H Libro del Mese - BESS Digital Archive
May 6, 2018 | Author: Anonymous | Category: N/A
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DFI GENNAIO
1990
LIBRI DEL —
A N N O VII-N.
1
MES -
LIRE
6.000
Pesca alla trota in America di Richard Brautigan
H Libro del Mese: Romanzi di Héctor Bianciotti testi di Ludovica Koch e Franco Marenco, con un'intervista di Mai Mouniama
Massimo Onofri: Sciascia e Vautobiografia di una nazione Un anno di Rivoluzione francese: TESTI DI M. BARBENS, B. BONGWVANM, A. Burgio, H. Burstin, D. Carpanetto, G. Carpinella E. Castelnuovo, S. Luzzatto, E. Joy Mannucci, M. Revelli, S. Woolf
TITOLO
AUTORE
RECENSORE
Il Libro del Mese La notte delle stelle azzurre
Héctor Blanciotti
Franco Marenco
Senza la misericordia di Cristo
Ludovica Koch
Intervista
4
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Héctor Bianciotti risponde a Mai Mourtiama 6
Open
Leonardo Sciascia
Massimo Onofri
1971-198)
Una storia semplice Alfabeto
!
pirandelliano
Fatti diversi di una storia letteraria e civile
7
Maria Luisa Doglio
Mario Chiesa
Teofilo Folengo tra la cella e la piazza
Giorgio Bertone
AA.W.
Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi
Pier Vincenzo Mengaldo
La tradizione del Novecento. Nuova serie L'epistolario di Nievo: un'analisi linguistica
Claudio Marazzini .
Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento
Costanzo di Girolamo
Carlo Delcomo
Gabriella Catalano
Georges Perec
9
Marisa Bulgheroni, Guido Carboni
Richard Brautigan
Pesca alla trota in America
10
Vito Amoruso
John Fante
La strada per Los Angeles; Sogni di Bunker Hill; Una moglie per Dino Rossi; Wait until Spring, Bandivi; Ask the Dust
Anna Baggiani
Jane Bowlet
Due signon perbene
11
Paolo Bertinetti
Samuel Beckett
L'immafine. Senza. Lo spopolatore; Quello che è strano, via
12
Gino Scatasta
8
Specie di spazi
Richard Ellmann
Quattro dublinesi
William B. Yeats
I cigni selvatici a Coole
Un anno di Rivoluzione francese
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Promozione culturale e strategie politiche, di Stuart Woolf
Giovanni Carpinelli
E.-J. Sieyès, M. de Robespierre, J. de Maistre
Pro e contro la Rivoluzione
Haim Burstin
Ernest Labrousse
Come nascono te rivoluzioni.
Alberto Burgio
Jacques D'Hondt
Hegel segreto. Ricerche sulle fonti nascoste del pensiero hegeliano
15
Mauro Barberis
Bruno Bongiovanni, Luciano Guerci (a cura di)
L'albero della
16
Massimo Terni
Paolo Viola
Il trono vuoto
Marco Revelli
Furio Diaz
L'incomprensione italiana della Rivoluzione
14
Giovanni Carpinelli
Simon Schama
Cittadini. Cronaca delta Rivoluzione
Bruno Bongiovanni
Francois Furet
Marc e la Rivoluzione francese Il secolo della Rivoluzione
Bronislaw Baczko
Come uscire dal Terrore. Il Termidoro e la Rivoluzione
Enrico Castelnuovo
C - M . Boss6no, Ch. Dhoyen, M. Vovelle
Immagini della Libertà. L'Italia in Rivoluzione 1789 1799
Stefano Nutini
Haim Burstin
Gli strumenti, di Marco Revelli
Gli editori e i libri, di Giovanni Peresson
56
58
Pierangelo Selva
Carlo Sartori
La grande sorella
Fausto Colombo (a cura di)
1 persuasori non occulti
Liana Castelfranchi
Jan Bialostocki
Il Quattrocento nell'Europa
Maurizio Giuffredi
Jean-Jacques Courtine, Claudine Haroche
Histoire du visage
Marco Vozza
5»
La politica alla prova. Appunti sulla rivoluzione francese
I libri francesi, di Bruno Bongiovanni
55
57
Alessandra Rizzi
Roberto Gabetti
Reine-Marie Paris
Camille Claudel.
Una donna chiamata Camille Claudel
1864-194)
Gabriele D'Annunzio
Pagine sull'arte
Annamaria Andreoli (a cura di)
Conformismo e trasgressione. Il guardaroba di Gabriele
Rossana Bossaglia, Mario Quesada (a cura di)
Gabriele D'Annunzio e la promozione delle Arti Vittoriale. Casa del sogno di Gabriele
Mara Debenedetti, Attilio Pracchi
Antologia dell'architettura moderna. Testi, manifesti, utopie
Maria Immacolata Macioti
Michele C. del Re
Nuovi idoli, nuovi dei
Paola Cavalieri
Peter Singer
Etica pratica
D'Annunzio
Eugenio Lecaldano
Derck Parfit
Ragioni e persone
Massimo Bonola
Hans Georg Gadamer
Chi sono io, chi sei tu. Su Paul Celan
Leonardo Ceppa
Gerardo Cunico
Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch
44
Libri di Testo Recensioni di Liliana Bottero e Gigliola Rocca
45
D'Annunzio
Attilio Mazza
41
45
Settentrionale
Anne Delbée
40
42
1770-1870
Sergio Luzzatto
55 54
francese
Le biografie, di Erica Joy Mannucci
51 52
francese
Le riedizioni, di Dino Carpanetto
17
18
Rivoluzione.
Simona Argentieri
Eugenio Gaddini
Scritti.
46
19)3-198)
Stona della Pstcoanalisi in Italia dal 1971 al 1988
Fabbrica dell'Indice Pensieri di un lettore qualunque, di Marco Lorenzetti
RECENSORE
AUTORE
TITOLO
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pag- 3
MESEÌ
Il Libro del Mese L'arte effìmera di vestire i pensieri di Franco Marenco H É C T O R BIANCIOTTI, La notte delle stelle azzurre, Milano, Feltrinelli 1989, ed. orig. 1988, trad. dal francese di Yasmina Melahoua, pp. 246, Lit 28.000.
La stravaganza — quasi ce ne eravamo dimenticati, da quando abbiamo riposto il Gadda e ci hanno deluso i suoi nipotini — è una categoria, una misura letteraria di primaria importanza, fra tutte preziosissima in tempi di tran tran minimalista, di ecumenismo informativo, di universali appiattimenti su poche immagini liturgiche, amate da tutta la famiglia, da amici e parenti vicini e lontani. Sia dunque benvenuto tutto ciò che ci garantisce un po' di ossigeno fra le chiuse pareti della prosa giudiziosa e accattivante, del racconto architettato come uno spot pubblicitario. Benvenuto chi ha la sfrontatezza di presentarci un personaggio in questo modo: "Dagli abissi che la fantasia mi aveva fatto intrawedere sorgeva il mostro, nutrito di melma, ritto sulla coda, gonfio di sicuri veleni, pronto a conficcare i suoi artigli e intento a spogliarsi della sua pelle blu — una vecchia signora dallo sguardo stupito, dal sorriso accattivante, la piccola testa dalla cuffia rossa sopra un collo talmente lungo e fragile che i bracciali che tintinnavano ai suoi polsi, se non gli anelli che appesantivano le sue mani, avrebbero potuto servirle da collane". Benvenuto Héctor Bianciotti, creatore di figure esagerate e incomode, maledettamente fuori misura. Sono tutti dei marginali i suoi personaggi, non perché poveri, o deboli — sono passati i tempi — ma perché messi in un canto dalla nostra passione per l'omologazione rassicurante: sono vecchi ciarlieri, sono nobilastri malandati, e ciechi, taumaturghi, prostitute, suicidi mancati, sono anche moribondi, anche morti, e tutti all'interno dei luoghi della marginalità, l'ospedale, il teatro in disuso riattivato per una sola serata, il collegio di provincia, il postribolo, il grande albergo per umanità decrepita: e tutti ostentati, gessosi come manichini, imbellettati da chili di cipria rosa Mistinguette, carichi di paillettes raccapriccianti, tutti caricature sarcastiche della presentabilissima umanità nella quale ci riconosciamo, che ci pacifica e ci rasserena. Loro no, non ci rasserenano affatto: rappresentano un'umanità insubordinata e perturbante, ma vanamente, e che per questo è condannata a vociare dal limbo dei processi letterari, a tormentarsi nel fondo della sua stessa ineffabilità, a essere plausibile solo nel ricordo. Indugiamo un momento sulla retorica della stravaganza: lo scrittore amplifica, rifinisce, ispessisce, cesella, indora, sempre ai margini, sempre in superficie, come per distrarsi, come spaventato da una materia incandescente che non può toccare perché troppo dolente e sua, e che deve rimanere sepolta. Quando è genuina, la stravaganza nasce da una perdita, e vive di un'assenza. In questo romanzo la superficie è dominata dalla figura di Morales, "sarto eminente" come lo chiamano i giornali, figura antipatica se ce n'è una, egocentrica e arzigogolata, un aristocratico non conciliato con la modernità — "la piccola borghesia comporta molti vantaggi... è grazie a lei che gli uni rimangono al loro posto e gli altri conservano il loro rango" — un teatrante costantemente sulla scena, petulante e patetico nell'esigere attenzio-
ne, uno che può dire, in presa diretta con la parte più scontata di Wilde e Borges: "per vivere ho dovuto licenziare la mia anima". Di Morales ci vengono esibiti la pelle avvizila e squamosa, le occhiaie giallastre, le mosse istrioniche, i detti iperbolici. Morales è associato ai vezzi della moda, alle tecniche dell'effettaccio, alle
riconoscere il lusso essenziale, segreto, sul quale egli doveva poggiarsi per abbandonarsi liberamente alla stravaganza, e che chiamava l'architettura dell'abito, una sorta di geometria fluida imposta al corpo, simile a ciò che il disegno è per il pittore, che il colore spesso nasconde, e che permane, tacita, in quella che parlando di
do di evocare un principio borgesiano. Ecco allora un seguito di scene e quadretti, di occasioni minime ampliate nella sequenza onirica, nell'aforisma, nella rapida metafora. Ecco la tipica struttura della frase, con cui Bianciotti ci fa percorrere a ritroso il cammino dei sensi, in una sorta di impressionismo rovesciato: "A pen-
H corpo, teatro dell'infinito di Ludovica Koch Senza la misericordia di Cristo, Sellerio, Palermo 1989, ed. orig. 1985, trad. dal francese di Valeria Gianolio e Angelo Morino, pp. 292, Lit 22.000.
H É C T O R BIANCIOTTI,
' 'La fisiologia dà sull'infinito ' ', riflette ad alta voce la protagonista a metà del primo romanzo francese di Bianciotti. La schiva e dignitosa Adelaide Marèse sta consegnando al narratore, il silenzioso vicino di casa che è diventato il suo principale confidente, quella che crede la formula centrale della storia. I due hanno preso l'abitudine a colloqui sommessi e dolenti, del tutto fuori posto nel malfamato bar all'angolo della strada dove si svolge gran parte della vicenda. Nel bar, infatti, astraendosi ma anche alimentandosi dallo sfondo tenebroso e violento, Adelaide rivive Usuo straziante passato: fino a risalire al nodo più serrato e segreto. Dal bar Adelaide si stacca per una fiduciosa avventura affettiva che la porterà alla disperazione e alla morte: prima dirigendosi verso una bambina torva e perduta, poi cercando l'amicizia di un altro naufrago dell'esistenza, un mite pensionato senza memoria, vittima e schiavo di una famiglia mostruosa. La battuta di Adelaide serve ad affidare anche al lettore la chiave del racconto. Segnala, innanzitutto, la potente ossessione macabra e corporale che genera, come vermi da una carne corrotta, le inquietanti figure visive e tattili del romanzo. Tutta la storia si svolge, infatti, per così dire sotto la pelle, nel cavo tiepido e repellente all'interno della persona, in mezzo alle secrezioni, agli sfiatamenti, alle ottuse peristalsi della vita vegetativa. L'amore non è che un ansante mescolarsi di bave. Il pensiero e la religione nascono da "un teatro di contrazioni, di spasimi, di restringimenti, di subbugli ciechi, di triturazioni molli, di sfi-
immagini dei rotocalchi, alle auto con le gomme bicolori e i raggi cromati. Il suo non è il kitsch nella versione di un espatriato dal socialismo reale come Milan Kundera, "mondo dove la merda è negata, e tutti si comportano come se non esistesse"; è al contrario un mondo alla Genet, dove la merda è santificata — Saint Genet... — come rivalsa contro il conformismo e l'oblio. Quella di Morales è la vana difesa, la distinzione cui si aggrappa chi non ha risorse: è l'orgoglio degradato di chi può vivere solo al di là di sé: "amava superarsi, anche se questo superamento avesse dovuto schiacciarlo". E con bravura infinita, perché infinitamente esposta, pronta a "sporcarsi", Bianciotti intraprende il tour de force di una scrittura artificiosa, totalmente mimetica della mentalità e del gusto della sartoria, fino al virtuosismo che riesce a vestire di fatuo anche la sua più riposta filosofia della composizione: "Sotto le ampiezze, l'opulenza, gli splendori del lusso, sarebbe stato ingiusto non
lacciamenti viscosi". L'individualità di cui si gloria la cultura occidentale si configura qui come una tavola anatomica a colori, dove si torcono e torpidamente si aggrovigliano membrane e mucose, tasche, condotti, rigonfiamenti, papille, villi, ventose. Il tema della putredine, che associa ostinatamente, cupamente, per tutto il libro la Carne e la Morte, assume una violenza visionaria quasi secentesca, che turba e contagia il lettore. Dna profondissima, allucinata ripugnanza travolge le modeste storie degli uomini in una grandiosa danza macabra. Dn'aggressività universale strazia e devasta rapporti appena accennati. Irrompono, lacerando il dimesso monologare delle due voci narranti, forti immagini di deformazione e di orrore: incubi, aborti, impiccati, ibridi, nani. Scene crudeli e grottesche che fanno pensare alla tradizione di Goya; quando non sembrano tolte invece al cinema espressionista, alle caricature di Grosz e di Dix. Le dita della bambina Rosette si stringono come grossi vermi sul collo del narratore. La mostruosa nonna contadina, ricordata da Adelaide come un malvagio ammasso di carne greve, gonfia e sfatta, annega trionfalmente sotto la luna, nel brago dei suoi porci. Ma la formula che collega infinito e fisiologia è anche un buon esempio dell'altro, e stridente, piano del romanzo: il commento. Un incessante filo meditabondo mette infatti in bocca alla casta Adelaide — per sua fortuna, almeno lei, "senza corpo" — al suo timido amico, e soprattutto al narratore (torbido tipo di melanconico voyeur cupido e fobico), aforismi metafisici e morali sussiegosi e benevoli, stanche citazioni letterarie, sentenze di generica pietà. La doppiezza continua del discorso, l'urto frontale fra racconto e commento che si smentiscono a vicenda non è l'effetto meno inquietante del libro.
un quadro viene detta composizione"; fino a teorizzare l'aggio delle forme sulla sostanza, e il beneficio del fallimento: "Si ha bisogno di raccontare per alleviare le goffaggini da romanziere dell'esistenza, le sue ripetizioni, i suoi indugi: si ha bisogno che anche lo scacco raggiunga la perfezione". Il tratto di Bianciotti non è quello limpido, lineare che concilia e dà piacere; è quello frastagliato, sentenzioso, inconcludente che inquieta e sfida continuamente i nostri equilibri: soprattutto gli equilibri che costruiamo di giorno in giorno rispetto alla morte. Nel suo procedere, il romanzo si rivela sempre più come una barriera di parole contro la morte, verso la morte. Non c'è costruzione che non sia quella improvvisata del meandro semantico presente in ogni frase; non c'è intreccio che non sia quello dei sistemi di immagini e di riflessioni che si generano l'una dall'altra. "Non c'è un solo pensiero che sia garantito da ciò che chiamiamo realtà" si dichiara Bianciotti, sapen-
sarci bene, avrei visto Morales poche volte a quattrocchi, prima che diventasse un ospite di riguardo dell'Ospedale dove si è imposto la notte in cui, poco prima dell'alba, era stato raccolto su un marciapiede e fra i suoi documenti era stato trovato un fo-
glietto"... Un episodio tra tutti merita di essere rivisitato, per illustrare questa scrittura che si vuole scontrosamente materiale e anti-simbolica, ma non può non acquistare poi tutti i caratteri dell'emblema: si tratta del frammento centrale, in cui il personaggio di Nicolas perde un braccio sotto il trattore che trasporta, fra la folla in tripudio, la figura trionfante di Eva Peron: lo scontro tra la retorica moderna dell'Immagine e il disagio del soggetto che all'immagine resiste, e non vuole esserne travolto, non potrebbe essere evocato più incisivamente. Come dicevamo, la vera stravaganza è imperniata sulla distinzione fra qualcosa che viene detto e qualcosa che viene taciuto, fra un'ostentazione appagante e un segreto pericoloso. Morales sta per la superficie scintillante che tutto assorbe, ma che, lacerata, lascia intravedere il suo segreto: e questo segreto è la madre del personaggio narratore, lontana mille miglia da Morales, da lui totalmente dissimile, eppure a lui inspiegabilmente legata da fatti e atteggiamenti secondari. Sarta anche lei, anche lei superata dal mondo, in società questa madre è definita con scherno ' 'una sempliciotta' ', e il figlio compie la debolezza di sentirla tale. Ma è lei, la donna nient'affatto teatrale, nient'affatto brillante, è lei la verità assente negli altri; è lei il centro perduto dell'artificio che domina incontrastato. La madre "nasce" morendo — la sua morte è ricordata dalle prime parole del romanzo — e muore nell'ultima pagina, subito dopo la morte di Morales: il tempo reale della narrazione è fissato dalla vita di Morales, il tempo della memoria dalla morte della madre, una morte rivissuta attraverso le tappe dell'espropriazione dei suoi pochi averi, dell'umile fatica, della malattia che ne fa un "caso" da esibire nelle lezioni universitarie, dell'agonia. E tutto il romanzo, i quadri staccati della vita, le esagerate ribellioni delle forme contro la sostanza, sono tenuti insieme da un unico filo, la memoria di ciò che lei è stata. Sua è l'unica positività: "credeva, duro come il ferro, che tutte le cose dell'universo si incastrino, si adattino secondo una legge di compensazione che fa nascere li ciò che qui muore, e questa convinzione, invece di spingerla verso una pigra rassegnazione, l'aveva condotta, giorno dopo giorno, gesto dopo gesto, a ogni costo, verso la realizzazione di ciò che doveva farsi attraverso di lei". Come si vede, il testo è ottimamente tradotto da Yasmina Melahoua.
Intervista La pietà, lingua segreta Héctor Bianciotti risponde a Mai Mouniama Il narratore di Senza la misericordia di Cristo dice all'inizio del romanzo: "Non ho più una lingua, ma sono tormentato da diverse...".! suoi genitori erano piemontesi. Lei ha scritto la prima parte della sua opera in spagnolo. I suoi due ultimi romanzi sono in francese. Mi potrebbe dire come è approdato al francese? Mi vorrebbe raccontare questo suo viaggio? Da sempre, per quello che mi ricordo, sono stato cosciente di ogni parola che stavo per pronunciare. Sarebbe più giusto dire che ne ero tormentato, perché sono stato educato nel timore di non parlare abbastanza bene la lingua del paese in cui sono nato. Dovevo integrarmi nella collettività nella quale i miei genitori erano arrivati ancora giovani. Per loro è stata una sofferenza, all'inizio, parlare soltanto piemontese, in un paese dove la lingua ufficiale era quella dei Conquistatori. Non c'erano scuole, nella pianura, ma istitutori o istitutrici che si fermavano qualche mese all'anno a casa dell'uno o dell'altro degli agricoltori di origine italiana, quasi tutti piemontesi, [n.d.r. Il confronto fra realtà latinoamericana e cultura dell'immigrazione è sviluppato ne La ricerca del giardino, Sellerio 1980]. Io parlavo dunque spagnolo, ma sullo sfondo di una lingua segreta che parlavano fra di loro mio padre e mia madre, per abitudine, o forse per difendere i loro rari momenti di intimità. Così, da piccolo lei si è sentito diviso tra una lingua del cuore che le era proibita e una lingua straniera che doveva conquistare? Proprio così. In realtà, questa lingua materna che mi veniva proibita non era una lingua ma un dialetto. La differenza fra lingua e dialetto non è un problema di qualità ma, se si vuole, di statistica: maggiore è il numero di persone che hanno in comune la stessa lingua, maggiori possibilità ha di nascere un'opera letteraria, e di conseguenza, il dialetto di diventare una lingua. Dante innalza al grado di lingua un dialetto che prima di lui non era che una degenerazione fra tante del latino. E strano osservare che in quell'occasione nascono insieme il capolavoro assoluto delle letterature occidentali e la lingua italiana: l'uno generando l'altra o viceversa. Questo dialetto piemontese, proibito perché non contaminasse il modesto spagnolo che era il mio e quello dei miei fratelli e sorelle, lo capivo, e avrei potuto pure parlarlo; ma abbastanza presto si sarebbe trasformato in una sorta di ronzio, di cui mi attraevano certi suoni chiusi: la ti, soprattutto, e una tendenza della voce a vibrare nel naso. II mio rapporto con lo spagnolo è stato sempre difficile, come per tutti gli argentini che aspirano alla letteratura. Non amiamo la Spagna: il nostro breve passato è costellato di guerre di indipendenza. Credo anche che fossimo in molti, allora, a pensare che la Spagna non si meritava il Quijote. In fondo, questo conflitto forse non ha neanche a che fare con le guerre di indipendenza, ma riguarda semplicemente il modo di parlare, la tipica intonazione del castigliano, così piena di certezza, di enfasi e del coraggio ostentato proprio della gente priva di immaginazione. Sfidano la morte, che li ignora, fino al momento in cui arriva sul serio. L'argentino, invece, è scettico, accoglie il dubbio volentieri. Quest'abitudine del dubbio gli viene forse dalla lingua stessa, dalla lingua fluttuante che ha parlato da bambino. Così lei si sforzava di parlare bene spagnolo; ma che differenza ha trovato nel rapporto fra la lingua parlata e la lingua scritta? Si ricorda della sua prima esperienza di scrittura? Ero terribilmente affascinato da tutto quello che era scritto, ma ero totalmente incapace di scrivere un racconto. Mi diede l'occasione di provarmici una rivista femminile, che dedicava ai bambini un paio di pagine. Mandai alla rivista una specie di riassunto del Gatto con g{i stivali, che avevo copiato da uno dei pochissimi libri trovati in casa. Il plagio fu pubblicato a nome mio: forse già allora mi ero accorto che la gente non ha molta memoria. Avevo otto anni. Ma scrivevo soprattutto versi: conservo ancora intatto lo stupore della prima rima percepita o trovata: non c'è niente di più magico del potere, nella rima, di rendere un pensiero qualunque fatale e più grande di chi l'ha pensato. Non senza temerità approdai un giorno alla prosa, più o meno a tredici anni. La prosa è innanzi tutto utilitaria, servile, mezzo di scambio; ma possiede anche delle leggi che non si possono imporre né rispettare, ma
soltanto cercare di rispettare. Nella prosa ho incontrato l'impalcatura stessa, lo scheletro della lingua: la sintassi. Mi sono sentito indifeso. Una volta, tanti anni fa, al bancone di un bistrot parigino, un ubriaco ha cercato, senza riuscirci, di raccontare una storia. Un cliente ha commentato: "Ha perduto la sintassi". Quando, all'inizio del 1961, lei si è stabilito a Parigi, come è cambiato il rapporto con la sua lingua, una lingua ormai di esiliato? Quando sono rimasto isolato, dal punto di vista linguistico, all'interno di una lingua che leggevo ma che non parlavo (perché avevo imparato il francese da solo, con un lessico bilingue e dei frammenti di Valéry tradotti in spagnolo, dei quali mi ero procurato l'originale), ho cominciato a prendere veramente coscienza delle mie carenze in spagnolo. Con il passare degli anni, man mano che scrivevo libri nella mia prima lingua, l'ho migliorata a poco a poco. Per un lettore argentino, era una lingua altrettanto esotica che per un lettore spagnolo. Se non proprio uno stile, cosa che ha sempre un rapporto immediato con la norma, avevo una maniera tutta mia di scrivere. Tuttavia, man mano che scrivevo in spagnolo, il francese mi diventava fatalmente sempre più familiare. Lavoravo circondato di dizionari, protetto da un vero baluardo di dizionari, per evitare gallicismi. Quando cercavo "la parola giusta", prima di riuscire a trovare l'equivalente in spagnolo, mi attraversavano la mente parole francesi, poi un giro di frase, poi una frase intera, che traducevo immediatamente. Da questo spagnolo strano, costruito, ma abbastanza solido, che ero riuscito a maneggiare con una certa disinvoltura, sono passato nuovamente a una situazione di insicurezza. Un giorno, finalmente, il primo lungo periodo di un racconto mi è venuto in francese; stavo pensando a come fare entrare in scena il mio personaggio, e non mi ero accorto che scrivevo in francese. Era il 1980. Devo però aggiungere che dal 1969 lavoravo come critico letterario, prima alla Quinzaine littéraire, poi al Nouvel Observateur. Il mio apprendistato in francese, che non avrà mai fine, è cominciato veramente nel 1962, con la redazione dei resoconti di lettura per l'editore Gallimard. Il giornalismo mi ha obblicato a imparare il resto. Ma la scrittura giornalistica, nella quale, del resto, mi trovo abbastanza a mio agio — soprattutto da quando lavoro a Le Monde, ormai da quattro anni — si esercita su un fatto esterno, già dato e di cui si desidera informare il lettore: mentre la letteratura non sa di che cosa parla: si produce, al contrario, malgrado le cose di cui parla. Per quanto il romanziere abbia potuto progettare una scena, maturare la descrizione di un personaggio, il fatto letterario si insinua, emerge, fra la penna e la carta, e lo scrittore non l'avverte che a cose fatte. Lei fa dire al suo personaggio Adelaide che parlando lingue diverse si fa esperienza di sentimenti diversi, ci si comporta addirittura in un altro modo. Parlando in francese, tutto diventa per lei più riservato, intimo, discreto, "dire soledad è dire qualche cosa di vasto, di universale... invece nella solitude ci si sente più soli ' '. Lei tiene evidentemente a questo esempio, perché lo cita anche nel racconto Bonsoir les choses d'ici-bas (ora nella raccolta L'amore non è amato, Sellerio 1984). Una lingua è un modo di percepire la realtà, una concezione del mondo, una cosmogonia: un modo, anche, di sentire diversamente. La solitude è intima, si direbbe perfino che le labbra vogliano dissimulare, pronunciandola, la parola; in spagnolo, soledad è una parola di carattere, per così dire, geografico. La solitudine la si abita, piuttosto che sentirsi soli. Ho fatto anche dire al mio personaggio, una straniera, che si può essere disperati in una lingua, e soltanto tristi in un'altra; e non esageravo di molto. Ho detto anche che il bilinguismo — ma lo scrittore non può essere bilingue, se mai ha potuto essere russo e inglese lo è stato in successione — ci obbliga a mentire. E un altro modo di dire che, nominando una cosa, si è coscienti delle alterazioni che la cosa stessa subisce a seconda della lingua che la nomina. Oiseau è tiepido, liscio, lucente; pajaro parte come una freccia...
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pag. 5 N.
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Da quanto lei mi ha appena detto, sembra che lei si sia stabilito definitivamente nella lingua francese. È una situazione di non ritorno? Non pensa di scrivere più in spagnolo? Non sono sicuro che il francese mi abbia accettato: invece so di sicuro che lo spagnolo mi ha abbandonato. E l'italiano: pensa di fare un giorno l'esperienza di scrivere in italiano? E troppo, per una vita sola. Certo. E poi, questo suo approdare al fance'se non è casuale, mi pare; è come un ritomo alle origini, per un cammino oscuro, attraverso le arterie, un cammino tracciato da un suono, la ii piemontese. Scrivendo il suo primo libro in francese, sembra che lei abbia preso coscienza di questo processo. SI, mi piace pensare che in questa lingua proibita dell'infanzia c'era questo suono chiuso della quinta vocale, questo suono « che non esiste né in spagnolo, né in italiano, ma nel dialetto piemontese, e che è la « del francese. Un suono assai intimo, una specie di piccolo guscio dove un tempo si è rannicchiata una parte di me, e che mi avrebbe fatto fare, a mia insaputa, il viaggio da una lingua a un'altra. Quali sono gli scrittori che hanno contribuito alla sua formazione, o che lei ha letto con piacere? Probabilmente tutti quelli che ho letto, da Max du Veuzit [n.d.r. pseudonimo di un notissimo autore di romanzi rosa] a Mallarmé. Tra i dodici e i quindici anni, Rubén Dario, il poeta nicaraguense inventore del modernismo spagnolo, che ha portato nella lingua referenze e ritmi presi dal francese. Credevo che Dario fosse tutta la letteratura. Poi sono stato Ivan Karamazov e Amleto, e a quindici anni, nel 1945, Monsieur Teste: perché morì in quell'anno Valéry, che ho scoperto attraverso i giornali. Nella prima pagina di Monsieur Teste, ho trovato il mio motto: "je me suis préféré". Infatti, oggi dico: mi sono sempre preferito. Nello stesso periodo ho scoperto Borges. Qualcuno ha detto che lei è l'erede di Borges. E vero? Niente di più falso. E una comoda formula giornalistica, perché a paragone degli altri romanzieri sudamericani di professione, e quindi torrenziali, io ero, o sembravo, laconico. Da Borges, certo, ho imparato a cogliere la presenza della letteratura nei testi che leggevo; non fosse che per l'aggettivazione. Dice Borges in una novella: "In India, le distanze sono generose". L'aggettivo etico, "generose", applicato alle distanze, introduce un elemento inesplicabile quanto la musica: la letteratura. Oppure, nelle Rovine circolari: "Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime". "Unanime": straordinario, no? Ma da Borges, che è uno dei più grandi inventori letterari del secolo, avrei non imparato ma, come dire, captato, la saggezza; quella saggezza che consiste nel vivere nel presente, nel cercare di riempire la giornata, anche sapendo che la morte è alle porte, con il lavoro minuzioso che ci impegna quando l'avvenire ci sembra interminabile. Ha lavorato fino a due giorni prima di morire. Mi ricordo del giorno in cui mi ha detto, a proposito di un verso di una sua poesia che diceva: "due uomini che in un sobborgo meridionale giocano una silenziosa partita di scacchi", che bisognava sostituire "silenziosa" con "modesta", perché una partita a scacchi fra due uomini di periferia doveva senz'altro essere "modesta"... Questa lezione, come dimenticarla? Ho percepito, nel suo primo libro francese, l'influenza della Nathalie Sarraute dei Tropismi, e l'influenza di Flaubert. Ho intravisto, per esempio, nella coppia Adelaìde-Monsieur Tenant la coppia Bouvard e Pécuchet: senza la derisione, naturalmente.
Ha ragione per la Sarraute: l'ho così amata che ne ho fatto un pastiche in uno dei miei primi libri, ma ho avuto il torto di credere che un grande scrittore fosse imitabile. Flaubert... ah, sì, Flaubert, sempre Flaubert: soprattutto il Flaubert della Correspondance, che trovo geniale. Trovo che nei romanzi il suo genio è meno evidente e quasi alle strette. Anche altri scrittori hanno contato molto per me, e continuo a rileggerli: Rilke, Virginia Woolf, Pirandello, Henry James e il Gadda della Cognizione del dolore. E poi Savinio. Quel po' di cultura che mi sono fatto è casuale, eclettica. Sono un lettore edonista, un dilettante. Non mi ha guidato nessuno, e non ho fatto veri studi. Oggi risalgo il corso del tempo, ma in realtà non esiste più cronologia. Montaigne è lo scrittore che avrei voluto essere, perché scrive e legge, perché è un lettore che scrive con una sorta di felicità noncurante. Ah, ho dimenticato di citare Claudel: scrittore immenso, di cui si conosce soltanto il teatro. E leggo con grande piacere Wilde, che passa per essere un frivolo, ma che in realtà è di una profondità, come dire, che "sale" alla superficie in sentenze memorabili; Wilde, che diceva: "Dopo Shakespeare e Dostoevskij, non ci restano che gli aggettivi" — e mi ricordo ancora della risata di Borges, che una volta tanto non conosceva questa battuta di uno scrittore che amava tanto. Come vede il futuro della letteratura? Lei pensa che la cultura del libro stia per concludersi? Si continuerà a scrivere e a leggere, nei termini in cui lo si è fatto negli ultimi secoli? In questo momento, penso che laTetteratura sarà obbligata a prendere la via delle catacombe. Ma ogni scrittore, in ogni tempo, ha pensato la stessa cosa. "Chi altri, all'infuori di me, si occupa di letteratura in Francia?" si lamentava Flaubert. Lei sa, però, che nel mio lavoro editoriale ho sempre visto, e anche molto recentemente, giovani scrittori arrivare con la ferma intenzione di fare un'opera, con l'intima convinzione che tutto il loro destino consistesse nell'opera da scrivere. Dunque! Lei fa dire, al personaggio di Bagheera, che "non esiste opera, se l'opera non contiene una certa dose di pietà; seppure tacita ".È questa la sua definizione, o una delle sue definizioni, dell'opera letteraria? Io credo che la pietà abbia su tutto l'ultima parola. La compassione: patire con. Penso che lo scrittore sia una camera di risonanza, che sia uno scrittore pubblico, con la segreta missione di trovare le parole giuste per dire i sentimenti, le perplessità, i dubbi, le vaghe felicità che appartengono a tutti e sono di tutti. Se si potesse guardare in fondo a ognuno, ci si troverebbero le stesse paure, le stesse angosce, le stesse nostalgie, gli stessi sentimenti. Siamo tutti capaci di tutto. Quella che chiamiamo civiltà è un sistema di precauzioni, di cortesie, elaborate dagli uomini nel corso di secoli per evitare di massacrarsi a vicenda... Ma tutti nascono prima di nascere. Non siamo che maglie minime di un'unica catena. Lo scrittore ha il compito di fornire agli altri le parole giuste. Se ci è riuscito, il lettore arriva a sentirsi autore di quello che legge. Come lavora? Quando, dopo un paio d'anni che mi sono preso per vivere, fra un libro e l'altro, ne comincio uno nuovo, mi costringo a una disciplina ferrea: lavoro tre ore al giorno, ogni giorno, e ogni giorno mi fermo a metà di una frase, di^un paragrafo, in modo da poter riprendere dove ho lasciato. E il consiglio, estremamente utile, di Hemingway. Sono sempre uno straniero: ignoro la felicità di usare la lingua come si usano, senza pensarci, la mano o gli occhi. Consulto, a ogni frase, i dizionari — ci si trovano vere meraviglie. E vado avanti così nella notte, accendendo fiammiferi nel buio.
Autobiografia di una nazione di Massimo Onofrì SCIASCIA, Opere 19711983, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano 1989, pp. 1282, Lit 50.000. LEONARDO SCIASCIA, Una storia semplice, Adelphi, Milano 1989, pp. 66, Lit 8.000. LEONARDO SCIASCIA, Alfabeto pirandelliano, Adelphi, Milano 1989, pp. 92, Lit 7.000. LEONARDO SCIASCIA, Fatti diversi di una storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo 1989, pp. 198, Lit 20.000. LEONARDO
In una nota del 29 agosto 1978 apparsa in Nero su nero, Leonardo Sciascia così concludeva una sua meditazione sulla letteratura che gli nasceva a margine del pamphlet sul caso Moro terminato pochi giorni prima: " E allora: che cosa è la letteratura? Forse è un sistema di 'oggetti eterni' (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi — e così via — alla luce della verità. Come dire: un sistema solare". Sul crinale di questo curioso platonismo lo spingevano le numerose sollecitazioni ricevute, in forza di intense riletture, da scrittori come Borges, Savinio e Borgese: nel culto delle inquisizioni filologiche in una apocrifa, metafisica e circolare storia letteraria, nella pratica della divagazione come forma suprema di intelligenza, nell'esperienza dell'arte come "sistema di tangenti sulla curva dell'oscuro", per dirla con una felice e audace formula dell'autore di Rubè. Da queste considerazioni sulla letteratura, che a quelle sullo scrivere il leggere ed il rileggere s'intrecciavano, lasciate cadere con impagabile noncuranza nei risvolti di copertina, nelle note finali dei testi e nei punti apparentemente morti della narrazione, hanno avuto origine le cronachette, le indagini storico-erudite, i romanzi brevi degli ultimi anni. Di deviazione in disgressione, di diversione in divertimento, sul filo di un leggerissimo estravagare, le pagine della biblioteca universale si traducevano nei modi vicari di una trasparente e non turbata esistenza, di classica compostezza e sobrietà. Il mondo dei libri offriva, insomma, la giusta chiave per penetrare nel libro del mondo. La pirandelliana Come tu mi vuoi poteva distenebrare il caso dello smemorato di Collegno ne II teatro della memoria (1981); un passo di Montaigne gettare luce sul processo de La sentenza memorabile (1982); una pagina dei Promessi sposi ed una
Premio Calvino
m / La giuria del premio — designata dall" 'Indice" — è composta per il 1989 da Anna Chiarloni, Maria Corti, Michel David, Guido Fink, Mario Lavagetto. La giuria annuncerà i vincitori delle due sezioni del premio (narrativa e studi critici) entro il mese di febbraio p.v.
nota della Storia di Milano di Pietro Verri glossare un fatto di stregoneria del XVII secolo ne La strega e il capitano (1986); citazioni di Stendhal, Verga, D'Annunzio, Lawrence e Zweig chiosare le vicende giudiziare di 1912 + 1 (1986), Porte aperte (1987) e II cavaliere e la morte (1988); il nome di Pirandello enigmaticamente accompagnare nelle parole del brigadiere di Una storia semplice la rivelazione dell'assassino. Quest'ultimo brevissimo racconto
quinate ed in odor di mafia, nella quale l'arma dei carabinieri e la polizia sono in perpetuo conflitto di competenze secondo le regole di uno spirito di corpo che considera la parte maggior del tutto. Bisogna subito dire, però, che Una storia semplice, nella sua peculiare qualità di giallo, si differenzia dalle precedenti. In tali opere, infatti, almeno a partire da II contesto (1971), non appena gli eventi si dispongono nella luce della Verità (che nel corso degli anni si è sciolta nelle pirandelliane centomila verità) perdono di consistenza, deflagrano fino a svaporare. La determinazione lucida ed inesorabile della realtà, insomma, si converte nel suo annichilimento:
rivelano anche i numerosi dati che trapassano dalla vita dell'autore a quella dei suoi alter ego (la vittima, il brigadiere, il professore). Ancora una volta, dopo II cavaliere e la morte, alcuni interrogativi radicali e privatissimi, lungi dal risolversi in quella lucida autobiografia della nazione che Sciascia non ha mai cessato di scrivere, vanno ad intramare una dolorosa ed alta meditazione esistenziale, parallela alla narrazione, che è spesso sfiorata dalla tentazione di "una risposta 'spirituale', nella delusione delle risposte 'materiali' tanto cercate", come scrisse nella prefazione ad un'opera di Giuseppe Rensi ristampata nell'87. Una meditazione che ha il suo nucleo irradiante nel-
Quel macaronico asceta di Maria Luisa Doglio M A R I O C H I E S A , Teofilo Folengo tra la cella e la piazza, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1988, pp. 206, Lit 30.000.
Chiariti gli arcani dell'officina del poeta, le fonti, le scelte, l'idea e le pratiche di commistione, il Chiesa ritoma al monaco e alla sua partecipazione alle vicende religiose degli anni fra il Il volume del Chiesa, a cui si devono impor- 1520 e il 1530. Nel documentarissimo saggio tanti studi folenghiani, inaugura al meglio la col- centrale, muovendo da dichiarazioni dello stesso lana "Contributi e proposte" diretta da Mario Folengo, sottolinea la centralità del tema religioPozzi. Se il titolo nel segno dell'antitesi ricondu- so nell'Orlandino, e a proposito dell'espressione ce manifestamente alla doppia iconografia del "conoscere di Cristo il beneficio" rileva che nel decisamente monaco umanista, convinto assertore del ritorno 1526 è "formula compromettente, alle origini della vita monastica, e del poeta mac- connotata", tra Erasmo e Lutero, che rinvia non cheronico sapido cantore di epiche mangiate, solo al dibattito intemo alla congregazione benel'indagine, finissima, si articola lungo due filoni dettina cui il Folengo apparteneva, ma all'esigenallo scopo di ripercorrere e penetrare, senza riu- za profondamente avvertita di guide o "scorte" nirle o escluderne una, le due immagini che em- per una riforma della vita monastica. "Scorte" blematicamente proprio il Folengo compone e che attraverso il vaglio rigoroso di testi e la serrapresenta di sé. Il primo saggio scruta i riflessi del- ta ricostmzìone di rapporti il Chiesa individua in la formazione monastica nell'opera macaronica. figure come Camillo Orsini, legato all'ambiente L'analisi minuta svela nelle Macaronee una for- degli "spirituali" o dell'"evangelismo" italiano, te presenza della tradizione cristiano-medievale, nel fratello del Folengo, Giambattista, monaco e con calchi biblici, lacerti delle epistole di san commentatore dei Salmi, in un gruppo di benePaolo, modi della Patristica e della Scolastica, dettini veneto-mantovani e, fuori dal chiostro, in sfruttati a più riprese per l'impasto linguistico e il letterati come Marcantonio Flaminio, amico del gioco allusivo, che documentano come il lin- Castiglione e revisore del Cortegiano. Proprio guaggio maccheronico non sia una creazione in alla luce dei nessi plurimi con e tra le "scorte", vitro ma si riallacci a codici linguìstici e letterari la crisi religiosa del Folengo che porta all'uscita dall'Ordine appare una svolta decisiva, non un presìstenti. gesto di ribellione isolata né un'improvvisa riA questa analisi sì intreccia il diffuso esame nuncia, ma un lacerante travaglio e una matura degli spunti offerti dai cantari popolari all'Orlandino (il poema in ottave sulla fanciullezza di ricerca di approfondimento. Alla crisi del monaOrlando pubblicato nel 1326), spunti a lungo co il Chiesa accosta di riflesso la crisi del poeta rielaborati che confluiscono nel macaronico fo- che lascia il macaronico per il toscano o il latino lenghiano parallelamente a echi dotti, in una e la crisi dell'intellettuale coinvolto in quel ridiconfluenza di culture e tradizioni diverse perché mensionamento della cultura umanistica che po"il macaronico non è solo un modo di scrivere, stulava la necessità di sostituire gli autori pagani ma un modo di pensare e immaginare il poema; con la Sacra Scrittura. non c'è solo un macaronismo della lingua ma anche dei temi, dei generi, dei moduli stilistici".
di Sciascia ruota attorno alla misteriosa morte di un certo Giorgio Roccella, diplomatico in pensione, tornato improvvisamente in Sicilia: una morte dalla quale altre, ancora più inesplicabili, scaturiranno. Una vasta folla di personaggi, tagliati in modo svelto ed essenziale, si muove sulla scena: un questore, un commissario ed un colonnello dei carabinieri con l'ansia di semplificare una vicenda complicatissima; un prete all'antica, bello alto e solenne, ma dai loschi contorni; la moglie della vittima, laccata ed inanellata, preoccupata solo del patrimonio, ed il figlio penosamente chiuso nell'amoroso ricordo del padre; il professor Carmelo Franzo, vecchio amico del morto, unico interessato alla risoluzione del caso, insieme al candido sottufficiale di polizia Antonio Lagandara, il quale, "aritmeticamente" svolgendo la catena delle deduzioni, arriva alla verità, terribile ad ammettersi, uccidendo, per legittima difesa, l'assassino. Sullo sfondo, la Sicilia (ma si dovrebbe dire l'Italia) delle istituzioni in-
man mano che i nodi vengono al pet- l'amarissima considerazione del protine, il pettine, per così dire, si disinfessor Franzo: "ad un certo punto tegra, ed il loro scioglimento ha come della vita non è la speranza l'ultima a esito la proliferazione degli enigmi. morire, ma il morire è l'ultima speLa delineazione di una grande allegoranza". ria del potere procede, attraverso i All'incrocio di queste riflessioni, tanti casi giudiziari, per via di negasempre più urgenti negli anni, Sciazione: omnìs determìnatìo est negatio, scia non poteva che incontrare Luigi a rivelarci uno Sciascia scrittore di Pirandello: e si consideri circostanza cose e non di parole, al modo di Vernon casuale che, nel romanzo, la vitga, Brancati e Vittorini, ma di cose tima sia un uomo alla ricerca delle che, in virtù delle parole, dileguano. sue radici, tornato in Sicilia per ritroIn Una storia semplice ciò non accade. vare, appunto, vecchie lettere spediLa verità, come nei primi gialli II te al nonno da Pirandello. "Tutto giorno della civetta (1961) e A ciascu- quello che ho tentato di dire, — scrino Usuo (1966), si ripresenta univoca veva in un saggio degli inizi dell'89 ed indefettibile all'intelligenza del dal titolo Pirandello, mio padre — brigadiere, benché non si faccia pubtutto quello che ho detto, è stato blica con la condanna dei colpevoli, sempre, per me, anche un discorso su in una vicenda che si chiude nel cliPirandello": un discorso, e meglio ma di un'universale omertà. sarebbe dire un dialogo, avviato per Ma questo ritorno all'antico nella la mediazione del film IIfu Mattia Pacostruzione della detective story, cer- scal di Marcel L'Herbier, quando adolescente, letto il libro, scoprì, coto da spiegare nella storia dello scritme racconta in La Sicilia come metatore, perde d'importanza quando si scopre che il thriller è assunto a mero fora, che dentro il mondo pirandelliano egli ci viveva, che il dramma pipretesto per più gravi e vaste riflessioni di marca autobiografica; come randelliano dell'identità nasceva in
quel teatro naturale che era Agrigento, che, insomma, il pirandellismo era in natura. Un discorso mai più interrotto; dall'antico Pirandello e il pirandellismo (1953) al recente Alfabeto pirandelliano, elegante dizionarietto dalla voce Abba alla voce Zolfo, in cui convergono, in forma di lievissima fantasmagoria, tutti i temi che hanno ossessionato Sciascia nel corso di una quarantennale rilettura. Ecco allora, sull'onda di una sollecitazione onomastica o di una precisazione concettuale, ripresentarsi gli argomenti consueti: la lettura dell'intera opera pirandelliana in chiave di dialettalità, nel segno delle ipotesi gramsciane; la disamina del complicato rapporto tra Pirandello e Tilgher, lo studioso che lo rivelò al grande pubblico; le considerazioni sulle pagine di critica pirandelliana più amate, da Tozzi a Bontempelli e Debenedetti; le divagazioni sulla biografia pirandelliana che di pirandellismo si intridono. Il tutto nel quadro di un'interpretazione che, con il soccorso di Montaigne e di Pascal, ravvisa in Pirandello una sorta di cristianesimo naturale venuto a confliggere con un mondo soltanto nominalmente cristiano, nell'indifferente e cinica osservanza dei riti e delle apparenze. L'ultimo Sciascia di buon grado scorgeva in sé questo cristianesimo naturale ora che, cordialmente e serenamente, in Pirandello aveva riconosciuto il padre. Un padre che gli era capitato e che non avrebbe voluto, a fronte dei tanti che, poi, consapevolmente scelse, per opporsi a quell'irrazionale Sicilia che nelle pagine pirandelliane gli si era manifestata. I fantasmi di questi padri, insieme a quello di Pirandello (ancora una volta), turbano la cristallina chiarezza dei saggi più significativi ed intensi della bella raccolta Fatti diversi di storia letteraria e civile: pretesti, occasioni, brevi cronache, rapide escursioni che, con la scusa di dipanare un minimo caso una minima vicenda, si portano dietro l'infinito di una Storia privata e pubblica. In questa prospettiva il vero centro del libro non sta nei pur splendidi scritti su Stendhal, Verga, D'Annunzio e Tornasi di Lampedusa, ma in quelli che, con nostalgia, con malinconia, ritornano ai decisivi anni dell'adolescenza e dell'apprendistato intellettuale, come C'era una volta il cinema e L'Omnibus di Longanesi. Particolarmente toccante quest'ultimo dedicato alla rivista longanesiana, nella quale, scrive Sciascia, "confluivano ricerche, segnali, aspirazioni e ansietà di tutto un ventennio; dalla fine della prima guerra mondiale fin quasi alla soglia della seconda". Un ventennio nel quale davano brillante prova tutti gli scrittori decisivi nella formazione di Sciascia, diversi e spesso in conflitto, eppure uniti in quel tentativo di sprovincializzare l'Italia autarchica e fascista. E ne diamo qui elenco: Borgese, Cecchi, Savinio, Barilli, Tilgher, Rensi, De Lollis, Cajumi, Longanesi, Brancati, Vittorini, Pavese, Praz, Trompeo, Alvaro, Soldati, Buzzati, Morovich, Piovene, Moravia. Come se, nel tempo estremo, quando i tanti libri scritti gli si scioglievano, gli si confondevano, nei tantissimi letti, avesse voluto ricordarli tutti, e tutti chiamarli per nome, uno ad uno, a futura memoria.
DEI LIBRI DEL M E S E
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quale dei due gruppi batta il cuore diacronia critica in vera storia della del critico (c'è bisogno di dirlo? natu- critica e cinquanta e più pagine di ilralmente per il secondo). Ma poi bol- lustrazione metrica a tappeto, aggiula la linea crepuscolare e i suoi tardi dicano anche a questo pezzo (nato di Giorgio Bertone derivati che praticano la "vergogna come Introduzione a un Myricae della Bur) quella qualifica di fondamentale della poesia" e così torcono meritoriamente "il collo al poeta demiurgo" di che si suole ripetere oralmente agli Mengaldo, quello istituzionale, la li- prio il passaggio da un superficiale stampo dannunziano, ma possono studenti e affiggere in multicolori barica moderna "nasce nel momento computo aritmetico-sillabico del verso a una considerazione globale (ri- continuare "a fare i poeti a buon mer- cheche. Ecco subito, però, una delle stesso che si allontana con uno strappo dall'insieme della 'letteratura', e ma, isotrofismo, ecc) dell'organismo cato senza pagare il dazio". E nega la tesi conclusive: il superamento da cessa di essere un genere letterario poetico nella sua oggettualità e istitu- sua adesione all'ultimo Montale a par- parte del Pascoli del "frammento" nel "romanzo". Tesi che avvia a sotire da una serrata analisi della mescofra gli altri per porsi come esperienza zionalità. E il passaggio alla verifica, separata e assoluta. Di qui anche il non più procrastinabile, delle nuove lanza di linguaggio alto e prosastico luzione l'annoso problema (evidentemente mal posto) della fissità psicosuo perenne inseguire la condizione convenzioni metriche che si sono an- nella nuova declinazione senile. Nella mappa dunque non conta logico-ideologica e del reazionarismo date costituendo nel Novecento (e su privilegiata della musica" (p. 8). Contro questa egemonizzazione cui Fortini ha scritto a suo tempo co- l'unicità, l'irripetibilità del singolo del poeta e del suo dinamismo e rindel regno della poesia da parte della se preziose, ora riannodate nelle poeta, ma la sua funzione appunto, la novamento formale. Ma di quale rosua capacità di far parte di un coro di manzo si tratta? E a che livello dei lirica puntarono, come si sa, mani e Questioni da Mengaldo). Di qui l'auvoci, di infondere una lezione tra- contenuti avviene l'"integrazione" scultazione minuta, verso per verso, piedi i due maggiori di "Officina", sociale? Per un attimo sedotti dal tutto e subito, questo vorremmo sapere. Anche perché c'era chi aveva già detto la sua. Sanguineti: "in lui [Pascoli] parlava per questa sua patetica religione delle tombe [e la sua "liturgia del pianto"] tutta la tradizione più arcaica e più vera dell'Italia di Claudio Marazzini contadina "(La missione del critico, 1978; ma il pezzo è giusto giusto di vent'anni prima). E non basta il secco no di Mengaldo pronunciato in seP I E R V I N C E N Z O M E N G A L D O , L'epistolario di mostra ad esempio che i milanesismi cadono tutdi decentrate, in nome della diversità Nievo: un'analisi linguistica, il Mulino, Bolo- ti in un gruppo di lettere dirette quasi esclusivadella cultura contadina, con la sua acmente a milanesi. L'italiano di Nievo, in conclugna 1987, pp. 362, Lit 36.000. cettazione della morte dentro la ciclisione, ci appare "così poco ortodosso, e a un cità naturale in confronto al culto Chi vuole verificare che cos'è rigore analitico tempo così inventivo", perché attinge alle "varie mortuario piccolo borghese ("Il Corperiferie della lingua" (p. 352), e viene sottopoin un lavoro stilistico e linguistico esemplare, riere del Ticino", 16.V.87; "Panorascorra le pagine di Mengaldo sull'epistolario di sto ad una elaborazione che produce neologismi ma", 7 .VI.87). espressivi. Questi risultati sono da porre in relaNievo. Un'antica abitudine (che oggi però ci In generale, la perentorietà di giucondiziona molto meno) riservava fino a non zione con le opinioni di Nievo sulla "questione dizi è un ulteriore tratto differenziadella lingua", alle quali forse non è stato attrimolto tempo fa agli scrittori antichi, soprattutto le del secondo tempo della Tradiziomedievali, le descrizioni sistematiche, ordinate buito in passato il giusto rilievo. ne. Costretta in una ricetta, k metoIl saggio, pur eminentemente analitico, tocca per fenomeni grafici, fonetici, morfologici, sindologia di Mengaldo potrebbe risultare il prodotto di una miscela della tattici. Ora, grazie agli storici della lingua ed ai sovente problemi generali, relativi prima di tutto miglior stilistica (Spitzer, Contini, critici 'analitici', non ci stupiamo più che un allo stile dello scrittore ed alla descrizione della Folena...) con una rilettura filosofica procedimento di lettura altrettanto rigoroso sia lingua italiana dell'Ottocento, ma anche di dihegeliano-lukacsiana arricchita da applicato ad un autore moderno, con relativa ab- versa natura, come, che so, il modo di nasconderspunti francofortesi; e di un apporto, bondanza di spogli. Nel caso di Nievo si può dire si o di rivelarsi di Nievo nelle lettere. Non sono direi, della lezione di Dionisotti meaffrontate solo questioni linguistiche, dunque, che il gioco valga la candela, perché le lettere no esibita — mai nei titoli — che ef"sono per eccellenza il luogo del plurilinguismo ma il critico arriva a centrare gli obiettivi più vaficacemente reinterpretata. Il tutto nieviano" (p. 340), dove si specchia più ricca- riati con una sua grinta particolare, con una assocondotto in discussione con alcune mente la varietà della formazione e competenza luta chiarezza definitoria che, credo, deriva dalvoci privilegiate, prima fra tutte quella di Franco Fortini. E la definilinguistica di questo autore. E una competenza /Tiabitus mentis e dal rigore del linguista. Il letzione della sua idea di critica (Appunin cui entrano vari dialetti: veneto, friulano (per tore medio cercherà le prospettive più generali ti su Fortini critico) ha anche il senso Nievo questa è lingua semimatema, ma anche, a nella Premessa e nella Conclusione del libro. di un autoritratto: specialista e tecnivolte, idioma estraneo ed ostico), mantovano, Lo specialista avrà occasione di sfruttare a fondo co solo in partenza, il critico (non milanese. Accanto ai dialettismi, più o meno at- gli undici capitoli intermedi, nei quali sono molcoincidente con lo studioso di lettetenuati, lo studio di Mengaldo mette in evidenza to curati i raffronti con l'uso degli autori coevi e ratura) è poi, come per Fortini, capai francesismi (nell'Ottocento — notava Migliori- con le testimonianze dei repertori lessicali del ce di identificarsi, per un certo grani — gli epistolari sono i luoghi tipici di fioritura tempo, perché Mengaldo crede in un aureo prindo, nell'opera e di emettere giudizi dei francesismi) ed i toscanismi, a volte originati cipio, che così sintetizza: "A mio avviso è necesdi valore. Né totalmente scienziato, dalla lettura di Giuseppe Giusti, un autore che sario farsi il più possibile contemporanei deldunque, né anima eletta che si abbandoni all'avventura in mezzo ai caattorno alla metà del XIX secolo fece scuola di l'emittente e dei suoi destinatari" (p. 31). polavori. Mediatore, piuttosto, non lìngua. tra autore e lettore, ma tra tutto ciò A differenza di altri, Nievo risulta lavorare su che l'opera è e ciò che non è: ossia tra di una tavolozza in cui il colore dialettale è vario l'autore e il mondo, l'ideologia dei per la ricchezza delle componenti, condizionate destinatari, critico incluso (p. 409). sia dalla mobilità della vita dell'autore, sia dal La distanza, invece, da quell'altro luogo di nascita degli interlocutori. Mengpldo diispiratore, a cui solamente può paragonarsi per risultati, non di rado vicini o complementari, Gianfranco Contini, è tutta misurata dallo stile. Pasolini e Fortini, per saggiare la e la notomizzazione di quei casi che, smissibile nella "tradizione". Ma Per niente librata in un esercizio suquale "tradizione"? O quali? Forse il periore, né divinamente ellittica, possibilità in versi — ognuno per suo manuali alla mano, non tornano. conto — di altre cose, la poesia epiI singoli poeti, con la loro speri- titolo così pertinacemente al singola- quasi mai ironica, ma, semmai, venaca, l'epigramma, il poemetto dida- mentazione metrico-stilistica, diven- re è il luogo assertivo meno convin- ta di sarcasmo, la scrittura di Menscalico, etc. Anche per ciò la parabo- gono così anche delle "funzioni". E cente del volume, se tra l'altro qui galdo pare uscire da una mano tutta la dei loro tentativi artistici e del loro 5 tecnicismo fitto di tante pagine rie- compare un densissimo saggio su My- irradiata di nervi che procede per fitricae — in realtà su tutto Pascoli — te schermaglie, traccia disegni geomelavoro critico diventa significativa e sce di colpo a una sistemazione geneimportante. Importantissima, inverale. Anzi, nelle pagine iniziali — quasi a contrappeso del ruolo di trici in un incalzare senza tregua, poi si ce, sempre su questo versante, quelsempre dentro gli Appunti tipologici D'Annunzio nell'altra Tradizione, la distende in un affondo di ragionamenl'area di primo Novecento, in cui la — sta, una volta per tutte, una presa "prima". Una discussione con gli ti definitivi privo di scampi ideologici poesia ha voluto darsi una diversa di posizione netta sulla poesia con- specialisti pascoliani che converte la elusivi, per sé e per il lettore. forma, e dunque fondare un assetto temporanea. Da una parte un filone altro dall'istituzione tradizionale. "orfico-sapienziale" con Luzi e ZanEcco allora i saggi sulle varie forme zotto, teso ad afferrare una "verità", di liberazione progressiva dalla me- dall'altro quello "esistenziale" con trica tràdita: prima di tutto le Consi- Bertolucci, Caproni, Sereni, che si derazioni sulla metrica del primo Goaccontenta di comunicare un'espevoni, che va letto in parallelo al sag- rienza. Ai primi sta dietro l'ermetigio sul primo Palazzeschi della Tradi- smo, ai secondi Saba e il Montale più zione '75; e le più comprensive reattivo all'ermetismo ("Luzi e ZanQuestioni metriche novecentesche. La zotto stanno eroicamente fermi nella proposta — meglio specificata nelle rocca assediata e mantengono alto il Questioni (pp. 562 sgg.) — di non tiro, gli altri escono per le strade, si usare più il termine di "verso libero" mescolano ai nemici e sparano rasoma quelli di "metrica liberata" e di terra" p. 20). La prassi critica di "liberazione metrica" — con ampie Mengaldo contempla anche la resa pezze d'appoggio tecniche e sulla dei conti, il giudizio severo; dà, nel scorta dei francesi — suggerisce pro- caso, "torto ai versi"; confessa per
Tra orfici e esistenziali Questioni metriche novecentesche, in Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi, a cura di Ottavio Besomi, Giulia Gianella, Alessandro Martini e Guido Pedrojetta, Antenore, Padova 1989, pp. XXVIII-626, Lit 90.000. PIER VINCENZO MENGALDO, La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, pp. 475, Lit 38.000.
PIER VINCENZO MENGALDO,
Dentro l'affettuosa fedeltà e il tenace attaccamento alle proprie prede (principalmente: Montale, Fortini, Sereni) la "nuova serie" della Tradizione del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo si distingue in prima battuta dalla "prima" (1975) per almeno due dati: 1) l'esclusivo privilegio accordato alla poesia: anche quando il tema è il lavoro critico di un autore (ma sempre un poeta) vira immediatamente a ridiscussione del sistema poetico novecentesco (vedi Pasolini critico e la poesia italiana contemporanea)-, 2) l'accresciuto tasso di utensileria metrico-stilistica, tale ormai da rendere quasi minoritaria l'analisi propriamente linguistica e la stilistica delle fonti, così assiduamente praticata sulla linea D'Annunzio-Montale nella "prima serie". Siamo di fronte, insomma, a una più insistita volontà di percepire la materialità sonora e musicale, quasi un primum della realizzazione poetica (la musica e la sua storia sono una delle competenze e passioni di Mengaldo, poi adibita in sede critica, quando non misurata più o meno direttamente su quelle degli autori: Montale critico musicale). Per cui altri saggi recentissimi come le Questioni metriche novecentesche o anche i Confronti fra traduttori-poeti contemporanei (Sereni, Caproni, Luzi) (in Tradizione/traduzione/società. Saggi per Franco Fortini, Roma, Editori Riuniti, 1989) s'infilano benissimo nella medesima schidionata del volume maggiore, che, per di più, prevede articoli sulle versioni poetiche di Montale e di Solmi. Tanta concentrazione sull'universo della poesia che si vuole accampata con una pretesa esclusiva, permetterà di dire, manipolando un autore che gli è tra i più cari, che questa "è la sua sola musica e gli basta"? No, se si sbircia l'altro tavolino, dove, in una stagione — appena oltre la soglia del mezzo secolo — di rinnovata alacrità (incredibilmente per un critico che non su impressioni lavora né in punta di lingua, ma su schedature, indagini micrometriche e grandi affondi culturali), s'impilano gli studi appena editi su prosatori-prosatori quali Nievo e Calvino. Sì, se si osserva, invece, una ragione più profonda, che attraversa tutti i saggi del volume vallecchiano e aggregabili; e che sarà il filo di vento che seguiremo. Centrale, dal punto di vista generale, non è più l'Introduzione al "meridiano" (1978) Poeti italiani del Novecento (qui ribattezzata — ma perché mai? — Per un'antologia della poesia italiana del Novecento), ma il saggio Grande stile e lirica moderna. Appunti tipologici, uscito nell'83 su "Sigma" per una sollecitazione di G.L. Beccaria sul "grande stile". In una mappa europea, l'origine della lirica moderna viene ripercorsa su binari hegeliano-lukacsiani: "la quiddità della lirica moderna" sta nel suo essere "la forma organica o figura [...] della separazione radicale dell'individuo borghese dal suo corpo sociale, e della sua non mediata opposizione ad esso — laddove il romanzo moderno è figuradell'integrazione, riuscita o fallita, dell'individuo nella società" (pp. 7-8). Guardata allora sotto l'aspetto che preme a
Dalle periferie della lìngua
N I R INDICF P A G • • d e i
LIBRI D E L
M E S E f e i
Per esempio un bel racconto di Costanzo Di Girolamo Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 365, Lit 37.000. CARLO DELCORNO,
L'exemplum, genere di contenuto non necessariamente religioso, ma destinato in primo luogo a essere utilizzato nella predicazione, occupa un posto cruciale nel quadro della narrativa breve medievale, in latino e nelle lingue romanze. Nelle grandi raccolte di exempla è confluito un patrimonio narrativo della più varia provenienza (classica, orientale, tradizionale, di attualità), che è stato poi utilizzato come inesauribile serbatoio di temi e di motivi, oltre che dai predicatori, dagli scrittori nel corso dei secoli, al punto che nell'exemplum si è voluto vedere l'incunabolo della novella boccacciana. Come nel caso di altri generi medievali (il fabliau e il lai, per esempio), una definizione rigorosa dell'exemplum presenta numerose difficoltà, finendo per applicarsi solo a parte di un corpus sterminato. Uno dei meriti di questo libro di Delcorno, che si aggiunge all'ampia bibliografia sul racconto esemplare infittitasi soprattutto negli ultimi anni, è appunto quello di evitare un approccio rigido al genere, colto piuttosto nelle sue ramificazioni in altri generi o sottogeneri e seguito nella sua presenza e sopravvivenza nei piani alti della letteratura. Già il titolo del libro, infatti, contrappone, per poi verificarne i contatti, la forma dell'exemplum, inteso come luogo di confluenza della cultura clericale e di "tradizioni popolari", e la letteratura in accezione forte, vale a dire la cultura letteraria colta (e laica) in lingua volgare, dal medioevo fino al Rinascimento e oltre. La prima parte del volume è dedicata allo studio del racconto esemplare in senso stretto. Nei cinque capitoli che la compongono, l'exemplum viene studiato nei suoi rapporti con l'agiografia (primo e secondo capitolo), nei suoi sconfinamenti nel meraviglioso, nelle prediche di Bernardino da Siena, e infine in un motivo, quello dei figli che saettano il cadavere del padre, diffuso sia tra i predicatori che tra i novellieri, fino a Sercambi. In tutti questi saggi, Delcorno tende da un lato a allargare lo spazio di influenza dell'exemplum, dall'altro a verificarne l'arricchimento da parte della novella. Esisterebbe infatti "una legge che regola l'evoluzione generale della narrativa: dalle forme semplici dell' exemplum si passa, nel tardo Medioevo, alla struttura complessa della novella, attraverso la dissoluzione o l'allentamento dei legami che stringono il racconto al contesto e alle sue finalità didattiche. L'affermarsi della novella non implica il declino irreversibile dell'exemplum, che conserva una sua funzione ideologica insostituibile almeno fino all'età dell'Illuminismo" (p. 175). Nella seconda parte, L'exemplum dei letterati, Delcorno studia la presenza della tradizione esemplaristica nella letteratura italiana del Tre e del Quattrocento: Dante, Petrarca, Boccaccio, Sacchetti e Ariosto. Per la ricchezza della documentazione e la finezza delle analisi questo libro rappresenta certamente il più importante contributo italiano degli ultimi anni in questo campo di studi. Le osservazioni marginali che seguono non vogliono essere altro che un piccolo contributo alla discussione. Ho detto sopra che uno dei pregi maggiori del volume di Delcorno consiste nell'ampliare la nozione di exemplum, evitando definizioni restrittive del genere. Ciò non toglie, tuttavia, che una distinzione tra
exemplum come genere narrativo breve (dai confini incerti e problematici, d'accordo) e discorso esemplare in generale sia, oltre che possibile, anche opportuna. Chiunque abbia qualche familiarità con le letterature medievali sa benissimo che la dimensione esemplare attraversa tutti i maggiori generi letterari, da quelli allegorici e didattici all'agiografia fino alla stessa lirica; in questo senso, l'exemplum rappresenta il genere in cui tale esemplarità viene resa maggior-
mente esplicita e finalizzata, nella predicazione, alla persuasione dell'uditorio. A me pare invece che Delcorno rifiuti preliminarmente questa distinzione, finendo per convogliare nella categoria dell'exemplum o per ricondurre a essa modalità espressive fondate su un tipo di esemplarità che è comune a molti generi. Questo da un lato; dall'altro io non so fino a che punto si possa sostenere (si tratta comunque di una tesi forte che avrebbe meritato un approfondimento teori-
co maggiore) che l'exemplum sopravvive fino all'illuminismo, anche nei piani alti della cultura letteraria: in questo caso si tratta di capire se sopravvive \'exemplum come racconto finalizzato all'edificazione e inserito nella predicazione (e se sopravvive come modello influente nella letteratura alta: suppongo che i preti dal pulpito, se ancora viene usato il pulpito, facciano tuttora uso di veri e propri exempla), oppure se, più semplicemente, sopravvive un patrimonio di materiali narrativi di svariata provenienza che fu fatto confluire nelle grandi raccolte di exempla. Ciò non significa ovviamente che il Rinascimento segna la fine del racconto esemplare, o se si vuole del racconto
Malinconia dell'evidenza di Gabriella Catalano G E O R G E S P E R E C , Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 1989, ed. orig. 1973, trad. dal francese di Renata Delbono, pp. 115, Lit 16.000.
"Lo spazio è un dubbio" scrive lapidariamente Georges Perec in conclusione al suo libro: è il dubbio dei luoghi che non esistono più. Occorre fermarli, conquistarli, trattenerli. Occorre scrivere, perché scrivere significa "cercare meticolosamente di trattenere qualcosa". Specie di spazi appartiene tutto alla sfera di questo tentativo, operato attraverso l'inventario dei diversi tipi di spazi: dal pìccolo al grande, dal vicino al lontano, dal concreto all'astratto. Dalla pagina scritta, intesa come unità spaziale del libro, alla città, all'entità Europa fino alla dimensione onnicomprensiva del mondo. L'allusione ironica e leggermente provocatoria, contenuta già nella forma allitterante del titolo, trova subito conferma all'inizio dell'ardita impresa che il volumetto si propone di attuare: per evidenziare il problema dello spazio e del rapporto con la letteratura, Perec intraprende il suo excursus con un esempio prettamente empirico: lo spazio letterario è prima dì tutto lo spazio della pagina o, per meglio dire, della materia stessa con cui essa viene fabbricata, cioè la carta. Come ovvia conseguenza di questa equazione lo scrittore propone di calcolare quanti ettari di foresta sono occorsi — moltissimi, di certo — per stampare gli incalcolabili fogli dei libri di Alexander Dumas padre. Ma l'oggettivizzazione materiale si spinge ancora oltre. La scrittura viene usata come fenomeno di natura essenzialmente fisica: scrivere significa occupare una porzione dì spazio e la conferma dell'intrinseca essenza di questo rapporto è offerta in un gioco di identità fra il segno linguistico e la sua collocazione spaziale: la parola verticale è scritta in verticale, una lettera dopo l'altra, la parola margine viene posta al margine della pagina, e così via. Ma qua l è il senso di questa congettura? La realizzazione dell'identità fra spazio e scrittura, ostentata attraverso la resa visiva della loro connessione, vuole forse ammonire coloro che intendono affermare
l'inesistenza del problema o che lo trattano come un aspetto del tutto secondario dell'universo letterario. In realtà il fine dell'esperimento di Perec è di osare un approccio con la scrittura che vada oltre i limiti della scrittura stessa. Parlare dello spazio nella letteratura significa forzare le regole della sua composizione. La letteratura si appropria dello spazio tramite l'allusorietà del mezzo linguistico; quindi, parlare dello spazio significa confrontarsi con il problema della designazione, la possibilità di definire con un nome il mondo degli oggetti. E perciò che Perec scrive un libro sull'evidenza. E su questa ovvietà che la sua scrittura lavora servendosi della trasparenza della lettera per rinviare a tutto ciò che solo apparentemente è in possesso del nostro sguardo e della nostra conoscenza. "E evidente, certo" dice Perec "ma cosa non è evidente?". L'ossessiva inclinazione al catalogo, uno stile che si articola per eccessi paratattici di lunghissimi elenchi, corrisponde al desiderio di rianimare una percezione secondaria, facendo della descrizione una purissima arte del trascrivere. Il risvolto ludico del libro di Perec, che si inserisce in modo tutto particolare nel genere saggistico — l'autore 'saggia' tipi diversi di spazio — unisce all'ironia dell'inventariazione quasi asettica un senso della fuggevolezza che sembrerebbe a prima vista estraneo in un autore così gagliardamente lanciato nel gioco degli artifici letterari. Invece è proprio un senso di profonda malinconia ciò che lascia la lettura di questo libro. Lo sforzo di trattenere corrisponde esattamente alla sua impossibilità, al senso delle cose che fuggono, cambiano, si perdono, sfumandosi nella memoria che solo per illusione contiene tutto esat'tamente, come aveva voluto credere lo stesso Perec, progettando un elenco di tutte le camere da letto che gli sono appartenute, anche solo per una notte. Lo spazio, che non è possibile pensare, è lo spazio dell'appropriazione dell'esperienza. Perciò, come viene detto alla fine del volume, esso corrisponde all'azione dello scrivere.
morale, o a tesi, sottotipi che perdurano fino al Novecento, senza che si possa vedere in essi dei pronipoti dell'exemplum medievale. Un altro punto del libro di Delcorno che merita qualche commento riguarda il rapporto tra l'exemplum e la novella di Boccaccio. Da un lato, nel capitolo dedicato al Decameron, Delcorno riconduce finemente alcune novelle del Decameron all'exemplum medievale, vale a dire sia a singoli testi, sia all'exemplum come genere (a quello che alcuni hanno chiamato 'genere-fonte'), studiandone le deformazioni e i rovesciamenti. Dall'altro, soprattutto nel capitolo introduttivo, lo studioso tende a smussare o a annullare la distinzione tra exemplum e novella, appellandosi all'autorità di Vittore Branca, secondo il quale l'exemplum "è sempre novella, come la novella è sempre esempio, perché l'esemplarità [...] è appannaggio inelusibile della narrativa" (p. 13). Ora è ben chiaro che non esiste mai, in letteratura, una polarizzazione netta tra due generi e che i rapporti genetici non sono mai semplici e lineari; vedere tuttavia nella novella una variante complessa dell 'exemplum, o nell 'exemplum una quasi-novella significa, a mio parere, non cogliere pienamente l'innovazione introdotta da Boccaccio nella narrativa medievale nel suo complesso, e non soltanto all'interno della tradizione esemplaristica. L'invenzione della novella boccacciana (con tutte le sue anticipazioni: basti pensare al Novellino, menzionato solo di sfuggita) appare infatti indissociabile dalla sistematica operazione di revisione, di ribaltamento o di apertura delle forme principali della narrativa medievale, dalla leggenda sacra al romanzo bizantino, dal fabliau al lai, dalla vida aUTexemplum stesso, che non va quindi visto come il termine privilegiato di confronto dell'autore del Decameron. Qualcosa di simile era del resto avvenuto, qualche decennio prima, con il Libro de buen amor, dove sia la tradizione clericale-esemplaristica che quella cortese erano state smontate con gli strumenti della parodia dall'Arciprete di Hita. È abbastanza ovvio che il successo della novella, in Italia, abbia influenzato le tecniche narrative dei compilatori di exempia; come è altrettanto ovvio che novellieri posteriori a Boccaccio abbiano continuato, con maggiore o minore originalità e polso, la tradizione esemplaristica. Per meglio cogliere il rapporto tra exemplum e novella non sarebbe stato forse inopportuno un approfondimento del filone esemplaristico laico (cioè non finalizzato alla predicazione), mediolatino e romanzo, dalla Disciplina clericalis al Conde Lucanor, al Libro de los engahos, al Calila e Dimna, fino al Novellino italiano. L'indifferenza dell'autore, lo si è ripetuto, per definizioni restrittive dell'exemplum, come quelle che lo legano indissolubilmente alla predicazione, gli avrebbe permesso di inserire nel suo discorso un altro aspetto della narrativa esemplare fondamentale per la letteratura alta del tardo medioevo, se è vero che la tradizione esemplaristica che autori come l'Arciprete di Hita o Boccaccio avevano presente non era costituita solo dalle storie raccontate in chiesa dai predicatori ma da un patrimonio di racconti assai più intricato e complesso. Naturalmente ciò va detto solo per suggerire al lettore un'ulteriore prospettiva, a margine di quella adottata da Delcorno che è principalmente incentrata sul\'exemplum religioso latino e italiano. In conclusione, pur evitando prese di posizione teoriche nette, questo libro, oltre che essere un esempio di robusta saggistica, servirà certamente a riaprire la discussione sul racconto medievale dal punto di vista storico e dei rapporti tra i generi e i testi.
N 1 RINDLCF PA8- 9 • • D E I
Meccanismo di grazia di Marisa Bulgheroni Pesca alla trota in America, Serra e Riva, Milano 1989, ed. orig. 1967, trad. dall'americano e nota di Riccardo Duranti, pp. 154, Lit 20.000. RICHARD BRAUTIGAN,
Sembrava che i libri di Richard Brautigan, tanto letti e studiati anche in Italia negli anni della contestazione giovanile (quando Rizzoli pubblicò Il generale immaginario, 1967 e L'aborto, una storia romantica, 1976) fossero destinati, sia pure temporaneamente, a uno di quei cimiteriali depositi di carta stampata o di oggetti smarriti, a uno di quei fantomatici capolinea dell'usato che ossessionavano la sua immaginazione di scrittore come i soli luoghi degni di arduo pellegrinaggio. Quasi che soltanto dalla familiarità con le reliquie involontarie di una cultura, i miti smontati e accatastati come scenari, le parole in disuso, la natura in pezzi, fosse possibile conquistare quella grazia dello sguardo che aveva fatto del suo nome un sostantivo: "un Brautigan" designava in quegli anni della sua fama un'invenzione narrativa, un oggetto scritto fragile e mirabolante, costruito frammento per frammento sotto gli occhi del lettore. Quando il segreto di quell'artigianato sfuggì a lui stesso, Brautigan cercò nel 1984, quarantanovenne, la morte, sempre evocata ed elusa, sempre ospite importuna e necessaria della sua comicità che rinnovava, in artiglierie di iperboli, la tali tale della frontiera in un'America sbarrata dai rottami di frontiere antiche e recenti. Nella San Francisco in cui il movimento beat pareva stemperarsi nei fiori e nell'acido dei primi hippies, e le comuni nutrivano l'inatteso silenzio e il nuovo solipsismo che, secondo Bruce Cook, cronista di quell'epoca, avrebbe contrassegnato la generazione di Woodstock, Brautigan era sorto all'improvviso dall'anonimato di un lungo tirocinio poetico come un Don Chisciotte on the road, un nuovo eroe della controcultura. Ma un Don Chisciotte alla rovescia, che, muovendo alla ricerca dell'America selvaggia di cui favoleggiano i suoi scrittori prediletti — Thoreau, Melville, Mark Twain, Hemingway — sa, alla partenza, che è "un luogo della mente"; un visionario che non scambia i mulini a vento per giganti, o i computer per esseri viventi, ma, incantato dall'attimo e dall'evento delle metamorforsi che si compiono nella retina di chi guarda, le trascrive, stringendo il lettore in una rete fosforescente di metafore perché riesca a divinare con lui quel "prato cibernetico / dove mammiferi e computer / vivano insieme / armoniosamente programmandosi / ... sorvegliati / da macchine di amorosa grazia", quell"'ecologia cibernetica" di cui parla in una poesia di The Pili versus the Springhill Mine Disaster (1968). Oggi la prima edizione italiana di Trout Fishing in America (tradotto con inventiva sapienza da Riccardo Duranti) non soltanto smentisce, a cinque anni, dal suicidio del suo autore, una temuta oscurità, ma s'impone alla lettura come il manuale
miracolosamente tramandato da un tempo che sembra ormai lontano, di un'arte dello scrivere che nessuna scuola di creative writing riuscirebbe a codificare. Brautigan vi ha miniato figure di paesaggi e di creature fantastiche, lasciando che le acque dell'immaginazione le lavassero come piogge, così che leggerlo è come addentrarsi in una fuga di stanze ombrose e trasparenti ognuna delle quali riflette misteriosamente tutte le altre. Ha scritto un libro su un mito
LIBRI D E L M E S E
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lio: "Quel vecchio ubriacone mi parlò della pesca alla trota [...] aveva un modo di descrivere le trote come se fossero un metallo prezioso e intelligente. Argenteo non è un aggettivo adeguato per descrivere quello che provai [...] Forse acciaio trota. Acciaio ricavato da trote. Col fiume limpido e nevoso che fa da fonderia e da fucina. Immaginate Pittsburgh. Un acciaio fatto di trote, usato per costruire edifici, treni e tunnel [...]". Alla ricerca di quel vivo metallo alchemico il narratore intraprende un picaresco pellegrinaggio da un torrente all'altro "da un bel nome all'altro" — della sua America stralunata, spesso interrotto o deviato da imprevedibili ostacoli, apparizioni, remini-
SABATINO CIUFHN1
Lettore colto e smaliziato, assapora la gioia di quel tremendo mal di testa che fece ululare Giove Onnipotente prima che Prometeo, con un colpo di mazza, gli facesse schizzare dal cervello Minerva armata di ferro e di sapienza.
DISPOSI! IVI 1 POI IH O DI 1 MI KOI S/A G U I D O
G U i D O T T I E D I T O R E 00165 ROMA - VIA TEODORO VALFRE', 4
Troppo presto, troppo tardi, mai? di Guido Carboni Non ha certo l'impatto di un premio Nobel per la letteratura, ma credo che siamo in molti ad essere contenti che al signor Pescallatrota sia stato finalmente concesso il patentino di pesca nei nostri fiumi. Eppure dà da pensare che questo piccolo classico, che affonda le sue origini in quel gustoso trattato seicentesco tra la meditazione filosofica e il manuale del pescatore che è il Complete Angler e a cui fa evidentemente da "galleggiante" il melvìlliano Moby Dick, ci abbia messo tanto tempo ad arrivare. Curioso destino che peraltro condivide con L'Incanto del lotto 49 di Pynchon. Anzi il destino del libro di Pynchon è ancora più curioso: nel 1966, con assoluta tempestività, l'aveva pubblicato Bompiani, facendo seguito a V (scritto nel '63 e tradotto nel '65), ma quando agli inizi dei settanta lo consigliavamo ad amici e studenti abbiamo scoperto che era scomparso, al macero ci disse qualcuno. Condannato dal suo insuccesso? Certo i nostri amici non ne avevano sentito parlare. Qualcosa di simile deve essere accaduto al gustoso libro d'esordio di Brautigan, Il generale immaginario (del '64, tradotto nel '67), e l'editore deve aver poi deciso di saltare Pesca alla Trota e di riprovarci con il più accattivante L'aborto, nel '76, che per di più era un tema di moda. Chissà se ci riproverebbero oggi? Eppure sia il libro di Pynchon che quello di Brautigan sono, in modi e per ragioni diverse, due classici di quel postmoderno, americano e non, che ha fatto scorrere abbastanza inchiostro trai '71 e gli '80; il nostro amico Pescallatrota avrebbe potuto facilmente pescarci dentro. Forse il problema è che, per buone e cattive ragioni), i letterati sembrano aver abboccato abbastanza poco, in Italia, all'amo del postmoderno, che è diventato una riserva in cui hanno pescato più gli architetti, i filosofi e i teorici della letteratura e, da ultimo i lookologi (si dice così), più o meno in quest'ordine sulla via dell'uscita sulla scena delle mode culturali. Fatto sta che dopo alcuni esordi abbastanza tempestivi, come il Gaddis di Le perizie ('55, tradotto nel '67) i postmoderni americani sono quasi spariti di scena da noi. Se la sono cavata
americano — la pesca, cattura dell'impossibile o dell'arcano — decaduto a nome e, accettando la sollecitazione dei maestri a cercare i suoi modelli nella natura, ha intessuto quasi in ogni pagina l'irridente emblema della trota; ha giocato, non solo graficamente, sulla connivenza tra forma e nome, sulle figure metamorfiche che l'attrito tra l'uno e l'altra produce, per scoprire che i modelli della natura sono inestricabilmente fusi .con i modelli della cultura. Fin dall'inizio quel nome — pesca alla trota in America — che è, nelle sue mutevoli accezioni e parsonificazioni, il vero protagonista del libro, suscita nella mente del narratore bambino un fantasmagorico scintil-
abbastanza bene John Barth, e Donald Barthelme, scomparso di recente, James Purdy (ameno per le prime opere) e naturalmente Mailer (ma Mailer è un tardo e curioso convertito al cosidetto postmoderno) e Angela Carter (ma qui bisogna ringraziare le donne e le traduttrici). Soprattutto non sono mai arrivati alcuni dei libri più interessanti: per esempio il primo Hawkes, The Cannibal, del '49. Coover è una riscoperta recente, che l'editoria non ci sta offrendo al suo meglio, e di lui non sono usciti né The Origin of the Brunist, un premio Faulkner 1966 pre-postmoderno, né lo straordinario Public Burning del 1977. Pare che finalmente Einaudi abbia messo in traduzione Stanley Elkin, almeno The Making of Ashenden, ma chi avrà il coraggio di tradurre il Pynchon di Gravity's Rainbow, e soprattutto dove lo si trova, o meglio con che denaro si paga un traduttore che sia all'altezza. Eppure gli ammiratori del Pendolo di Foucault vi troverebbero pane per i loro denti, anzi una dieta più robusta. Forse il problema è che i postmoderni sono stati tradotti troppo presto, quando il pubblico italiano non era pronto, e la critica, da noi come in America, per anni non ha saputo come inquadrare e collocare la loro mescolanza di altissima sofisticatezza letteraria e di immersione nei media, di radicamento quasi provinciale nel momento storico che li ha prodotti e di proiezione da villaggio globale, e cosisi è bruciato il mercato. Forse è colpa loro, dei postmoderni, che da un lato corteggiano il pubblico con i suoi viziacci da cultura degradata di massa e poi gliela rivoltano contro. Forse sono arrivati troppo presto, ma ora forse è troppo tardi. Forse nemmeno questo Brautigan avrà successo e gli altri non li leggeremo mai più in italiano, e tutto sommato è un vero peccato perché, piacciano o meno, sono uno degli ultimi sussulti d'orgoglio di quel romanzo che ha attraversato l'avanguardia e si vuole, ancora e nonostante tutto, letteratura dell'epoca del trionfo dei media.
scenze. E poiché il suo nomadismo segue un itinerario sia geografico che mentale, ogni capitolo si presenta come momento di un percorso fortuito, di un'indagine impossibile; ogni capitolo è un frammento compiuto in sé, predella di un altare perduto in cui s'intrecciano storie di anonimi e memorie di grandi, e una latrina solitaria ha l'autorità di un monumento; anarchiche iperboli presiedono sorridenti a un ordine effimero. Si sarebbe tentati di riferire l'andamento digressivo della narrazione al modello naturale di un'acqua che precipitando dilaga in pozze meditative, accelera e si frantuma in cascate di parole turbinanti. Ma il narratore è il primo ad accor-
SECONDA EDIZIONE LIRE DIECIMILA
gersi che torrenti, laghi, boschi mimano testardamente le forme di un'architettura disabitata, che la natura selvaggia accoglie in sé i sogni più folli di chi è nato in città. Se la cascatélla in cui, bambino, ha creduto di poter pescare, era in realtà "una rampa di scale di legno verniciate di bianco", altri recessi segreti della pesca alla trota creano in lui l'illusione di "inoltrarsi in uno strano grande magazzino" o di penetrare, come un operaio al lavoro, in una serie di "cabine telefoniche messe in fila, con altissimi soffitti in stile vittoriano, con tutte le porte divelte e le pareti abbattute". La natura assomiglia sempre meno a se stessa e sempre più a chi la guarda e l'assoggetta al proprio
R O M A
desiderio. Nel Deposito demolizioni Cleveland, mercato di ogni capriccio consumistico, il narratore trova un provocatorio "ruscello da trote di seconda mano [...] accatastato in mucchi di diverse lunghezze, da tre, da quattro metri e mezzo, da sei metri" pronto per essere venduto al primo compratore con accompagnamento di cascate, di insetti, di topolini. Ma la svendita del mito non decreta la fine del gioco, né sminuisce la suggestione del nome: Pesca alla trota in America s'incarna in un disincantato nume fluviale, un antico demone dei luoghi che ha la sua controparte moderna in Shorty, una sorta di infimo capitano Achab mutilato dalle trote e costretto a errare sulla sua sedia a rotelle di acciaio cromato, seminando gelo autunnale tra bambini e pescatori. E una "trotomania" innocente e insidiosa come una seconda vista s'impadronisce del narratore, che scorge trote simili a "foglie morte", trote in forma "d'arpa", trotelle "maculate come serpi" e preziose come gioielli, trote in attesa paziente "come biglietti aerei". E sogna, per narrare quel mistero gaudioso che è per lui la pesca, insondabile come le profondità della memoria collettiva, un pennino "di fiori selvatici e pinne scure". Negli anni settanta si vide in Brautigan un ironico lettore, un sapiente demistificatore di miti vecchi secondo la lezione del Roland Barthes di Mythologies. E il suo romanzo è disseminato di segni mitici in cui la storia si è impietrita, svuotandosi di senso, a cominciare dalla statua di Benjamin Franklin che parla, non udita, il suo linguaggio "di marmo", mentre i sogni prodotti dalla narrativa, dal cinema, dai fumetti abitano la mente del narratore che, ai piedi di quella statua, osserva la piccola folla fafkiana dei "poveri" in attesa della refezione quotidiana. Letto oggi, Brautigan appare piuttosto come il creatore della fantastica "realtà alternativa" di cui parla Duranti nella sua Nota; come l'inventore di una nuova retorica tesa a salvare il linguaggio minacciato. Finché l'immaginazione saprà, con gioia blasfema, scorgere una cosa nell'altra e accendere pirotecnie di metafore, la parola conserverà il potere magico di imporre esistenza alla cosa nominata, quel potere che le è conteso dall'immagine. La lingua è già oggi un deposito di fossili, di figure disinnescate dal loro referente, naturale o culturale, ridotte a puro suono. Senza libri come Pesca alla trota in America che anticipano le bizzarre interferenze tra natura e tecnologia, tra memoria umana e memoria elettronica, potremmo tra breve dimenticare la differenza che separa il torrente vero dal finto e questo dall'altro, più capriccioso, corso d'acqua che ha le sue sorgenti nell'immaginazione. Nel libro di Brautigan non vi sono fossili; la sua lingua ha evanescenze visive e geometrie musicali; ogni sua parola scorre, piena e mutevole, e viene presa all'amo per brillare un attimo sulla pagina come una delle sue "testarde trote iridate" prima di rituffarsi nella corrente.
Picaro nel New Deal di Vito Amoruso La strada per Los Angeles, Leonardo, Milano 1989, ed. orig. 1938, trad. dall'inglese di Francesco Durante, pp. 175, Lit 25.000. JOHN FANTE, Sogni di Bunker Hill, Mondadori, Milano 1988, trad. dall'inglese di Francesco Durante, pp. 146,Lit 16.000. JOHN FANTE, Una moglie per Dino Rossi, Sellerio, Palermo 1988, ed. orig. 1940, trad. dall'inglese di Maria Mattone, pp. 109, Lit 8.000. JOHN FANTE, Ask the Dust, Black Sparrow Press, Santa Rosa, Ca. 1988, pp. 165. $ 8. JOHN FANTE, Wait until Spring, Bandivi, Black Sparrow Press, Santa Rosa, Ca. 1987, pp. 265, $ 12.50. JOHN FANTE,
l'appunto costituita da una visione policentrica di quella civiltà letteraria, una visione che investe il metodo, gli strumenti critici, l'idea stessa di tradizione e di passato, ma meno, molto meno, a mio giudizio, la sostanza dei valori e quindi il carattere alternativo della 'geografia' culturale ridisegnata. Resta infatti irrisolta la questione, rilevantissima, dell'integrazione finale, in ultima analisi, di tanto policentrismo e di così distinti 'soggetti' culturali (indiani, neri,
Fante sta conoscendo da noi un ritorno di fortuna, meritato nella sostanza, anche se nei lontani anni quaranta i suoi romanzi maggiori erano ben conosciuti in Italia: piacque molto, infatti — in seguito con qualche riserva e una punta di disillusione — a Vittorini, che in Americana (1941) 10 inserì fra le sicure promesse di quella "nuova leggenda" su cui tanto contava in prospettiva, per una rinnovata "universalità" della letteratura americana. Vittorini poteva sopravvalutare, nel merito, il valore di uno scrittore come Fante, ma certo a tanti anni di distanza occorre dargli atto almeno di aver previsto l'importanza via via crescente di "etnie" culturali diversificate per la continuità e il rinnovamento dell'identità americana. E sempre più vero, infatti, che tutto ciò che chiamiamo ancora America — una tradizione, un'immagine, un mito, anche — non è più stabilito dalla centralità e dall'egemonia della cultura bianca-anglosassone-protestante, ma da un universo madreporico, strutturato in isole e 'radici' che permangono distinte anche nell'integrazione inevitabile del melting pot. Si tratta di un processo oggi più che mai in corso, un dato di fatto che imporrà una riformulazione del profilo di quella tradizione e del suo 'canone'. Negli Stati Uniti è in corso da anni un complesso e vivacissimo dibattito e i primi esiti ci sono: penso alla lettura storica post-Movement molto innovativa fatta da Carroll e Noble con 11 loro The Free and the Un/ree (tradotto in italiano come Storia sociale degli Stati Uniti, dagli Editori Riuniti) e soprattutto a quel primo ragguardevole manifesto di una nuova generazione di intellettuali che è la Columbia Literary History of the United States (1988). Qui la novità è per
ebrei, italoamericani, donne, identità regionali, ecc.) dentro la cultura dei 'vincitori', dentro l'egemonico alveo di ciò che pur sempre chiamiamo identità americana. Questa fatale confluenza è essa stessa un dato di fatto a sua volta innegabile: le molte radici e etnie corroborano un unico albero, ne variano e rafforzano la rigogliosità, ma ramificano una spinta che è tutt'altro che dirompente. L'aveva capito benissimo Emerson quando profeticamente aveva immaginato un "continente"-America sempre ben visibile nella sua unità culturale e ideologica, pur attraverso il disegno distinto delle sue molte maglie e madrepore. La disgressione può sembrare lun-
ga, ma calza bene, io credo, ed è verificata dal caso 'microcosmico' della narrativa di John Fante: in questo scrittore italoamericano degli anni trenta-quaranta il valore e la rappresentatività sono stabiliti esattamente dal suo essere iscrivibile, nonostante la distinta evidenza e quasi il colore locale delle radici culturali, nel contesto ideologico della storia progressista del Novecento americano, dentro la sua complessa dialettica di critica e integrazione nell'ideologia ufficiale. La parabola narrativa di Fante è davvero molto semplice e lineare, si accentra intorno ad un nucleo tematico ben preciso e, per la verità, ripetuto con poche varianti. Questo nucleo è il "romanzo di for-
Per fuggire la mediocrità di Anna Baggiani Due signore perbene, Bollati Boringhieri, Torino 1989, ed. orig. 1943, trad. dall'inglese di Paola Mazzarelli, pp. 216, Lit 22.000.
JANE BOWLES,
Per breve spazio s'intersecano, all'inizio e alla fine di questo curioso romanzo — riproposto in nuova traduzione da Boringhieri ma già uscito nel 1972 — due singolari figure femminili. C'è una ricca miss Goering, ex-bambina lievemente sadica, che, per amore del nuovo e per oscure pulsioni d'espiazione, decide di vivere in una scomoda casa fuori città, instaurandovi un menage a trois con Arnold, goloso fannullone, e l'impagabile miss Gamelon, cui s'aggiunge in seguito lo strampalato padre di Arnold. Ma miss Goering cerca e trova compagnia, altrove, in Andy, originale emarginato, finché conosce l'oscuro (mafioso?) Ben, e si dispone a seguirlo. E c'è una desolata Mrs. Copperfteld che, costretta a seguire ai tropici il bennato marito, lo abbandona per finire nell'equivoca pensione dell'ingenua Mrs. Quill e, innamorata follemente di un'allegra prostituta, Pacifica, più tardi la condurrà a vivere con sé in città. Accomunate dall'eccentricità di scelte solo apparentemente degradanti — per il buon senso comune — ma dettate dall'incoercibile spinta alla ricerca di una felicità 'altra', al di là e al di fuori di tranquille, preordinate esistenze, non a caso le due donne si incontrano prima a un ricevimento e poi al bar, i luoghi deputati alla forzata socializzazione della solitudine. Ma sbaglierebbe chi volesse verniciare di velature femministe l'affermazione di una libertà che non significa tanto affrancamento dai ruoli maschile e femminile, quanto, più radicalmente, la rivendicazione dell'antico diritto americano alla disobbedienza
civile. Come dice miss Goering "... eroi che credono di essere mostri perché sono tanto lontani dagli altri, alla fine, voltandosi indietro, scoprono che le azioni veramente mostruose sono state compiute nel nome della mediocrità". E, ancora una volta, la nostalgia della frontiera, l'impulso a uscire per strada e scomparire che si manifesta in modo lampante nella lettera alla moglie del padre di Arnold. Non diverso istinto spinge Andy, sconvolto dall'amore 'perverso'per una freak, ad autopunirsi diventando un "cittadino puzzola". Tutti, più o meno, Freaks (il film di Browning è del '32): ma anche, semplicemente, i grandi eccentrici, gli outsider che percorrono da tempo la letteratura americana, nella linea che da Cooper, attraverso Thoreau e Mark Twain, arriva a Salinger e Kerouac. Un libro anticipatore, a prima vista irritante per il pizzico di snobismo e l'apparente discontinuità, che lo avvicinano alla più sgradevole Gertrude Stein. Costruito, infatti, per giustapposizioni atemporali, in un presente sempre attuale, come nella Stein, dove ciascuno è quel che è e la notomizzazione cubista dell'azione prende il posto dell'emotività. Di qui l'atmosfera stralunata di uno spazio astratto dove emerge, a tratti, /'humour del teatro dell'assurdo. Si capisce che, al suo apparire, questo romanzo abbia sconcertato i lettori e parte della critica entusiasmando invece Tennessee Williams e, più tardi, Truman Capote (che ha curato l'opera completa della scrittrice, uscita nel 1966). Si capisce meno che, ancora oggi, Jane Auer Bowles susciti più curiosità per la sua irregolare vita privata e per il matrimonio con Paul Bowles, piuttosto che per la indubbia qualità dei suoi scritti.
mazione", potremmo dire, di Arturo Bandirti, alter ego dello scrittore e protagonista assoluto di quella che è, ora, una tetralogia: essa comincia — in ordine di storia interna, ma non di pubblicazione — col primo romanzo del 1938, Wait until Spring, Bandivi (trad. it. del 1948, Aspettiamo primavera, Bandini), si afferma col suo seguito Ask the Dust (1939) (tradotto da Vittorini, nel 1941, come 11 cammino nella polvere) e si conclude con Dreams from Bunker Hill del 1982, ultima prova di Fante, prima della morte nel 1983. Nei quattro romanzi, l'educazione di Bandini è quella possibile per una figura di anti-eroe alla quale sia stata sottratta ogni connotazione nolente o negativa: questa controfigura autobiografica di Fante è in realtà un picaro, ironico e irriverente, vitalissimo anche se eternamente frustrato nel proprio sogno-principe, quello di diventare uno scrittore celebre come una star. E la sua è la vitalità del tempo storico a cui appartiene e dal quale è profondamente segnato: è la società americana fra la Depressione e il New Deal, terra della rinascita democratica e del progresso sempre possibile; la sua vicenda ha il passo frenetico di quella ideologia individualistica rinnovata, ne condivide la spinta mitopoietica, pur nel controcanto ilare, beffardo, disincantato. L'ottica che sorregge questo esuberante vitalismo è in sostanza aperta, positiva, ma il rapporto scisso e incompiuto con la realtà, lo scarto e l'attrito che Fante descrive non si discosta — quanto a temperie storica — da quello raffigurato, su scala tragica, dal Bottom Dogs di Edward Dahlberg del 1929. La parabola narrativa di Bandini, racchiusa fra la Denver della sua infanzia e prima adolescenza e la Los Angeles e poi la Hollywood della giovinezza e della prima maturità, si svolge sui piani distinti ma complementari della realtà amara e prosaica in cui è di fatto iscritto e insieme del sogno e dell'attesa che reinventano continuamente se stessi. La realtà è innanzitutto quella della povera famiglia italo-americana, ossessivamente incombente nella sua sgangherata unità — padre muratore assente o ubriaco, autoritario, madre bigotta tenera e umiliata come una santa — e poi quella di Arturo Bandini stesso, dei mestieri che tenta ma in verità fugge, e infine le periferie cittadine di Denver o di Los Angeles che si assomigliano tutte, sono tutte desolate e mitiche, colte da uno sguardo che è felice, paradossalmente, nella sua nostalgica tenerezza. Al contrario di quanto ci si attenderebbe, il piano del sogno e dell'attesa non sono contrapposti né
PHILIPPE CONTAMINE
LA GUERRA NEL MEDIOEVO Dalle invasioni barbariche alle soglie del Rinascimento, la storia di un'Europa percorsa dagli eserciti, di un tempo scandito dalle battaglie, di una civiltà perennemente in armi
GRADO G. MERLO
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OOWNM TABACCO • GMC0&MB10 MEDIOEVO
IL TEATRO MEDIEVALE
ERETICI ED ERESIE MEDIEVALI
OTTO VON SIMSON
LA CATTEDRALE GOTICA
La santità nel Medioevo
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Come a Chartres, misura e luce tra razionalità e fantasia in un'architettura plasmata dalla mistica teologica e dai fermenti terreni del mondo medievale
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LA PIETRA VIVA
IL TEATRO MEDIEVALE a cura di
JOHANN DRUMBL La vita giullaresca, i riti pagani, il teatro religioso e quello carnevalesco: il mondo e la drammaturgia del Medioevo in una nuova e originale prospettiva
GIOVANNI TABACCO GRADO G. MERLO
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LA SANTITÀ NEL MEDIOEVO
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Medioevo
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MONACI E RELIGIOSI NEL MEDIOEVO Cenobiti ed eremiti, canonici regolari e ordini mendicanti: un panorama della vita religiosa nella società medievale
HERBERT GRUNDMANN
MOVIMENTI RELIGIOSI NEL MEDIOEVO Eresie, ordini mendicanti, movimenti religiosi femminili nei secoli XII e XIII: un classico sullo sviluppo religioso dell'Occidente
DEI
sfalsati rispetto alla prosa del mondo, ma coesistono con esso nelle forme di una coabitazione comica, straziata e ilare insieme. Bandini sogna di essere, ma insieme è 0 grande scrittore misconosciuto, sempre certo della fama che verrà; è l'amante sensuale e romantico tramortito da bellezze irraggiungibili e eternamente in fuga da donne peccaminose o modeste, che sempre s'arresta al momento del dunque, in preda ai propri sensi di colpa, ai richiami di una innocenza cattolica di ragazzo che non vuole crescere o tradire, nel peccato, la 'norma' materna. In questo tipo di trama narrativa le variazioni sono pochissime, e anzi, essendo evidente la tendenza all'invenzione di un archetipo, è semmai l'iterazione ciò che conta. Per questo la vera novità della narrativa di Fante è tutta nell'impasto linguistico, nell'irridente 'mistura' o contaminazione degli stili: "Camminavo lungo la strada insieme con altri. Chiedevano passaggi agitando il pollice. Accattoni dai pollici come arti di marionette e dai sorrisi pietosi, tutti lì a implorare le briciole dai motorizzati. Senza dignità. Ma non io, non Arturo Bandini con le sue gambe possenti [...] Ma verrà il mio momento, e allora vedrete il mio nome nel cielo [...] Non me lo avrebbero dato, un passaggio. Quel tipo, quello là, è lui che ha ucciso i granchi. Perché dargli un passaggio? Fa l'amore con le signorine di carta nello stanzino dei vestiti [...] Non me lo davano un passaggio? Bene, e allora? Sapessi che me ne frega! Andate tutti all'inferno! Mi sta bene così. Amo camminare su queste gambe divine e perdio camminerò. Come Nietzsche. Come Kant, Immanuel Kant. Che ne sapete voi di Immanuel Kant? Scemi voi e le vostre V-8 e Chevrolet!" {La strada per Los Angeles, pp. 44-45). E un esempio fra i tanti, ma davvero esemplifica il tutto: di romanzo in romanzo, non muta né il tono, né la misura, né la sostanza di una narrazione trasgressiva entro i limiti del comico e dell'avventura picaresca, dunque entro i limiti di una visione della realtà complementare ai miti di un tempo storico che l'irriverenza deforma ma non disintegra. La voce vera dell'io narrante è impregnata di self-reliance, di una fiducia e di una fede mai arrese. Al fondo ma come remota e compressa, s'avverte una malinconia creaturale, per così dire, il senso di un incompiuto che è nella realtà, ma non nel linguaggio e quindi nella cultura, nella spinta ideologica propulsiva che lo Sorregge. E un'ombra appena, questa malinconia, che orla l'orizzonte narrativo e ovviamente si afferma meglio indirettamente, in certi racconti lunghi come Una moglie per Dino Rossi, una prova davvero felice. Ma ancor più, come una testimonianza postuma e un congedo, essa è presente nella nota di Fante che accompagna la riedizione di Wait until Spring, Bandini, là dove è dichiarata la difficoltà di guardar indietro alla propria opera dall'oggi, quando i ricordi si affacciano come un "quasi-sogno" e tuttavia sono più veri, più consolanti di tutto quanto si è scritto, dei tanti romanzi di cui solo una frase, un paragrafo, o un personaggio a volte riescono ancora a mesmerizzare lo scrittore, avvolgendolo in una sorta di "melodiosa memoria".
LIBRI D E L
M E S E l
Nel laboratorio di Beckett di Paolo Bertinetti SAMUEL BECKETT, L'immagine. Senza. Lo spopolatore, testo originale a fronte, Einaudi, Torino 1989, a cura di Renato Oliva, pp. 125, Lit 14.000. SAMUEL B E C K E T T , Quello che è strano, via, testo originale a fronte, SE, Milano 1989, postfaz. e trad. dall'inglese di Roberto Mussapi, pp. 74, Lit 10.000.
Da molti anni a questa parte la produzione letteraria di Beckett si è
poco, spiegare nulla. Per i non molti e affezionati lettori di Beckett quelle pagine sono invece troppo poche; e si vorrebbe poterne leggere altre, poter ancora essere condotti per mano in quel suo pianeta letterario che còsi bene ci mostra le miserie del nostro pianeta. Ed ecco giungere così, non come operazione commerciale, bensì come risposta al desiderio di colmare possibili vuoti, la pubblicazione di lontani scritti che testimoniano il lavoro di
dire, nel suo farsi — in Quello che è strano, via, cioè AllStrange Away, un testo scritto da Beckett intorno al 1963 che a buon diritto possiamo considerare come la fonte e il laboratorio di quasi tutta la successiva opera narrativa. Per uscire dall'impasse seguita alla Trilogia Beckett aveva cercato nuove strade lasciando il francese e ritornando all'inglese di From an Abandoned Work. Dopo Come è Beckett ricorse di nuovo alla lingua inglese per ritentare una nuova
apertamente in causa per contribuire alla costituzione del racconto in base a quanto egli descrive. Il narratore lo guida attraverso una descrizione che si rivela una ricerca, per approssimazioni successive, dell'oggetto della descrizione. Non c'è vicenda, non ci sono personaggi; c'è un parallelepipedo senza entrata né uscita in cui compaiono due corpi, in un alternarsi di luce e di buio, di silenzio e di suono. Poi le dimensioni del luogo vengono corrette, è un cubo di tre piedi per tre in cui c'è soltanto un corpo femminile; poco dopo viene detto che il luogo non è più un cubo, ma una rotonda di tre piedi di diametro, anzi di due piedi, in cui giace una donna la cui mano sinistra stringe debolmente la spalla destra. L'ultima parte di Quello che è strano, via cerca di fissare, giocando su questi pochi particolari, un'immagine finale nello spazio della mente dove l'immaginazione è morta e dove tuttavia lo scrittore chiede la nostra complicità in questa ricerca estrema dell'immaginazione letteraria.
NOVITÀ OTTOBRE 1989
FRANZ MARC a cura di Felicitas Tobien La prima monografia, ampiamente illustrata, su uno dei pittori più significativi di questo secolo, il fondatore del «Cavaliere Azzurro»
HEINRICH MANN IL PAESE DI CUCCAGNA Una critica feroce della società borghese tedesca di fine secolo e dei suoi lacchè. Una grande padronanza dei mezzi espressivi
HEINRICH MANN L'ANGELO AZZURRO
come rarefatta: pochi testi, spesso brevissimi, caratterizzati da una varietà di stili che rimandano alle sue precedenti esplorazioni delle possibilità della parola letteraria, ma che ogni volta si propongono come nuove scoperte della potenzialità della parola e della sua necessità. Sono così apparse, per limitarsi alle prose, le dense pagine barocche di Compagnia (1980) e quelle limpide e misteriosamente serene di Mal visto mal detto (1982), le parole prosciugate e depauperate di Worstward Ho (1983) e quelle così intensamente liriche nella loro scarna semplicità di Stirrings Stili (1989). In questi pochi fogli è raccolta l'estrema testimonianza del maggior protagonista della scena letteraria europea del dopoguerra, di uno scrittore grandissimo, la cui estraneità alle mode e alle correnti promosse dall'industria culturale, e la cui antiteticità alla faciloneria che imperversa nelle rubriche letterarie di quotidiani e settimanali, lo ha relegato nell'angolo degli scrittori difficili, di cui è uso dire bene, dire
Beckett sulla parola letteraria. L'immagine, stampato da Minuit come testo autonomo nel 1988 ma già apparso su una rivista nel 1959, e che viene ora pubblicato da Einaudi insieme ai già noti Senza e Lo spopolatore, è la variante di alcune pagine di Come è (1961), l'ultimo romanzo beckettiano. L'immagine è quella che "viene" a Bom, il narratore che vive e striscia al buio e nel fango, un ricordo solare di quando ancora camminava "sotto il mutevole cielo". Rispetto alla versione di Come è qui è più evidente, come dice Oliva nella sua bellissima postfazione, "il lavoro di invenzione e di scrittura, l'artificio, la manipolazione, l'intervento dell'artefice", con un procedimento di svelamento della finzione letteraria che percorre tutta l'opera di Beckett. Ma è anche evidente quel lavoro di de-costruzione dei personaggi che lo porterà ai corpi immersi negli spazi astratti, metafisici, delle prose degli ultimi vent'anni. Tale operazione è particolarmente riconoscibile — osservabile, per così
avventura della parola letteraria con AllStrange Away. Il risultato non gli sembrò soddisfacente e soltanto molto più tardi il testo fu dato alle stampe; ma negli anni seguenti, tornato al francese, Beckett si avvalse ampiamente della tecnica e dell'idea narrativa elaborata in questo racconto. Per gli studiosi di Beckett e per i suoi appassionati lettori il breve testo si presenta quindi come un ricchissimo terreno di caccia alla anticipazione (a partire dalla prima frase, "Imagination dead imagine", che diventerà il titolo, Imagination morte imaginez, del successivo racconto scritto in francese), al riconoscimento delle formule e degli elementi descrittivi che caratterizzeranno i testi seguenti. Per non parlare delle citazioni mascherate, come quella "nera vocale a" dell'ultima pagina, che viene da Vocali di Rimbaud. Per il normale lettore la lettura si presenta assai più ardua e assai meno gratificante. Eppure ci troviamo di fronte a un narratore che si rivolge direttamente a lui, che lo chiama
La via alla perdizione e alla vergogna dell'austero e rispettabile professor Unrat, travolto dall'amore per una ballerina. Un romanzo esemplare
LEO PERUTZ LA TERZA PALLOTTOLA La conquista dell'impero Azteco da parte del condottiero Cortez. Un maestro della scrittura, in bilico fra Franz Kafka e Agatha Christie
Di imminente pubblicazione:
GRAFICA DELL'ART NOUVEAU a cura di Otto Lorenz BA JIN IL SEGRETO DI ROBESPIERRE M.P. SHIEL LA CASA DEI SUONI distribuzione C.D.A.
/ mrozz
Via del Commercio, 73 38100 TRENTO
L'Irlanda in superficie e in profondità dì Gino Scatasta RICHARD ELLMANN, Quattro dublinesi, Leonardo, Milano 1989, ed. orig. 1982, 1984, 1985, 1986, trad. dall'inglese di Massimo Bacigalupo, pp. 122, Lit 24.000. W I L L I A M B . Y E A T S , I cigni selvatici a Coole, a cura di Antony L. Johnson, Rizzoli, Milano 1989, ed. orig. 1919, trad. dall'inglese di A. Marianni, pp. 297, Lit 10.000.
Negli ultimi mesi sono apparsi in libreria diversi libri che riguardano tutti, in modo più o meno diretto, l'Irlanda: le ristampe di Diario d'Irlanda di H. Boll da Mondadori e di Fiabe Irlandesi di Yeats da Einaudi; Quattro dublinesi di Richard Ellmann presso Leonardo, Raftery il cieco e la sua sposa Hilaria di Brian O. Dunn Byrne presso Sellerio, e di W. B. Yeats I cigni selvatici a Coole presso Rizzoli, Anima Mundi e Drammi Celtici presso Guanda. Si annuncia anche l'uscita presso Mondadori di un volume di poesie di Searnus Heaney, uno dei maggiori poeti irlandesi contemporanei. Non si tratta di un episodio sporadico e neanche di una riscoperta, quanto piuttosto dell'espressione attuale di un interesse verso l'Irlanda che in Italia è sempre stato presente anche se in modo parziale o sotterraneo. Di fronte all'Irlanda, però, il lettore ed a volte anche il critico e perfino gli stessi scrittori sembrano colti da una sorta di sentimentale arrendevolezza o si pongono domande evidentemente prive di risposta (e poco sensate), quali la ricerca dello 'specifico' della letteratura irlandese o i legami esistenti fra quattro artisti nati a Dublino, come fa Ellmann in Quattro dublinesi. Per l'Europa e per gli Stati Uniti l'Irlanda è quasi un luogo della mente o, per parafrasare Yeats, un luogo che viene visto con l'occhio della mente, ma spesso attraverso una immaginazione deviata da stereotipi, viziata da pregiudizi di cui è responsabile soprattutto l'industria turistica ma anche quella culturale. All'inizio del suo diario irlandese, Boll scrive che la sua "Irlanda esiste: ma chi ci va e non la trova non può chiedere risarcimenti all'autore". Boll non tralascia le realtà irlandesi più tristi (la povertà, l'emigrazione, ma anche il clima deprimente) e dunque la sua Irlanda non è affatto un paese idilliaco, anzi è ben lontana dah'Emerald Isle delle agenzie turistiche; la sua epigrafe può essere quindi letta anche come invito al turista perché invece dell'Irlanda che si aspetta ne cerchi un'altra, molto più vera e amara e bella. L'Irlanda si riempie invece ogni anno di americani in cerca delle proprie false origini che acquistano indifferentemente spille a forma di trifoglio e magliette dell'Ira, o di turisti che si commuovono davanti a paesaggi verdi, capanne dal tetto di paglia, ubriaconi rissosi e pinte di birra scura che sembrano usciti da Un uomo tranquillo CTbe Quiet Man). Il film di Ford del 1952 è infatti ambientato in un mondo tanto immaginario quanto quello delle operette e dei suoi reami mitteleuropei sperduti fra le foreste, ed è esemplare per esplicare il paradosso wildiano di come la vita finisca con l'imitare l'arte: come la nebbia londinese esisteva anche prima degli impressionisti ma nessuno l'aveva notata, così le case dal tetto di paglia c'erano ma non erano pittoresche e nessuno si sarebbe sognato di ammirarle. La falsità del film di Ford non è affatto messa in discussione dal fatto che il film fu girato in luoghi reali, anzi esso risulta completamente falso proprio perché in parte vero, mentre al contrario un film precedente dello
stesso regista; Il Traditore (The Informer) del 1935, pur ricostruendo in studio le strade di Dublino, risulta autentico e realistico come pochi altri. Altrettanto esemplare è una raccolta di scritti di autori irlandesi sull'amore, Some Irish Loving, curata da Edna O'Brien (di cui è uscito di recente in italiano un romanzo, Ragazze di campagna, edito da Feltrinelli), libro apprezzabile più di quanto si possa supporre a prima vista, che vie-
ad occuparsi attivamente del foklore irlandese e decise che tutte le sue poesie da quel momento avrebbero avuto come sfondo il proprio paese, Yeats divenne l'elemento di maggior spicco di quella rinascita celtica che, come ogni movimento in cerca di una propria tradizione, agì per sottrazione e per esclusione, scegliendo della tradizione irlandese gli elementi ad essa più consoni. La storia poetica, personale e politica di Yeats (ed i tre aspetti vanno spesso di pari passo) è
La raccolta che appare oggi in italiano, curata e commentata con estrema attenzione da Anthony Johnson e tradotta da Ariodante Marianni, è I cigni selvatici a Coole del 1919 e segue di qualche anno l'edizione italiana di un'altra opera yeatsiana, firmata dagli stessi curatori, La torre del 1928. Ini cigni selvatici a Coole Dublino è già per Yeats "una città becera' ' ma la sua poesia è destinata a "un uomo mai visto", un pescatore irlandese che sia insieme no-
ne pubblicato dalla Penguin in una confezione sfrenatamente Kitsch, con una fanciulla dai capelli rossi (ovviamente) e dagli occhi verde smeraldo (ovviamente) in copertina, ed una grafica in cui si contano trifogli e quadrifogli a dismisura. La colpa, come si diceva, è in parte di un'industria turistica che presenta l'Irlanda nel suo aspetto più stereotipo, in parte di un'industria culturale che ha privilegiato, di una tradizione letteraria antica e multiforme, gli aspetti più facili e commerciali. Le raccolte di fiabe di Yeats (Einaudi) o di Stephens (Rizzoli), o le narrazioni mitiche raccolte da Lady Gregory (Studio Tesi) sono ad altissimo livello, ma vanno integrate con la lettura dei testi di Flann O'Brien, ed in particolare di La miseria in bocca, (Feltrinelli, Milano 1987) per avere una visione più completa della letteratura e della realtà irlandese. E forse Yeats, in qualche modo, un indiretto responsabile di questa situazione. Quando, alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, iniziò
in realtà quella di una lotta e di un'insoddisfazione continua, di un ripensamento delle proprie posizioni e della propria poetica cercando di raggiungere, in vita come in poesia, "il freddo e la passione dell'alba" o "la sregolatezza e l'ignoranza dell'aurora". Anche rispetto all'Irlanda, Yeats passò dall'entusiasmo per il suo ruolo di poeta irlandese, sotto l'influsso del vecchio patriota John O'Leary (TO Ireland in the Corning Times o la patriottica opera teatrale Cathleenni, Hoolihan), alla disillusione espressa in September 1913 ("Per questo tanto sangue fu versato? / Per questo Edward Fitzgerald / E Robert Emmet e Wolfe Tone morirono / E tutto quel delirio degli eroi? L'Irlanda romantica è morta e scomparsa / E con O'Leary nella tomba"), alla consapevolezza tragica della sua condizione di irlandese e del SUQ distacco dalla società che lo circondava, lontana dai suoi ideali, riaffermata in poesie degli ultimi anni quali I am of Ireland, Famell's Funeral e The Statues.
bile e plebeo (The Fisherman), incarnazione di quell'unione culturale di popolo e aristocrazia in funzione antiborghese sognata da Yeats e definita da lui in seguito "sogno del nobile e del mendicante". I cigni selvatici a Coole contiene alcune poesie d'amore fra le più belle di Yeats, oltre alle prime composizioni in versi che rimandano direttamente al sistema filosofico che il poeta stava elaborando in quegli anni e che sarà esposta in seguito nelle due versioni di A Vision. Colpisce in questa raccolta la forza di Yeats, la sua complessità che si scioglie in semplicità estrema e la sua semplicità che si rivela incredibilmente complessa, la risonanza e l'intensità dei suoi versi che attraversano piani differenti di senso senza perdere niente nel passaggio. Yeats è un poeta che non chiede consenso ma contrasto come un avversario d'altri tempi, si può non essere d'accordo con lui (e spesso così avviene) ma si rispetta la sua posizione e il suo atteggiamento, la sua sincerità e la sua onestà intellettuale.
Degli ultimi anni della vita di Yeats si occupa Richard Ellmann in un capitolo di Quattro dublinesi, raccolta erielaborazionedi quattro conferenze su Wilde, Yeats, Joyce e Beckett tenute dall'autore negli anni immediatamente precedenti alla sua morte, avvenuta nel maggio 1967. Ellmann è stato autore di preziosi saggi critici su Joyce e Yeats (Ulysses on the Liffey, The Consciousness of Joyce e The Identity of Yeats) ma è noto soprattutto per le sue biografie di Joyce, Yeats e Wilde, quest'ultima uscita dopo la sua morte. E bene dire subito che questo libro di Ellmann non convince fino in fondo: su di esso hanno avanzato giustamente delle riserve Rosita Copioli, che su "Mercurio" ha sottolineato come il realismo nella tarda poesia di Yeats non si può certo far derivare dall'operazione per ringiovanire a cui il poeta si sottopose, e Guido Fink che (sul "Messaggero") invece parla delle forzature a cui Ellmann va incontro quando cerca di sottolineare i rapporti fra i suoi quattro dublinesi; lo stesso Ellmann del resto afferma che il suo "è un quartetto improbabile". Di queste superficialità critiche ce ne sono diverse, come ad esempio quella a proposito dei figli illegittimi del padre di Wilde: "Oscar Wilde conosceva i suoi fratellastri, il che può spiegare i molti trovatelli e le nascite misteriose dei suoi scritti" (p. 11). L'errore di Ellmann, e il punto debole del suo libro, sta probabilmente nell'aver riportato delle conferenze in forma scritta, e dunque nel passaggio dall'oralità alla scrittura. Il suo metodo, che procede spesso per interessanti suggestioni più che per stretti nessi logici, è adattissimo allo stile orale, ma in forma scritta finisce col perdere la sua levità, così come un pettegolezzo comunicato a voce può essere divertente e sottile ma scritto su carta diventa inevitabilmente greve. C'è inoltre un problema, per così dire, etico che è anche estetico. Una poco conosciuta biografia italiana di Wilde pubblicata da C.M. Franzero alla fine degli anni Cinquanta, non parlava di omosessuali ma di "epiceni" e raccontava di un appassionato bacio fra Pater e Wilde sotto una grande quercia. Non era scientificamente rigorosa ma sarebbe certamente piaciuta a Wilde. Ellmann invece sa troppe cose e a volte esagera. Negli ultimi cinque anni di vita Yeats divenne impotente e la moglie gli disse: "Quando sarai morto la gente parlerà dei tuoi amori, ma io non dirò nulla, ricordando come eri orgoglioso"; Ellmann non ha il (buon?) gusto di fare altrettanto. Di Joyce si rivelano inedite avventure amorose e insolite preferenze in campo sessuale, ma come dice Rosita Copioli a proposito delle pagine su Wilde "con tutto ciò la nostra comprensione [...] non aumenta". Ellmann non ci aiuta probabilmente a capire ma ci avvicina comunque ai suoi dublinesi e quando non cede alla tentazione di tracciare paralleli o di scendere ad affrettate conclusioni, il suo libro è affascinante: direi intrigante, se questa non fosse una parola odiosa. Ma il vizio di tracciare spericolati legami permane come un pericolo sospeso, e si sa, i rischi insiti nel collegare troppo e male sono tanti, come insegna Eco nel Pendolo.
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RIVOLUZIONE FRANCESE Promozione culturale e strategie politiche di Stuart Woolf porti stretti, se non addirittura deldella Rivoluzione si spieghi così. L'oPer gli storici i centenari cadono leggere le celebrazioni in Francia del perduto in Vietnam, nella veste della perazione bicentenario è riuscita, l'identificazione, tra cultura e inretorica reaganiana. Il bicentenario come la manna dal cielo. Come in primo centenario della Rivoluzione, fluenza politica nel mondo. Merita penso, grazie all'innesto di quell'imdella rivoluzione francese si è già ricosì ferocemente conteso tra laici retutti i mestieri, c'è chi è più profesrispetto la tenacia ininterrotta di un pegno culturale che è peculiare allo velato, dal punto di vista della sua acsionista di altri nel farne uso. Non bi- pubblicani e clericali. tale impegno culturale, che ha resististato francese sul tronco comune delcoglienza pubblica, tanto riuscito Ciò che si verifica col bicentenasogna scandalizzarsi. Anzi, per più to alle temperie economiche conle immense capacità di penetrazione proprio in quanto ha raggiunto un alversi e in molti casi, c'è da rallegrarsi rio, come con gli altri centenari di giunturali, in contrasto per esempio dei mass media nella nostra società tro ordine di grandezza, questa volta e congratularsi con chi, con compe- questi anni, è però di altra natura, a con l'Inghilterra thatcheriana che ha postindustriale. Sostenere la rappreveramente mondiale. Non solo la causa della risonanza pubblicitaria, tenza e spesso con dedizione e pasabbandonato ogni pretesa di sostesentanza della propria cultura all'eFrancia, a giusto titolo, celebra la della facilità delle comunicazioni, e sione, coglie l'occasione di un centegno ad una presenza culturale all'estero fa parte delle azioni di tutti gli propria rivoluzione: ormai si è innenario per sollecitare un pubblico di- del livello senza precedenti degli instrero. Ora la Francia coglie i frutti stante, ma tutt'altro che alieno o di questa politica di lunga data che ostile all'esser istruito da un esperto. ha preparato un retroterra invisibile, Però qui sorgono i problemi. La stoma non per questo meno significatiria, come tutti sanno, non è, e non è vo, per la risonanza mondiale del bimai stata monopolio degli esperti: centenario. come la lingua (e molto più della poliNon bastano certo le ragioni actica) è terreno comune a tutti, oggetcennate qui sopra per spiegare del di Giovanni Carpinelli to di riflessioni, storpiature, luoghi tutto lo straordinario successo di comuni e manipolazioni a non finire, questo bicentenario. Senza gli stoche non lasciano immuni i cosiddetti rici, che cosa sarebbe venuto fuori? EMMANUEL-JOSEPH S I E Y È S , M A X I M I L I E N DE R O B E S P I E R R E , JOSEPH DE M A I S T R E , esperti. D'altra parte, gli storici stesChi si ricorda l'esito bizzarramente Pro e contro la Rivoluzione, a cura di Anna Maria Rao, Claudio Galdensi e Enrico si, anche quelli accademici, non arrivuoto e stonato del centenario di Rufi, introd. di Giuseppe Galasso, Salerno, Roma 1989, pp. 372, Lit 28.000. vano mai a mettersi d'accordo nelle Garibaldi, troppo scopertamente loro valutazioni per ragioni più che manipolato, sa che cosa può accadefondate, inerenti al rapporto intrinAlle mutazioni culturali profonde è difficile assegnare una data precisa: certo è re. Il bicentenario dell'89 si impone secamente fluido tra lo storico, le sue che, da alcuni decenni ormai, il patrimonio ideale della rivoluzione francese ha fianche per la passione e dedizione fonti e la "contemporaneità" (nel nito col permeare il senso comune, non nella forma della sua originaria complessicosì partecipe di un Michel Vovelsenso crociano) del suo approccio. tà, ma attraverso una serie di acquisizioni elementari, generalissime. E la stessa dile, vero missionario del messaggio scussione fra gli storici sul significato degli avvenimenti sempre più raramente arriOsservazioni così banali sono solrivoluzionario. Né si vuol negare il va ad investire i fondamenti ultimi, i grandi princìpi ispiratori. Essa si concentra a lecitate dalla marcia apparentemente contributo entusiasta di miriari di livelli più bassi, e in particolare sugli svolgimenti politici determinati, nel caso delirresistibile del bicentenario della ristorici, francesi e stranieri, studiosi la scuola "revisionista", mentre gli eredi della tradizione filogiacobina guardano voluzione francese. Forse vale la peed altri, felici di rafforzare questa più che altro alle mentalità collettive, quando non continuano ad indagare sugli na trattenersi un momento sul peroccasione così lungamente attesa. aspetti economici e sociali. Tiene conto di questo clima, e ad esso reagisce con un ché della indubbia riuscita di questa Sta venendo fuori una celebrazione richiamo alla grandezza delle questioni ideali in gioco, il volume Pro e contro la Ricelebrazione già così protratta, che della Rivoluzione di un eclettismo voluzione, che ha in una corposa introduzione di Giuseppe Galasso (pp. 7-102) la rischia di prolungarsi almeno fino al senza pari, anche a causa delle sue sua struttura portante e allinea poi tre testi assai diversi fra loro: il famoso opuscolo 1993-4 (l'Anno II giacobino e Termidimensioni senza pari. di Sieyès, Che cos'è il Terzo stato? (pp. 123-215); l'ultimo discorso di Robespierre doro), e chissà, forse fino al 1999 E ben venga — a condizione che alla Convenzione (pp. 227-275); e uno scritto minore di Joseph de Maistre, Les (Brumaio). Perché il fenomeno è imnon si perdano del tutto di vista alBienfaits de la Révolution, titolo che nella traduzione qui proposta diventa l menti portante, sia come segno dei tempi, meno alcuni degli aspetti storicadella Rivoluzione (pp. 287-372). .,.-.•>• sia come prodotto dell'impegno culmente più reali e duraturi della Rivoturale dello stato francese. Non pochi danni sono venuti alla storiografia della Rivoluzione dal desiderio di luzione. E penso qui, per esempio, al ricondurre l'intera trama degli avvenimenti a un disegno lineare. Per questa via si è Nel 1964 Ernesto Ragionieri facesignificato della sua rottura con una giunti infatti sia a configurare una improbabile coerenza globale (R "blocco"), sia a va le sue riflessioni sui modi con cui forma di organizzazione della società isolare fasi di deviazione dallo sviluppo giudicato accettabile (lo "slittamento", il si era celebrato il primo centenario ormai intrisa di privilegi, o alla creadérapage). Di fronte a queste due discutibili sistemazioni di un falso problema, dell'unità d'Italia in un notevole sagzione di strutture dello stato moderGiuseppe Galasso riscopre la forza della tradizione storiografica più consolidata. gio su "Studi Storici", Fine del "Rino facilmente strapotenti. Perché Nell'insieme si divincola abilmente, perché non cerca di appianare le contraddiziosorgimento"?, che merita di essere riquesti sono aspetti del bicentenario ni, ma le assume piuttosto come momenti determinati di uno sviluppo più ampio. letto oggi per le sue acute e puntuali che meriterebbero la riflessione non Il ricorso ai testi è essenziale, se si vuole sfuggire a una visione che, in taluni pasosservazioni sul volo autonomo che meno dei valori universali di libertà e saggi cruciali, tende ad esaurirsi nel quadro del puro superamento dialettico. In aveva preso la celebrazione rispetto democrazia così insistentemente rerealtà non tutto è pensabile in termini di contraddizioni feconde. Lo stesso Galasall'oggetto storico che si commemoclamizzati. Se queste mie parole suoso evoca alla fine della sua introduzione l'ombra di Tucidide. Ora Robespierre, nel rava. Allora un centenario era un avnano troppo disilluse, è perché purdiscorso dell'8 Termidoro, ha i tratti dell'eroe tragico, insidiato dal presentimento venimento ancora relativamente introppo le celebrazioni storiche per la della morte. E ci sono, pure nei testi, convergenze inopinate: si veda il ruolo svolto consueto, sie perché le ricorrenze veloro stessa natura tendono a dissodall'appello alla verità in tutti e tre i casi; e si consideri l'elemento della sacralizzanivano ricordate normalmente in ciarsi totalmente dalle complessità e zione, comune sia a de Maistre che a Robespierre, con esiti opposti. modo alquanto sbrigativo e per così contraddizioni degli avvenimenti dire retorico-ufficiale, sia perché apUna annotazione un po' buffa, per finire, su un problema di traduzione. De che commemorano. Non dimentipunto per questo non attecchivano Maistre non può aver designato il francese come "la lingua di Fedro [sic] e di Telechiamolo ora che i centenari di Antonella fantasia del grande pubblico. maco" (p. 304, n. 12). Ecco la chiave del mistero. Il francese è la lingua in cui Racinio Gramsci e del partito socialista Ormai, un quarto di secolo più tardi, ne ha scritto Fedra (Phèdre) e Fénélon Télémaque. Il favolista latino non c'entra italiano sono alla porta. la società occidentale si è trasformata e con essa anche il fenomeno delle ricorrenze storiche, che sono diventate un aspetto epidermico della cultura della nostra società postindustrialeI centenari si sono moltiplicati e contemporaneamènte si sono trastati che si ritengono grandi, non sovestimenti finanziari. L'università di sformati in spettacolo pubblico. Non lo con attività sussidiarie a quelle Bologna ha coronato un anno e più idi più confinato al cenacolo degli stuconsolari, ma con forme istituzionali celebrazioni del suo nono centenario diosi e cultori di cose patrie, il centedi alta cultura, come sono a Roma gli con la trasmissione televisiva in dinario è diventato un meccanismo che istituti di archeologia, belle arti o sprigiona e mobilita risorse di ogni retta di una cerimonia inventata e re- scato un meccanismo per cui le istitustoria, inglese, tedesco, americano, zioni culturali ufficiali di tutto il citata come un pezzo di teatro dove genere, culturali e politiche sì, ma olandese, francese, ecc. Ciò che dimondo, perfino i ministeri — dalrettori togati di tutto il mondo erano forse ancora di più economiche e stingue l'esempio francese è la volongli attori, con l'accompagnamento di l'Italia alla Cina — sentono l'obbligo pubblicitarie. Si presta all'appropriatà, da molto tempo condivisa dalle di contribuire a questo bicentenario. brani di Giuseppe Verdi, direttore zione da parte dei mass media proprio sue élites, di tenere alta la presenza Come si può spiegare il fenomeno? musicale per l'ottavo centenario. Gli a causa della sua malleabilità. L'apculturale francese all'estero, volontà Stati Uniti, per il loro bicentenario, Indubbiamente il mondo moderno è propriazione politica c'è sempre stabasata sulla certezza che i valori inanche figlio della rivoluzione dell'89. hanno lanciato al mondo, senza rita, né potrebbe essere altrimenti, dacorporati nella civiltà francese sono Solo il più cieco reazionario potrebbe sparmio di risorse e di mezzi comunito che ogni periodo (e i periodi politiben più che nazionali, ma anche su ci sono notoriamente brevi) si attri- cativi, il messaggio del mito america- negare il profondo significato dei vauna accorta consapevolezza dei raplori di libertà e democrazia che dal no riguadagnato, dopo il paradiso buisce le proprie finalità. Basta processo storico della Rivoluzione arrivano fino a noi. Ma sarebbe oltremodo ingenuo credere che il successo di cui gode attualmente il mito
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La forza della tradizione
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RIVOLUZIONE FRANCESE
Un maestro ritrovato di Haim Burstin Come nascono le rivoluzioni. Economia e politica nella Francia delXVIII e XIX secolo, a cura di Marina Cedronio, prefaz. di Pier Vilar, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 394, Lit 60.000. E R N E S T LABROUSSE,
Diversi sono gli aspetti per cui si rivela preziosa questa raccolta degli scrittori di Ernest Labrousse sulla rivoluzione francese. Innanzitutto sono presentati al lettore italiano alcuni testi fondamentali di uno storico fino ad ora molto trascurato nelle traduzioni; e questo, in un clima editoriale sempre più riluttante all'impegno per la pubblicazione dei grandi classici della storiografia rivoluzionaria, a beneficio di materiali più agili, ma anche più effimeri. Ecco quindi finalmente raccolti alcuni contributi che si sono imposti come chiave di volta nella storiografia francese sul Settecento, sia per quanto riguarda il contenuto che per il metodo. Si tratta di una ricca selezione di saggi e estratti molto significativi che invoglieranno senza dubbio il lettore a rivolgersi all'opera integrale, anche se — e questo è un altro motivo di interesse — in lingua originale non tutta la produzione di Labrousse è di facile reperimento. Se VEsquisse è stato ripubblicato in Francia alcuni anni orsono (Paris, Edition des Archives Contemporaines, 1984), per la Crise bisogna rifarsi all'edizione del 1944, mentre gli altri saggi si trovano dispersi in pubblicazioni miscellanee o atti di convegni. Ci si potrà quindi avvicinare ad alcune celebri tesi di Labrousse, ormai da decenni incorporate come riferimento essenziale in molte opere di sintesi, affrontandole di prima mano per voce stessa del loro autore, scoprendo, tra l'altro, una prosa potente ed incisiva, riflesso di quell'eloquenza rimasta famosa nelle aule universitarie. Il senso specifico però che assume la scelta antologica è di ricostruire quel filo rosso presente nella vita e nelle opere di Labrousse, che testimonia un interesse fortissimo e mai spento nei confronti della rivoluzione francese. È noto infatti che Labrousse non ha dedicato nessuna delle sue opere maggiori direttamente al fenomeno rivoluzionario, e probabilmente non a caso; anche se negli ambienti a lui vicini si mormorava di un progetto in tal senso, a coronamento della sua lunga e feconda attività di storico, Labrousse si è spento nel 1988 senza che questo progetto abbia visto la luce. Lascia quindi qualche dubbio la scelta dell'editore di presentare in copertina un titolo "ricostruito" che potrebbe trarre in inganno il lettore. Certo è che la rivoluzione attraversa, più o meno direttamente, non solo tutta la produzione, ma la vita stessa di Labrousse e questo emerge sia dall'intelligente selezione dei testi che dall'ampia e ragionata introduzione della Cedronio; grazie a quest'ultima siamo pilotati lungo un tracciato che rende esplicito il cammino dell'autore, così come i suoi complessi rapporti con l'ambiente culturale e politico del proprio tempo. Un capitolo quindi anche di storia del nostro secolo e di storia della storiografia in cui intervengono i molti interlocutori di Labrousse, da Francois Simiand a Albert Aftalion, da Philippe Sagnac a Marcel Marion, da Henri Sée a Levasseur, per arrivare agli esponenti maggiori della storiografia rivoluzionaria: Aulard, Ma-
thiez, Lefebvre. Il rapporto di Labrousse con la rivoluzione francese risale agli anni di liceo e prosegue ininterrotto con la tesi di laurea diretta proprio da Alphonse Aulard, né si eclissa con la prima grande tesi di dottorato in economia politica del 1933 — VEsquisse du mouvement des prix et des revenus en France au XVIII' siècle di cui l'an-
non solo nelle linee di interesse sviluppate dallo studioso o in alcuni punti di riferimento ricorrenti, come il richiamo a Jaurès che Labrousse considererà uno dei suoi maestri indiscussi, ma nell'attiva e ininterrotta vicinanza che sempre egli dimostrò nei confronti dell'area di studi relativi alla rivoluzione francese: legato a Georges Lefebvre — "il vero fonda-
ha dato origine a quel felice incontro tra tempi lunghi della storia sociale e tempi corti del decennio rivoluzionario; senza nulla sacrificare al rigore di un'indagine rivolta al movimento secolare, viene messa in pieno risalto la complessità della crisi dell'89 e il suo specifico innestarsi nelle fluttuazioni cicliche di lungo periodo; ne esce un'immagine della rivoluzione che
Hegel spiato di Alberto Burgio Hegel segreto. Ricerche sulle fonti nascoste del pensiero hegeliano, Guerini e Associati, Milano 1989, ed. orig. 1968, trad. dal francese e cura di Enzo Tota e Marco Duichin, pp. 376, Lit 42.000.
JACQUES D ' H O N D T ,
Se oggi la vulgata di uno Hegel "statolatra", "santificatore della realtà immediata" e giustificatore della repressione (nonché, Popper insegnando, anticipatore del nazismo) mostra la corda, nel '68, quando Hegel secret varcò per la prima volta i confini del mondo accademico, le cose stavano diversamente. Anche per questo l'eco del libro fu grande, come accese per lungo tempo (e ancor oggi non sopite) le polemiche che, insieme agli unanimi riconoscimenti dell'acribia e delle doti di intuizione attestate dalla ricerca, ne accompagnarono la rapida celebrità. La figura del suo stesso autore — studioso di indiscusso prestigio — ne uscì in qualche modo segnata: non potendosene porre in dubbio la serietà e il valore, si suggerì da più parti che la tesi del libro fosse il risultato di un sapiente artificio, l'effetto, quasi, di un progressivo accumulo di forzature. Ma qual è, per l'appunto, la tesi centrale di Hegel secret? Il sottotitolo — Recherches sur les sources cachées de la pensée de Hegel — non lascia margini al dubbio: come se non bastasse la loro proverbiale complessità, lo studioso che si misura con i testi hegeliani ha, secondo D'Hondt, l'onere di far luce sulle loro "fonti nascoste", su ascendenze e referenti che Hegel era costretto a occultare per passare indenne tra le maglie della censura ed evitare rapporti incresciosi con la polizia politica — ma senza la cui identificazione "molti passaggi del testo hegeliano resterebbero incomprensibili". Sulla base di queste premesse, con una tecnica che lo stesso D'Hondt non esita a paragonare a quella dell'investigatore privato, gli scritti hegeliani — in particolare gli inediti degli anni giovanili di Tubinga, Berna e Francoforte — sono passati ai raggi infrarossi nel tentativo di decifrare allusioni, di cogliere citazioni involontarie o criptiche, di ricostruire percorsi impliciti o dissimulati dalle fonti di Hegel alla sua pagina. Non è possibile negare all'autore una grande maestria in quest'opera di "spionaggio" letterario e filosofico. Nomi pochissimo o punto noti, opere ormai dimenticate, persino realtà storiche e sociali scivolate da lungo tempo nell'oblìo generale tornano a vivere nella sua ricostruzione, e a far da sfondo e talvolta da corona alle prime esperienze intellettuali di Hegel. Certo — per fare solo qualche esempio — anche prima del lavoro di D'Hondt era a tutti noto che a Tubinga, insieme a Schelling e Hòlderlin, Hegel leggesse "Minerva", "rivista storico-politica" attenta agli avvenimenti d'Oltrereno. Ma nessuno era ancora riuscito a misurare l'influenza che "Minerva" esercitò su Hegel anche dopo la partenza per la Svizzera e — così D'Hondt ritiene — per tutta la vita; nessuno soprattutto aveva ricostruito con pari ricchezza di informazione l'ambiente sociale e intellettuale di cui la rivista era espressione, le figure dei suoi maggiori animatori — dal fondatore e direttore, J.W. von Archenholz, ai due principali collaboratori tedeschi dei primi tempi, K.F. Reinhard e K.E. Oelsner, ad alcune importanti firme francesi, F.C. Volney,
tologia ripropone l'ultimo celebre capitolo di sintesi — anche se l'osservazione si rivolge qui ai tempi lunghi del movimento secolare dei prezzi e dell'economia francese. E però tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta che si definisce il pensiero d» Labrousse sulla rivoluzione, come si potrà cogliere dall'importante introduzione a La crise de l'économie frangaise àia fin de 1'Ancien Régime et au début de la Révolution, seconda tesi di dottorato, questa volta in storia, del 1943; per arrivare poi ad alcuni magistrali contributi, tra cui spicca l'intervento al congresso per il primo centenario della rivoluzione del 1848, il cui tema — Come nascono le rivoluzioni — dà il titolo all'antologia stessa. I motivi di continuità appaiono
tore della nostra scuola di storia sociale moderna", come egli dichiara in un bilancio critico sull'attività di questo storico — Labrousse presiederà dal 1959 la Société des Etudes Robespierristes e, ancora al momento della sua morte, sarà alla testa della commissione di ricerca incaricata di preparare le celebrazioni del bicentenario. Inutile riassumere qui le coordinate già molto note dell'indagine di Labrousse, che il lettore troverà d'altronde riassunte nell'introduzione e che potrà seguire sui testi raccolti, con l'ausilio inoltre di un accurato indice tematico. Più opportuno è invece insistere sul fondamentale apporto metodologico dell'opera, dove lo sforzo di comprendere scientificamente la rivoluzione nella sua genesi
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rende conto di tutta l'ampiezza dello sconvolgimento sociale, all'incrocio tra miseria contadina e prosperità borghese, dove toma a riecheggiare tanto la voce di Michelet che di Jaurès. Non dunque una spiegazione monocausale del fenomeno, ma l'individuazione di quel "miscuglio esplosivo" a più componenti che rende una situazione effettivamente rivoluzionaria. E nota la predilezione di Labrousse per la storia economica e sociale, di cui egli si è affermato in Francia come autentico capo scuola, senza però che mai le tecniche di questa disciplina siano state intese fini a se stesse: anche la statistica si piega così all'esigenza complessiva di far emergere l'uomo e di non insabbiare la storia in un'arida sequenza seriale; così pure il suo rifiuto nei
confronti di un primato assoluto della politica, non ha mai escluso il ruolo decisivo proprio di fattori di tipo politico in combinazione con elementi d'ordine economico e sociale; ciò apparirà chiaramente dal saggio Come nascono le rivoluzioni che, in questo senso, ha guidato l'approccio alla rivoluzione di una generazione di storici. Ci troviamo quindi di fronte a uno sforzo in direzione di una storia concepita "nella sua interezza" e quindi di una storia globale "che deve essere completa per essere vera". Come questa aspirazione non abbia escluso l'approccio monografico, anzi lo abbia esaltato al più alto livello, si comprende dall'ineguagliabile ruolo di direttore di ricerca svolto per decenni da Labrousse, pilotando decine di giovani studiosi che si sono lanciati con entusiasmo sulle piste aperte o individuate dal maestro. Un compendio delle fonti segnalate alla ricerca e poi effettivamente esplorate dai suoi allievi lo si troverà nel celebre rapporto Per una nuova storia della borghesia occidentale nei secoli XVIII e XIX, presentato al X Congresso internazionale di scienze storiche del 1955; archivi elettorali, fiscali, notarili, demografici, statistici: "un autentico Eldorado di cantieri nuovi e di terre,vergini da scoprire", come ha ricordato di recente Michel Vovelle. C'è però un ulteriore ed importante piano di riflessione stimolato da questa antologia e dalla scelta stessa di riproporre al pubblico Ernest Labrousse in un clima storiografico oggi profondamente modificato; si tratta di considerazioni che sconfinano nel campo della più recente storia della storiografia e cui rimanda l'acuta ed incisiva prefazione al volume di Pierre Vilar, erede di quella cattedra di storia economica e sociale già occupata da Labrousse alla Sorbonne. Assistiamo infatti in questi anni, soprattutto in Francia, alla sua discreta, ma progressiva liquidazione. Allontanatosi nella sua lunga vecchiaia dalla ribalta dei riconoscimenti pubblici e delle sacralizzazioni di cui hanno goduto altri storici della sua generazione e della sua levatura, la sua morte è passata quasi inavvertita al grande pubblico. Già dalla fine degli anni sessanta era iniziata quella diaspora di molti dei suoi allievi che, pur mantenendo stretti legami con il maestro, si erano orientati verso altri nuovi terreni di ricerca. Più di recente, con il declino dell'astro della storia sociale, assistiamo a una sorta di rimozione di uno dei suoi principali esponenti; si tratta forse di tacita insofferenza nei confronti di un personaggio che, per il suo stesso vigore intellettuale, aveva dominato la scena storiografica nel corso di alcuni decenni, e la cui opera, come esempio di rigore, è in grado ancor oggi di sottolineare implicitamente le debolezze di alcuni indirizzi di ricerca attualmente di grande successo. Rileggendo queste pagine labroussiane sulla rivoluzione francese non sfuggirà al lettore la straordinaria capacità di cogliere e comprendere i problemi, così come la sorprendente attualità di alcune sue intuizioni e sistematizzazioni; non resta quindi che salutare questa felice iniziativa editoriale come un contributo alla piena valorizzazione di uno dei più significativi storici del nostro secolo.
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RIVOLUZIONE FRANCESE
Fiori e frutti di fine stagione di Mauro Barberis Cobban di Anna Maria Rao, in cui l'obiezione maggiore rivolta allo storico inglese sembra quella, tradizionalmente rivolta ai furetiani, di essere più preoccupato "dal concetto di rivoluzione che dalla storia della Rivoluzione francese", o alla voce AuUn buon modo per catturare l'imgustin Cochin di Giovanni Carpinelli; magine proteiforme della rivoluzione ma penso anche alla voce Jacob Talfrancese, come è andata formandosi mon, dalla quale ciò che Bongiovanni in duecento anni di interpretazioni chiama (spero ironicamente) "l'imstoriche, filosofiche e letterarie, è placabile teleologismo delle idee" di forse proprio quello scelto da Bruno Talmon esce davvero sin troppo be- ^ Bongiovanni e Luciano Guerci in ne. questo volume. Invece di raccontare Il lettore qualunque, ignaro di la formazione nel tempo di quest'imRabaut de Saint-Étienne e L.-S. Mercier, tutti quanti, secondo D'Hondt, "fonti contese storiografiche e accademimagine, procedendo a ricostruzioni nascoste" di Hegel — i rapporti che la legavano ai circoli francesi di parte girondiche, sarà peraltro meno attratto dagli «•^P^ Rabaut che avrebbero sacrificato il dettaglio na, alla "Chronique du Mois" di Condorcet e Bonneville, alla Confederazione inultimi fuochi della guerriglia tra gli nascosti all'insieme, i curatori del volume ternazionalista e massonica degli "Amis de la Vérité" e, più in generale, al "Cercle storici che dalla godibilità, anche lethanno inteso rendercela giustapposocial", libreria, tipografia, casa editrice insieme e, al di là di questo, vero centro teraria, di alcune di queste voci. Pennendo — in centotrenta voci affidate organizzativo della propaganda rivoluzionaria. Nessuno si era spinto tanto in là nel so, per esempio, alle mosse narrazioa una sessantina di specialisti e dispoporre l'accento sull'importanza della massoneria progressista tedesca (e degli Ordini che caratterizzano — e talvolta, ste in ordine alfabetico: da Lord Acni ad essa vicini, primo tra tutti quello degli Illuminati) nella vita di Hegel, il quale ahimé, esauriscono — le voci Benton a Ulrich von Wilamowitz — le — iniziato o meno che fosse (D'Hondt sembra propendere per l'ipotesi affermatijamin Constant e Madame de Staèl a principali intepret azioni che hanno va) — sempre ci appare circondato e sostenuto da una cerchia di massoni, di cui cura di André Jardin; al bel medacontribuito a costituirla. Il quadro mostra non soltanto di conoscere rituali e simbologie, ma, soprattutto, di condiviglione di Charles Péguy fornito da che ne esce risulta in effetti suffidere ideali e finalità politiche. Sergio Luzzatto; a tutti i contributi cientemente caleidoscopico da restidi Remo Bodei, come al solito filosoMa allora, a quali riserve si faceva riferimento poc'anzi? Dove nascono le pertuire le proliferazioni e i sovraccarificamente intriganti e filologicamenplessità che — lungi dal ridurre l'importanza di questo libro e del suo autore — chi di senso che la Rivoluzione ha sute fondati. Come ha detto una volta hanno contribuito alla loro celebrità? bito e subisce: se è vero che è proprio Renan, nessuno ha colpa dei (btjcenSchematizzando, è forse possibile dire che tali riserve concernono, più che il per oggetti come questo che le intertenari: ma nel declinare di una stamerito dei risultati conseguiti da D'Hondt (pure da taluno posti in discussione), il pretazioni non finiscono mai. gione storiografica in cui tutto semmetodo adottato. Il nodo — simile a quello che è tornato di recente a stringersi a "Splendida aurora" (G.W.F. Hebra essere stato detto, quest'Albero proposito dell'adesione di Heidegger al nazismo — è quello del rapporto tra biogel), "miracolo", "forza travolgente della Rivoluzione produce ancora grafia e pensiero teorico, problema al quale è attento anche l'altro volume pubbliche piega tutti gli ostacoli" (J. de frutti e fiori. cato da D'Hondt nel 1968, Hegel en son temps (trad. it. Napoli 1978), dedicato al Maistre), "creazione seconda, che periodo berlinese di Hegel. L'impressione che taluni studiosi hanno tratto dal liEsibirò allora un ultimo esempio ancora una volta rifà l'uomo" (V. bro (la documentata Introduzione di Marco Duichin orienta in una discussione vendi fiore, se non di frutto, prodotto da Hugo), "ultima grande sollevazione tennale) è che, a dispetto degli sforzi di D'Hondt, ricerca biografica e analisi tequest'albero a fine stagione: l'immadi schiavi", "farsa orribile e, a giudistuale rimangano separate, che l'una non riesca a fondersi all'altra per dar vita a gine della Rivoluzione capovolta e carla da vicino, superflua" (F. Nietzcriteri unitari dell'interpretazione. È giustificata questa impressione? Hanno radelirante, quasi riflessa dal frammensche), "delitto politico che servì ad gione i critici di D'Hondt? to di uno specchio in frantumi, che aumentare una triste serie di delitti Non è evidentemente possibile cercare in questa sede una risposta. Certo è che, troviamo nella voce Cesare Lombroso comuni" (C. Lombroso), "grande inmalgrado la modestia da D'Hondt usata nel trarre le conclusioni dal proprio lavoro curata da Luisa Mangoni. Qui l'estaurazione violenta di questo picco(ciò che Hegel "ha voluto nascondere" occultando "alcune fonti del suo pensiero" stensore lascia parlare l'interprete lo mondo moderno" (Ch. Péguy), — e che D'Hondt si è proposto di riportare alla luce — è che "le molteplici e vigostesso, mostrando cosa può divenire "mito" (A. Cobban), "nostra madre rose radici di quel pensiero" affondano "nella Rivoluzione francese": cosa certo la Grande Rivoluzione nelle mani di comune" (A. Soboul): queste sono rilevante ma ormai da tempo generalmente riconosciuta e, come lo stesso D'Hondt un antropologo criminale. Abbiamo solo alcune tra le tante eteroclite caammette, misurata per difetto alla mole dei dati e alle argomentazioni presentate), così uno dei padri dell'Ottantanove, ratterizzazioni dell'Ottantanove che l'idea stessa di uno Hegel segreto dichiara ben altre ambizioni e dà al tempo stesso Rousseau, che passa dall'ipocondria il lettore incontra in queste pagine. materia a obiezioni radicali: se si ha a che fare con uno Hegel nascosto e con uno alla melanconia alla manìa, sino a un D'altra parte, lungi dal voler sempliHegel ufficiale non si suggerisce con ciò che il "vero" Hegel è dietro le pagine dei "delirio megalomane, che si alterna cemente restituire le interpretazioni suoi libri, sotto il velo della dissimulazione che esse stendono ad arte? E non si ricol persecutivo"; dei protagonisti correnti, le centotrenta voci à.e\\'Alschia proprio per questo di sottrarre valore alle opere per l'appunto "ufficiali" di che vengono classificati nelle categobero della Rivoluzione costituiscono Hegel, di disperdere il fondamento ultimo di qualsiasi lavoro di lettura e di studio? rie dei "pazzi morali e rei-nati", coaltrettante reinterpretazioni di tali Non si produrrebbe, per di più, nel caso specifico, l'effetto paradossale per cui prome Marat, e dei "rei per occasione", interpretazioni. A costo di fornirne prio il tentativo di affermare la costante fedeltà di Hegel all'89 finirebbe per accrecome Danton e Robespierre, salvo un'ulteriore reinterpretazione cerditare della sua opera scritta l'immagine diffusane da parte liberale, quella di un fiincluderli, in difetto di una fisiognocherò di mostrare quale sia l'operalosofo conservatore, alleato della Restaurazione? Come che stiano le cose, un fatto mica abbastanza repellente, in quella zione culturale in esso complessivacomunque è certo. Segno inequivoco della vitalità del pensiero politico di Hegel e dei "rei per passione". mente realizzata, distinguendola da dell'importanza della sua figura, la discussione continua, oltrepassa i limiti del diE la Rivoluzione, la Rivoluzione operazioni analoghe. battito specialistico, coinvolge le ragioni della nostra stessa identità collettiva. Anvera e propria? Lombroso inclina a Rispetto a testi consimili — e in che questo, al di là delle argomentazioni contrapposte, va annoverato tra i meriti di considerarla una semplice rivolta. particolare rispetto a quel Dizionario D'Hondt, e non tra quelli di minor conto. Come scrive Luisa Mangoni: per critico della Rivoluzione francese, cuLombroso "le ribellioni erano in raprato da Fran50is Furet e Mona porto al clima, più frequenti nei climi Ozouf, che ha incontrato anche in caldi; alla razza, prevalevano nei poItalia un certo successo — l'Albero poli brachicefali bruni; erano condella Rivoluzione esibisce almeno tre nesse alla diffusione dell'alcoolismo; caratteri differenziali. In primo luoregistravano una presenza attiva di revisionista", come lo definisce, delgo, esso non pretende all'esaustività ca", o "critica", o "concettuale", o chard Cobb, Georges Lefebvre e Alla thèse su Les sans-culottes parisiens donne; in esse i 'pazzi' e i 'criminali' bert Soboul. Che Guerci, protagonidel dizionario: come i curatori di"per problemi", o, appunto, "intererano assai più numerosi dei 'geniaen l'an II (1958). Sul che si può consta in passato di polemiche anche chiarano nella prefazione, il suo obpretativa". li'". Tutte cose reperibili nella rivocordare: ma con la precisazione che violente nei confronti del revisionibiettivo è semplicemente quello di In terzo luogo, in effetti, l'Albero luzione francese, com'è noto; e difatdi "revisionismi" come questi son smo furetiano, proceda a una qualfornire una rassegna delle principali della Rivoluzione si lascia leggere anti "Lombroso trovava puntuali ripiene le fosse. che rivalutazione degli storici appena interpretazioni della Rivoluzione, che come una risposta — se non al scontri nella vicenda storica: 'I proAccenti non dissimili trova Guermenzionati, reagendo ai giudizi ingedalla quale sono escluse solo quelle furetismo illuminato di molte pagine dromi della rivoluzione francese ci per il Lefebvre ammiratore di Tocnerosi formulati su di loro da Furet, attribuibili agli stessi attori del del Dizionario critico, certo — all'ulsono segnalati da comparse di stormi queville, pregiatore della sintesi e del non stupisce certo. Se qualcosa stupidramma rivoluzionario (con qualche trafuretismo, o furetismo volgare di vagabondi, di ladri e di assassini'; pensare per problemi, tutti aspetti sce, semmai, è che il principale argosignificativa eccezione), quelle — soche sta furoreggiando in Francia e alnel suo caso 'fu l'alcoolismo che atche inducono il curatore a commenmento allegato a loro favore sembri lo parzialmente coincidenti con le trove. Si tratta di risposta quanto tizzò gli istinti sanguinari della plebe tare: "pare di sentire il più autorevotalvolta quello secondo cui si tratteprime — dei memorialisti, nonché mai pacata, in cerca di un difficile e dei rappresentanti del Governo rile degli attuali storici revisionisti, rebbe di revisionisti avant la lettre. tutte quelle manifestatesi in forme punto d'equilibrio tra le diffidenze e voluzionario'; le donne ne furono espressive diverse dalla scrittura. i sospetti antifuretiani o antifuretisti Prendiamo, ad esempio, il ritratto Francois Furet". L'indirizzo conciagli inizi 'fautrici caldissime'; essa fu liativo verso il revisionismo storiodi Albert Soboul tratteggiato da In secondo luogo, rispetto a un Di- dello storico professionale, e il ricocaratterizzata dalla criminalità diffugrafico — o forse il tentativo di assinoscimento della salutare sterzata Guerci. Qui, diciamoci la verità, la zionario critico in gran parte dedicato sa e dall'assenza di geni tra i rivolumilarlo alla tradizione storiografica problematica che Furet ha impresso rivalutazione era cosa abbastanza arai fatti, il volume in oggetto è dedicazionari, come era confermato dal fatprecedente, sdrammatizzandone gli alla storiografia rivoluzionaria: ma si dua — a differenza che per Lefebto esclusivamente, come si è detto, to che 'alla testa dei giacobini a Parielementi di rottura — traspare poi tratta pur sempre di una risposta. vre, e anche per Cobb — da scoragalle interpretazioni della Rivoluziogi vi furono dei veri banditi". dalle voci dedicate agli storici che, a Molti dei contributi al volume si lagiare qualsiasi rivalutatore: essendo ne. Questo non avviene certo in torto o a ragione, passano per suoi sciano infatti leggere come intervendifficile dir bene di un storico che, omaggio a quella che potrebbe dirsi precursori: penso alla voce Alfred ti in un dibattito al centro del quale come lo stesso curatore ricorda, tacuna concezione nietzschiana della
L'albero della Rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, a cura di Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci, Einaudi, Torino 1989, pp. 688, Lit 65.000.
storiografia, per la quale, in ipotesi, non esistano fatti ma soltanto interpretazioni: concezione sottoscrivibile, semmai, da qualche seguace di Furet in vena di iconoclastia. L'obbiettivo sembra piuttosto quello di accettare la sfida del furetismo sul suo stesso terreno: il terreno di quella storia che è stata di volta in volta chiamata "revisionista", o "filosofi-
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si sono ormai insediate le tesi revisioniste. Non penso tanto all'equilibrata voce dedicata a Furet da Bruno Bongiovanni, quanto ai contributi di Luciano Guerci su alcuni dei più illustri sostenitori della interpretazione classica della Rivoluzione, già bersagli polemici del revisionismo storiografico: segnatamente alle voci su Ri-
dava Furet e Richet di rinnegati, salvo uscirsene con il solito ritornello marxista secondo cui la Rivoluzione "si spiega in ultima analisi con la contraddizione tra i rapporti di produzione e il carattere delle forze produttive". Eppure, Guerci riesce a ritrovare un Soboul eterodosso e tutt'altro che ligio alle direttive del Pcf: quello "spregiudicato, e a suo modo
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RIVOLUZIONE FRANCESE
L'enigma della sovranità di Massimo Temi PAOLO VIOLA, Il trono vuoto, Einaudi, Torino 1989, pp. XV-243, Lit 24.000.
Il bicentenario del 1789 è caratterizzato dalla presenza forte del "politico" come contesto e problema fondamentale della rivoluzione. Questa è l'indicazione che traspare dalle opere più significative quali ad esempio il Dizionario critico della rivoluzione francese diretto e curato da Francois Furet e Mona Ozouf (Bompiani, 1989) e La Rivoluzione francese Politica, cultura, classi sociali di Lynn Hunt (Il Mulino, 1989). In questo ambito particolarmente tempestiva e opportuna appare la pubblicazione del saggio di Paolo Viola II trono vuoto. Che cosa è la rivoluzione francese per Paolo Viola? Essa non è la rivoluzione sociale della borghesia trionfante come per più di un cinquantennio ha sostenuto la storiografia classica di Jaurès, di Mathiez, di Labrousse, di Lefebvre e di Soboul. Su questo punto Viola ha aderito alla revisione degli anni sessanta di Franc i s Furet che, riprendendo la tesi di Alfred Cobban, denunciava il mito della rivoluzione francese in quanto rivoluzione borghese. Essa è invece definibile come la rivoluzione politica dell'età moderna: il centro supremo e l'essenza del potere, da tempi immemorabili identificati e incarnati nella persona sacra del re per diritto divino, sono stati trasferiti nella persona collettiva di un popolo sovrano che si assume la responsabilità di se stesso. La rivoluzione francese viene dunque raccontata da Paolo Viola nei termini del trasferimento della sovranità dal re alla nazione, sottolineandone gli episodi salienti di lesa maestà, quali ad esempio le giornate dell'ottobre '89 e l'assalto finale alle Tuileries del 10 agosto 1792. La conseguenza naturale di tale capovolgimento della fonte e della forma del governo supremo è, come indica il titolo del libro, che "il trono è vuoto". Quell'autorità che, per quanto iniqua e irrazionale, nella monarchia di antico regime godeva di una sua legittimità ed efficacia, ha perso forza e consistenza; al suo posto si è creato un vuoto di potere per il momento incolmabile. Il trono è vuoto, perché il popolo sovrano non è in grado di occupare secondo modalità legali il posto vacante del re deposto. Come ha scritto il monarchier Mounier, moderato protagonista del trasferimen-
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to della sovranità nell'estate dell'89, tra i primi ad emigrare subito dopo le giornate di ottobre, "si può dire che presso un popolo che ha la sfortuna e la stupidità di credersi sovrano il trono è vuoto". In tale vuoto si innesca un dramma in tre atti corrispondente a tre fasi concettualmente distinte della rivoluzione, anche se talvolta cronologicamente sovrapposte, in cui si articolano le tre parti di que-
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di Marco Revelli
L'incomprensione italiana della rivoluzione francese, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 95, Lit 14.000. FURIO D I A Z ,
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L'Italia non ha avuto una propria rivoluzione (e questo, purtroppo si sa, è fonte di molti dei nostri mali politici e culturali). Ma l'Italia non ha raggiunto neppure un'adeguata comprensione della rivoluzione degli altri. Se un filo di continuità sembra attraversare la nostra cultura storica nell'Ottocento, e caratterizzare l'ideologia italiana nelle sue radici, questo è costituito dal moderatismo, dalla accomodante polemica contro l'intransigente "astrattezza" e l'universalismo dello spirito rivoluzionario in nome della legalità e della mediazione, dal moralismo astorico, dal gusto della conciliazione e dal timore della rivolta. Lo documenta Furio Diaz in questo ruvido pamphlet, scritto fuori dai denti, senza prudenza accademica . Reazionari e superficiali furono gli ex rivoluzionari pentiti come il Cuoco, il Colletta, il Blanch, accomunati dall'incomprensione delle radici profonde, sociali, storiche, del moto rivoluzionario e impegnati a scaricare sui fatti d'oltralpe "gran parte dei mali" delle esperienze politiche di casa nostra, nate quando già Io slancio della Grande Rivoluzione si era attenuato o importate dalle baionette napoleoniche. Allo stesso modo banali furono le argomentazioni di uomini come Lazzaro Papi e Carlo Botta, anch'essi in gioventù coinvolti dal clima rivoluzionario, e tuttavia moralisticamente atterriti di fronte al giacobinismo e pronti all'anatema di fronte alla condanna del re. Ma è soprattutto nella storiografia risorgimentale che si svela la debolezza (la "meschinità", dice Diaz riprendendo un giudizio di Gramsci) e il moderatismo dell'ideologia italiana; nel distacco dalla Rivoluzione di gran parte degli storici impegnati in politica, primo fra tutti Cesare Balbo (per 0 quale la rivoluzione francese fu tutta "una vergogna", dai quali si distaccano solo pochi "eretici" minoritari come Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. Occorrerà attendere la fine del secolo, ci ricorda Diaz, occorrerà Salvemini (pur con tutti i suoi limiti), per riportare il discorso alle sue ' 'radici' ' : alle dinamiche sociali, alla crisi deìl'anfien regime, alla necessità della rottura. A una giusta ricollocazione storica della Rivoluzione. Guizot aveva osservato, nel suo Cours d'histoire moderne che all'Italia "manca ciò che le è sempre mancato, ciò che dappertutto è una delle condizioni vitali della civilizzazione, le manca la fede, la fede nella verità". Diaz ce lo ricorda oggi. Per questo il suo breve libro, decisamente inattuale, non piacerà agli scettici, ai sofisti accademici, ai relativisti dal pensiero più o meno debole, agli unanimisti e ai moderati. A quelli vecchi, e a quelli nuovi.
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MURSIA Quando la storia è più avvincente di un romanzo
JEAN-PAUL MARAT Scienziato e rivoluzionario nella stessa collana «Biografie» Guy Chaussinand-Nogaret
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zione politica del ' 'giardino alla francese" proposta dall'abate Siéyès, non servì a "terminare la rivoluzione". Essa continuò nella sua corsa precipitosa, attuandosi nelle sue altre due fasi, tentativi di trovare una via d'uscita dalla impasse creatasi con la illegale coincidenza di autorità e forza. Nella seconda catastrofica fase — "subire larivoluzione"— è il popolo
Critica dell'ideologia italiana
Giuseppe Gaudenzi - Roberto Satolli
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st'opera: terminare la rivoluzione, subire la rivoluzione, dirigere la rivoluzione. La prima fase — "terminare la rivoluzione" — inizia prima ancora che la rivoluzione stessa sia cominciata. Quest'ultima deve porre subito fine a sé stessa in quanto forma illegale di potere. Illegale rispetto alle istituzioni del governo tradizionale la cui legittimità era basata sulla pos-
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UNA DONNA NELLA RIVOLUZIONE l Madame Roland ( 1 7 5 4 - 1 7 9 3 )
sibilità di identificare la volontà sovrana con la volontà personale del re, fisicamente tangibile e visibile, e quindi sulla possibilità di distinguere la fonte della suprema autorità dall'esercizio della sua forza delegata ad altri. Questa netta separazione tra autorità e forza, tipica della cultura giuridica dei parlamenti, era ciò che differenziava una monarchia legittima dal dispotismo. Con il trasferimento della sovranità che si attua con larivoluzione,proprio questa distinzione era venuta meno: il popolo sovrano doveva essere insieme la fonte e l'esecutore del suo stesso potere. I deputati dell'assemblea nazionale costituente, in quanto rappresentanti legali, regolarmente eletti, della nazione, cercarono invano e a piùripresedi arrestare la rivoluzione e di ridare un assetto costituzionale al nuovo sovrano. Ma il rigore geometrico dei princìpi del diritto naturale, sia pure nella versione più sofisticata e meglio radicata nella tradi-
sovrano che manifesta direttamente e spontaneamente la sua volontà, nell'impossibilità di trovare una rappresentanza di sé adeguata alla nuova maestà di chi vuole e deve essere collettivamente il re. Così il popolo soppiantando il "formalismo rappresentativo" dei teorici della Costituente, impone il "sostanzialismo etico" di un sovrano che interviene in prima persona: come scrive Viola, "il popolo in assemblea, la manifestazione armata, la folla massacratrice sono [...] altrettante espressioni della sovranità". E evidente l'analogia tra la maestà del re e la sovranità del popolo: nel trasferimento gli attributi della prima devono riprodursi nella seconda. E se con Viola si vuole "parafrasare la pratica sovrana di antico regime", si può dire che "il popolo con la giornata rivoluzionaria siede in un lit de justice" ponendo in atto una autorità collettiva che sovranamente parla, colpisce e punisce, mentre i dirigenti tacciono e assento-
no, rinunciando alla effettiva rappresentanza della sovranità. Così la rivoluzione non viene affatto terminata, ma anzi subita nei suoi eccessi, da quelli più noti, quali i massacri di settembre del '92, a quelli inediti, come ad esempio un caso di antropofagia collettiva la cui macabra atrocità viene ricondotta ad un'antropologia politica del trasferimento della sovranità: il tradimento di Guillin, signore di Poleymieux, massacrato dai suoi contadini evoca per similitudine il tradimento del re. Come osserva Viola, "Guillin era il signore, ed era anche l'effige del re. Per due fra i suoi assassini l'atto simbolico della giustizia si spinse fino all'incorporazione di frammenti del cuore e della mano dell'autorità traditrice". Sono forme di democrazia diretta spontaneamente messe in atto dalla folla, naturalmente diventata sovrana nel vuoto di potere creato dallo stesso trasferimento della sovranità. Ma il destino della Francia, assediata dalla coalizione europea e dalla controrivoluzione, non poteva essere abbandonato agli eccessi della folla che si fa giustizia da sé. La nuova sovranità doveva trovare la via di una sua forma di rappresentanza e dare inizio alla fase in cui la rivoluzione non è più subita, ma diretta. Ancora una volta, è nel passato dell 'ancien régime ed in una sostanziale continuità con i suoi valori e concetti che viene trovata una soluzione vecchia ad un problema nuovo. I magistrati del parlamento di Parigi si arrogavano la rappresentanza virtuale della nazione, in quanto saniorpars legittimata a rappresentare virtualmente il tutto. Allo stesso modo, nella difficoltà di trovare forme di rappresentanza legale della sovranità del popolo, il club dei giacobini si assume la rappresentanza virtuale della volontà generale, mediando, in quanto parte per il tutto, il rapporto tra società civile e stato. I montagnardi che nel '93 prendono il potere costituendo il governo rivoluzionario e finalmente realizzando pienamente la fase del "dirigere la rivoluzione", non fanno che portare alle estreme conseguenze una concezione della rappresentanza largamente condivisa e praticata nell'ambito dei parlamenti di antico regime. Questo tema della continuità nella rottura, così tipicamente tocquevilliano, è forse il tratto dominante del libro di Viola, che ha fatto propria la lezione metodologica del "pensare la rivoluzione" di Furet. Ma ha saputo, a mio avviso, andare oltre, recuperando nei suoi aspetti più originali e inediti una specificità storica della rivoluzione francese, nata non soltanto dalla cultura razionalista e progressita dei Lumi, ma anche da quella anticheggiante e anti-moderna che ebbe a maestri e modelli Plutarco e Rousseau, nella libertà degli antichi contrapposta alla libertà dei moderni.
^aaOEl LIBRI DEL MESE^h —
RIVOLUZIONE FRANCESE
Storia della Rivoluzione francese, Dall'Oglio, Milano 1963-66, 10 voli., trad. dal francese di Sergio Fusero, pp. 2549, Lit 60.000. ADOLPHE T H I E R S ,
Nell'occasione del bicentenario l'editore Dall'Oglio riporta in libreria i dieci piccoli volumi della monumentale opera di Thiers, pubblicata tra il 1823 e il 1827, che rappresenta la prima delle grandi "Storie" della Rivoluzione. Più volte riedita nel corso dell'800, così da diventare un autentico best seller, l'opera era frutto di una storiografia militante, liberale e moderata, che si schierava apertamente a fianco degli uomini dell'89. Grande è stata anche la fortuna storiografica di due concetti interpretativi centrali nel lavoro di Thiers: la Rivoluzione come lotta di classi antagoniste sul piano politico e la Rivoluzione come unico e compatto ciclo storico, le cui diverse fasi appaiono tra loro solidali perché unite in una catena di necessità e di circostanze. Oltre che documento di notevole interesse storiografico, la Storia della Rivoluzione francese è un testo che, nella sua pregevole qualità letteraria, cala il lettore nelle atmosfere rivoluzionarie così come furono rivissute da una generazione ancora legatissima alle passioni dell'89.
La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Italiana del 1859, a cura di Federico Sanguineti, presentaz. di Alfredo Giuliani, Costa & Nolan, Genova 1985, pp. 227, Lit 25.000. ALESSANDRO MANZONI,
Scritto negli ultimi dieci anni della sua vita, il saggio di Manzoni è quanto resta di un lavoro incompiuto, che venne pubblicato postumo, in occasione del primo biaentenario della Rivoluzione, da Ruggero Bonghi. Il progetto di Manzoni aveva l'obiettivo di mettere a confronto, per evidenziare le radicali diversità, due rivoluzioni: quella negativa, "illegittima", avviata nel 1789, e quella
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La Rivoluzione francese 17881792, a cura di Franco Venturi, Feltrinelli, Milano 1989, ed. orig. 1962, pp. 281, Lit 15.000.
GAETANO
L'Antico Regime e la Rivoluzione, a cura di Giorgio Candeloro, Rizzoli, Milano 1989, pp. 372, Lit 9.500. Scritti politici di Alexis de Tocqueville, voi. I: La Rivoluzione democratica in Francia, a cura di Nicola Matteucci, Utet, Torino 1969 [1988], trad. dal francese di Eva Omodeo Zona e Luigi Russo, pp. 1081, Lit 80.000. A L E X I S DE TOCQUEVILLE, L'Antico Regime e la Rivoluzione, a cura di Corrado Vivanti, introd. di Luciano Cafagna, Einaudi, Torino 1989, trad. dal francese di Anna Salmon Vivanti e Corrado Vivanti, pp. LI-716, Lit 90.000. A L E X I S DE TOCQUEVILLE,
Oggetto da sempre di feconde rivisitazioni, L'Ancien Régime et la Revolution è stato rimesso in auge nell'ultimo decennio dalla storiografia revisionista che ne ha fatto uno dei pilastri sui quali appoggiare la critica al marxismo e alle sue (spesso più presunte che reali) rigidità dogmatiche ed egemonie accademiche. Ma se si prescinde dalle querelles, per lo più francesi, leggere o rileggere oggi la grande opera incompiuta di Tocqueville significa pur sempre cedere al fascino di una proposta poliedrica, mobilissima, fertile di spunti di straordinario acume, nella quale l'histoire raìsonnée, gioia e cruccio degli storici, trova la sua prima magistrale espressione. In questo percorso alla ricerca delle costanti di lunga durata rintracciabili nella storia della Francia, la Rivoluzione perdeva la valenza periodizzante e i suoi clamorosi avvenimenti venivano stemperati nell'analisi della continuità amministrativa dell'Antico Regime: e tale interpretazione non poteva non essere ripresa e sottolineata dagli storici revisionisti di oggi, in particolare da Furet. Ma non per questo bisogna credere che Tocqueville sia stato maestro soltanto di concettualizzatori, più o meno astratti: a tanti storici, delle più diverse correnti, egli insegnò come far rivivere la storia attraverso una forte tensione politica; insegnò a percepire nella Francia prerivoluzionaria i conflitti sociali e la crisi dei valori collettivi, ad avvertire intimamente la sensibilità, gli umori, i pregiudizi dei gruppi sociali, in primo luogo di quella nobiltà a cui lo univano complessi legami ideologici e personali; insegnò a valutare le idee in termini di storia delle mentalità e al tempo stesso a riflettere sui rapporti tra Rivoluzione e ciclo economico, tra rivolte popolari urbane e crisi delle sussistenze. Dei due volumi dedicati a Tocqueville nella collana Utet "Classici della politica" il primo offre un'accurata edizione dell' Antico Regime e la Rivoluzione, accompagnato da un'ampia raccolta di scritti giovanili, di interventi politici ed accademici, dall'edizione dei Souvenirs, nonché da una scelta di brani tratti dal libro Frammenti e note inedite sulla Rivoluzione, che fa parte dell'edizione nazionale francese delle opere di Tocqueville e nel quale è stato raccolto e ricostruito il copioso materiale inedito. Il secondo volume riporta l'opera a cui Tocqueville legò la sua fama, la Democrazia in America. Resta insuperata l'analisi svolta da Matteucci nella prefazione ai due volumi. Attenta a indagare le procedure conoscitive dello storico e a sottolinearne la carica di contemporaneità è la prefazione che Cafagna ha scritto per la recente edizione dell 'Antico Regime e la Rivoluzione, proposta da Einaudi con la traduzione di Corrado Vivanti. Essa offre la prima traduzione italiana del capolavoro storiografico di Tocqueville fedelmente condotta sull'edizione nazionale francese curata da André Jardin. Si presenta perciò come lo strumento per lo studio critico di tutte le parti frammentarie e inedite, preziose per seguire lo svolgimento tutt'altro che lineare della riflessione di Tocqueville. Infine, nella Bur viene stampata l'edizione tradotta e curata da Giorgio Candeloro pubblicata la prima volta nel 1981, che a sua volta riprendeva l'edizione Longanesi del 1942.
in essa le costanti della storia francese. Nacque così il grandioso progetto di studio sulle origini della Francia contemporanea che presentava non poche somiglianze con quello di Tocqueville. Dopo aver pubblicato la prima parte dell'opera dedicata all'Antico Regime, Adelphi offre ora, in elegante edizione, la seconda parte, quella appunto diretta all'analisi della Rivoluzione. Vi appare in piena luce il Taine, che armato delle categorie dell'allora nascente naturalismo psicologico, si getta con foga squisitamente controrivoluzionaria ad indagare quella grande patologia sociale che fu per lui la rivoluzione francese, offrendo in tal modo la prima interpretazione reazionaria in chiave tutta laica e materialistica, dalla quale, però, nonostante spunti e osservazioni di grande interesse, non discese una tradizione di pensiero storiografico: anche oggi storici di destra come Chaunu e i suoi allievi hanno fatto appello a lui più in qualità di garante ideologico che non di ispiratore di nuove prospettive interpretative.
di Dino Carpanetto
SALVEMINI,
Lo spunto per studiare la rivoluzione francese in Salvemini si fece sentire insieme con l'esigenza di esaminare storicamente quella che egli, allo stesso modo di Manzoni, definì "la rivoluzione italiana". Ma per Salvemini assumeva un valore di ben più ampio respiro: la rivoluzione francese era un passaggio cruciale nel percorso di quella moderna democrazia che dall'Illuminismo scendeva fino a Mazzini e Cattaneo. Pubblicato la prima volta nel 1905, la Rivoluzione francese è il libro che lo impegnò maggiormente, come provano i continui aggiustamenti e aggiornamenti da lui apportati nelle successive edizioni, fino all'ultima e definitiva pubblicata da Laterza nel 1954. Le attualissime pagine che Franco Venturi scrisse nel 1962, preziose per capire l'idea socialista, alla Jaurès, presente nella Rivoluzione di Salvemini, sviluppano un discorso che egli aveva aperto nel 1948 con il libro Jean Jaurès e altri storici della Rivoluzione francese. Nel dopoguerra il libro dello storico torinese aveva contribuito a immettere nella cultura italiana la grande tradizione della storiografia laica e neogiacobina francese: esso avrebbe ben meritato una riedizione proprio in questo bicentenario. Folle rivoluzionarie. Aspetti della rivoluzione francese e questioni di metodo storico, Editori Riuniti, Roma 1989, ed. orig. 1976, trad. dal francese di Giuseppe Cafiero, prefazione di Michel Vovelle, pp. 252, Lit 23.000. G E O R G E R U D E , Dalla Bastiglia al Termidoro. Le masse nella rivoluzione francese, Editori Riuniti, Roma 1989, ed. orig. 1966, trad. dall'inglese di Elsa Fubini, pp. 313, Lit 35.000. GEORGES LEFEBVRE,
positiva, compiutasi in Italia nel 1859 che Manzoni giudicava "legittima" perché non aveva determinato la distruzione dei precedenti regimi politici. Il volume (che segue il testo dell'edizione critica curata da F. Ghisalberti nel 1963), già pubblicato nel 1985 e ora messo in evidenza dalla congiuntura celebrativa del bicentenario, induce a riflettere sull'opportunità di riproporre giudizi liquidatori su Manzoni storico, quasi egli fosse un passatista e un sognatore delle bellezze dell'Antico Regime. Al contrario, recenti analisi tra le quali si segnala per il suo equilibrato rigore critico il saggio di Luciano Guerci apparso su "Studi settecenteschi" (n. 10, 1988), ci restituiscono di Manzoni un'immagine più articolata che evidenzia interessanti risvolti liberali (ad esempio l'ammirazione per la rivoluzione americana) o prese di posizione vicine al conservatorismo laico di Taine.
Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, Adelphi, Milano 1989, 2. voli., pp. 2007, Lit 190.000. HYPPOLYTE TAINE,
Con la lettura del classico libro di Taine siamo invitati a riscoprire uno degli autori più ostili alla Rivoluzione. Per Taine fu l'impatto personale con un evento traumatizzante — la Comune di Parigi — a convincerlo della necessità di rivisitare la Rivoluzione dell'89, per cercare
Sottoposta al fuoco di fila aperto da Furet, la storiografia neogiacobina (Mathiez-Lefebvre-Soboul, per intenderci, secondo una catena di filiazioni storiografiche accettabile solo per economia di discorso) si è trovata sul banco degli imputati con l'accusa di aver bloccato, con la sua adesione ad un marxismo dogmatico, gli studi sulla Rivoluzione, accreditandone un'interpretazione tutta in chiave borghese e capitalistica. Georges Lefebvre, il maggior rappresentante di quella tradizione e senz'altro il più grande storico della Rivoluzione, dimostra, a chi intenda analizzare senza pregiudizi le sue molteplici opere, quanto sia improponibile qualsiasi operazione liquidatoria nei suoi confronti: Lefebvre seminò fecondi dubbi, fu prodigo di indicazioni metodologiche e di spunti critici straordinariamente innovatori e giunse nel vivo della ricerca a formulare ipotesi che presupponevano esse stesse il rifiuto di ogni semplificazione da vulgata marxista. Basti leggere i diversi contributi raccolti in questo libro oggi ristampato, e in particolare il saggio Folle rivoluzionarie, per rendersi conto di quanto lo storico francese fosse distante da quella immagine di acritico lodatore del '93-94 e della Rivoluzione che Furet ancora recentemente ha riproposto. Tra il 1958 e il 1959 apparvero i fondamentali studi di Soboul, Tonnesson, Cobb, Rudé che mostravano tutto il loro debito nei confronti di Lefebvre. La ristampa del libro di Rudé The Crowd in the Francb Revolution affrontava il tema della protesta popolare in ambito urbano, collocata in una prospettiva comparatistica che sarebbe stata da lui percorsa in successivi lavori. Il libro del '59, mentre registra la lezione del Lefebvre che analizza la Rivoluzione dal punto di vista delle masse popolari, rivela al tempo stesso i tratti originali di quella storiografia marxista britannica che si stava allora raccogliendo intorno alla rivista "Past and Present" con l'apporto di storici quali Hill, Dobb, Hobsbawm, Thompson: un laboratorio di ricerca ben lontano dalle catechistiche semplificazioni tipiche di altri marxismi.
N.
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pag. 18 HBDEI LIBRI DELMESk^B M
RIVOLUZIONE FRANCESE
Un maquillage neoliberale di Bruno Bongiovanni FRANCOIS F U R E T , Marx e la Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano 1989, trad. dal francese di Marina Valensise, pp. 384, Lit 10.000. FRANCOIS F U R E T , Il secolo della Rivoluzione 1770-1870, Rizzoli, Milano 1989, ed. orig. 1988, trad. dal francese di Bettino Betti, pp. 667, Lit 70.000.
Gli uomini — scrive Sieyès nell'ultima parte di Che cosa è il Terzo Stato? — si muovono in ragione di tre diversi interessi. Quando l'interesse è comune, essi diventano cittadini e ciò che anima questi ultimi è la volontà generale produttrice di libertà e contrapposta alla volontà particolare produttrice di arbitrio dispotico. Se l'interesse è personale, gli uomini svelano orgogliosamente la propria natura di individui consapevoli del fatto che il perseguimento del tornaconto privato non solo è socialmente legittimo, ma è anche benefico dal punto di vista dell'accrescimento economico e morale dell'intero assetto civile. Se invece alcuni, in forza di privilegi riconosciuti, si riuniscono esclusivamente con altri consociati, l'azione che ne consegue "permette a costoro di concertarsi, di far lega, ispira loro dei progetti pericolosi per la comunità, e ne fa i nemici pubblici pili temibili". Quest'ultimo interesse, pur mascherato dalla fedeltà degli Ordini privilegiati alle istituzioni del regno, è evidentemente estraneo alla nazione. Francois Furet giustamente sottolinea che la Rivoluzione francese, nell'interpretazione che fornisce Marx nei suoi primi scritti, colpisce soprattutto i lacci e i vincoli che, nell'Antico Regime (ormai più forma che sostanza), politicamente e giuridicamente costituiscono quel tessuto intermedio ed arcaico che artificiosamente incatena gli individui alia monarchia assoluta. Il risultato è il divaricarsi violento e traumatico della sfera pubblica e della sfera privata. La politica emigra dai mille rivoli della società feudale — i corpi istituzionalizzati — per concentrarsi con prepotenza nello stato, mentre l'individuo, finalmente libero, si trova davanti una società civile a sua volta< affrancata e trasformata nel territorio della lecita competizione degli interessi personali. Si spalanca così una gigantesca voragine tra il "cittadino", che opera solennemente e virtuosamente nel cielo della comunità politica, e il "borghese", che opera prosaicamente ed utilitaristicamente nell'universo mondano dei bisogni. Eppure, la Rivoluzione pretende che ogni uomo debba essere contemporaneamente cittadino e borghese; pretende inoltre che la sfera pubblica sappia domare ed imbrigliare l'inevitabile anarchia degli appetiti dispiegati e messi in movimento dalla severa secessione della funzione regolativa, allontanatasi dalla società degli interessi privati proprio in virtù della forza centrifuga posta in atto dalla radicalità del moto rivoluzionario. Un compito, quest'ultimo, assai arduo. Tutte le peripezie del processo inaugurato dall'89 derivano per Marx dalle insufficienze della emancipazione politica e dalla difficoltà di ricucire la lacerazione che si è prodotta: neppure la Convenzione, il massimo dell'energia politica del mondo moderno, è stata infatti in grado di sanare i mali sociali. Ciò detto, occorre aggiungere che l'intelligente lavoro su Marx e la ri-
voluzione risale al 1986 e svolge una funzione ben precisa all'interno dell'itinerario storiografico di uno studioso liberale come Furet. Questi, nel 1965, com'è noto, aveva elaborato, insieme a Denis Richet, una teoria che riprendeva le classiche impostazioni dei termidoriani e dei liberali come M.me de Staèl e Constant: il 1789, secondo questa teoria, rappre-
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partito dell'opinione. Tocqueville, grande storico aristocratico e liberale, è utilizzato per spiegare che nulla è cambiato sul piano della centralizzazione statale: è stata la monarchia, imprigionando la nohlesse a Versailles, che ha preparato involontariamente la Rivoluzione, un evento parzialmente misterioso che trasforma la Francia in ciò che già essa è. Co-
zione francese è il peccato originale del mondo contemporaneo, occorre allora saper riaggiustare il tiro. La marmorea storiografia giacobinomarxista, principale obiettivo polemico dei lavori di Furet, è del resto in fase di ripiegamento o di rinnovamento e di osmosi con i metodi della scuola delle "Annales" e dello stesso revisionismo (come si evince dagli
Tra ostilità e revisionismo di Giovanni Carpinelli
Cittadini. Cronaca della Rivoluzione francese, Mondadori, Milano 1989, ed. orig. 1989, trad. dall'inglese di Michela Zernitz, Viviana Tono, Claudio Rosso, Mario Bonini, pp. XVII-1002, Lit 55.000. SIMON SCHAMA,
Se ci si abbandona al gioco della classificazione per grandi tendenze a sfondo politico, non si rende un buon servizio a questo libro, che ha il suo pregio essenziale nel rigoglio straripante della narrazione-, mentre relega in secondo piano l'analisi delle strutture e tratta con una certa disinvoltura le questioni di principio. Insomma, Schama si preoccupa assai più di descrivere e di raccontare che di prendere partito. Tuttavia adotta una sua linea interpretativa, che Michel Vovelle ha collocato tra Furet e Chaunu, tra una lettura "revisionista" di ispirazione liberale e la piena ostilità alla Rivoluzione. Nell'impianto bibliografico del lavoro, l'ascendenza "revisionista" predomina, ma non al punto da soffocare ogni altro tipo di riferimento. Schama non esita infatti a sfruttare apporti provenienti da quella storiografia filorivoluzionaria che, al di là della colorazione ideologica, si è più liberamente misurata con la molteplicità dei dati empirici: sono perciò chiamati in causa — e visti con favore — studiosi come R. Cobb, N. Hampson, lo stesso Vovelle (il cui saggio su La Marseillaise: Idguerre ou la paix è reputato "splendido"). Soboul, nel testo della narrazione, è citato una volta sola: il suo nome è preceduto dall'aggettivo "marxista" e collegato alla "lambiccata accusa [...], degna di un Robespierre, secondo cui i girondini meritavano di morire" (p. 754; ma Michelet, su questo punto, sembra avere un'idea assai simile, anche se la esprime con ben altra elevazione lirica: "avevano bisogno di lavare la loro colpa del '93, di entrare per il tramite dell'espiazione nell'immortalità"... Non basta esorcizzare il mostro marxista per risolvere il problema della violenza nella storia). L'attenzione di Schama per i dettagli riserva delle sorprese. In un libro che si attarda per sette pagine a descrivere le condizioni di vita all'interno della Bastiglia, e che vuole in tal modo smentire la leggenda degli orrori regolarmente attribuiti all'Antico Regime, la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo non viene mai presentata e commentata a parte, nella sua versione definitiva: alle pp. 449-452 è in progetto;! della discussione parlamentare, durata parecchi giorni, non si dice nulla; la data stessa dell'approvazione non è neppure menzionata; a p. 455 compare poi una frase volta a suggerire che "la nobile Dichiarazione" non era sufficiente "per evitare che, a Parigi, la Rivoluzione scendesse rapidamente la spirale che portava all'anarchia più cruenta". Tutto qui. Ed è veramente poco. Non misurandosi con le quelestioni giuridiche di fondo, Simon Schama arriva perfino a trattare l'espressioni "antico regime" alla stregua di una "etichetta rivoluzionaria" divenuta ormai ol ^ soleta; presenta quindi come piuttosto inclini al cambiamento la società e la cultura nel regno di Luigi XVI, mentre vede prevalere l'elemento della resistenza alla mo dernizzazione nella "rabbia che infiammò la violenza rivoluzionaria" (p. XIII)
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senta la rivoluzione "riformista" delle lumières, mentre il 1793 rappresenta la caotica degenerazione della Rivoluzione. Emergono dalle viscere della Francia profonda, nei lunghi mesi del Terrore, "le forze oscure della collera e dell'ira". I giacobini restano prigionieri di queste forze: in parte le assecondano, per installarsi al potere, in parte le controllano dittatorialmente, per non essere a loro volta travolti dall'anarchia. Nel 1978, tuttavia, con il celebre Penser la Révolution Frangaise, Furet pare abbandonare la teoria della discontinuità ed individua una rigida continuità tra Antico Regime e Rivoluzione, ma anche tra 1789 e 1793: i punti di riferimento sono ora Tocqueville, sostenitore della continuità amministrativa, e Cochin, sostenitore del trionfo progressivo e teleologico del
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