica. Il sistema dei prezzi - Nel sistema economico di mercato si suppone dunque che i produttori e i consumatori agiscano in modo razionale. Il produttore, dato il capitale monetario in suo possesso, sceglie la quantità di fattori produttivi (lavoro, capitale, risorse) da acquistare e la tecnica di produzione in grado di minimizzare i costi di produzione e di massimizzare i profitti. Parallelamente, i consumatori acquistano i beni in grado di soddisfare i propri bisogni. La scelta è vincolata dal reddito che hanno a disposizione. Ciascun atto di scambio tra consumatori e produttori (domanda e offerta) permette di definire un rapporto di scambio: un prezzo. Nel momento della contrattazione il venditore cercherà di vendere al prezzo più alto e il compratore cercherà di acquistare al prezzo più basso. Entrambi hanno come riferimento un prezzo di riserva: per il compratore è il prezzo massimo al di sopra del quale non è disposto a salire, per il venditore è il prezzo minimo al di sotto del quale non è disposto a scendere (esso ha come limite minimo i costi da lui sostenuti). I prezzi servono da segnale per i produttori e per i consumatori. Se in seguito ad una modifica delle preferenze nei confronti di un dato bene i consumatori ne aumentano il consumo e se le imprese accertano che le scorte di quel bene si sono ridotte, esse alzano il prezzo per razionare la disponibilità limitata, e l’aumento del prezzo stimolerà l’aumento della produzione del bene. D’altra parte, se il livello delle scorte è superiore a quello necessario per fare fronte alla domanda, i venditori abbassano il prezzo per cercare di diminuire lo stock di beni poco richiesti dal mercato. In ultima analisi, i prezzi coordinano le decisioni dei produttori e dei consumatori in un mercato: hanno dunque una funzione allocativa.

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L’interazione tra le decisioni di singoli acquirenti e singoli venditori può avvenire mediante due modi di procedere: a) in base al primo metodo il prezzo si determina sulla base dell’interazione tra domanda ed offerta. Questo approccio si applica perlopiù nei mercati delle merci primarie, oggetto di scambi nei mercati concorrenziali (mercati agricoli, materie prime, pesca, ecc.). b) il secondo metodo si basa sul principio del costo pieno; il prezzo dei beni viene fissato dal produttore ad un livello in grado di coprire il costo di produzione e di assicurare un margine di profitto. Questo metodo trova applicazione nel mercato dei manufatti e dei servizi e, dato il prezzo, sono le condizioni della domanda a determinare la quantità di merce che il produttore riuscirà a vendere. La logica del sistema di mercato - Un sistema di mercato si base sulla concorrenza delle imprese. La concorrenza fra le imprese fornisce loro degli incentivi a produrre al minor costo e a introdurre sistemi di produzione innovativi basati su miglioramenti della tecnologia o dell’organizzazione dell’impresa. Una nuova tecnica di produzione che permette di ridurre i costi fornisce un vantaggio temporaneo sui concorrenti e quindi maggior profitto. I concorrenti devono seguire l’esempio dell’azienda innovatrice perché altrimenti subiranno delle perdite. La riduzione del prezzo resa possibile dal progresso tecnologico fa sì che l’impresa interessata dall’innovazione si espanda in seguito all’aumento della produzione. Altre imprese cercheranno di imitare l’innovazione per cui la produzione aumenterà ulteriormente. La concorrenza garantisce dunque risposte adeguate ai desideri della società e costringe anche le aziende ad adottare le tecniche produttive più efficienti. Le imprese che non utilizzano le tecniche di produzione meno costose sono costrette ad abbandonare il mercato. Le imprese, nel competere con i concorrenti sul piano del prezzo e della qualità per soddisfare i bisogni degli individui, cercano di produrre e vendere una quantità sempre maggiore di beni e servizi. Il consumatore può scegliere l’impresa che offre beni e servizi di qualità migliore a prezzi inferiori. In base a questa logica la scarsità delle risorse diventa stringente. Il capitalismo fonda infatti la sua crescita sulla prospettiva di bisogni sempre crescenti. Il sistema di mercato ora descritto ha subito con il passare del tempo varie modifiche. Ad esempio, l’economia di mercato teorizzata da Adam Smith, il padre dell’economia moderna, richiedeva la presenza di uno

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Stato minimale, necessaria per fare rispettare i diritti di proprietà, mantenere l’ordine e la giustizia. Questo modello è cominciato a cambiare quando la società è diventata più complessa, dove i vari gruppi sociali intervengono per fare valere i propri interessi. Il ruolo dello Stato è diventato sempre più rilevante. Il modello di mercato puro (economia di mercato liberista) o capitalismo puro non è mai esistito. Da sempre si è avuto una economia mista che ha assunto nei Paesi varie differenziazioni a seconda della rilevanza e del ruolo dell’intervento dello Stato. Ad esempio, in Germania il sistema di mercato ha assunto le caratteristiche di Economia sociale di mercato (Soziale marktwirtschaft). Le basi teoriche, elaborate dalla Scuola di Friburgo, si ispirano alla filosofia chiamata ordoliberismo (dal titolo della rivista Ordo) e si basano su tre principi: quello di individualità (l’idea liberale della libertà individuale); il principio di solidarietà (ogni essere umano è inserito in una società interdipendente); il principio di sussidiarietà che pone in rapporto individualità e solidarietà. Il modello cerca di coniugare il desiderio di libera iniziativa del cittadino con la sua necessità di sicurezza. I sistemi di mercato prevedono dunque l’intervento dello Stato. Come messo in evidenza nel capitolo 8 il modo di operare dei mercati può non condurre a risultati efficienti, per cui occorre che l’autorità pubblica intervenga per porre rimedio alle varie cause di inefficienza. La teoria economica prevalente è concorde nel ritenere che la pressione della concorrenza favorisce l’efficienza produttiva (minori costi di produzione) e allocativa (si producono i beni richiesti). Quando le condizioni di un corretto funzionamento del mercato concorrenziale vengono meno, è necessario ricrearle mediante l’intervento dell’operatore pubblico. Secondo alcuni economisti il mercato capitalistico tende per sua natura ad allontanarsi dalle condizioni di concorrenza determinando una forte concentrazione del potere economico. Ad esempio, secondo alcuni economisti (Schumpeter, 1954) il monopolio non è solo una forma di mercato ineliminabile, bensì una forma di organizzazione produttiva che presenta vantaggi rispetto alla concorrenza: l’imprenditore monopolista è infatti colui che introduce delle innovazioni nei prodotti o nei processi produttivi e, grazie a tali innovazioni, gode temporaneamente di un sovraprofitto rispetto agli altri imprenditori. Il monopolio è una fase del processo innovativo: presto o tardi le innovazioni saranno introdotte dalle altre imprese annullando così il vantaggio conseguito all’inizio

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dall’imprenditore innovatore Il monopolio riflette l’aspetto dinamico del capitalismo nel quale l’innovazione è la molla dell’accumulazione e del continuo modificarsi del mercato. In questo caso, poiché la concentrazione favorirebbe il progresso tecnico (l’adozione di tecniche produttive più efficienti), non occorre reintrodurre la concorrenza quanto, piuttosto, controllare il potere di mercato, la grande impresa, cercando, in particolare, di trasferirne i vantaggi alla società.

3. Struttura dei mercati e settori produttivi. L’antagonismo concorrenziale che è alla base del sistema di mercato può assumere varie forme ma può anche venire meno. A seconda del grado di concorrenza si possono avere varie strutture di mercato: concorrenza perfetta, concorrenza monopolistica, oligopolio e monopolio. Concorrenza perfetta – La concorrenza perfetta è la struttura di mercato che permette di ottenere i migliori risultati per la società. È una struttura di mercato nella quale i soggetti economici non possono influenzare i prezzi e quindi li assumono come dati (sono price taking). Le principali caratteristiche della concorrenza perfetta sono le seguenti: - nel mercato operano un numero elevato di imprese e di consumatori, ognuno dei quali acquista o vende una minuscola frazione della quantità totale dei beni del mercato. Nessun soggetto economico può influenzare in maniera significativa il prezzo del prodotto modificando la quantità che acquista o vende; - le imprese offrono un prodotto standardizzato (omogeneità dei beni prodotti). I consumatori non percepiscono differenze significative tra i prodotti offerti dai venditori; - non vi sono barriere né di natura istituzionale, né di natura economicofinanziaria e neppure tecnologiche, per cui le imprese possono facilmente entrare e uscire dal mercato; - le imprese e i consumatori sono perfettamente informati sulle condizioni degli scambi che prevalgono nel mercato (qualità dei prodotti, prezzi, ecc.). Si ha cioè informazione completa e simmetrica. Le ipotesi che sottostanno al mercato di concorrenza perfetta sono molto restrittive ed è difficile che nella realtà vengano soddisfatte, tant’è

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che il modello di concorrenza perfetta viene considerato come un paradigma analitico del tutto ipotetico. Tuttavia, esso è utile per trarre indicazioni circa le caratteristiche che dovrebbe avere un sistema economico efficiente. Il concetto di concorrenza si presta a varie interpretazioni che corrispondono a due periodi analitici dell’evoluzione del pensiero economico (Appendice I): concorrenza come attività comportamentale (come processo) e concorrenza come struttura del mercato. a) La concorrenza come processo, concetto dovuto agli economisti classici, va giudicata sulla base dell’esistenza o meno di ostacoli all’ingresso di nuove imprese sul mercato (ostacoli alla libera circolazione dei capitali e lavoratori) da un settore all’altro. Se non c’è alcun ostacolo abbiamo condizioni di libera concorrenza. Il libero svolgersi della concorrenza, pur partendo da motivazioni che esaltano l’interesse individuale dei partecipanti al mercato, è in grado di conseguire risultati benefici per tutta la società, senza bisogno di un intervento politico normativo, imposto dall’esterno, conoscitore degli interessi del bene comune. La forza trainante del sistema libero di mercato è l’interesse personale, ma è la concorrenza la forza endogena al sistema. La visione classica della concorrenza è dunque di natura dinamica: si svolge mediante la libera entrata ed uscita delle imprese dal mercato. Il numero delle imprese presenti in un certo settore o mercato è destinato a modificarsi proprio per l’operare della concorrenza. In un’ottica simile alla teoria classica si pongono gli economisti della scuola austriaca (Hayek, 1982; 1988). Il ruolo del mercato consiste nel procurare ai singoli le informazioni e le conoscenze necessarie ad attuare i loro piani in modo coordinato. Le difficoltà per la concorrenza vengono spesso dall’azione pubblica la quale, mediante leggi o procedure burocratiche, magari ispirate al buon fine di tutelare la qualità del servizio, blocca di fatto lo sviluppo di opportunità inutilizzate. Spesso, poi, l’azione pubblica che impedisce la concorrenza è il frutto di gruppi di pressione e di categorie che vengono legittimati ed esprimono nei fatti un potere bloccante di mercato: i gruppi organizzati finiscono così per indurre il governo a regolare il mercato secondo i propri interessi. b) Il concetto di concorrenza in base alla struttura del mercato, sviluppato dai neoclassici, è invece di natura statica; essa viene definita come una situazione in cui il numero delle imprese esistenti sul mercato è così elevato che nessuna di esse è in grado di modificare il prezzo che

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viene determinato nel mercato dall’insieme delle contrattazioni che avvengono tra consumatori e produttori. Concorrenza monopolistica – Questa struttura di mercato è detta anche concorrenza imperfetta; è la struttura caratterizzata dalla presenza di un grande numero di imprese che vendono varietà diversificate di un particolare prodotto avente caratteristiche simili. Oligopolio – L’oligopolio è la forma di mercato dove operano poche imprese ciascuna delle quali controlla una parte considerevole della quantità totale della produzione. Il prezzo viene di solito determinato da alcune imprese che vengono spesso denominate imprese con leadership di prezzo (le imprese di maggiore dimensione). La capacità di controllo del prezzo può trovare dei limiti nella concorrenza da parte delle altre imprese per cui uno dei problemi dell’impresa oligopolistica consiste nel decidere sulla eventualità di adottare una strategia di cooperazione con le altre imprese. Monopolio – Questa struttura di mercato si caratterizza per la totale assenza di concorrenza: nel mercato opera un solo produttore che fissa il prezzo in modo da massimizzare il profitto. La domanda di beni per il produttore coincide con la domanda del settore. Non si ha possibilità di entrata sul mercato da parte di concorrenti. Mercati e settori - I mercati vengono di solito aggregati a livello concettuale in diversi settori, ognuno dei quali rappresenta un’aggregazione di singoli mercati. In base al tipo di produzione si possono individuare i settori in primario, secondario e terziario: - il settore primario comprende tutte le attività economiche che riguardano il primo stadio del processo produttivo, ovvero la produzione agricola, le risorse minerarie, la silvicoltura, la pesca e le fonti di energia quali il carbone, il petrolio e il gas naturale; - il settore secondario comprende tutte le attività manifatturiere e di costruzione; - il settore terziario comprende la produzione di tutti i servizi, come i trasporti, i divertimenti, i servizi alla persona, il commercio, la vendita al dettaglio, la pubblica amministrazione, la finanza e le professioni. La struttura per settori dell’economia italiana ha subito nell’arco degli ultimi decenni forti trasformazioni. Il settore primario è diminuito di importanza così come quello secondario, a favore del terziario. La terziarizzazione dell’economia è un processo comune a tutti i maggiori paesi industrializzati. L’espressione “industriali”, che denota i paesi a

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maggior reddito, non è a rigore più giustificata: dovunque i servizi sono ormai il primo settore per dimensione.

4. Una rappresentazione semplificata del sistema di mercato: il flusso circolare del reddito. Il sistema di mercato può essere rappresentato mediante un modello, il flusso circolare del reddito. Nella versione semplificata di fig.1.1 vengono considerati due soggetti: le famiglie (consumatori) e le imprese (produttori).

Fig. 1.1 – Il flusso circolare del reddito.

Nel corso della trattazione faremo riferimento al concetto di impresa consapevoli del fatto che, dal punto di vista organizzativo e giuridico, questo termine raggruppa realtà diverse. Infatti, la forma giuridico – organizzativa può essere ricondotta a tre tipologie fondamentali: la società individuale, quella di persone e quella di capitali. Nella fig.1.1 non vengono considerati il settore pubblico (le imposte e la spesa pubblica), gli operatori esteri (le vendite e gli acquisti effettuati all’estero) e neppure gli intermediari finanziari. Si ipotizza che le famiglie possiedano i fattori della produzione (lavoro, capitale e risorse

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naturali) che vengono acquistati dalle imprese per produrre beni e servizi. Le famiglie, a loro volta, utilizzano i redditi derivanti dalla vendita dei fattori produttivi per acquistare i beni e servizi dalle imprese. Le spese delle famiglie sono dunque i proventi delle imprese e, viceversa, le spese delle imprese sono i redditi delle famiglie. Tra le famiglie e le imprese si instaurano dei flussi reali di beni e servizi ai quali sono associati flussi monetari di pagamenti per l’acquisto delle merci e dei fattori produttivi. La parte esterna del grafico pone in evidenza il flusso reale (in senso antiorario), mentre la parte interna quello monetario (in senso orario). Questi flussi danno origine a due mercati: quello dei beni (parte superiore del grafico) e quello dei fattori produttivi (parte inferiore del grafico). Le imprese vendono i propri prodotti nei mercati dei beni (cfr. cap. 2). Le famiglie vendono l’uso dei fattori di produzione nei mercati dei fattori (cfr. cap. 3). In questi mercati si hanno così delle domande e delle offerte di beni e di risorse; ogni operatore esercita contemporaneamente una domanda ed un’offerta. Nel mercato dei beni si ha una domanda di beni e servizi da parte dei consumatori ed un’offerta di beni e servizi da parte delle imprese. Domanda ed offerta di beni determinano il prezzo e la quantità scambiate di ciascun bene. Ugualmente, nel mercato dei fattori produttivi si hanno delle domande ed offerte di fattori da parte rispettivamente delle imprese e delle famiglie e, quindi, la determinazione dei prezzi e delle quantità scambiate nel mercato dei fattori. Va notato come la domanda di fattori produttivi sia derivata, dipenda cioè dalla domanda di beni e servizi delle famiglie. In altri termini, i due mercati sono interdipendenti. Anche se il modello semplifica notevolmente la realtà, esso permette di mettere in evidenza come dall’insieme delle contrattazioni che intervengono tra i soggetti presi in considerazione emergano simultaneamente dei prezzi per i beni e servizi (mercato dei beni e servizi) e per i fattori produttivi (mercato dei fattori produttivi), senza che vi sia un’autorità superiore a regolare tali contrattazioni. Le contrattazioni avvengono in modo spontaneo, volontario e, come abbiamo avuto modo di osservare in precedenza, questa è una delle caratteristiche principali del sistema di mercato. Un modello più complesso – Consideriamo ora un sistema economico più complesso dove operano, oltre alle famiglie e alle imprese, anche la pubblica amministrazione, gli altri paesi con i quali si hanno relazioni

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commerciali, e che chiameremo il resto del mondo, e gli operatori finanziari. Introduciamo inoltre l’ipotesi che non sempre tutto il reddito venga speso dagli operatori economici, ma potrebbe essere risparmiato. Se non ci sono né uscite né entrate il flusso del reddito si configura come un circuito chiuso, che va dalle famiglie nazionali ai produttori nazionali, e dai quali ritorna nuovamente alle famiglie. In realtà, come messo in evidenza nella fig.1.2, dal flusso circolare del reddito ci possono essere prelievi ed immissioni.

Fig. 1.2 – Il flusso circolare del reddito con prelievi ed immissioni.

Non tutti i beni e servizi finali vengono acquistati dalle famiglie. Le famiglie, di solito, utilizzano solo parte del reddito derivante dalla vendita dei fattori produttivi per acquistare i beni e servizi, destinandone parte in risparmio (costituisce un prelievo dal flusso circolare del reddito) che depositano presso il sistema bancario o lo investono in attività finanziarie (azioni o obbligazioni). Il sistema bancario utilizza i risparmi delle famiglie per darli a prestito alle imprese che lo utilizzano per finanziare gli investimenti (si ha una immissione nel flusso circolare del reddito). Può succedere che l’offerta di risparmio sia superiore alla domanda di investimento o, viceversa, che la domanda di investimento sia superiore all’offerta di risparmio, in questi casi, come si vedrà in seguito, il reddito nazionale (il flusso del reddito) non è in equilibrio. Le decisioni di risparmio e di investimento fanno infatti capo a soggetti

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diversi (i risparmiatori sono i consumatori mentre gli investitori sono gli imprenditori), con logiche di comportamento diverse (cfr. cap. 6). Un’altra sottrazione dal flusso circolare del reddito è costituita dalle importazioni di beni e servizi, mentre le esportazioni rappresentano delle aggiunte. Le importazioni vengono regolate in moneta estera mentre le esportazioni in valuta nazionale. Sul mercato estero di verificano delle transazioni di valuta che danno origine a dei prezzi: i tassi di cambio (cfr. cap. 4). Il sistema finanziario – Gli scambi nel sistema di mercato avvengono mediante strumenti monetari e finanziari il cui insieme costituisce il sistema finanziario. Il sistema raggruppa le istituzioni (le banche, la borsa, gli intermediari finanziari) che raccolgono il risparmio delle famiglie ed erogano prestiti alle imprese per effettuare gli investimenti. Il sistema finanziario consente dunque agli operatori di regolare le loro transazioni e svolge anche la funzione di collegare gli operatori che risparmiano e quelli che investono (cfr. cap. 5). Nei mercati finanziari il prezzo, che si determina dall’incontro tra domanda ed offerta di moneta, prende il nome di interesse; è il prezzo di una merce “particolare” che è la disponibilità del denaro. Chi desidera disporre di denaro non proprio per un certo periodo di tempo deve pagare un interesse a chi è disposto a cederglielo. Un altro modo per definire l’interesse consiste nel fare riferimento alla disponibilità che gli individui hanno a ripartire il proprio reddito tra consumo presente e consumo futuro, in questo caso l’interesse è il compenso che gli individui ricevono rinviando il proprio consumo, cedendo momentaneamente ad altri la disponibilità del denaro. Il resto del mondo e il sistema monetario internazionale - Le transazioni che avvengono nel mercato coinvolgono anche i paesi esteri con i quali gli operatori nazionali hanno rapporti economici. Si tratta di scambi di beni e servizi (importazioni ed esportazioni) e di movimenti di capitali finanziari (come già osservato anche in questo caso si hanno sottrazioni e immissioni dal flusso circolare del reddito). Anche gli scambi internazionali vengono regolati mediante moneta: le esportazioni in moneta nazionale e le importazioni in moneta estera. Dai rapporti di scambio si ottiene un prezzo: il tasso di cambio e cioè il prezzo di una valuta espresso in termini di un’altra.

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I pagamenti internazionali vengono regolati attraverso un complesso di istituzioni e di strumenti che costituiscono il sistema monetario e finanziario internazionale. Le transazioni di solito vengono regolate con valuta comunemente accettata dai singoli Paesi. Non è tanto il paese egemone che impone la sua valuta (ad esempio la sterlina nell’800, il dollaro nel secondo dopoguerra), ma è un comportamento spontaneo del mercato che, utilizzando prevalentemente una valuta, la rende internazionale. Oggi il sistema internazionale usa, oltre il dollaro e le sterline anche yen, euro e, in misura minore, altre valute (franchi svizzeri, dollari canadesi, ecc.), ma il dollaro rimane ancora la valuta più importante. Alcune istituzioni internazionali influenzano il modo di operare dei soggetti economici: il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale e l’Organizzazione mondiale per il commercio (OMC), meglio conosciuta con l’acronimo (World Trade Organisation, WTO). Il Fondo Monetario Internazionale ha una funzione di governo dei mercati finanziari internazionali. Il Fondo eroga prestiti internazionali a Stati, a condizione che essi aderiscano alle regole di comportamento economico che il Fondo giudica necessarie allo scopo di riportare condizioni di stabilità finanziarie nel paese che ha richiesto il prestito. La Banca Mondiale ha la finalità di favorire lo sviluppo economico e sociale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, attraverso la concessione di finanziamenti a lungo termine per programmi e progetti di investimento. Il WTO cerca di favorire la crescita del commercio mondiale con la riduzione delle barriere tariffarie (i dazi) e non tariffarie (norme amministrative) e il rispetto di regole comuni per il commercio fra i paesi. Il settore pubblico - Nell’ambito del sistema economico di mercato, un ruolo importante viene esercitato dallo Stato, il quale da un lato effettua operazioni di spesa rivolte al soddisfacimento dei bisogni della collettività (spesa pubblica), dall’altro preleva le risorse finanziarie necessarie alla copertura di tali spese (cfr. cap. 8). Lo Stato eroga beni e servizi pubblici alle famiglie e alle imprese nonché trasferimenti, pensioni e rendite, alle famiglie e sussidi alle imprese. La spesa pubblica per beni e servizi implica l’impiego di risorse produttive, mentre la spesa per trasferimenti non implica l’uso di risorse ma semplicemente il trasferimento di risorse da un soggetto all’altro. Per

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finanziare tali beni e servizi e i trasferimenti lo Stato si avvale di tasse, tariffe e imposte, che costituiscono le entrate dello Stato. Le funzioni economiche dello Stato sono numerose. In primo luogo, alcune attività economiche dello Stato hanno lo scopo di facilitare e consolidare il funzionamento del sistema di mercato (fornire l’organizzazione sociale e l’ordinamento giuridico, garantire la concorrenza); in secondo luogo lo Stato cerca di correggere e integrare il funzionamento del sistema economico quando si verificano delle distorsioni nell’utilizzo delle risorse che non permettono di massimizzare il benessere degli individui. L’intervento dello Stato nel sistema economico avviene anche per motivi di equità, di giustizia distributiva, perché la distribuzione del reddito fra individui che risulta dal modo di operare del mercato può essere ritenuta iniqua. Oltre a promuovere l’efficienza e l’equità, l’operatore pubblico svolge anche funzioni macroeconomiche riguardanti la crescita e la stabilizzazione del sistema economico. Tutte le economie di mercato soffrono di fluttuazioni cicliche, accompagnate da variazioni nel livello dell’occupazione. L’operatore pubblico cerca di attenuare le fluttuazioni mediante politiche fiscali (imposizione fiscale, spesa pubblica) e politiche monetarie (tassi di interesse, condizioni del credito, ecc.). In realtà, con l’istituzione dell’Unione europea, la capacità di intervento autonomo da parte dello Stato è diminuita notevolmente. Di fatto la politica monetaria viene ormai attuata a livello europeo. La decisione di intervenire nel sistema economico da parte dell’operatore pubblico differisce da quella effettuata dagli operatori privati. L’intervento viene determinato attraverso il voto dei cittadini che esprimono le loro preferenze in merito alle spese pubbliche e all’imposizione fiscale. Gli elettori, attraverso il voto, decidono quindi quali programmi far realizzare dai funzionari pubblici. Il voto rappresenta infatti la domanda degli elettori e il bilancio pubblico l’offerta. Il flusso circolare del reddito e l ’equilibrio macroeconomico - Il modello del flusso circolare mette dunque in evidenza le interrelazioni che intervengono tra i vari mercati: quello dei beni e servizi, quello dei fattori produttivi, quello estero, quello finanziario e quello del settore pubblico. Questi mercati verranno analizzati in modo più analitico nei capitoli che seguono. In ognuno di essi, l’interazione tra domanda ed

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offerta determinano dei prezzi che prendono vari nomi: tassi di cambio, tassi di interesse, imposte, ecc. L’insieme dei beni e servizi prodotti e offerti sul mercato rappresenta il prodotto del sistema economico in un determinato periodo di tempo, mentre i redditi che le imprese pagano alle famiglie in cambio delle loro risorse (il costo sopportato dalle imprese per l’acquisto dei fattori produttivi quali lavoro, capitale, ecc.) rappresenta il reddito nazionale (somma dei salari, stipendi interessi e rendite). Reddito e prodotto sono valori identici, due aspetti della stessa medaglia. Abbiamo visto che le famiglie utilizzano i redditi per effettuare gli acquisti dalle imprese. L’insieme degli acquisti concorre a determinare la domanda aggregata (DA), che è data dall’acquisto di beni di consumo (C), ma anche da beni erogati dallo Stato (G), da beni di importazione (Im) e da beni richiesti dall’estero, le esportazioni (X). Ma gli acquisti possono essere determinati anche dalle stesse imprese per beni di investimento (I). Pertanto, la domanda aggregata è costituita dalle seguenti componenti DA = C+I+G+X-Im. La produzione è dunque uguale ai redditi totali ricevuti dal sistema economico ed è anche uguale alla spesa totale (domanda aggregata). Questa relazione è messa bene in evidenza nella fig. 1.1. Prodotto = redditi distribuiti = spesa o domanda finale (AD) nazionale (salari + profitti) (C + I + G + X -Im) Il sistema economico si trova in equilibrio quando il valore della produzione, l’offerta aggregata (OA), è uguale al valore della spesa, ovvero al valore della domanda aggregata AD e cioè: OA = AD Questa uguaglianza non sempre si verifica. Non tutti i beni e servizi finali vengono acquistati dalle famiglie. Le famiglie, di solito, utilizzano solo parte del reddito derivante dalla vendita dei fattori produttivi per acquistare i beni e servizi, destinandone parte in risparmio (costituisce un prelievo dal flusso circolare del reddito) che depositano presso il sistema bancario o lo investono in attività finanziarie (azioni o obbligazioni). Il sistema bancario utilizza i risparmi delle famiglie per darli a prestito alle imprese che lo utilizzano per finanziare gli investimenti (si ha una immissione nel flusso circolare del reddito). Può succedere che l’offerta di risparmio sia superiore alla domanda di investimento o, viceversa, che la domanda di investimento sia superiore

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all’offerta di risparmio, in questi casi, come si vedrà in seguito (cap.6), il reddito nazionale (il flusso del reddito) non è in equilibrio. Le decisioni di risparmio e di investimento fanno infatti capo a soggetti diversi (i risparmiatori sono i consumatori mentre gli investitori sono gli imprenditori), con logiche di comportamento diverse. Inoltre, oltre a consumare e a risparmiare le famiglie pagano anche le imposte (T), che rappresentano un’altra sottrazione al flusso circolare del reddito. Una parte della spesa delle famiglie, infine, viene destinata ad acquistare beni e servizi prodotti all’estero, cioè i beni importati (Im). Questi prelievi dal flusso circolare del reddito, per risparmio (S), imposte (T) e importazioni (Im), riducono l’ammontare della spesa rispetto alla quantità prodotta. Le imprese non trovano, quindi, sul mercato una domanda per consumi in grado di assorbire la produzione che rimarrebbe, in parte, invenduta: sono costrette a rivedere le loro scelte cercando, ad esempio, di ridurre i livelli di produzione. Alla spesa per consumi delle famiglie si deve però aggiungere la spesa effettuata dalle imprese per acquistare beni e servizi che servono a produrre altri beni, gli investimenti (I), la spesa pubblica per acquistare beni e servizi sul mercato (G), la domanda di prodotti nazionali che proviene dal resto del mondo (X). Si tratta di immissioni nel flusso circolare del reddito, investimenti (I), spesa pubblica (G) ed esportazioni (X) che vanno a compensare l’insieme dei prelievi. Perché vi sia equilibrio sul mercato delle merci occorre che l’insieme dei prelievi sia uguale all’insieme delle immissioni: S+T+Im = I+G+X. Riordinando i termini, l’equazione precedente può essere riscritta nel modo seguente: S = I + (G-T) + (X-Im). Quest’ultima equazione evidenzia la condizione di equilibrio del sistema economico, data dall’eguaglianza fra risparmi e investimenti, mentre (G-T) rappresenta il bilancio del settore pubblico, la differenza fra uscite ed entrate del settore pubblico, e (X-Im) il conto degli scambi fra il paese e il resto del mondo. Quando si considera solo il settore privato dell’economia e si ignorano i rapporti con il resto del mondo l’eguaglianza fra risparmi (S) e investimenti (I) rappresenta la condizione di equilibrio del sistema economico: S = I Se il risparmio supera l’investimento (S>I) una parte della produzione rimane invenduta sul mercato e le imprese sono costrette a rivedere verso il basso i livelli di produzione; viceversa, se si verifica un eccesso di investimenti sul risparmio (I>S) le imprese si troveranno di fronte una

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domanda maggiore rispetto a quella che si aspettano e cercheranno di fronteggiarla accrescendo l’offerta o aumentando i prezzi. Non sempre il sistemo economico che abbiamo rappresentato mediante il modello del flusso circolare del reddito si trova dunque in equilibrio: domanda ed offerta possono divergere. Si crea una situazione di disequilibrio. Quando la domanda aggregata eccede l’offerta aggregata, si verifica scarsità di beni e servizi sul mercato: l’offerta e cioè la produzione non riesce a soddisfare la domanda dei consumatori. Viceversa, quando la domanda aggregata risulta inferiore all’offerta occorre aumentare la domanda per ristabilire l’equilibrio macroeconomico. Questi aspetti verranno analizzati in modo più approfondito nel capitolo 6.

5. I limiti del sistema economico di mercato. Il sistema economico di mercato si è affermato nella maggior parte dei Paesi; il reddito delle persone è aumentato costantemente nel tempo, permettendo loro di soddisfare in gran parte i propri bisogni. Tuttavia, l’analisi dello scenario economico, soprattutto di questi ultimi decenni, permette di evidenziare alcuni aspetti negativi che costituiscono importanti critiche al modo di operare del sistema economico di mercato: povertà, disoccupazione, degrado ambientale, crisi finanziarie, ecc. a) Abbiamo messo in evidenza che il mercato, quale centro coordinatore delle molteplici iniziative individuali e luogo di incontro tra l’offerta dei produttori e la domanda dei consumatori, è l’istituzione che governa l’impiego efficiente delle risorse. Se si assume il postulato di concorrenza perfetta, ovvero di atomismo produttivo, libertà di accesso, omogeneità dei prodotti e completa trasparenza di informazioni, i prezzi che si determinano nel mercato fanno sì che le risorse vengano impiegate in modo efficiente e si rende così massimo il volume della produzione. In questo contesto, l’intervento pubblico rappresenta una indebita interferenza nei meccanismi riequilibratori del mercato, se si escludono le misure volte a garantirne la funzionalità. Tuttavia le ipotesi su cui si basa la concorrenza perfetta sono molto restrittive. E’ raro trovare nella realtà mercati che abbiano tutte le caratteristiche elencate. Ad esempio, come già affermato in precedenza, i produttori spesse volte non sopportano tutti i costi di produzione per cui i

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prezzi che praticano determinano una allocazione delle risorse inefficiente. Inoltre, nei sistemi economici sono presenti beni pubblici, per i quali i meccanismi di mercato non consentono di far pagare i servizi da essi prodotti a chi ne usufruisce, né di escludere dalla fruizione chi si rifiuta di pagarli. Vi sono inoltre beni di proprietà comune a “libero accesso”, come le risorse ittiche o i centri storici, per i quali, in assenza di una adeguata regolamentazione, esistono rischi di elevato sfruttamento e, al limite, di estinzione della specie o di danni irreversibili al patrimonio artistico e monumentale. Sono situazioni queste in cui il “valore” del servizio di un bene socialmente utile non si esprime in un prezzo di mercato e si richiede pertanto una gestione pubblica dello stesso. Si è cioè in presenza di “fallimenti o distorsioni del mercato” che aprono la strada a forme diverse di intervento pubblico volte a ripristinare condizioni di efficienza; ma anche l’intervento pubblico non è esente dea critiche, sul piano dei costi, delle opportunità e dei moventi. b) Le transazioni nel mercato avvengono se si ha una domanda ed un’offerta, e ciò riguarda qualsiasi tipo di bene, indipendentemente dai giudizi di valore che uno possa avere sull’opportunità di commerciare quel determinato bene. Il mercato è pertanto neutrale rispetto ai valori. Nel mercato qualsiasi bene può essere commerciato purché esista una domanda ed offerta e che non sia al di fuori delle regole che si è dato. Il sistema di mercato si fonda sulla sovranità del consumatore, espressa dalle sue preferenze, sulla scelta delle tecniche produttive effettuate sulla base della scarsità relativa dei fattori, sull’uguaglianza tendenziale del prezzo al costo di produzione. I prezzi, quali indicatori della scarsità delle risorse, ne assicurano l’uso efficiente e ne misurano il valore: il prezzo che si determina è una entità neutrale. Il prezzo di mercato non è né giusto né ingiusto. E’ quello che è (Einaudi, Lezioni di politica sociale, 1949). c) Va inoltre osservato che la generica esistenza di bisogni non è sufficiente per sollecitare un’attività produttiva, appunto perché il mercato non soddisfa bisogni, ma solo domande, cioè bisogni che si esprimono in una spesa (Einaudi, 1964). I bisogni sono una cosa, la domanda effettiva è un’altra. Un indiano che muore di fame in una strada di Calcutta ha un bisogno estremo di alimenti, ma se non ha potere di acquisto con cui esprimere il suo bisogno per il sistema economico di mercato non esiste. Per contare sul mercato il bisogno deve essere sorretto da potere d’acquisto. Poiché il potere d’acquisto è fornito dal reddito corrente e da

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quello cumulato (patrimonio) ne deriva che, data una certa massa di bisogni e data una certa scala di priorità, il livello e la struttura della domanda effettiva sono determinati dal livello di reddito effettivo, dalla sua distribuzione fra i consumatori, dal livello e struttura dei prezzi dei beni. Coloro che posseggono più reddito possono permettersi di soddisfare più bisogni; di solito più elevato è il reddito maggiori sono le domande soddisfate. Purtroppo il mercato non riesce a risolvere di per sé problemi di forti disuguaglianze nelle dotazioni di partenza con le quali due controparti accedono allo scambio. d) La finalità dei sistemi economici di mercato ha sempre fatto riferimento a un concetto di benessere identificabile in termini di aumento della ricchezza individuale e, parallelamente, la “società del benessere”, che è scaturita dai successi dell’economia di mercato, ha rappresentato l’idea per cui l’aumento della ricchezza economica e dei livelli di consumo si sarebbe tradotto nell’aumento del grado di felicità degli individui e dell’intera società. A partire dagli anni ’70 del secolo scorso, questo modo di vedere è stato posto in discussione: vari studi hanno evidenziato nelle economie avanzate la presenza di mancanza di appagamento, pur nell’abbondanza di beni. Paradossalmente, l’aumento dei redditi individuali che si è registrato in tutte le economie occidentali dal secondo dopoguerra in poi e la possibilità degli individui di soddisfare un sempre maggior numero di bisogni non si è tradotto in un aumento della felicità individuale (benessere soggettivo). È questo il cosiddetto “paradosso della felicità” o “paradosso di Easterlin” (1974): all’aumentare del reddito, il livello di felicità riportato dagli individui aumenta fino a un certo punto oltre il quale comincia a diminuire. L’aumento del reddito pro-capite può rendere felici, in media, in un dato momento del tempo, ma se si considera il ciclo di vita in generale, il benessere di un gruppo, così come le persone dichiarano di percepirlo a livello soggettivo, rimane costante e talvolta decresce. Studi successivi hanno confermato che la felicità degli individui dipende poco dalle variazioni di reddito. In base al cosiddetto adattamento edonico l’effetto di aumenti di reddito sulla felicità ha un impatto di breve durata dopo il quale si ritorna ai precedenti livelli di soddisfazione. In secondo luogo ciò che conta è il reddito relativo e non quello assoluto; è la posizione degli individui rispetto agli altri, per cui molti dei consumi degli individui avvengono per posizionarsi nei confronti degli altri individui. Una particolare categoria di beni, che è

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tipica delle economie avanzate, è costituita infatti dai beni posizionali: beni che possono essere assimilati ai beni di lusso, e che vengono acquistati non per il possesso di particolari caratteristiche intrinseche, ma per la loro capacità di veicolare una determinata immagine sociale per chi li possiede, a prescindere dall’esistenza o meno di un’effettiva corrispondenza tra tale immagine e la vera identità sociale del loro proprietario. Esempi di beni posizionali sono l’auto di alta cilindrata, l’iscrizione ad un club esclusivo, la barca, viaggi in crociera, un capo di abbigliamento particolare e, in genere, la scelta di seguire una data moda. La produzione di beni posizionali è oggi sempre più rilevante; il mondo produttivo ha colto la natura prettamente simbolica di numerosi bisogni, e ha tentato non solo di intercettarli ma anche di alimentarli, accrescendone la diffusione sociale. Ecco perciò l’emergere di veri e propri “beni posizionali di massa” che, essendo di largo consumo, costituiscono solo apparentemente un veicolo di posizionalità. Con la diffusione dei beni posizionali su larga scala viene meno una delle caratteristiche di tali beni: la differenziazione rispetto al resto della società (l’altra caratteristica è l’identificazione tra il soggetto che ne fruisce e il proprio gruppo di riferimento), per cui di fatto essi creano uno status fittizio. La competizione posizionale toglie risorse a quelle attività che rimangono fuori dal mercato, come i contatti sociali e, in genere, ai beni relazionali: beni alimentabili soltanto in caso di investimento congiunto tra le controparti. L’amicizia, i rapporti familiari sono tipici beni relazionali. La loro natura di bene economico è dibattuta; per alcuni non lo sono poiché non sono strumenti finalizzati al raggiungimento di un fine, ma sono essi stessi un fine. Per altri economisti sono beni economici perché soddisfano un bisogno, quello di relazionalità, bisogno che si affianca a quello materiale, appagato con i tradizionali beni di consumo. Questi beni non hanno un prezzo di mercato, ma hanno però un vincolo di scarsità di natura temporale: lo sviluppo e il mantenimento delle relazioni richiede molto tempo da investire e quindi sono costosi. La diminuzione delle attività relazionali è dovuta all’aumento del costo opportunità del tempo causato sempre più all’incremento della produttività delle attività produttive. Infatti, poiché il costo del tempo speso in relazioni è determinato dal costo opportunità, ovvero dagli impieghi alternativi che avremmo potuto dare ad esso, ed essendo aumentata la produttività di tali impieghi alternativi, il costo effettivo del

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tempo dedicato alle relazioni è aumentato nel corso degli ultimi anni. Ciò spiega il crescente successo di prodotti a significativo risparmio di tempo (ad esempio le confezioni di insalata già lavata, i prodotti surgelati di pronta cottura, ecc.). Un altro esempio riguarda il costo opportunità di mettere al mondo un figlio, molto basso quando le possibilità di destinazione alternativa di impiego del tempo di una donna in una civiltà contadina erano poche e scarsamente produttive. Il costo è cresciuto sensibilmente oggi in proporzione al grado di istruzione femminile perché la scelta di una gravidanza implica una (parziale) rinuncia al tempo investito nella crescita del capitale umano o in un’attività lavorativa redditizia e nella progressione della carriera, oltre che in una miriade di attività ricreative disponibili che pure competono con tale scelta. Lo stesso ragionamento può essere applicato all’investimento in tutti gli altri beni relazionali quali la crescita di un’associazione o la partecipazione alla vita politica. Si è così verificato una mercatizzazione delle relazioni personali, con una loro sostituzione con beni pseudo relazionali a più buon mercato. Ad esempio, la sostituzione delle conversazioni che richiedono troppo tempo con le chat tramite computer. Quando cresce la produzione e il consumo di beni materiali, ma il tempo per utilizzarli rimane lo stesso o addirittura diminuisce, quest’ultimo diventa in termini economici più scarso in relazione ai beni stessi. Da qui la rinuncia ai beni relazionali e a fare più cose nello stesso tempo. Il tempo sottratto alle relazioni sociali contribuisce ad isolare l’individuo, e le conseguenze estreme di tali dinamiche sono le c.d. “trappole di povertà relazionale”. Le relazioni di mercato sono dunque ritenute responsabili del declino delle istituzioni tradizionali e dei legami affettivi e sociali. Risorse importanti per il benessere come la qualità del clima sociale, delle relazioni umane, la socievolezza, la solidarietà, la capacità d’azione collettiva e di collaborazione, la fiducia e l’onestà, ecc. sembrano negativamente correlate con la crescita. In ultima analisi, il mercato convoglia informazioni riguardanti i beni che sono riducibili ad una forma transabile, cioè merci. Vi sono bisogni umani che resistono alla possibilità di essere soddisfatti in forma commerciale. Di conseguenza, in un sistema di mercato, le scelte economiche non ricevono informazioni sulla rilevanza dei bisogni; la generica esistenza di bisogni non è sufficiente per sollecitare un’attività produttiva, appunto perché il mercato non soddisfa bisogni, ma solo domande. La possibilità di

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migliorare il benessere risiede dunque in un deciso riorientamento del sistema produttivo in un sistema che faciliti le relazioni umane. Un’ulteriore spiegazione riguarda il Prodotto interno lordo (Pil) in quanto indicatore del benessere. Si tratta di una variabile flusso che indica la variazione del valore economico creato e non anche le modifiche agli stock (debito, ricchezza, ambiente) che sono fondamentali per determinare il progresso o il regresso economico di un’area o di un Paese. In molti Paesi, la crescita del Pil pro-capite si è accompagnata ad un deterioramento di questi stock causato da un progressivo indebitamento delle famiglie, da una riduzione della ricchezza e da un peggioramento della qualità ambientale. La crescita del Pil pro-capite ha di fatto nascosto un impoverimento dei Paesi. e) Le crisi economiche - Il sistema economico di mercato, in modo ricorrente, è sottoposto a crisi economiche: fasi di espansione si alternano a fasi di recessione (cfr. cap 6). Molti analisti hanno posto in discussione la validità del sistema economico di mercato e, in particolare, la sua capacità di ristabilire situazioni di equilibrio, di “uscire dalla crisi”. Il dibattito coinvolge le varie scuole macroeconomiche sulle capacità di autoregolamentazione del sistema di mercato ma, in realtà, riguarda soprattutto il paradigma filosofico dell’homo economicus che sta alla base del comportamento dei soggetti economici che operano nel mercato: un soggetto che si comporta in “modo razionale” che persegue l’auto interesse miope. f) Il problema della povertà – Un’ulteriore critica al sistema di mercato è costituita dal problema della povertà. Nonostante l’innegabile benessere economico che si è avuto in questi ultimi decenni, le aree di povertà non solo non sono diminuite, ma la differenza fra queste e quelle più progredite sembra accentuarsi (cap.8). g) Un altro problema riguarda il degrado ambientale e la scarsità delle risorse. Lo sviluppo economico è alla base dell’accrescimento della disponibilità di beni materiali ma è anche alla base del crescente livello di inquinamento e del depauperamento di molte risorse ambientali. Nella fig. 1.1 il sistema economico veniva rappresentato come un sistema chiuso; le risorse naturali vengono utilizzate per alimentare il processo produttivo e le attività di consumo che permettono ai consumatori di appropriarsi dell’utilità contenuta nei beni e nei servizi prodotti. Va però osservato che lo stock di risorse naturali non è illimitato, occorre considerare che alcuni risorse sono esauribili e che la fig.1.1 non considera le risorse ambientali, né i rifiuti provenienti dalle

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varie fasi del processo produttivo e dalle attività di consumo. Il sistema economico è strettamente interrelato con quello ambientale: il processo produttivo trasforma le risorse naturali e ambientali in beni di produzione, in beni di consumo e in scarti e rifiuti che creano disutilità.. Lo sviluppo economico, determinando il degrado delle risorse, comprometterebbe le possibilità future di sviluppo dei paesi. Questa affermazione si basa sui risultati dei cosiddetti modelli catastrofistici, di derivazione maltusiana, che mettono in evidenza come in un mondo finito la crescita esponenziale di qualunque sottosistema spinge inevitabilmente il sistema economico a scontrarsi con i limiti dovuti alla disponibilità delle risorse. Secondo alcuni autori, i problemi ambientali non dovrebbero costituire preoccupazioni eccessive poiché l’ambiente è un bene superiore, la cui domanda dovrebbe aumentare con l’aumento del reddito. Affinché possa esserci una elevata qualità ambientale occorrerebbe allora un elevato livello di benessere e un adeguato tasso di crescita. La correlazione positiva tra livello di sviluppo e livello di inquinamento verrebbe così ad essere controbilanciata da una tendenza ad investire una parte crescente del benessere materiale nella salvaguardia dell’ambiente (cap.7). In particolare, la possibilità di un sistema economico di perpetuarsi verrebbe a dipendere dalla sostituibilità delle risorse e dall’innovazione tecnologica in grado di realizzarla. Osservando il passato non si può negare che le possibilità di sostituzione siano esistite per molte risorse e, quindi, si può ipotizzare che nel futuro esistano ancora: tuttavia, osservando sempre il passato, va messo in evidenza come molte specie animali e vegetali siano scomparse così come molti habitat naturali.

6. Come valutare i risultati di un sistema economico. Per valutare la salute di un sistema economico di solito si fa riferimento ad alcuni indicatori economici. Essi permettono di analizzare le performance del sistema economico e di effettuare delle previsioni riguardanti la sua evoluzione. Di seguito ne analizziamo solo alcuni; essi fanno riferimento ai tre principali obiettivi di politica economica: il livello di equilibrio del prodotto interno e la sua crescita, l’occupazione e il livello generale dei prezzi.

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Il Prodotto interno lordo - L’aggregato principale utilizzato per valutare i risultati economici di un paese è il Prodotto interno lordo (Pil): il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali prodotti all’interno di un paese (dai residenti e dai non residenti) in un dato periodo. In valore assoluto il Pil misura la dimensione dell’economia, ma non il livello del benessere dei suoi abitanti né, tantomeno, la ricchezza di un paese. Quest’ultima, la ricchezza nazionale, è costituita dallo stock di risorse complessivamente disponibili in un certo momento per la collettività (famiglie, imprese, settore pubblico). La componente più importante è la ricchezza delle famiglie (l’accumulo dei loro risparmi). Il Pil è risultato nel 2011 pari a circa 1.580 miliardi di € (un punto percentuale di Pil è dunque 15 miliardi di euro). La dimensione assoluta è certamente importante, ma è la sua crescita percentuale che ci permette di valutare l’andamento dell’economia sia nel breve che nel lungo periodo. Sono i movimenti di breve periodo a ricevere la massima attenzione anche se, in realtà, è la crescita di lungo periodo a essere decisamente la più importante. Il Pil non va confuso con il Prodotto nazionale lordo (Pnl) che misura il valore di mercato dei beni e servizi prodotti all’interno e all’esterno dai soli residenti (parte del Pnl viene prodotto all’estero; ad esempio, se si possiede un’azienda localizzata all’estero che produce profitti, questi concorrono a determinare il Pnl della nazione). I residenti sono coloro che risiedono stabilmente, cioè da più di un anno, nel paese in questione quale che sia la loro nazionalità (gli italiani emigrati stabilmente all’estero, anche se hanno conservato la loro nazionalità, sono considerati residenti all’estero e, pertanto, le loro attività non vengono conteggiate ai fini del calcolo del Pnl). In Italia si fa riferimento al concetto di Pil e non a quello di prodotto nazionale. Quest’ultimo è preferito nella terminologia anglosassone dove si fa appunto riferimento al concetto di Gross National Product. Se dal Pil si detrae una percentuale per l’usura dei beni durevoli, e cioè l’ammortamento, si ottiene il Prodotto interno netto (Pin). Gli ammortamenti non dovrebbero essere contabilizzati come parte del reddito dal momento che rappresentano un costo di produzione e, pertanto, devono essere sottratti dal Pil. La quota del 12% dovrebbe rappresentare mediamente il valore del capitale distrutto in un anno di attività produttiva.

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Come calcolare il Pil - il Pil può essere calcolato in tre modi: come valore della produzione di beni e servizi; come somma dei redditi percepiti dai vari operatori; come spesa. a) Il Pil come valore della produzione di beni e servizi finali – Il Pil è pari al valore della produzione finale (non quella intermedia), ossia al valore della produzione destinata ad essere consumata dalle famiglie (beni finali di consumo) e utilizzata dalle imprese come capitale fisso (beni finali di investimento). Per evitare doppie contabilizzazioni si considerano solo i beni finali. Ad esempio, le diverse parti intermedie dell’automobile non vanno contabilizzate nel Pil poiché sono già comprese nel valore dell’automobile. Il doppio conteggio viene evitato avvalendosi del concetto di valore aggiunto (differenza fra il prezzo di mercato del bene e il valore di materie prime, prodotti intermedi e semilavorati utilizzati nel processo produttivo). Ad ogni stadio della produzione di un bene viene contabilizzato, come parte del Pil, solo il valore aggiunto al bene in quello stadio di produzione. Il valore della produzione finale è quindi dato dalla somma dei valori aggiunti (differenza tra il valore del prodotto e il costo dei beni intermedi). Ai fini del computo del Pil si considera solo la produzione corrente; vengono perciò escluse le transazioni di beni esistenti quali, ad esempio, la compravendita di abitazioni esistenti. Complicazioni si hanno in relazione al valore da attribuire ai beni e servizi della pubblica amministrazione (istruzione, sanità, difesa, ordine pubblico, ecc.) che sono erogati ai cittadini gratuitamente o a prezzi inferiori a quelli di mercato. Il metodo seguito consiste nel conteggiarli non sulla base di prezzi, ma dei costi che la pubblica amministrazione deve sopportare per erogare i servizi. In questo caso il Pil aumenta se, ad esempio, aumentano gli stipendi dei dipendenti pubblici. b) Il Pil come somma dei redditi – Il Pil può anche essere calcolato come somma dei redditi lordi pagati per l’uso dei fattori produttivi. Le attività produttive che generano beni e servizi sul territorio nazionale sono fonte di reddito, poiché richiedono l’utilizzo di fattori produttivi: i redditi da lavoro dipendente (salari e stipendi), i redditi da lavoro autonomo, le rendite (pagamenti dei servizi connessi all’uso della terra), gli interessi (capitale) e i profitti. c) Il Pil come spesa – Un terzo metodo per calcolare il Pil consiste nel considerare l’uso dei redditi percepiti dai fattori produttivi e cioè la spesa per beni e servizi finali: per beni di consumo e per beni di investimento.

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I consumi sono quelli finali (quelli intermedi non partecipano alla determinazione del Pil), dati dalla somma dei consumi collettivi e di quelli delle famiglie. Gli investimenti comprendono, oltre all’acquisto di beni di produzione ad uso durevole, ovvero le spese per la loro manutenzione straordinaria o riparazione (investimenti fissi), anche la variazione delle scorte (materie prime, semilavorati, beni in attesa di essere venduti), che può essere positiva o negativa. Poiché un sistema economico intrattiene rapporti con l’estero, in aggiunta ai consumi e agli investimenti, occorre tenere conto anche della domanda interna di prodotti stranieri e della domanda estera di prodotti interni, per cui la somma tra Pil (Y) e importazioni (Im) è uguale alla somma dei consumi (C), degli investimenti (I) e delle esportazioni (X), pertanto: Y + Im = C + I + X La somma dei primi due addendi rappresenta il valore dell’offerta di beni e servizi finali (produzione); la somma di C e I rappresenta invece la domanda interna (che può essere superiore o inferiore al Pil) alla quale va aggiunta la domanda estera X, in modo da ottenere la domanda totale finale che dovrebbe essere uguale all’offerta totale. PIL reale e nominale – Nel misurare il valore monetario del Pil usiamo come metro i prezzi di mercato dei vari beni e servizi. Si ottiene così il PIL nominale o a prezzi correnti. Poiché i prezzi variano nel tempo l’incremento del Pil può essere dovuto o ad un aumento della quantità di beni e servizi prodotti o anche ad un aumento dei prezzi. Per valutare se si è avuta una variazione reale del Pil occorre utilizzare dei prezzi costanti, invariabili, si ha così il Pil reale o a prezzi costanti che è il valore dei beni e dei servizi prodotti nell’economia calcolato usando i prezzi di un dato anno base. Dividendo il Pil nominale per il Pil reale si ottiene il deflatore del Pil, che serve per misurare il livello globale dei prezzi. È quindi possibile calcolare il Pil reale dividendo il Pil nominale per il deflatore del Pil Esempio di calcolo del Pil reale Pil nominale Indice dei prezzi (deflatore) Pil reale 1938 153 100 (153/100) · 100 = 153 1942 283 196 (283/196) · 100 = 144

Pil pro capite - Il valore assoluto del Pil misura il peso e l’importanza economica di uno Stato, mentre il rapporto fra il Pil e la popolazione, cioè il pil pro capite, rappresenta l’indicatore del tenore materiale di vita

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di un paese, ed è spesso utilizzato per misurare il grado di benessere della popolazione di un paese, comparato agli altri paesi. Perché i diversi dati siano comparabili deve essere espresso in termini di una moneta usata internazionalmente come l’euro o il dollaro. Questo indice non sempre rappresenta in maniera corretta il benessere di un paese, soprattutto quando si confrontano paesi economicamente e culturalmente molto diversi: - le attività economiche che non creano redditi monetari non sono tenute in considerazione; - il reddito pro capite non indica la distribuzione del reddito all’interno del paese; - le differenti valute dei vari paesi convertite ad una valuta internazionale riconosciuta non sempre rispettano correttamente i poteri di acquisto reali delle monete. Per fare fronte al problema dei poteri di acquisto reali delle monete, di solito si fa riferimento alla parità dei poteri di acquisto (ppa) in modo da tener conto del diverso costo della vita dei diversi paesi. Prodotto potenziale – E’ importante distinguere il prodotto corrente o attuale (Pnl o Pil) dal prodotto potenziale o prodotto di pieno impiego, che è il massimo prodotto che un’economia potrebbe produrre se tutti i fattori della produzione fossero pienamente occupati. Il prodotto potenziale tende a crescere nel tempo quando crescono le quantità di fattori disponibili. Se il prodotto corrente di un sistema economico dovesse essere inferiore al prodotto potenziale si avrebbe disoccupazione e le imprese avrebbero capacità produttiva in eccesso. I limiti del Pil e gli indicatori alternativi - Il Pil misura l’andamento di un’economia, se questa cresce o ristagna, ma non il livello di benessere della società. Esso è oggetto di rilevanti distorsioni contabili: a) gli acquisti pubblici di beni e servizi sono valutati al loro costo di produzione, di modo che i troppi impiegati di uno Stato clientelare risultano per i loro stipendi, anche se non fanno nulla; b) per rimediare ai danni ambientali vengono spese ingenti somme di denaro che fanno aumentare il Pil; c) nulla dice del cambiamento della composizione del prodotto sociale (più burro, meno cannoni), né della distribuzione tra le famiglie (più equità). Più in generale, il Pil tiene conto solo delle transazioni in denaro, trascura quelle a titolo gratuito.

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Il Pil prende in considerazione solo i valori che i beni e servizi assumono nel mercato, per cui non vengono contabilizzati i servizi che si svolgono in un regime di autoconsumo e autoproduzione. Ad esempio, il lavoro delle casalinghe non concorre a determinare il Pil. Ugualmente, non entrano nel conteggio del prodotto nazionale le attività di volontariato. Un ulteriore problema è costituito dal lavoro nero, dalla cosiddetta economia sommersa comprendente tutte le attività che non vengono dichiarate ufficialmente per evitare il pagamento di imposte o contributi, o perché illegali. L’emersione del lavoro nero ha un duplice effetto: aumentare il prodotto nazionale e le entrate fiscali dello Stato. Inoltre, il Pil trascura il capitale sociale (la qualità delle istituzioni), la distribuzione del reddito, l’esclusione sociale, il livello di salute della popolazione, il livello di inquinamento, ecc. Il Pil tratta tutte le transazioni come positive. Nel calcolo del Pil non si tiene conto di importanti fattori negativi: l’esaurimento delle risorse naturali e l’inquinamento, o problemi come la congestione del traffico. I limiti messi ora in evidenza fanno sì che il Pil sia una misura imperfetta del benessere economico. Ad esempio, il Pil dovrebbe essere aggiustato per considerare il valore del tempo libero. Se la produzione diminuisce perché le persone preferiscono lavorare meno, ciò non necessariamente costituisce una segno che esse stiano peggio. A causa di questi limiti, e di altri ancora, recentemente si è sviluppato un intenso dibattito multi-disciplinare che ha portato alla creazione di numerosi indici di benessere o di crescita, alternativi al Pil. Il Pil deve essere integrato con indicatori legati a dimensioni non economiche del benessere. Ad esempio, l’Indicatore del benessere interno lordo (BIL), elaborato dall’Organizzazione per la cooperazione e sviluppo economico (Ocse), considera parametri oggettivi come le politiche per la casa, il reddito medio, il lavoro, il rendimento scolastico, l’ambiente, la stabilità politica e la salute; e parametri soggettivi come le relazioni sociali, il grado di soddisfazione personale e sul lavoro e il sentimento di sicurezza. Il Genuine Progress Indicator (Indicatore del progresso reale) distingue con pesi differenti tra spese positive (perché aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi) e spese negative (come i costi della criminalità, l’inquinamento, gli incidenti stradali). L’Indice di sviluppo umano (Human development index), sviluppato dalle Nazioni Unite per valutare la qualità di vita nei paesi membri, fa riferimento a vari fattori: indice di aspettativa di vita, indice di educazione, livello di

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istruzione degli adulti, indice lordo di iscrizioni scolastiche, indice Pil pro capite. Infine, l’Indice di felicità (Growth national happiness) tiene conto dei fattori soggettivi che incidono sul benessere degli individui che non siano il reddito e la ricchezza.

6.1. Il reddito nazionale. Il concetto simmetrico a quello di prodotto nazionale è quello di reddito nazionale che è pari al valore del prodotto (le entrate derivanti dalla vendita della produzione devono affluire a qualcuno sotto forma di reddito). Il reddito nazionale è così dato dalla somma dei redditi percepiti dai proprietari dei fattori produttivi (salari, rendite, interessi netti e utili delle aziende) in un determinato periodo di tempo (non si computano quindi i redditi guadagnati all’interno da operatori non residenti; per contro si considerano i redditi guadagnati all’estero da operatori residenti). I principali indicatori di reddito sono il Reddito nazionale disponibile (Rnd) e il Reddito personale disponibile(Rpd). Il reddito nazionale disponibile (Rnd) rappresenta il totale dei redditi ricevuti dai fattori lavoro, capitale e terra, mentre il reddito personale disponibile misura solo la parte di reddito che va alle famiglie (e non alle società o alla pubblica amministrazione). Per calcolare quest’ultimo aggregato occorre considerare i redditi ricevuti dalle famiglie al netto delle imposte dirette e dei contributi pagati dalle persone cui vanno aggiunti i trasferimenti che le famiglie ricevono dalla pubblica amministrazione. Il reddito disponibile e dunque ciò che effettivamente viene utilizzato dalle famiglie e che viene suddiviso tra consumi e risparmi. 6.2. Il costo della vita, l’indice dei prezzi al consumo e il tasso di inflazione. Uno degli indicatori che permette di valutare la salute di un sistema economico è il “livello generale dei prezzi”. Esistono vari indici del livello dei prezzi: generali, quali il deflatore implicito del Pil, parziali, riferiti a particolari insiemi o panieri di beni, quali l’indice dei prezzi al consumo o l’indice dei prezzi alla produzione.

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Nel corso del tempo il livello generale dei prezzi tende ad aumentare e la sua variazione viene misurata tramite il tasso di inflazione, che è l’aumento del livello generale dei prezzi verificatosi in un certo arco di tempo, misurato in termini percentuali. Per contro, la deflazione è il fenomeno opposto all’inflazione: si tratta infatti di una riduzione del livello generale dei prezzi. Per valutarne il tasso di inflazione e cioè l’incremento generale dei prezzi in termini percentuali di solito si fa riferimento all’indice dei prezzi al consumo (Ipc) che, come il deflatore del Pil, ci permette di calcolare l’aumento dei prezzi di un dato paniere di beni e servizi rappresentativo degli acquisti di un consumatore urbano medio in un dato periodo base. Di solito, l’indice dei prezzi al consumo e il deflatore del Pil danno valori analoghi, ma ci sono almeno due ordini di cause che possono provocare una discrepanza sensibile tra loro. La prima è dovuta al fatto che il deflatore del Pil riflette i prezzi di tutti i beni e servizi prodotti internamente, mentre l’indice dei prezzi al consumo fa riferimento ai beni e servizi acquistati dai consumatori. La seconda differenza riguarda il fatto che l’indice dei prezzi al consumo si fonda su un paniere costante di beni e servizi, e solo occasionalmente l’Istat ne modifica la composizione (questo è l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale che misura il prezzo di un paniere composto da circa 500 beni e servizi); il deflatore del Pil, invece, mette a confronto il prezzo dei beni e servizi di produzione corrente con quello che questi stessi beni avrebbero avuto nell’anno base, quindi il paniere su cui si basa cambia automaticamente nel tempo. L’Ipc misura le variazioni del costo della vita nel tempo. Se aumenta, occorre spendere una quantità maggiore di denaro per acquistare la stessa quantità di beni. Esso cerca di stabilire di quanto debbano aumentare i redditi per poter mantenere inalterato il tenore di vita. Inoltre, poiché l’Ipc rende possibile un raffronto tra i valori del livello generale dei prezzi nei vari periodi, consente anche di misurare il tasso di inflazione. Ad esempio, se il valore dell’indice dei prezzi al consumo nel novembre 2007 era di 145,3 e nel novembre 2006 era 141,6, il tasso di inflazione del 2007 espresso in termini percentuali, è dato dal rapporto tra la variazione nel livello dei prezzi e il livello dei prezzi iniziale, moltiplicato per 100: [(145,3 – 141,6) / 141,6] x 100 = 2,61%. In Italia le rilevazioni del livello generale dei prezzi vengono effettuate dall’Istat che, oltre a calcolare l’indice dei prezzi al consumo (Ipc), computa anche altri indici quali: l’indice del costo della vita, o indice dei

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prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati; l’indice dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali, che si riferisce ai prezzi che si determinano nelle transazioni che si svolgono sul mercato interno in cui il venditore è un produttore di beni industriali; l’indice dei prezzi dei prodotti agricoli; l’indice dei prezzi praticati dai grossisti, denominato indice dei prezzi all’ingrosso, ecc. Una possibile misura del tasso di inflazione è l’inflazione congiunturale (Tic) che è ottenuto confrontando il dato dell’indice dei prezzi al consumo (Ipc) dell’ultimo mese disponibile con quello del mese immediatamente precedente: Tic = [(IPCt – IPCt-1) /IPCt-1 ] x 100 Questa misura è scarsamente affidabile poiché risente della stagionalità della variazione delle variabili economiche. Una misura alternativa a quella congiunturale è il tasso di inflazione tendenziale (Tit) che viene calcolato confrontando il dato dell’indice dei prezzi al consumo dell’ultimo mese disponibile con quello relativo allo stesso mese dell’anno precedente: Tit = [(IPCt – IPCt-12) /IPCt-12 ] x 100 Poiché i dati IPCt-12 che vengono confrontati si riferiscono allo stesso periodo stagionale, la crescita dei prezzi risulta depurata della stagionalità delle variabili economiche. L’Istat calcola anche un tasso di inflazione medio annuo (Tima); è sufficiente calcolare il rapporto in termini percentuali tra la variazione del deflatore del Pil e il deflatore dell’anno di base: Tima = [(DPIL1996 - DPIL1995 / DPIL1995 ] x 100 Il tasso di inflazione non va confuso con il concetto di potere d’acquisto della moneta: la quantità di beni e servizi che si può acquistare con una data somma di denaro. Le variazioni del potere d’acquisto sono una diretta conseguenza dell’inflazione. Infatti, se i prezzi raddoppiano, il potere d’acquisto del denaro si dimezza. Supponiamo che si abbia un tasso di inflazione del 25%. Mediante il coefficiente di inflazione, il rapporto tra il livello attuale dei prezzi e quello iniziale, che è 1,25, siamo in grado di sapere quale è stata la perdita del potere di acquisto della moneta: 1/1,25 = 0,8 è il potere d’acquisto residuo della moneta. Il denaro ha perduto lo 0,2 su 1 e cioè moltiplicando 0,2 per 100 si ottiene 20. Pertanto 20% è la perdita di potere d’acquisto determinata da un’inflazione del 25%. Le considerazioni che abbiamo ora effettuato ci permettono di passare dalle grandezze nominali a quelle reali. E’ sufficiente dividere la

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grandezza espressa in termini nominali per il livello dei prezzi per ottenere quella reale. Questo nuovo valore ci permette di conoscere il valore vero della grandezza, quello reale, depurato dagli effetti della variazione del valore della moneta. Ad esempio, l’aumento del reddito a disposizione della società non determina necessariamente un aumento del benessere; può infatti non essere reale, ma dovuto semplicemente ad un aumento dei prezzi.

6.3. Altri indicatori di mercato. Come già anticipato gli indicatori sono molteplici; in aggiunta a quelli descritti nei paragrafi precedenti occorre considerare quelli riguardanti il mercato del lavoro, il mercato finanziario, quello estero e il settore pubblico. Di seguito ne prendiamo in considerazione solo alcuni tralasciando quelli del settore pubblico; essi verranno descritti nel capitolo 8. Occupazione - Le condizioni del mercato del lavoro sono misurate dal tasso di attività e dal tasso di occupazione Il tasso di attività o di partecipazione è dato dal rapporto tra forza lavoro (numero di persone adulte di età compresa tra 15 anni e l’età pensionabile, esclusi gli studenti a tempo pieno, che sono occupate o disoccupate) e popolazione in età lavorativa. Esso misura come il sistema economico è in grado di sfruttare la propria “capacità potenziale” di lavoro. Il tasso di inattività mostra invece la percentuale di persone residenti (sul totale) che non lavorano (o per scelta come gli studenti e le casalinghe o perché troppo anziani). Il rapporto dipende da molti fattori: demografici, sociali e culturali. Il progressivo invecchiamento della popolazione, per effetto dell’allungamento della vita media, fa aumentare il numero della popolazione inattiva e diminuisce la forza lavoro. Ugualmente, il prolungamento della durata della vita media degli studi fa ritardare l’ingresso sul mercato del lavoro dei giovani con l’effetto di diminuire la forza lavoro. Per contro, la crescita dell’occupazione femminile ha un effetto contrario, così come l’immigrazione. Tasso di attività = [Forza lavoro (occupati + disoccupati) /popolazione residente ] x 100

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Tasso inattività = [popolazione non attiva (casalinghe, studenti, ritirati dal lavoro, infermi, inabili, ecc.) /popolazione residente] x 100 Il tasso di attività non va confuso con quello di occupazione: il primo si riferisce alle persone che lavorano o che cercano lavoro mentre quello di occupazione si riferisce alle persone che lavorano. Quello di disoccupazione si riferisce invece alle persone che vorrebbero lavorare ma non trovano impiego. Il tasso di inattività in Italia, e cioè la percentuale di persone in età lavorativa (16-64 anni) che non lavorano e non cercano lavoro, è molto elevato: nel 2013 era di 36,6% rispetto ad una media europea del 26,4%. Tasso di occupazione = [Occupati (15-64) – popolazione (15-64) / popolazione] x 100. Tasso di disoccupazione = (Forza lavoro - Occupazione)/Forza lavoro (numero persone di età compresa tra 15 anni e età pensionabile) Il tasso di disoccupazione è quello su cui si basa il dibattito economico, rappresenta infatti la disoccupazione espressa come percentuale delle forze lavoro (occupati, disoccupati e soggetti in cerca di prima occupazione) La disoccupazione può assumere varie connotazioni.. Si può avere disoccupazione frizionale dovuta al normale alternarsi delle forze di lavoro. Quando le persone che lasciano un impiego volontariamente o involontariamente rimangono disoccupate, in cerca di un nuovo impiego. Il concetto di disoccupazione frizionale è importante in rapporto alla definizione di piena occupazione. Con quest’ultimo termine si fa infatti riferimento non a una situazione senza disoccupazione, ma ad una situazione con disoccupazione frizionale. Si può anche avere disoccupazione ciclica o congiunturale oppure disoccupazione strutturale. La prima è una disoccupazione di breve periodo e si determina quando la domanda complessiva di lavoro è scarsa perché il momento congiunturale è sfavorevole. Si manifesta durante le fasi di recessione economica. Quella strutturale è dovuta a fasi di ristrutturazione del sistema economico e colpisce interi settori industriali o aree geografiche e si manifesta con squilibri permanenti tra domanda ed offerta di lavoro. I mercati finanziari e i tassi di interesse - Altri indicatori volti a mettere in luce la solidità del sistema economico riguardano i mercati finanziari, in particolare i vari tassi di interesse che in essi vengono praticati. Il tasso di interesse è il prezzo che si paga per ottenere la

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disponibilità di moneta è cioè il costo del denaro. Importante è il tasso di interesse attraverso il quale la Banca centrale finanzia il sistema bancario: il tasso di interesse attraverso il quale la Banca centrale presta denaro alla banche oppure remunera il denaro depositato dalle banche. I tassi praticati dalla Banca centrale si ripercuotono infatti sui tassi di interesse applicati dalle banche nei prestiti della clientela privata e alle imprese. Un altro tasso di interesse è quello interbancario che è il tasso praticato dalle banche per i prestiti che intercorrono tra di loro (cfr. cap. 5). Le relazioni economiche con il resto del mondo - Importante è capire il grado di apertura di un Paese verso l’estero. Questo ci viene fornito da due rapporti: importazioni/Pil ed esportazioni/Pil. Le informazioni necessarie per calcolare questi indicatori sono contenute nella bilancia dei pagamenti. Che è un prospetto contabile che registra tutte le operazioni di natura economica che i residenti di un Paese effettuano con operatori economici residenti nel Resto del mondo. Queste operazioni hanno natura eterogenea e possono riguardare, tra le altre, transazioni commerciali di tipo reale e o di tipo finanziario. Importante è il saldo globale o complessivo della bilancia dei pagamenti poiché permette di capire che cosa succede al tasso di cambio. Se il saldo è negativo significa infatti che si ha un eccesso di importazioni sulle esportazioni e quindi si ha una richiesta di moneta estera sul mercato delle valute e quindi un deprezzamento della nostra moneta. Viceversa, un eccesso delle esportazioni sulle importazioni significa una domanda della nostra moneta e quindi un apprezzamento del nostro tasso di cambio (cfr. cap. 4).

7. Problemi di metodo. Per analizzare i problemi elencati in precedenza abbiamo bisogno di un metodo di indagine e, data la complessità dei fenomeni economici all’esame, si ricorre all’uso di modelli economici che li descrivono in modo semplificato mediante un insieme di relazioni quantitative che mettono in relazione le variabili economiche (Appendice II). Le variabili possono essere distinte in: (a) variabili endogene, che variano al variare delle altre variabili del modello (ad esempio, il livello

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dei consumi varia al variare del reddito) e rappresentano l’incognita del modello; (b) variabili esogene, che sono rappresentate da grandezze economiche che non possono essere controllate dalle autorità di governo. Sono un dato esterno al modello. Ad esempio, nella relazione tra numero di case vendute e reddito disponibile, il reddito è una variabile esogena, mentre il numero di case vendute è endogena: all’aumentare del reddito il numero di case vendute aumenta; (c) variabili strumentali, che sono controllate autonomamente dalle autorità di governo, esse sono infatti date dai mezzi della politica economica utilizzati per raggiungere gli obiettivi prefissati dal governo (ad esempio, l’offerta di moneta, la spesa pubblica, la politica fiscale, ecc.). In modo abbastanza simile le variabili si distinguono tra variabili dipendenti (o endogene) e variabili indipendenti. La vendita di computer dipende dal reddito nazionale: la variabile dipendente è ovviamente il numero di computer, mentre il reddito rappresenta la variabile indipendente. Un’altra distinzione riguarda le variabili stock e le variabili flusso. Uno stock è una grandezza misurata a istanti diversi di tempo (ad esempio la ricchezza di un individuo al 31-12 di un dato anno). Un flusso è invece il tasso al quale una grandezza stock varia per unità di tempo. Un’ultima distinzione a cui faremo riferimento nel testo è quella fra grandezze nominali o monetarie e grandezze reali. Le grandezze economiche, quali ad esempio la produzione o il consumo, possono essere espresse in termini monetari (€, $, £). La loro variazione può essere determinata dal variare del valore della moneta poiché sono variati i prezzi o dall’incremento della produzione o del consumo. Per isolare l’effetto dovuto alla variazione dei prezzi si considerano le grandezze reali: ciò significa che per ogni grandezza considerata, si calcola quanto sarebbe variata nell’ipotesi in cui i prezzi non fossero cresciuti, ma fossero rimasti allo stesso livello di un determinato anno, assunto come base di riferimento. Equilibrio – L’equilibrio indica una situazione in cui i valori delle variabili che vengono prese in considerazione non presentano alcuna tendenza a cambiare nell’ambito del periodo di tempo preso in esame. Un equilibrio può essere parziale o generale, statico o dinamico, di breve o di lungo periodo. L’equilibrio economico parziale analizza le relazioni esistenti in un singolo mercato, ipotizzando che quanto avviene

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in quel mercato non influenzi i prezzi dei beni negli altri mercati (condizione coeteris paribus). L’analisi della domanda e dell’offerta, sia nei mercati dei prodotti che in quelli delle risorse, può servire a ricostruire i numerosi aggiustamenti provocati da variazioni delle domanda e dell’offerta in un singolo mercato. Tuttavia, il sistema economico è costituito da un insieme di mercati. Il sistema economico non è semplicemente la somma di tanti singoli mercati, distinti e separati. Al contrario, è una complessa rete di prezzi, in cui i cambiamenti che avvengono in un mercato possono provocare una serie di mutamenti in altri mercati. L’analisi di equilibrio generale fornisce una visione complessiva, o di insieme, delle interconnessioni esistenti fra i vari mercati. Rispetto all’analisi di equilibrio parziale, quella di equilibrio generale fornisce un panorama molto più completo degli effetti di particolari eventi o decisioni di politica economica. L’equilibrio economico statico comporta che tutti i valori di un modello siano rapportati alla stessa unità di tempo. Per la determinazione di tale equilibrio l’analisi economica adotta una tecnica detta di statica comparata, consistente nel confrontare diverse posizioni di equilibrio sotto condizioni di mercato diverse. L’equilibrio economico dinamico determina la posizione del mercato tracciando il percorso di mutamento che i fenomeni economici hanno subito nel passaggio da un equilibrio all’altro. Analisi positiva e analisi negativa - L’analisi dei problemi elencati può essere condotta sia da un punto di vista positivo, sia dal punto di vista normativo. Le analisi positive non formulano giudizi sul fenomeno che è sotto esame; si propongono di descrivere la realtà come essa è. Al contrario, l’analisi normativa produce affermazioni che contengono giudizi di valore. Essa studia come dovrebbe essere la realtà. Ad esempio, una convinzione normativa è che la collettività dovrebbe farsi carico delle persone con reddito basso. L’analisi positiva dovrebbe invece indicarci le soluzioni per risolvere il problema degli individui con reddito basso: se introdurre un salario minimo, o erogare un sussidio, o introdurre un’imposta progressiva sul reddito o, ancora, un’imposta negativa sul reddito. La distinzione tra analisi positive e analisi normative trova una corrispondenza nella suddivisione della scienza economica in due discipline diverse, ma collegate tra loro: l’economia politica e la politica economica. L’economia politica è costituita da un complesso di

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leggi, regole di comportamento che hanno natura positiva, ossia descrivono e analizzano la realtà economica com’è, in base all’approccio microeconomico e macroeconomico. La politica economica si occupa invece di come dovrebbe funzionare il sistema economico e quindi delle condizioni che giustificano l’intervento pubblico nell’economia quando il funzionamento del sistema economico si discosta dal sentiero che si ritiene ottimale. Essa definisce gli obiettivi da raggiungere, suggerisce gli strumenti da utilizzare e analizza gli effetti che derivano dal loro utilizzo. Nei capitoli che seguono ci occuperemo dei problemi elencati sia in base all’approccio positivo, sia a quello normativo. L’orizzonte temporale: breve e lungo periodo – Le variabili possono assumere comportamenti diversi a seconda dell’orizzonte temporale entro il quale sono osservate. Per questa ragione si distingue tra analisi di breve e di lungo periodo. Queste categorie temporali non hanno una durata rigidamente determinata, ma sono individuate dai comportamenti delle variabili stesse. Il breve periodo si contraddistingue per il fatto che l’impresa può rispondere solo parzialmente alle variazioni della domanda con un aumento della propria capacità produttiva. L’impresa può, tra i fattori di produzione a sua disposizione, accrescere la sola quantità di quelli variabili (ad esempio il lavoro) e utilizzare in modo più intensivo gli impianti esistenti (fattori fissi). Nel lungo periodo l’impresa riesce ad adeguare la propria capacità produttiva alle mutate condizioni della realtà economica (ad esempio aumentando la dotazione di fattori fissi). La distinzione tra breve e lungo periodo varia da settore a settore. Analisi marginale – Le attività economiche generano dei benefici ma anche dei costi. Occorre cercare di rendere massimi i benefici netti e cioè la differenza fra benefici e costi. I benefici netti crescono fino a che l’incremento dei benefici, i benefici marginali (aggiuntivi), sono superiori ai costi marginali. In particolare, sono massimi quando il beneficio marginale è uguale al costo marginale. Questo concetto si applica ad ogni decisione o transazione economica. L’incremento marginale diventa la base del metodo di analisi dei problemi economici: costi marginali, benefici marginali.

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Appendice I: L’evoluzione del pensiero economico. La soluzione che viene proposta dalla teoria economica ai problemi economici descritti nel primo paragrafo del capitolo non è sempre univoca. Essa varia in base agli approcci teorici che si sono sviluppati nel tempo. Teoria classica – Il principale teorizzatore del sistema di mercato, al quale si fa risalire la nascita dell’economia come disciplina scientifica autonoma, è Adam Smith (1723-1790). Altri esponenti di questa corrente di pensiero sono Thomas Robert Malthus (1766-1834), David Ricardo (1772-1823), John Stuart Mill (1806-1873), Karl Marx (1818-1883). Nella visione degli economisti classici il sistema economico è retto da leggi naturali che, se non intervengono fattori perturbatori esterni, ne garantiscono lo sviluppo armonico. Adam Smith nella sua opera fondamentale, Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), spiega come il perseguimento da parte degli individui dell’interesse personale in un’economia di scambio garantisce l’armonia sociale. Nel sistema di mercato “ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era parte delle sue intenzioni”, e questo fine è proprio il benessere collettivo. È questo il cosiddetto teorema smithiano della mano invisibile. Il teorema funziona perché gli imprenditori cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo esattamente le merci che i consumatori desiderano. Inoltre, essi cercheranno di adottare metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre il costo al minimo, ed essere quindi più competitivi rispetto ai concorrenti. La riduzione dei costi fa sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili, il che garantirà sviluppo e benessere. Secondo Smith all’origine degli aumenti della ricchezza c’è la divisione del lavoro; essa permette di aumentare l’abilità del lavoratore. La divisione del lavoro è però limitata dall’estensione del mercato e può essere intensificata solo con la sua espansione. A sua volta, il mercato è tanto più esteso quanto più sviluppato sono i sistemi di trasporto e di comunicazione, quanto più diffusi sono gli strumenti creditizi e monetari e quanto più intensa è la crescita del volume di produzione. Nelle economie di mercato opera dunque un circolo virtuoso: divisione del lavoro, crescita della produzione, allargamento dei mercati, intensificazione della divisione del lavoro, aumento della produttività del lavoro, crescita della produzione, e così via. I classici sono in genere favorevoli alla politica del laissez faire (liberismo); un ordine economico può realizzarsi solo attraverso il libero esplicarsi delle iniziative individuali. Lo Stato deve limitarsi a intervenire nei soli settori della difesa, della giustizia e dell’ordine pubblico. Teoria neoclassica – A causa delle difficoltà analitiche del pensiero economico classico, nella seconda metà del diciannovesimo secolo si afferma una nuova concezione teorica dell’economia classica: l’economia neoclassica, detta anche marginalista perché il suo metodo di analisi si basa sulla misurazione degli incrementi marginali delle variabili economiche analizzate. L’economia neoclassica è influenzata dall’utilitarismo, la teoria filosofica legata agli scritti di Jeremy Bentham (1748-1832). Ogni motivazione umana può ricondursi ad un solo principio: il desiderio di massimizzare l’utilità. Il secondo principio della

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concezione benthamiana è che gli esseri umani sono fondamentalmente individualisti. Individualismo atomistico e utilitarismo diventano così gli elementi su cui si basa la teoria neoclassica, che diventa la teoria economica dominante verso la fine del XIX secolo. Il modello neoclassico dimostra l’ottimalità, per una data distribuzione delle risorse, della soluzione concorrenziale. Gli individui esprimono le loro scelte e stabiliscono tra loro relazioni economiche in un mercato non condizionato da interventi esterni come, ad esempio, quello dello Stato. Quest’ultimo garantisce l’eguaglianza formale di tutti gli individui di fronte alla legge, mentre il mercato garantisce agli individui pari opportunità. L’ipotesi fondamentale, che è alla base del comportamento degli individui, è che essi si comportano in modo razionale. Ogni individuo è consapevole dei propri obiettivi, delle condizioni di mercato e, dato un bilancio a disposizione, cerca di massimizzare la propria soddisfazione: l’utilità nel caso dei consumatori, i profitti nel caso dei produttori. Un punto fondamentale dei neoclassici è la totale fiducia nei confronti delle forze di mercato. Le sole forze della domanda e dell’offerta, attraverso i meccanismi dei prezzi, sono in grado di garantire l’equilibrio e il regolare funzionamento dei mercati, escludendo la possibilità che vi siano beni o risorse inutilizzate. Pertanto, la nuova teoria riafferma i principi cardini del liberismo. La teoria keynesiana – In seguito al giovedì nero del 24 ottobre 1929, allorché la borsa di New York subì un tracollo delle quotazioni, creando fallimenti e disoccupazione, la fiducia nel mercato in grado di autoregolamentarsi venne meno o comunque suscitò grandi perplessità. Si fece strada una nuova corrente di pensiero, dovuta soprattutto all’opera di John Maynard Keynes (cfr. cap. 6). La teoria keynesiana prevede un ruolo fondamentale dello Stato. Nel caso di crisi economiche occorre adottare adeguate politiche di stabilizzazione al fine di sostenere la produzione e con essa la piena occupazione. Keynes proponeva dunque l’abbandono del laissez-faire. I classici trascuravano un punto fondamentale e cioè che il numero di occupati dipende dalla domanda effettiva di merci. Le imprese assumono solo i lavoratori necessari a produrre la quantità di merci effettivamente domandata e cioè la quantità di merci che può essere venduta. Questo è il principio della “domanda effettiva” alla base della teoria keynesiana. Se la domanda effettiva è bassa le imprese assumeranno pochi lavoratori e vi sarà quindi disoccupazione per cui per cercare di eliminarla occorre aumentare la domanda di beni mediante, ad esempio, l’intervento pubblico e cioè la spesa pubblica. Le nuove teorie – Con l’affermarsi della teoria keynesiana si è avuta un’eccessiva appropriazione di risorse da parte dello Stato, con la conseguenza di un’utilizzazione inefficiente di queste risorse sottratte all’iniziativa privata la quale non è stata più in grado, per mancanza di incentivi oltre che di mezzi, di promuovere lo sviluppo sostenuto del sistema economico. Negli anni cinquanta del secolo scorso si è sviluppata una nuova scuola, detta “sintesi neoclassica”, portatrice di una soluzione di compromesso tra la teoria neoclassica e quella keynesiana: il principio della “domanda effettiva” determina i livelli della produzione e dell’occupazione nel breve periodo, mentre nel lungo periodo è l’equilibrio naturale del mercato del lavoro a determinare i livelli dell’occupazione. L’idea di fondo è che le oscillazioni della domanda possono in effetti provocare cambiamenti continui nella produzione e

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nell’occupazione, ma ciò può avvenire solo nel breve periodo. Nel lungo periodo le forze del mercato dovrebbero comunque condurre l’economia al suo equilibrio naturale di piena occupazione. Gli interventi dello Stato possono però essere di aiuto per accelerare la convergenza del sistema economico verso il suo equilibrio naturale. Altre nuove teorie si sono affermate successivamente che si differenziano principalmente per il ruolo che viene assegnato allo Stato: il monetarismo, l’economia dell’offerta, la nuova macroeconomia classica. In genere queste teorie riprendono gli argomenti tipici del liberismo economico e ritengono che il perfetto funzionamento del mercato conduca inevitabilmente alla piena occupazione e alla crescita globale del sistema economico. L’idea di fondo è che i mercati grazie al meccanismo dei prezzi sono sempre in equilibrio. Sul fronte opposto troviamo i neokeynesiani, i quali si collocano su posizioni anche molto diverse rispetto alla teoria keynesiana originaria; comunque essi mantengono l’opinione che sia necessario l’intervento da parte dello Stato per correggere gli squilibri dei mercati.

Appendice II: La rappresentazione dei dati economici I grafici sono un mezzo efficace per illustrare le relazioni tra le grandezze economiche. Due variabili sono legate da una relazione diretta se all’aumentare della prima anche la seconda aumenta (esse sono rappresentate da una curva crescente). Per contro, due variabili sono legate da una relazione inversa se all’aumentare della prima la seconda diminuisce, e viceversa (esse sono rappresentate da una curva decrescente). Ad esempio, si può esprimere la relazione tra reddito e consumo mediante una retta crescente: poiché il reddito è il fattore determinante (la variabile indipendente) esso verrà rappresentato sull’asse orizzontale del grafico, mentre il consumo, la variabile dipendente, verrà rappresentato sull’asse verticale. La retta è crescente perché esprime una relazione diretta o positiva: le due variabili si muovono nella stessa direzione (se si verifica un aumento del reddito si ha anche un aumento del consumo). Per contro, se si ha una relazione negativa e cioè una relazione inversa, come nel caso tra prezzo del biglietto del tram e numero di persone trasportate, la retta è decrescente. Importante è stabilire quale sia la “causa” e quale “l’effetto”; per usare termini più precisi occorre determinare quale sia la variabile indipendente e quale la variabile dipendete. Per definizione la variabile dipendente è “l’effetto” e la variabile indipendente “la causa”. Negli esempi il reddito è la variabile indipendente e il consumo la variabile dipendente; il prezzo del biglietto la variabile indipendente e il numero di persone trasportate la varabile dipendente. In matematica la variabile indipendente (la causa) si rappresenta sempre sull’asse orizzontale, mentre la variabile dipendete (l’effetto si rappresenta verticale. In economia non è sempre così. Per quanto riguarda la relazione tra reddito e consumo si utilizza il criterio seguito in matematica, per contro si è soliti indicare i dati riguardanti il prezzo o al costo sull’asse verticale (variabile indipendente) e le quantità (il numero di persone trasportate) sull’asse orizzontale.

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La rappresentazione grafica di una funzione lineare – In genere un’equazione lineare è del tipo Y = a+bX dove Y è la variabile dipendente, X la variabile indipendente, a è l’intercetta con l’asse verticale (quando X assume valore zero) e b è la pendenza della retta (indica la misura della variazione di Y ogni volta che X varia di una unità). Se b è un numero positivo, un incremento unitario di X provoca un incremento di Y pari a b unità, quindi il grafico sarà inclinato verso l’alto; se b è un numero negativo, allora un incremento unitario di X provocherà una diminuzione di Y pari a b unità, quindi il grafico sarà discendente. Ovviamente b potrebbe essere pari a zero, quindi un incremento unitario di X non provocherebbe alcuna variazione di Y e il grafico della retta sarebbe orizzontale. Il valore di a non ha effetti sulla pendenza del grafico, mentre ne determina la posizione. Quando a è un numero positivo, il grafico interseca l’asse verticale delle Y al di sopra dell’origine. Quando a è negativo, invece, il grafico interseca l’asse delle Y al di sotto dell’origine. Quando a è pari a zero il grafico interseca l’asse delle Y proprio nell’origine. Consideriamo le seguenti relazioni funzionali: Y = 0,5X; Y = X; Y = 2X. Queste funzioni sono rappresentate graficamente in un sistema di assi cartesiani da linee rette. Tutte le rette passano per l’origine, poiché se poniamo X=0 in ognuna delle relazioni funzionali anche Y risulta pari a zero. La rappresentazione grafica di una funzione non lineare - Molte delle relazioni economiche non sono lineari e, in questi casi, la relazione sarà rappresentata graficamente da una qualche espressione più complessa di quella utilizzata per una linea retta. Ad esempio la relazione tra spesa per pubblicità e fatturato è rappresentata da una linea curva poiché all’aumentare della spesa per pubblicità il fatturato aumenta, ma il suo incremento diminuisce sempre più; ciò significa che la pendenza varia mentre ci muoviamo lungo la curva, diventando sempre minore. In questo caso poiché la pendenza di una curva è diversa in ogni suo punto, possiamo misurare la pendenza non della curva ma di un suo punto specifico. Per fare ciò tracciamo una linea retta tangente nel punto dato, ossia una linea retta che tocca la curva solamente in quel punto e che ha la stessa pendenza della curva in tale punto. In questo caso la pendenza della curva è data dalla pendenza della retta ed è uguale all’angolo compreso tra la retta e qualunque retta parallela all’asse delle X. Maggiore è il rapporto ΔY/ ΔX, maggiore è la pendenza del grafico della funzione. Due esempi di relazioni non lineari molto utilizzate sono: Y = a+bX+cX2 ; Y = a/X2. Il primo esempio rappresenta una parabola, che può assumere differenti posizioni e la cui forma dipende dal segno e dal valore di a, b e c. Il secondo esempio rappresenta un’iperbole rettangolare qualora poniamo b=1, e allora la posizione è determinata dal valore di a. Valori marginali e rapporti incrementali - La teoria economica utilizza spesso concetti “marginale”: il costo marginale, il ricavo ,marginale, la propensione marginale al consumo, ecc. Marginale fa riferimento al verificarsi di una piccolissima variazione rispetto alla situazione di partenza. Il termine marginale si riferisce a relazioni funzionali: la variabile indipendente X determina la variabile dipendente Y e, se vogliamo sapere come si modificherebbe Y, nel caso in cui X variasse di una piccola quantità rispetto al valore attuale, la soluzione a questo

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problema misura il valore marginale di Y, che assume nomi diversi a seconda delle variabili indicate con X e Y. Esistono due modi per misurare il valore marginale di Y. Il primo, quello più esatto, richiede il ricorso al calcolo differenziale; il secondo si basa sul rapporto incrementale tra le variabili. Esempio: consideriamo il ricavo totale derivante dalla vendita della produzione R = R(Q). Il concetto marginale è il ricavo marginale, il quale fa riferimento alla variazione dl ricavo totale, in seguito a una piccolissima variazione delle vendite rispetto all’attuale livello. Utilizzando il concetto di derivata e del calcolo differenziale, che si indica generalmente con il simbolo dY/dX e, nel caso specifico della funzione R=R(Q), si avrà dR/dQ, che misura la variazione di R conseguente a variazioni di Q, in corrispondenza di un determinato punto sulla curva. Se si utilizza il rapporto incrementale (misura la variazione media all’interno di un intervallo della curva) si avrà ΔR/ΔQ; esso misura di quanto il ricavo si modifica in media se la produzione varia all’interno di quel dato intervallo di Q. Dalle grandezze totali a quelle marginali e viceversa - Data una curva di una grandezza in termini totali, quale ad esempio quella del ricavo totale, è possibile ottenere la curva del ricavo marginale misurando la pendenza della tangente alla curva del ricavo totale in corrispondenza di ogni livello di produzione e rappresentando i valori della pendenza in corrispondenza del medesimo livello di produzione . Matematicamente il procedimento consiste nel differenziare la funzione del ricavo totale; pertanto data la funzione R=R(Q), si deve calcolare la derivata dR/dQ. Data la curva del ricavo marginale è possibile passare a quella del ricavo totale. Se si potesse disporre dei tassi incrementali, tutto ciò che si dovrebbe fare sarebbe la somma dei valori marginali. Graficamente, la medesima operazione viene fatta su una curva continua, calcolando l’area al di sotto della curva marginale partendo da zero e sino ad un dato livello di produzione. Matematicamente passare dalla curva del ricavo marginale a quella del ricavo totale è semplicemente un problema di integrazione della funzione del ricavo marginale. Poiché attraverso la differenziazione si passa dalla funzione totale alla funzione marginale e poiché l’integrazione è il processo inverso della differenziazione, integrando la funzione marginale si ritorna alla funzione totale. Valori massimi e minimi – Consideriamo la funzione Y= 10X – 0,1X2. Inizialmente Y aumenta al crescere di X, ma da un certo punto in poi Y comincia a decrescere mentre X continua ad aumentare. Si dice in questo caso che Y cresce fino a un massimo. Gran parte della teoria economica si basa sulla ricerca di un valore massimo (o minimo) e, poiché Y è una funzione di X, parliamo della massimizzare il valore di una funzione, termine con cui si intende la ricerca del valore di X in corrispondenza del quale Y assume il valore massimo. Consideriamo ora la funzione Y=75-10X+0,5X2. Si osserva che il valore di Y dapprima decresce all’aumentare di X, raggiunge un minimo, e quindi cresce all’aumentare di X. In questo caso Y raggiunge il valore minimo di 25 quando x è pari a 10. Con funzioni di questo tipo si parla quindi di minimizzare il valore della funzione, cioè di trovare il valore di X in corrispondenza del quale il valore di Y è minimo.

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Funzioni di più di una variabile – Nella maggior parte degli esempi visti finora, Y è funzione soltanto di una variabile, X. In molti casi la variabile dipendete è funzione di più di una variabile indipendente. La domanda di un bene può dipendere, ad esempio, dal prezzo di quel bene, dal prezzo di un certo numero di prodotti concorrenziali, dal prezzo di prodotti complementari al prodotto in questione e dal reddito dei consumatori. In questo caso la funzione è Y=Y(V,W,X) dove V, W e X sono le variabili citate. In matematica e in economia si desidera sapere che cosa accade a Y al variare di X, ipotizzando contemporaneamente che gli altri fattori che influenzano Y siano mantenuti costanti. Di solito in risultato viene indicato con l’affermazione Y varia in questo modo al variare di X, coeteris paribus. I matematici per conoscere come varia Y al variare di X nel caso in cui tutti gli altri fattori che influenzano Y sono mantenuti costanti, calcolano la derivata parziale di Y rispetto a X, e cioè δY/ δX. Tabella delle principali derivate Funzione derivata Y=costante Y’ =0 Y=x Y’=1 Y=Xn Y’=nXn-1

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