Il gioco del Fort / Da - Lacan-con

April 8, 2018 | Author: Anonymous | Category: N/A
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Sigmund Freud Jacques Lacan Marie – France Balta Jacques Sédat

Moustapha Safouan

Il gioco del Fort / Da L’entrata inaugurale della morte nella vita A cura di Moreno Manghi

Prima edizione PDF giugno 2010

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Sommario Introduzione al gioco del Fort / Da (Moreno Manghi).......................................... 3 “Il giuoco del Fort / Da” (Sigmund Freud) ....................................................... 14 Thesaurus Lacan: “il gioco del Fort / Da” (Jacques Lacan)................................. 19 Il “gioco del Fort / Da” tra Freud e Lacan (Marie – France Balta) ........................ 33 La “pulsione di appropriazione” nel gioco del Fort / Da (Jacques Sédat) .............. 41 L’amore come pulsione di morte (Moustapha Safouan) .................................... 44 Appendice Oggetto transizionale. ............................................................................... 64

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Introduzione al gioco del Fort / Da Moreno Manghi

“[…] poiché bisogna ricordarsi che nessuno può essere ucciso in absentia o in effigie.” S. Freud, Dinamica della traslazione (1912)

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testi che abbiamo scelto e riunito hanno lo scopo di ri-presentare al lettore quello che è diventato, soprattutto dopo la ripresa fattane da Lacan nel corso dei suoi Seminari e già prima, nel suo celebre “rapporto di Roma” su Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953) 1, un luogo famoso della letteratura psicoanalitica, e – ancora di recente – anche della filosofia e della critica letteraria nella loro articolazione con la psicoanalisi; tanto, da figurare come voce a se stante nelle più attuali enciclopedie e dizionari della psicoanalisi. Ci riferiamo al cosiddetto “gioco del Fort / Da” o “gioco del rocchetto” descritto da Freud nel secondo capitolo di Al di là del principio di piacere (1920), dove egli si propone di svelare la “misteriosa attività” instancabilmente ripetuta dal suo nipotino di diciotto mesi (il primogenito della figlia Sophie), consistente nel gettare lontano da sé, oltre il bordo della culla, un rocchetto di legno agganciato a una funicella, per poi recuperarlo, accompagnando questa altalena con due vocalizzi: “o-o-o” / “a-a-a”, che la madre riconosce, in accordo con Freud, non come semplici interiezioni ma come i due fonemi di lingua tedesca Fort (via, lontano, partire) e Da (qui, ecco). Tutto il gioco si riduce a questi quattro elementi: i due vocalizzi: Fort / Da, l’attività ripetitiva del bambino intento a far scomparire-apparire, e l’oggetto: il rocchetto che simbolizza la madre; sennonché la psicoanalisi vi deduce già “tutta la

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J. Lacan, Scritti, a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 312 – 313.

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combinatoria da cui sorgerà l’organizzazione significante” (Lacan) 1 e addirittura “l’entrata inaugurale della morte nella vita” (Safouan) 2. Lasciamo che il lettore venga guidato a questa conclusione seguendo la successione dei testi nell’ordine in cui li proponiamo, a cominciare da quello di Freud, passando per i brani estratti dai Seminari di Lacan, le Note di M.-F. Balta che sottolineano le differenti articolazioni teoriche che il gioco assume tra Freud e Lacan, le osservazioni di J. Sédat, che inquadrano il gioco nella prospettiva di F. Perrier, per finire con il saggio, in qualche modo conclusivo per le sue implicazioni metapsicologiche oltre che nel tirare le somme, di M. Safouan – e senza dimenticare l’importante scritto di J. Dor, che nel gioco del Fort / Da vede “l’illustrazione esemplare dell’accesso alla metafora paterna”, già proposto precedentemente 3. Freud propone due interpretazioni completamente differenti del gioco. La prima si riferisce al gioco “completo”, costituito da due movimenti che si richiamano l’un l’altro, scanditi dai due vocalizzi Fort / Da: all’atto del gettare via, alla sparizione, Fort, fa da corrispettivo l’atto del ritorno, della ripresa-riapparizione dell’oggetto, Da. La seconda si riferisce a un solo movimento, l’atto del gettare via, del far scomparire l’oggetto, Fort, “inscenato come gioco a se stante”. “Questo era dunque il giuoco completo — sparizione e riapparizione — del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante.”

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“Ricordate – fin dal momento in cui il bambino comincia semplicemente a opporre due fonemi, abbiamo già due vocaboli. E con colui che li pronuncia e colui al quale sono indirizzati, vale a dire l'oggetto, la madre, abbiamo già quattro elementi, e questo basta per contenere virtualmente in sé tutta la combinatoria da cui sorgerà l'organizzazione del significante.” J. Lacan, Il Seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio (1957 – 1958), testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, traduzione di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 227; edizione francese Seuil, Paris 1998, p. 222. 2 M. Safouan, « L’amour comme pulsion de mort », in L’échec du principe du plaisir, Seuil, Paris 1979, (trad. it. Spirali, Milano 1980). 3 Cfr. J. Dor, “La metafora paterna come crocevia strutturale della soggettività”. La metafora paterna - Il Nome-del-Padre - La metonimia del desiderio - La forclusione del Nome-del-padre. Approccio ai processi psicotici: http://www.lacan-con-freud.it/aiuti/traduzioni/dor_metafora_paterna_forclusione.pdf, pp. 2 - 9. Anche noi ci siamo occupati del “gioco del Fort / Da” in “Il rifiuto. La Versagung nell’insegnamento di Lacan” (ottobre 2009), in part. pp. 16 – 31: http://www.lacan-con-freud.it/lacaniana/thesaurus/manghi_versagung_lacan_EAR.pdf. 4 S. FREUD, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere, 11 voll., a cura di C. L. Musatti, Boringhieri, Torino 1967 - 1979, vol. IX, p. 201.

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“Il primo atto, l’andarsene, era inscenato come giuoco a sé stante, e anzi si verificava incomparabilmente piú spesso che non la rappresentazione completa, con il suo piacevole finale.”

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A queste due interpretazioni del gioco Freud lega due diversi tipi di piacere: mentre il piacere ottenuto tramite l’atto che fa ricomparire l’oggetto (Da) è senz’altro collegato al principio di piacere; il piacere legato all’atto di far scomparire l’oggetto (Fort) – ovvero alla ripetizione isolata dell’esperienza penosa, traumatica, della scomparsa della madre –, è ottenuto “primariamente e indipendentemente dal principio di piacere”. “A ben vedere, nel caso che stiamo discutendo, il bambino potrebbe ripetere nel giuoco un’esperienza sgradevole solo perché a questa ripetizione è legato l’ottenimento di un piacere di tipo diverso, ma non meno diretto.”

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Quest’ultimo “piacere di tipo diverso”, inerente alla ripetizione dell’esperienza della scomparsa della madre come atto a se stante, è quel piacere aldilà del principio di piacere che Freud, in un testo successivo, del 1925, La denegazione (Die Verneinung), metterà in relazione a una costrizione (Zwang) e che Lacan chiamerà godimento. “(La) creazione del simbolo della negazione ha consentito al pensiero un primo livello 3

d’indipendenza [...] dalla costrizione esercitata dal principio di piacere” . Questo

“piacere di tipo diverso”, ottenuto primariamente e indipendentemente dal principio di piacere, e che si fonda sulla costrizione a essere ripetuto, sembra correlato – non è senza sconcerto che Freud lo annota – all’indifferenza del bambino alle partenze della madre 4. Nell’apprestarci a esaminare le implicazioni delle due interpretazioni freudiane del gioco del Fort / Da, ci chiediamo pertanto se non vi sia il più stretto rapporto tra questa indifferenza, su cui Safouan, dopo Freud, giustamente insiste definendola un “momento di siderazione” 5, e il godimento aldilà del principio di piacere. 1

Ibid., pp. 201 – 202. Ibid., p. 202, corsivi nostri. 3 S. Freud, La negazione (1925), in Opere, cit., vol. X, p. 201. Sulla creazione del simbolo della negazione si veda anche più avanti. 4 “È impossibile che l’andar via della madre riuscisse gradevole, o anche soltanto indifferente al bambino… [eppure] non piangeva mai quando la mamma lo lasciava per alcune ore, sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona, ma lo aveva allevato e accudito senza alcun aiuto esterno.” Ibid., pp. 200 – 201. 5 M. Safouan, « L’amour comme pulsion de mort », cit., p. 73. 2

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1. Nella sua forma completa, il gioco introduce alla prima conquista della relazione simbolica come tale, da cui solamente dipende l’accesso a una realtà umanizzata, non disumana. Una conquista che comporta la rottura del cerchio chiuso e autosufficiente del narcisismo primario e l’apertura a una realtà che può essere connotata come umana solo se fondata sull’esperienza del desiderio sessuale e dell’assunzione del limite della propria morte. In questo senso, il gioco del Fort / Da è il momento inaugurale di una dialettica dove “ogni completamento della personalità esige un nuovo svezzamento” (per usare i termini del primissimo Lacan “hegeliano” 1), destinato a fare della morte il limite – o il senso – della vita (“entrata inaugurale della morte nella vita”). Nel linguaggio freudiano, questo significa che la conquista della relazione simbolica si paga con la rinuncia al soddisfacimento pulsionale, con il sacrificio del godimento della Madre. Ecco perché il gioco “era in rapporto con il grande risultato di civiltà raggiunto dal bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale (rinuncia al soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse. Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere.”

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Ciò che Freud “osserva”, con lo sguardo sgombro da ogni pedagogismo, nel gioco di un bambino di un anno e mezzo 3 non ha pertanto niente di “ludico”, così come non si presta a nessuna indagine sulla psicologia dell’infanzia, a nessuna esplicitazione dell’ “interazione madre-bambino”: nell’esercizio in cui si infligge la perdita dell’oggetto materno la posta del gioco è fin da subito l’Uomo. Quando, in una lettera a Karl Abraham del 22 settembre 1914 Freud ritrae l’autore del gioco del rocchetto, Ernst Wolfgang Halberstadt, figlio di Max Halberstadt e di Sophie Freud, in questo modo: “Mio nipote (…) è un essere dignitoso, civile, doppiamente prezioso in questi tempi di bestialità scatenata”, viene da chiedersi chi altri – se non colui che è stato il solo a farci veramente comprendere in che senso “il bambino è il padre

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“Ogni completamento della personalità esige un nuovo svezzamento. Hegel formula che l’individuo che non lotta per essere riconosciuto fuori dal gruppo familiare non accede mai alla personalità prima della morte (…) In fatto di dignità personale, è solo a quella delle entità nominali che la famiglia promuove l’individuo ed essa non lo può se non all’ora della sepoltura”. J. Lacan, Les complexes familiaux dans la formation de l’individu (1938), Navarin, Paris 1984, p. 35 (trad. nostra). 2 S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), cit., p. 201. 3 Ma si tratta di un’ “osservazione” di tutt’altro genere da quella di uno Spitz o di un Wallon (non per niente riconosciuti da tutti degli “osservatori senza pari”), perché non mira a descrivere la “psicologia del bambino” ma a ritrovare in lui i fondamenti di quel Kulturarbeit, di quel “lavoro di civiltà” che consiste nella prima conquista della relazione simbolica.

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dell’uomo” 1 – avrebbe potuto, ieri come oggi, definire con simili parole un bambino di sei mesi. Così, quando Freud conclude che per mezzo del gioco del Fort / Da si tratta di “trasformare ciò che in sé è spiacevole in qualcosa che può essere ricordato e psichicamente elaborato”, l’esito di questa elaborazione psichica include sia l’ “oggetto perduto” – la capacità di “far sparire la madre”, di separarsi dalla madre onnipotente – , sia l’acquisizione della capacità di assentarsi da lei, cioè la capacità del bambino di includersi nel gioco facendosi sparire egli stesso (come quando egli si esercita a far scomparire la propria immagine davanti allo specchio). Nascono proprio da qui quei giochi o quelle fantasie, che sono il pane comune del pensiero del bambino – e direi quasi un suo conforto indispensabile, una sua necessità –, dove egli prova un piacere incomparabile nel nascondersi per spiare le reazioni della madre; giochi dove si tratta di anticipare la propria scomparsa – la propria morte – per sperimentare che sta proprio in questo – nel poter fare a meno dell’Altro, così come nel potere di poter mancare all’Altro (di non voler essergli indispensabile) – il fondamento della sua libertà 2: “se questa scena è esemplare di un lavoro psichico di distacco (détachement), non bisogna dimenticare che viene a ultimare tutta l’elaborazione anteriore che ha condotto il bambino ad assicurarsi di un sentimento di consistenza e della continuità del legame, malgrado la discontinuità provocata dalle assenze dalla madre. Tuttavia, lo si vede, grande è l’apertura quando l’intervento della parola permette il superamento del soddisfacimento immediato, portato dalla presenza dell’oggetto primitivo; e l’avvento della parola, che permette di rendere presente l’assente e assente il presente,

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“La psicoanalisi è stata costretta a derivare la vita psichica dell’adulto da quella del bambino, a prendere sul serio la massima: il bambino è il padre dell’uomo (das Kind is der Vater des Mannes)”. S. Freud, L’interesse per la psicoanalisi (1913), in Opere, cit., vol. VII, p. 265. 2 Libertà che lo stesso Freud non è stato completamente in grado di conquistare. In una lettera ad Abraham del 29 maggio 1918, dopo aver ricevuto dall’amico la notizia della malattia della madre, Freud (che all’epoca ha 64 anni) ci rivela quanto intimo fosse il legame tra un suo fantasma e il gioco del Fort / Da: “Talvolta penso che quando mia madre sarà morta mi sentirò un po’ più tranquillo, perché il pensiero che qualcuno debba annunciarle la mia morte mi terrorizza.” Lettera citata in M. Schur, Freud in vita e in morte. Biografia scritta dal suo medico, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 339. E quasi vent’anni prima, in una lettera del 3 luglio 1899 indirizzata a Fliess, che gli aveva chiesto un consulto per la madre ammalata,: “Caro Wilhelm, è terribile quando le madri vacillano, loro che sono l’ultimo baluardo fra noi e la nostra dipartita!” Lettere a W. Fliess 1887 – 1904, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p.395. È interessante notare che questo incipit è stato censurato per tutti gli anni in cui si poteva leggere solo la prima edizione delle lettere a Fliess.

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conferisce tutta la sua portata a quanto Lacan afferma nel Seminario su L’angoscia : «la sicurezza della presenza, è la possibilità dell’assenza», dell’assenza dell’Altro e dell’assenza all’Altro.”

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Per situare meglio quanto detto finora, e per introdurre all’interpretazione della seconda dimensione del gioco – quella in cui “il primo atto, l’andarsene, era inscenato come gioco a se stante” –, prenderemo in considerazione lo statuto dell’oggetto nel momento in cui, perdendosi per sempre, è conquistato come tale al simbolico, e lo statuto dell’atto che nega l’oggetto invece di distruggerlo. Questo ci porterà a fare un rapido excursus per uno dei testi più brevi e al tempo stesso più densi e difficili che Freud abbia mai scritto, Die Verneinung (1925), La denegazione 3, trattenendo di esso, un po’ disinvoltamente, solo quel che qui ci interessa. Naturalmente, ci serviremo della guida indispensabile di J. Hyppolite 4. “Alla fine di un capitolo di Hegel si tratta di sostituire la vera negatività a quell’appetito di distruzione che si impadronisce del desiderio e […] che è tale che all’esito estremo della lotta primordiale in cui i due combattenti si affrontano, non ci sarà più nessuno per constatare la vittoria o 5

la disfatta dell’uno o dell’altro...” .

Si tratta, insomma, di sostituire all’appetito di distruzione “una negazione ideale” 6. Negare non è distruggere e, come scrive Freud da qualche parte, il primo uomo che ha scagliato contro il suo nemico un’ingiuria al posto di una lancia ha fondato la civiltà. Cogliamo qui la vera portata della famosa affermazione di Hegel: “La parola è l’Aufhebung della cosa”. Aufhebung – che è il termine per eccellenza della dialettica hegeliana –, spiega Hyppolite, significa “ad un tempo negare, sopprimere e conservare, e fondamentalmente sollevare” (su un altro piano o dimensione da

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Jacques Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia (1962 – 1963), seduta del 5 dicembre 1962, testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, traduzione di A. Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007; edizione francese Seuil, Paris 2004. 2 M. – F. Balta, Notes sur le Fort / Da, in L’interprétation analytique,1997. 3 S. Freud, La negazione, cit. 4 Il Commento parlato sulla “Verneinung” di Freud (1954), è incluso da Lacan in Appendice ai suoi Scritti, Seuil, Paris 1966, pp. 879 – 897; tr. it a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 885 – 893 (a cui si riferiranno le citazioni); “Il modo mirabile con cui l’esposizione di Hyppolite si accosta alla difficoltà ci sembra tanto più significativo in quanto non avevamo ancora esposto le tesi che avremmo sviluppato l’anno successivo nel nostro commento a Aldilà del principio di piacere sull’istinto di morte, insieme così eluso e così presente in questo testo” (p. 892, nota). 5 Ibid., p.887. 6 Ibid.

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quello precedente); “presentare il proprio essere secondo il modo di non esserlo, ecco veramente di cosa si tratta in questa Aufhebung” 1. 2

“Che cosa c’è dietro l’affermazione (Bejahung)? C’è la Vereinigung , che è Eros. E (che cosa c’è) dietro la denegazione? […] L’apparizione di un simbolo fondamentalmente dissimmetrico. 3

L’affermazione primordiale non è altro che affermare; ma negare, è più che volere distruggere” .

Con l’introduzione della Verneinug, l’atto di distruzione reale dell’oggetto è sostituito dal “no”: l’oggetto non viene annientato nella realtà ma solo in effigie. Il simbolo del “no”, la negazione, è pertanto il sostituto (Nachfolge) della pulsione di distruzione (Destruktionstrieb). “Die Bejahung, l’affermazione, – dice freud –, als Ersatz der Vereinigung in quanto è semplicemente l’equivalente dell’unificazione, gehört dem Eros an, è propria dell’Eros; che è quel che c’è all’origine dell’affermazione; per esempio, nel giudizio di attribuzione si tratta di introiettare, di appropriarci invece di espellere al di fuori. 4

5

Per la negazione egli non usa la parola Ersatz , ma la parola Nachfolge . […] L’affermazione è l’Ersatz della Vereinigung e la negazione è il Nachfolge dell’espulsione, o più esattamente dell’istinto 6

di distruzione (Destruktionstrieb)” .

“Traduciamo”: l’affermazione è l’equivalente dell’unione (che è Eros) e la negazione è il successore dell’espulsione, o più esattamente della pulsione di distruzione. Tra affermazione e negazione vi è dunque una dissimmetria, poiché mentre la prima è un equivalente, la seconda succede, subentra, sostituisce l’atto di distruggere, e implica dunque la conquista del simbolo del “no”, l’accesso al simbolico. “Ciò diviene dunque del tutto mitico: due istinti che sono per così dire mescolati in questo mito che porta il soggetto: uno quello dell’unificazione, l’altro quello della distruzione. […] Ma la piccola sfumatura per cui l’affermazione non fa altro, in qualche modo, che sostituirsi puramente e semplicemente all’unificazione, mentre la negazione risulta in seguito all’espulsione, mi sembra la sola cosa capace di spiegare la frase che segue, in cui si tratta semplicemente di negativismo e di istinto di distruzione. Il fatto è, infatti, che ciò spiega bene come possa esserci un piacere di denegare, un negativismo che risulta semplicemente dalla soppressione delle componenti libidiche; vale a dire che

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Ibid., pp. 886 – 887. Vereinigung: unione, unificazione, il fondere insieme. 3 Ibid., p. 889. 4 Ersatz: equivalente. 5 Nachfolge: successore. 6 Commento…, cit., p. 891. 2

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ciò che è scomparso in questo piacere di negare (scomparso = rimosso) sono le componenti 1

libidiche” .

“A questo modo di comprendere la denegazione corrisponde molto bene il fatto che nell’analisi non si trova alcun ‘no’ proveniente dall’inconscio”, conclude Hyppolite, citando Freud, e aggiunge subito: “Ma vi si trova invece della distruzione” 2. Tiriamo anche noi le nostre conclusioni a partire dalle citazioni del Commento… L’insistenza, l’attenzione con cui il bambino vigila che la storia che gli viene raccontata sia sempre esattamente la stessa, essendone tuttavia sempre deluso, perché essa non lo è mai, perché vi è sempre una piccola differenza, è già l’indice che la Cosa è perduta, che essa è sempre tutt’altra cosa da quella cercata, che non potrà mai più essere ritrovata identica a sé; la ripetizione che vuole ritrovare il medesimo è già sempre differenza che si apre al nuovo. A ciò fa eccezione la costrizione o l’obbligo (Zwang) a ripetere, che non è la ripetizione in quanto tale, ma quella “coazione a ripetere” che Freud ritrova nel negativismo (nel piacere coatto di dire di no) degli psicotici. In questo caso non si è costituito un Nachfolge, un “successore” (mediante la creazione del simbolo della negazione) e il “no” è rimasto l’Ersatz, l’equivalente della distruzione reale. “Il generale gusto di dire di no, il negativismo di alcuni psicotici va inteso verosimilmente come 3

indizio di un disimpasto pulsionale avvenuto per detrazione (Abzug) delle componenti libidiche” .

Se Freud parla di “disimpasto pulsionale”, di scissione tra Eros e Thanatos, di scioglimento del legame libidico della pulsione, dobbiamo intendere che si tratta di una dissoluzione del vincolo tra la pulsione e il simbolico, di un annientamento della dimensione peculiare del simbolo: quella della metafora. La “pulsione di morte” non è nient’altro che la pulsione svincolata dal legame col simbolo, in quanto tale legame comporta la “rinuncia alla soddisfazione immediata della pulsione”, la rinuncia all’oggetto dell’incesto, la Madre – rinuncia che d’altra parte fa sorgere il desiderio.

2. Vediamo ora lo statuto dell’oggetto nell’altra interpretazione, quella che concerne il “gettare via” scandito dal Fort come gioco a se stante. 1

Ibid., pp. 891 – 892. Ibid., p. 892. 3 S. Freud, La negazione, cit., p. 201. 2

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Abbiamo già insistito sull’indifferenza del piccolo Ernst. E Freud la ribadisce in altre due occasioni. La prima in una nota al testo dove osserva che “quando il bambino ebbe cinque anni e nove mesi la madre morì. Ora che davvero la mamma era andata “via” (“o-o-o”) il bambino non mostrò alcun segno di afflizione. È però vero che nel frattempo era nato un secondo bambino, che aveva suscitato la sua violenta gelosia.” 1

La seconda in una lettera a Max Halberstadt, in occasione di un secondo lutto, quello del fratellino più piccolo di Ernst, Heinz Halberstadt, l’amatissimo (da Freud) Heinele: “ho visto due giorni fa Ernst [il fratello maggiore di Heinz che viveva con il resto della famiglia Freud in altra parte del Tirolo]. Il suo corredo — abito, cappello, valigetta — fu molto ammirato. Era molto contento, godeva di ogni cosa e non ha mai nominato il nostro piccolo Heinz.” 2

Si direbbe dunque che il piccolo Ernst non fosse in grado di fare il lutto dell’oggetto, che quest’ultimo non abbia potuto essere elaborato psichicamente come oggetto perduto. Se questo è vero, risulta cruciale l’osservazione di Jacques Sédat: “il bambino, da passivo che era, abbandonato dalla madre, diviene attivo mettendo in gioco una «pulsione di appropriazione» (Bemächtigungstrieb) che consiste nel «rompere» in qualche modo l’oggetto, in mancanza del potere di elaborare la sua assenza” 3.

Dopo aver osservato, citando il secondo dei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), che la pulsione di sapere è un derivato dell’appropriazione, che essa, come afferma Freud, “corrisponde a un modo sublimato dell’appropriazione” 4, Sédat conclude che “quando l’oggetto non ha potuto essere elaborato psichicamente come oggetto perduto — e dunque essere ritrovato successivamente sulla scena della realtà —, la sola relazione possibile all’oggetto è dell’ordine dell’appropriazione, del legame di padronanza con quest’ultimo” 5.

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S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 202. Corrispondenza Freud – Max Halberstadt, 7 luglio 1923, Biblioteca del Congresso, Washington. Cit. in R. W: Clarck, Freud, Rizzoli, Milano 1983 p. 547 (ed. ingl. Freud the Man and the Cause, E. M. Partners A. G., London 1980.) 3 J. Sédat, Pour introduire l’amour en Psychanalyse (1998), p. 11, che costituisce la Presentazione al Seminario di François Perrier, L’amour (1970 – 1971), Hachette, Paris 1998. 4 S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in Opere, cit., vol. IV, pp. 502 – 503. 5 J. Sédat, Pour introduire l’amour en Psychanalyse, cit., p. 12. 2

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Le conseguenze vanno dal controllo paranoico sul pensiero dell’altro (nel “delirio di relazione”), al tentativo di padroneggiare, di organizzare il godimento dell’altro nella perversione. Il termine Bemächtigungstrieb, tradotto nelle Opere con “pulsione di appropriazione” 1 costituirebbe pertanto la forma del legame con l’altro quando è mancata la rinuncia al possesso della madre, ovvero il bambino ha mantenuto il “possesso esclusivo della madre”, come dice Freud. In questa condizione, l’assentarsi della madre è intollerabile non solo nel senso dell’esperienza penosa che ne consegue, ma anche in quello della vendetta. Nell’incapacità di poter elaborare la sua assenza, il bambino si “appropria” dell’oggetto, ne diventa il padrone – e il culmine di questa padronanza è che, al mancare della madre, conseguirà la vendetta: anch’io posso mancarti! Dove si vede che non vi è stata nessuna autentica rinuncia all’oggetto, e che dunque non vi è nessuna libertà di poter fare a meno dell’Altro, così come non vi è nessuna libertà di potergli mancare: nessuna indipendenza, nessuna negazione, ma solo distruzione. Il voto d’amore è qui identico al voto di morte, al mé phúnai del tragico antico, alla vendetta sulla vita, poiché nessun desiderio (nessuna legge) è venuto a dare dei limiti a un amore che in quanto tale ne è privo 2. Ciò significa che non potrà e dovrà esservi alcun altro legame con un oggetto se non quello con la madre, perché “il mantenimento del legame primordiale all’oggetto [la Madre] rende impossibile l’investimento di ogni altro oggetto, al fine di scongiurarne la precarietà” 3. Detto altrimenti: è la Guerra. “All’inizio era stato passivo, aveva subito l’esperienza; ora invece, ripetendo l’esperienza, che pure era stata spiacevole, sotto forma di giuoco, il bambino assumeva una parte attiva. Questi sforzi potrebbero essere ricondotti a una pulsione di appropriazione che si rende indipendente dal fatto che il ricordo in sé sia piacevole o meno. Ma si può anche tentare un’interpretazione diversa. L’atto di gettare via l’oggetto, in modo da farlo sparire, potrebbe costituire il soddisfacimento di un impulso che il bambino ha represso nella vita reale, l’impulso di vendicarsi della madre che se n’è andata; in questo caso avrebbe il senso di una sfida: “Benissimo, vattene pure, non ho bisogno di te, sono io che ti mando via.” Questo stesso bambino che avevo osservato a un anno e mezzo intento nel suo primo giuoco, l’anno dopo, quando era in collera con un giocattolo, usava gettarlo per terra esclamando: “Va in guella!” A quel tempo gli avevano raccontato che il papà assente era in guerra; il bambino non sentiva affatto la mancanza del padre, anzi dava chiaramente a vedere che non desiderava essere

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Nell’Enciclopedia della psicanalisi di Laplanche e Pontalis è tradotto con “pulsione d’impossessamento”, fr. “pulsion d’emprise”; notiamo comunque che nella parola appare Macht, il potere, la potenza, la forza. 2 Al di fuori dei limiti che il desiderio gli impone, l’amore, che in quanto tale è senza limiti, è identico alla morte. 3 J. Sédat, Pour introduire, cit., p. 13.

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disturbato nel proprio possesso esclusivo della madre. Sappiamo anche di altri bambini che amano esprimere simili impulsi ostili scaraventando lontano oggetti in luogo di persone.” 1

Ci piace concludere questa lettura del gioco del Fort / Da con le parole di F. Perrier: “Rendersi padrone di ciò che, del reale non significante, della non esistenza, del non-essere, dell’assenza, della morte, del buco, del niente, dell’impensabile, del più inafferrabile dell’altro o del silenzio di natura delle cose, aggredisce l’uomo: ecco ciò che definisce il soggetto nella sua attitudine (aptitude) al Self, come lotta fra l’identità e il desiderio.” 2

Per il piccolo Ernst, inizialmente “padrone della morte”, questa lotta – questa guerra – si è infine conclusa con il suo divenire, dopo Anna, l’unico altro Freud psicoanalista. Giugno 2010

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S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 202 (corsivi nostri). F. Perrier, La Chaussée d’Antin, Albin Michel, Paris 2008, p. 462. S'intenda: tra l'identificazione narcisistica e il desiderio.

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“Il giuoco del Fort / Da” Sigmund Freud1

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e diverse teorie del giuoco infantile sono state recentemente riassunte e valutate dal punto di vista analitico da Pfeifer, 2 al lavoro del quale rimando i

miei lettori. Queste teorie cercano di scoprire le ragioni del giuoco infantile, ma senza mettere in primo piano il punto di vista economico, e cioè senza considerare il piacere che il giuoco procura. Ora, senza voler abbracciare tutto il campo di questi fenomeni, ho sfruttato un’occasione che mi si è offerta per chiarire il significato del primo giuoco che un bambino di un anno e mezzo si era inventato da sé. Si è trattato di qualcosa di più di una fuggevole osservazione, poiché sono vissuto per alcune settimane sotto lo stesso tetto del bambino e dei suoi genitori, ed è passato un certo tempo prima che riuscissi a scoprire il significato della misteriosa attività che egli ripeteva continuamente. Lo sviluppo intellettuale del bambino non era affatto precoce; a un anno e mezzo sapeva pronunciare solo poche parole comprensibili e disponeva inoltre di parecchi suoni il cui significato veniva compreso dalle persone che vivevano intorno a lui. In ogni modo era in buoni rapporti con i genitori e con la loro unica domestica, ed era elogiato per il suo “buon” carattere. Non disturbava i genitori di notte, ubbidiva coscienziosamente agli ordini di non toccare certi oggetti e non andare in certe stanze, e, soprattutto, non piangeva mai quando la mamma lo lasciava per 1

Testo estratto da S. FREUD, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere, a cura di C. L. Musatti, IX, Boringhieri; Torino 1974, pp. 200-203. 2 S. PFEIFER, Äusserungen infantil-erotischer Triebe im Spiele, Imago, vol. 5, 243 (1919).

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alcune ore, sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona, ma lo aveva allevato e accudito senza alcun aiuto esterno. Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine — che talvolta disturbava le persone che lo circondavano — di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare questo emetteva un “o-o-o” forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era un’interiezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi accorsi che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a “gettarli via”. Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto del filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o-o-o”; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il giuoco completo — sparizione e riapparizione — del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto. 1 L’interpretazione del giuoco divenne dunque ovvia. Era in rapporto con il grande risultato di civiltà raggiunto dal bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale (rinuncia al soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse. Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere. È ovvio che per dare una valutazione del significato 1

Un’osservazione successiva confermò pienamente questa interpretazione. Un giorno la madre era rimasta fuori casa per parecchie ore, e al ritorno venne accolta col saluto “Bebi [ = il bambino] o-o-o”, che in un primo momento parve incomprensibile. Ma presto risultò che durante quel lungo periodo di solitudine il bambino aveva trovato un modo per farsi scomparire lui stesso. Aveva scoperto la propria immagine in uno specchio che arrivava quasi al suolo, e si era accoccolato in modo tale che l’immagine se n’era andata “via”. [Questo stesso bambino (un nipotino di Freud), e questa scena sono menzionati anche in una nota aggiunta nel 1919 all’Interpretazione dei sogni (1899) P. 422.]

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affettivo di questo giuoco non ha importanza sapere se il bambino lo aveva inventato da sé o se esso gli era stato suggerito da altri. Il nostro interesse è diretto a un altro punto. È impossibile che l’andar via della madre riuscisse gradevole, o anche soltanto indifferente al bambino. Come può dunque accordarsi col principio di piacere la ripetizione sotto forma di giuoco di questa penosa esperienza? Forse si risponderà che l’andarsene doveva essere necessariamente rappresentato, come condizione che prelude alla piacevole ricomparsa, e che in quest’ultima risiedeva il vero scopo del giuoco. Ma questa interpretazione sarebbe contraddetta dall’osservazione che il primo atto, l’andarsene, era inscenato come giuoco a sé stante, e anzi si verificava incomparabilmente piú spesso che non la rappresentazione completa, con il suo piacevole finale. L’analisi di un caso singolo come questo non permette di formulare un giudizio sicuro e definitivo; se si considera la cosa in modo imparziale, si ha l’impressione che il bambino avesse trasformato questa esperienza in un giuoco per un altro motivo. All’inizio era stato passivo, aveva subito l’esperienza; ora invece, ripetendo l’esperienza, che pure era stata spiacevole, sotto forma di giuoco, il bambino assumeva una parte attiva. Questi sforzi potrebbero essere ricondotti a una pulsione di appropriazione che si rende indipendente dal fatto che il ricordo in sé sia piacevole o meno. Ma si può anche tentare un’interpretazione diversa. L’atto di gettare via l’oggetto, in modo da farlo sparire, potrebbe costituire il soddisfacimento di un impulso che il bambino ha represso nella vita reale, l’impulso di vendicarsi della madre che se n’è andata; in questo caso avrebbe il senso di una sfida: “Benissimo, vattene pure, non ho bisogno di te, sono io che ti mando via.” Questo stesso bambino che avevo osservato a un anno e mezzo intento nel suo primo giuoco, l’anno dopo, quando era in collera con un giocattolo, usava gettarlo per terra esclamando: “Va in guella!” A quel tempo gli avevano raccontato che il papà assente era in guerra; il bambino non sentiva affatto la mancanza del padre, anzi dava chiaramente a vedere che non desiderava essere disturbato nel proprio possesso esclusivo della madre. 1 Sappiamo anche di altri bambini che amano esprimere simili 1

Quando il bambino ebbe cinque anni e nove mesi la madre morì. Ora che davvero la mamma era andata “via” (“o-o-o”) il bambino non mostrò alcun segno di afflizione. È però vero che nel frattempo era nato un secondo bambino, che aveva suscitato la sua violenta gelosia.

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impulsi ostili scaraventando lontano oggetti in luogo di persone. 1 Ci sorge allora il dubbio se la spinta a elaborare psichicamente e a impadronirci appieno di un evento che ha suscitato in noi una forte impressione possa manifestarsi primariamente e indipendentemente dal principio di piacere. A ben vedere, nel caso che stiamo discutendo, il bambino potrebbe ripetere nel giuoco un’esperienza sgradevole solo perché a questa ripetizione è legato l’ottenimento di un piacere di tipo diverso, ma non meno diretto. Neppure un ulteriore esame del giuoco dei bambini ci aiuta a optare per una delle due ipotesi tra cui esitiamo. È chiaro che i bambini ripetono nel giuoco tutto quello che nella vita reale ha suscitato in loro una forte impressione, è vero che cosi facendo abreagiscono la forza dell’impressione e diventano per cosi dire padroni della situazione. Ma d’altro lato è evidente che tutto il loro giocare è influenzato da un desiderio che domina quest’epoca della loro vita: il desiderio di essere grandi e poter fare quello che fanno i grandi. Si può anche osservare che il carattere spiacevole di un’esperienza non la rende sempre inservibile per il giuoco. Se il dottore ha guardato in gola al bambino o se gli ha fatto una piccola operazione, possiamo essere certissimi che questa spaventosa esperienza sarà il tema del prossimo giuoco; ma in questo caso non va trascurato che il bambino ottiene il piacere da un’altra fonte. Passando dalla passività dell’esperire all’attività del giocare, egli fa subire l’esperienza sgradevole che gli era capitata a un compagno di giuochi, e in tal modo attua la sua vendetta sulla persona di questo sostituto. In ogni caso da queste discussioni emerge il fatto che per spiegare il giuoco non è necessario supporre l’esistenza di una particolare pulsione imitativa. Per concludere, possiamo ancora ricordare che la rappresentazione e l’imitazione artistica degli adulti, a differenza di quelle dei bambini, sono indirizzate alla persona dello spettatore e, pur non risparmiandogli le impressioni piú dolorose — nella tragedia per esempio — possono tuttavia suscitare in lui un godimento elevatissimo. Ciò è una prova convincente del fatto che anche sotto il dominio del principio di piacere esistono 1

Vedi il mio scritto Un ricordo d’infanzia tratto da “Poesia e verità» di Goethe (1917) [in Opere, IX, Boringhieri, Torino 1977, pp. 5 sgg.].

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mezzi e vie a sufficienza per trasformare ciò che in sé è spiacevole in qualcosa che può essere ricordato e psichicamente elaborato. Questi casi e situazioni che alla fin fine si concludono con l’ottenimento di un piacere potrebbero essere studiati da un’estetica orientata secondo il punto di vista economico; per i nostri scopi non servono, perché presuppongono l’esistenza e il dominio del principio di piacere, mentre non provano l’esistenza di tendenze che operano al di là del principio di piacere, tendenze cioè piú originarie del principio di piacere e da esso indipendenti.

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Thesaurus Lacan:

“il gioco del Fort / Da” Raccolta di brani estratti dai Seminari dove Jacques Lacan tratta del “gioco del Fort / Da”

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Note per la lettura

 = Suddivide i luoghi citati all’interno di uno stesso Seminario Data = la data in cui si è tenuta la seduta del Seminario it. (seguito da numero) = riferimento alla pagina della traduzione italiana del Seminario fr. (seguito da numero) = riferimento alla pagina dell’edizione francese del Seminario Le citazioni dai Seminari inediti sono state tradotte dal curatore. Per questi Seminari ci si è serviti delle versioni più accreditate disponibili sul web, trascritte dalla fotocopia delle stenotipie. [Le voci del Thesaurus Lacan sono per definizione in continua rielaborazione. L’edizione PDF per mette modifiche e aggiunte semplici e rapide. Chi avesse indicazioni, note, osservazioni, ecc. può scrivere a [email protected]]

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Jacques Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud (1953 – 1954) 1

 Non dimenticate che, quando Freud isolò il masochismo primitivo, l’incarnò precisamente in un gioco infantile. Ha precisamente diciotto mesi, questo bambino. Sostituisce, dice Freud, alla tensione dolorosa generata dall’esperienza inevitabile della presenza e dell’assenza dell’oggetto amato, un gioco attraverso il quale lui stesso manipola l’assenza e la presenza in quanto tali e si compiace di comandarle. Lo fa attraverso l’intermediario di una piccola bobina attaccata a un filo, che butta e riprende. Dato che non sono io a portare avanti una dialettica, mentre cerco di rispondere a Freud, di chiarire i fondamenti del suo pensiero, accentuerò quello che Freud non sottolinea ma che è lí in tutta evidenza; come sempre la sua osservazione permette di completare la teorizzazione. Questo gioco della bobina s’accompagna a una vocalizzazione, che è caratteristica del fondamento stesso del linguaggio dal punto di vista dei linguisti e che da solo permette di cogliere il problema della lingua, cioè un’opposizione semplice. L’importante non è che il bambino dica le parole Fort/Da, che nella sua lingua madre equivalgono a Lontano/Ecco, d’altra parte le pronuncia in modo approssimativo. Ciò che qui si verifica è fin dall’origine una prima manifestazione di linguaggio. In questa opposizione fonematica il bambino trascende, porta su di un piano simbolico, il fenomeno della presenza e dell’assenza. Si rende padrone della cosa nella misura in cui, giustamente, la distrugge. (…) Ho scritto: Sono questi giochi d’occultamento che Freud con una intuizione geniale ha offerto al nostro sguardo perché vi riconoscessimo che il momento in cui il desiderio si umanizza è anche quello in cui il bambino nasce al linguaggio. Possiamo ora cogliere che in essi il soggetto non padroneggia soltanto la propria privazione assumendola — Freud dice questo — ma innalza il suo desiderio a una potenza seconda. Giacché la sua azione distrugge l’oggetto che essa fa apparire e sparire nella provocation — nel senso proprio della parola, tramite la voce — nella provocation anticipante della sua assenza e della sua presenza. Essa negativizza in tal modo il campo di forze del desiderio per diventare il proprio oggetto di sé. E questo oggetto, assumendo subito corpo nella coppia simbolica di due giaculazioni elementari, annunzia nel soggetto l’integrazione diacronica della dicotomia dei fonemi — ciò vuoi dire semplicemente che questa è la porta d’entrata in ciò che esiste già, dato che i fonemi compongono una lingua — di cui il linguaggio esistente offre alla sua assimilazione la struttura sincronica; e cosí il bambino comincia a 1

Testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di G. Contri, traduzione di Antonello Schiacchiatano e Irène Molina, Einaudi, Torino 1978; edizione francese Seuil, Paris 1975.

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impegnarsi nel sistema del discorso concreto dell’ambiente [ambiance] riproducendo in modo piú o meno approssimativo nel suo Fort e nel suo Da i vocaboli che ne riceve — cosí, lo riceve dal di fuori, il Fort/Da — già nella sua solitudine il desiderio del piccolo d’uomo è diventato il desiderio di un altro, di un alter ego che lo domina e il cui oggetto di desiderio è ormai la sua stessa pena. Si rivolga ora a un partner immaginario o reale, il bambino lo vedrà obbedire ugualmente alla negatività del suo discorso e dato che l’effetto del suo appello — infatti non dimenticate che quando dice Fort l’oggetto è presente e quando dice Da l’oggetto è assente — è che questi si sottragga, egli cercherà, coll’intimargli il bando, — imparerà subito la forza del rifiuto — di provocarne il ritorno che lo riconduca al suo desiderio 1. In questo caso vedete che, ancora prima dell’introduzione del no, del rifiuto dell’altro, in cui il soggetto impara a costituire, come Hyppolite ci ha dimostrato l’altro giorno, la negativizzazione del semplice appello, la manifestazione di una semplice coppia di simboli di fronte al fenomeno contrastato della presenza e dell’assenza, cioè l’introduzione del simbolo, capovolge le posizioni. L’assenza è evocata nella presenza e la presenza nell’assenza. Sembrano sciocchezze e banalità. Ma bisogna ancora dirle e rifletterci sopra. Infatti nella misura in cui il simbolo permette questa inversione, cioè annulla la cosa esistente, apre il mondo della negatività, che costituisce contemporaneamente il discorso del soggetto umano e la realtà del suo mondo in quanto umano. Il masochismo primitivo è da situare attorno a questa prima negativizzazione, questo assassinio originario della cosa. (5 maggio 1954; it. 214 – 217; fr. 195 – 196.)

 Vi ho parlato del Fort e del Da. È un esempio del modo in cui il bambino entra naturalmente in questo gioco. Comincia a giocare con l'oggetto, piú esattamente, con il solo fatto della sua presenza e della sua assenza. È dunque un oggetto trasformato, un oggetto di funzione simbolica, un oggetto devitalizzato, che è già un segno. Quando l'oggetto è lí lo scaccia, quando non è li lo chiama. Attraverso questi primi giochi, l'oggetto passa naturalmente nel piano del linguaggio. Il simbolo emerge e diventa piú importante dell'oggetto. (…) La parola o il concetto non è per l'essere umano nient'altro che la parola nella sua materialità. È la cosa stessa. Non è semplicemente un'ombra, un soffio, un'illusione virtuale della cosa, è la cosa medesima.

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J. Lacan, Scritti, a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 312 – 313.

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Riflettete un momentino nel reale. Per il fatto che nella loro lingua esiste la parola elefante e per il fatto che l'elefante entri cosí nelle loro deliberazioni, gli uomini hanno potuto prendere nei riguardi degli elefanti, addirittura prima di porvi mano, delle risoluzioni molto piú decisive per questi pachidermi di qualunque altra cosa sia loro successa nella loro storia: la traversata di un fiume o la sterilizzazione naturale di una foresta. Con nient'altro che la parola elefante e il modo in cui gli uomini ne fanno uso, succedono agli elefanti delle cose, favorevoli o sfavorevoli, faste o nefaste — in ogni caso catastrofiche — ancora prima che si sia cominciato a levare verso di loro un arco o un fucile. D'altra parte è chiaro, basta che io ne parli, non c'è bisogno che siano lí, perché siano proprio lí, grazie alla parola elefante, e piú reali degli individui-elefanti contingenti. (12 maggio 1954; it. 221 – 222; fr. 201)

Jacques Lacan, Il Seminario, Libro III, Le psicosi (1955 – 1956) 1

 La mia tesi, che darà forse a certuni la soluzione dell'enigma che sembra aver costituito per loro il mio pezzo di bravura dell'ultima volta sulla pace della sera, è la seguente – la realtà è contrassegnata di colpo dall'annientamento simbolico. Benché essa sia preparata da tutto il nostro lavoro dell'anno scorso, tuttavia la esporrò ancora una volta, non fosse che per raggiungere quella pace della sera cosí variamente accolta. Non è un'escursione, come dice Platone, a fare discordanza e a venir meno al tono analitico. Non credo affatto di innovare. Se leggete il testo di Freud sul presidente Schreber, lo vedrete affrontare come argomento clinico per la comprensione del presidente, la funzione esercitata in un altro dei suoi pazienti la prosopopea di Nietzsche nel suo Zaratustra, che si chiama Attendendo l'aurora. Potete riportarvi a questo momento – è precisamente per non leggervi il testo che mi sono dedicato a un'invocazione alla pace della sera –, vi troverete rappresentata la stessa cosa che volevo farvi sentire una settimana fa, e che vi proporrò di nuovo adesso, parlandovi del giorno. Il giorno è un essere distinto da tutti gli oggetti che contiene e che manifesta, ed è anche probabilmente piú pesante e piú presente di ciascuno di essi, ed è

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Testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di G. Contri, traduzione di Ambrogio Ballabio, Piergiorgio Moreiro; Carlo Viganò, Einaudi, Torino 1985; ed francese, Seuil, Paris 1981.

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impossibile pensarlo, sia pure nell'esperienza umana piú primitiva, come il semplice ritorno di un'esperienza. Basta evocare la prevalenza, nella vita umana dei primi mesi, di un ritmo di sonno, perché abbiamo ogni ragione di pensare che non è un'apprensione empirica a far sí che a un dato momento – è cosí che illustro i primi annientamenti simbolici – l'essere umano si distacca dal giorno. L'essere umano non è, come tutto fa pensare che sia l'animale, semplicemente immerso in un fenomeno come quello dell'alternanza del giorno e della notte. L'essere umano pone il giorno come tale, e con ciò il giorno viene alla presenza del giorno – su uno sfondo che non è uno sfondo di notte concreta, ma di assenza possibile di giorno, in cui la notte alberga, e inversamente del resto. Giorno e notte sono molto precocemente codici significanti, e non esperienze. Sono connotazioni, e il giorno empirico e concreto non vi giunge che come correlato immaginario, all'origine, molto presto. Questa è la mia supposizione, e dal momento che parlo dal punto di vista genetico, non ho da giustificarla diversamente nell'esperienza. C'è necessità strutturale a porre una tappa primitiva in cui appaiono nel mondo dei significanti come tali. (…) Prima che il bambino apprenda ad articolare il linguaggio, dobbiamo supporre che appaiono dei significanti, che appartengano già all'ordine simbolico. Quando parlo di un'apparizione primitiva del significante, si tratta di qualcosa che già implica il linguaggio. Il che non fa che raggiungere l'apparizione di un essere che non è da nessuna parte, il giorno. Il giorno in quanto giorno non è un fenomeno, il giorno in quanto giorno implica la connotazione simbolica, l'alternanza fondamentale del vocale connotante la presenza e l'assenza, sulla quale Freud fa ruotare tutta la sua nozione dell'aldilà del principio di piacere. (15 febbraio 1956; it. 175 – 176; fr. 168 – 170.)

Jacques Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto (1956 – 1957) 1  Si ha torto a non partire dalla frustrazione, che è il vero centro, quando si tratta di situare le relazioni primitive del bambino. Occorre però avere una giusta nozione di questa nozione centrale. Molto si chiarisce se l'affrontiamo nel modo seguente nella frustrazione ci sono sin dall'origine due versanti, i cui piani si ritrovano avvinghiati sino alla fine.

1 Testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, traduzione di Roberto Cavasola e Céline Menghi, Einaudi, Torino 1996; edizione francese Seuil, Paris 1994

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Da un lato, c'è l'oggetto reale. E ovvio che un oggetto può cominciare a svolgere la propria influenza nelle relazioni del soggetto molto prima di essere percepito come oggetto. L'oggetto è reale, la relazione diretta. È unicamente in funzione di una periodicità in cui possono comparire buchi e carenze che si stabilirà una certa modalità di relazione del soggetto, cosa che non necessita affatto di ammettere che anche per lui vi sia una distinzione tra un io e un non-io. Avviene cosí, per esempio, nella posizione autoerotica, nel senso in cui la intende Freud, in cui non c'è, propriamente parlando, costituzione dell'altro, né un approccio concepibile della relazione. Dall'altro, c'è l'agente. In effetti, l'oggetto non può avere istanza, non può entrare in funzione, che in rapporto alla mancanza. E in questo rapporto fondamentale, che è rapporto della mancanza con l'oggetto, è opportuno introdurre la nozione di agente, che ci permetterà di formulare in modo essenziale la posizione generale del problema. In questo caso, l'agente è la madre. Per mostrarvelo, mi basterà ricordarvi quel che abbiamo già studiato in questi ultimi anni, vale a dire quello che Freud ha articolato circa la posizione d'inizio del bambino nei confronti dei giochi di ripetizione, cogliendola in modo cosí folgorante nel suo comportamento. La madre è altra cosa dall'oggetto primitivo 1. Essa non compare in quanto tale sin dall'inizio ma, come Freud ha sottolineato, a partire dai primi giochi, giochi di presa di un oggetto in sé del tutto indifferente e senza alcun tipo di valore biologico. In questo caso, è una palla, ma potrebbe anche essere qualsiasi cosa che un bambino di sei mesi scaraventa al di là del bordo del letto per poi riacciuffarlo. Questa coppia presenza-assenza, articolata molto precocemente dal bambino, connota la prima costituzione dell'agente della frustrazione che, all'origine, è la madre. Il simbolo della frustrazione, possiamo scriverlo S(M). La madre, ci viene detto, introduce in una certa tappa dello sviluppo, che è quella della posizione depressiva, un elemento nuovo di totalità che si contrappone al caos di oggetti frammentati che caratterizzerebbero la tappa precedente. Ebbene, questo elemento nuovo è ancor piú la presenza-assenza. Quest'ultima non solo è posta come tale oggettivamente, ma è articolata dal soggetto. Lo abbiamo già enunciato nei nostri studi dell'anno scorso – la presenzaassenza è articolata, per il soggetto, nel registro dell'appello. L'oggetto materno è propriamente chiamato quando è assente – e rigettato, quando è presente, nello stesso registro dell'appello, per esempio con un vocalizzo. Beninteso, questa scansione dell'appello è lungi dal darci di primo acchito tutto l'ordine simbolico, ma ce ne mostra l'avvio. […] Voglio semplicemente porre in evidenza che cosa comporti il solo fatto d'introdurre nell'esperienza del bambino la 1

Il seno. (N.d.C.)

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coppia di opposti presenza-assenza. Quel che viene cosí introdotto è ciò che tende naturalmente ad addormentarsi al momento della frustrazione. Il bambino si situa quindi tra la nozione di un agente, che partecipa già dell'ordine della simbolicità, e la coppia di opposti presenza-assenza, la connotazione piú-meno, che ci dà il primo elemento di un ordine simbolico. Senza dubbio, questo elemento non basta da solo a costituirlo, perché ci vuole inoltre una sequenza, raggruppata come tale. Ma nell'opposizione piú e meno, presenza e assenza, c'è già virtualmente l'origine, la nascita, la possibilità, la condizione fondamentale di un ordine simbolico. La questione è ora la seguente – come concepire il momento di svolta in cui la relazione primordiale con l'oggetto reale si apre a una relazione piú complessa? Che cos'è il momento di svolta in cui la relazione madre-bambino si apre a elementi che introdurranno ciò che abbiamo chiamato una dialettica? Credo che possiamo formularlo schematicamente ponendo la seguente questione – cosa succede se l'agente simbolico, il termine essenziale della relazione del bambino con l'oggetto reale, la madre come tale, non risponde piú? Se non risponde piú all'appello del soggetto? Diamo noi la risposta. Decade. La madre, da iscritta nella strutturazione simbolica, che la faceva oggetto presente-assente in funzione dell'appello, diventa reale. Perché? Finora esisteva nella strutturazione in quanto agente, distinto dall'oggetto reale che è l'oggetto di soddisfacimento del bambino. Quando non risponde piú, quando, in un certo qual modo, risponde solo a suo piacimento, esce dalla strutturazione e diventa reale, diventa cioè una potenza. Questo è anche, notiamolo bene, l'avvio della strutturazione di tutta la realtà successiva. Correlativamente si produce un rovesciamento della posizione dell'oggetto. Finché si tratta di una relazione reale, il seno – prendiamolo come esempio – lo si può fare avvolgente quanto si vuole. Viceversa, dal momento in cui la madre diventa potenza, e come tale reale, e che chiaramente proprio da lei dipende per il bambino l'accesso agli oggetti, cosa succede ? Gli oggetti, che sinora erano puramente e semplicemente oggetti di soddisfacimento, diventano oggetti di dono da parte di tale potenza. Ed eccoli ora, né piú né meno, come la madre, suscettibili di entrare nella connotazione presenza-assenza, in quanto dipendenti da quell'oggetto reale che è ormai la potenza materna. In breve, gli oggetti, nel senso che intendiamo qui, non metaforico, gli oggetti afferrabili, possedibili […], gli oggetti che il bambino vuol tenere presso di sé non sono piú tanto oggetti di soddisfacimento, ma sono il marchio del valore di questa potenza che può non rispondere, che è la potenza della madre. In altri termini, la posizione si è rovesciata – la madre è diventata reale e l'oggetto simbolico. L'oggetto vale come testimonianza del dono che proviene dalla potenza materna. L’oggetto ha allora due ordini di proprietà di soddisfacimento, è

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due volte oggetto possibile di soddisfacimento – come in precedenza, soddisfa un bisogno, ma simbolizza inoltre una potenza favorevole. […] Nel momento che vi sto descrivendo, di realizzazione della madre, è lei che è onnipotenza, non il bambino. È un monto decisivo, in cui la madre passa alla realtà partendo da una simbolizzazione del tutto arcaica. E in questo momento, la madre può dare qualsiasi cosa. È errato, e del tutto impensabile, che il bambino abbia la nozione della sua onnipotenza. Non solo nel suo sviluppo nulla indica che egli ce l’ha, ma quasi tutto quel che ci interessa in tale sviluppo e negli incidenti che lo infiorano ci mostra che la sedicente onnipotenza e gli scacchi cui andrebbe incontro non contano nulla nella questione. Quello che conta, vedrete, sono le carenze, le delusioni che hanno a che fare con l'onnipotenza materna. (…) Ecco quindi il bambino in presenza di qualcosa che egli realizzato come potenza. Quello che si situava sinora sul piano della prima connotazione presenzaassenza passa di colpo in un altro registro, e diventa qualcosa che può rifiutarsi e che detiene tutto ciò di cui il soggetto può avere bisogno. E anche se non ne ha bisogno, esso diventa simbolico, poiché dipende da questa potenza. (12 dicembre 1956; it. 67 – 71; fr. 66 – 69.)

 […] l'appello non può sostenersi isolatamente, come illustra bene l'immagine freudiana del bambino con il suo Fort-Da. Già a livello dell'appello bisogna che ci sia di fronte il suo contrario. L'appello, lo situa. Se l'appello è fondamentale, fondatore nell'ordine simbolico, è nella misura in cui ciò che viene chiamato può venire respinto. L'appello è già un'introduzione alla parola, introduzione totalmente presa nell'ordine simbolico. Il dono si manifesta all'appello. L'appello si fa sentire quando l'oggetto non c'è. Quando c'è, l'oggetto si manifesta essenzialmente solo come segno del dono, vale a dire come niente in quanto oggetto di soddisfacimento. È proprio lí per essere respinto, essendo questo niente. Questo gioco simbolico ha quindi un carattere fondamentalmente deludente. Ecco l'articolazione essenziale a partire da cui il soddisfacimento si situa e prende senso. Non voglio dire che in occasione di questo gioco non ci sia nel bambino un soddisfacimento accordato al puro ritmo vitale. Dico che ogni soddisfacimento messo in causa nella frustrazione viene sullo sfondo del carattere fondamentalmente deludente dell'ordine simbolico. Il soddisfacimento è qui solo un sostituto, una compensazione. Il bambino riduce ciò che è deludente nel gioco simbolico tramite la presa orale dell'oggetto reale di soddisfacimento, per esempio il seno. Ciò che lo addormenta in questo soddisfacimento è proprio la delusione, la frustrazione, il rifiuto che a volte ha provato.

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La dolorosa dialettica dell'oggetto, al tempo stesso presente e mai presente, a cui egli si esercita, ci viene simbolizzata in questo esercizio genialmente colto da Freud allo stato puro, nella sua forma isolata. È il fondo della relazione del soggetto con la coppia presenza-assenza, relazione con la presenza su sfondo di assenza, con l'assenza in quanto costituisce la presenza. Il bambino riduce nel soddisfacimento l'insoddisfazione fondamentale di questa relazione. Addormenta il gioco nella presa orale. Soffoca ciò che riguarda la relazione fondamentalmente simbolica. (27 febbraio 1957; it. 196 – 198; fr. 182 – 183.)

Jacques Lacan, Il Seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, (1957 – 1958) 1  Ricordate – fin dal momento in cui il bambino comincia semplicemente a opporre due fonemi, abbiamo già due vocaboli. E con colui che li pronuncia e colui al quale sono indirizzati, vale a dire l'oggetto, la madre, abbiamo già quattro elementi, e questo basta per contenere virtualmente in sé tutta la combinatoria da cui sorgerà l'organizzazione del significante. (5 febbraio 1958; it. 227; fr. 222.)

 Che cosa istituisce la domanda? Non vi rifarò la dialettica del Fort-Da. La domanda è legata soprattutto a qualcosa che è nelle premesse stesse del linguaggio, e cioè l'esistenza di un appello, al contempo principio della presenza e termine che permette di respingerla, gioco di presenza e di assenza. L'oggetto chiamato dalla prima articolazione non è già piú un oggetto puro e semplice, ma un oggetto-simbolo – esso diventa ciò che il desiderio della presenza fa di lui. La dialettica primaria non è dell'oggetto parziale, della madre-seno o della madrenutrimento o della madre-oggetto totale di non so quale approccio gestaltista, come se si trattasse di una conquista fatta passo dopo passo. Il poppante si rende ben conto che il seno si prolunga in ascelle, collo e capigliatura. L'oggetto di cui si tratta è la parentesi simbolica della presenza, all'interno della quale c'è la somma di tutti gli oggetti che essa può apportare. Questa parentesi simbolica è fin da subito piú preziosa di qualunque bene. Nessuno dei beni che essa contiene può da solo soddisfare l'appello della presenza. Come vi ho già formulato varie volte, nessuno di questi beni in particolare può servire ad altra cosa se non a 1 Testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, traduzione di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2004; edizione francese Seuil, Paris 1998.

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schiacciare il principio dell'appello. Il bambino si nutre, comincia forse a dormire, e in quel momento, evidentemente, non si tratta piú di appello. Ogni rapporto con un qualunque oggetto parziale, come si dice, all'interno della presenza materna, non è soddisfazione in quanto tale, ma sostituto, annientamento del desiderio. (16 aprile 1958; it. 340; fr. 330 – 331)

Jacques Lacan, Il Seminario, Libro VI, Il desiderio e la sua interpretazione (1958 – 1959) 1  Vi darò innanzitutto un modello, che è solo un modello, il Fort / Da, che non ho bisogno di commentare ulteriormente, ossia quel momento che possiamo considerare come teoricamente il primo dell’introduzione del soggetto nel simbolico, nella misura in cui questa introduzione consiste nell’alternanza di una coppia di significanti in rapporto con un qualsiasi piccolo oggetto (diciamo una palla, o anche l’estremità di un cordoncino, qualcosa di sfilacciato sul bordo della culla, a patto che tenga, e che possa essere gettato e ripreso). Ecco dunque l’elemento di cui si tratta e per mezzo del quale si manifesta qualcosa che è appena prima dell’apparizione del $, cioè il momento in cui il $ s’interroga in rapporto all’altro in quanto presente o assente. È dunque il luogo tramite cui il soggetto entra, a questo livello, nel simbolico, e fa sorgere all’inizio qualcosa di cui Winnicott, sulla base di un pensiero completamente orientato sulle esperienze primarie della frustrazione, ha introdotto il termine, per lui necessario nella genesi possibile di ogni sviluppo umano come tale, di “oggetto transizionale”. L’oggetto transizionale, è la pallina del Fort / Da. A partire da quando possiamo considerare questo gioco come promosso alla sua funzione nel desiderio? A partire dal momento in cui diviene fantasma, vale a dire in cui il soggetto non entra più nel gioco, ma si anticipa nel gioco, in cui cortocircuita il gioco, in cui è tutto intero incluso nel fantasma. Voglio dire: nel momento in cui si coglie lui stesso nella sua scomparsa. Beninteso, non sarà mai senza pena che (si) coglierà, ma quello che si deve esigere riguardo a ciò che chiamo fantasma in quanto supporto del desiderio, è che il soggetto sia rappresentato nel fantasma in questo momento di sparizione. Vi faccio notare che non sto dicendo qui niente di straordinario. Semplicemente articolo quel guizzo, quell’intuizione, quel momento in cui Jones si è arrestato quando ha cercato di dare il suo senso concreto ai termini di “complesso di castrazione”, e in cui, per ragioni inerenti alla sua comprensione personale, non va oltre, perché è solo in quel modo che per lui le cose sono 1

Inedito.

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fenomenologicamente sensibili. Quando si vuol capire a tutti i costi, si finisce per non capirci più nulla! Ecco perché ci si può capire un po’ di più solo se la si smette di tentare di voler comprendere. Ragion per cui non sono un fenomenologo. Jones identifica il complesso di castrazione al timore della scomparsa del desiderio. È esattamente quello che sto dicendovi in forma diversa. Poiché il soggetto teme che il suo desiderio sparisca, questo deve ben significare qualche cosa, ossia che da qualche parte si desidera desiderante, che consiste in questo la struttura del desiderio, fate bene attenzione, del nevrotico. Ecco perché non tratterò innanzitutto del nevrotico, in quanto vi appare troppo facilmente un semplice raddoppiamento: io mi desidero desiderante, e mi desidero desiderante desiderato, ecc. (3 giugno 1959)

Jacques Lacan, il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964) 1  Freud, quando coglie la ripetizione nel gioco del nipotino, in quel fort-da reiterato, può sí sottolineare che il bambino tampona l'effetto della scomparsa della madre facendosene l'agente – ma questo fenomeno è secondario. Come sottolinea Wallon, il bambino non sorveglia subito la porta da cui è uscita la madre, mostrando cosí che è lí che si aspetta di rivederla, ma piuttosto, prima, è sul punto stesso in cui lei l'ha lasciato, sul punto che ha abbandonato vicino a lui, che egli porta la sua vigilanza. La beanza introdotta dall'assenza cosí disegnata e sempre aperta, resta come causa di un tracciato centrifugo in cui ciò che viene a cadere non è l'altro in quanto figura in cui il soggetto si proietta, ma la bobina legata a lui da un filo ch'egli trattiene – in cui si esprime ciò che di lui in questa prova si stacca, l'automutilazione a partire da cui l'ordine della significanza va a mettersi in prospettiva. Perché il gioco della bobina è la risposta del soggetto a ciò che l'assenza della madre è venuta a creare sulla frontiera del suo dominio, il bordo della culla, cioè un fossato, intorno a cui non gli resta che fare il gioco del salto. Questa bobina, non è la madre ridotta a una pallina grazie a chissà quale gioco degno degli Jivaro – ma è un piccolo qualcosa del soggetto che si stacca pur essendo ancor suo, ancora trattenuto. È il caso di dire, a imitazione di Aristotele, che l'uomo pensa con il suo oggetto. È con il suo oggetto che il bambino salta le frontiere del suo dominio trasformato in pozzo, e che comincia l'incantesimo. Se è vero che il significante è il primo marchio del soggetto, come non riconoscere qui – per il solo 1

Testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di Giacomo Contri, traduzione di Sciana Loaldi e Irène Molina, Einaudi, Torino 1979; edizione francese Seuil, Paris 1973.

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fatto che questo gioco si accompagna a una delle prime opposizioni che appaiano – che è nell'oggetto cui questa opposizione si applica in atto, la bobina, che dobbiamo designare il soggetto. A questo oggetto, daremo ulteriormente il suo nome nell'algebra lacaniana – l'a minuscola. L'insieme dell'attività simbolizza la ripetizione, ma non certo quella di un bisogno che si richiamerebbe al ritorno della madre, e che si manifesterebbe semplicemente nel grido. È la ripetizione della partenza della madre come causa di una Spaltung nel soggetto – superata dal gioco alternativo, fort-da, che è un qui o là, e che non ha di mira, nella sua alternanza, che di essere il fort di un da, e il da di un fort. Quel che ha di mira è ciò che, essenzialmente, non è qui in quanto rappresentato – perché è il gioco stesso ad essere la Repräsenanz della Vorstellung. Cosa diventerà la Vorstellung quando, di nuovo, questa Repräsentanz della madre – nel suo disegno segnato dai tocchi, dalle chiazze del desiderio – verrà a mancancare? Ho visto anch'io, con occhi apertimi dalla divinazione materna, il bambino traumatizzato ch'io partissi a dispetto del suo appello precocemente abbozzato con la voce, e mai piú rinnovato per mesi interi – l'ho visto, molto tempo dopo ancora, quando lo prendevo, questo bambino, sulle mie braca – l'ho visto lasciar cadere il capo sulla mia spalla per cadere nel sonno, un sonno lui solo capace di restituirgli l'accesso a quel significante vivente che io ero dopo il giorno del trauma. (12 febbraio 1964; it. 63 – 64; fr. 60 – 61)

 Guardate ancora il testo di cui vi parlavo prima. In esso è presentato per esempio il fort-da come una cosa trita e ritrita – manca poco che la persona si scusi di riprenderlo ancora una volta, questo famoso fort-da su cui tutti ci siamo asciugati i piedi. Lo si riprende come un esempio della simbolizzazione primordiale, scusandosene come d'una cosa ormai diventata di dominio pubblico. Ebbene! si commette nondimeno un errore grossolano, perché non è dalla pura e semplice opposizione del fort e del da, che esso trae quella forza inaugurale che è spiegata dalla sua essenza ripetitiva. Dire che si tratta semplicemente per il soggetto di istituirsi in una funzione di padronanza, è una sciocchezza. Nei due fonemi si incarnano propriamente i meccanismi dell'alienazione – che si esprimono, per quanto paradossale vi possa sembrare, a livello del fort. Non c'è fort senza da e, per cosí dire, senza Dasein. Ma appunto, contrariamente a quanto cerca di cogliere, come fondamento radicale dell'esistenza, tutta la fenomenologia della Daseinanalyse, non c'è Dasein con il fort. Vale a dire che non c'è scelta. Se il piccolo soggetto può esercitarsi nel gioco del fort-da, è proprio perché non vi si esercita affatto, giacché nessun soggetto può afferrare questa articolazione radicale. Egli vi si esercita con l'aiuto di un rocchetto, cioè con l'oggetto

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a. La funzione dell'esercizio con questo oggetto si riferisce a un'alienazione, e non a una qualsivoglia e supposta padronanza, di cui si vede male che cosa potrebbe aumentarla in una ripetizione indefinita, mentre proprio la ripetizione indefinita di cui si tratta mette in luce il vacillamento radicale del soggetto. (10 giugno 1964; it. 242 – 243; fr. 216)

Jacques Lacan, il Seminario, Libro XIV, La logica del fantasma (1966 – 1967) 1  Il Fort / Da, in quanto si rapporta alla presenza o all’assenza della madre, non è, in ciò, l’articolazione esaustiva dell’entrata in gioco del significante. Ciò che non è qui, il significante non lo designa, lo genera. Ciò che non è qui, all’origine, è il soggetto stesso. Detto altrimenti: all’origine non c’è Dasein se non nell’oggetto a. Ossia sotto una forma alienata, che finisce per contrassegnare fino al suo termine ogni enunciazione che concerne il Dasein. (16 novembre 1966)

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Inedito.

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Il “gioco del Fort / Da” tra Freud e Lacan1 Marie-France Balta

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ome è noto, la funzione di simbolizzazione è continuamente all’erta dalla nascita alla morte, anche se, d’altronde, è possibile non simbolizzare, dal

momento che simbolizzare vuol dire tessere la vita stessa con il significante, che esiste già da sempre. I danni di ciò che non giunge a essere simbolizzato sono conosciuti, e non si limitano a colpire solo il soggetto ma i loro effetti si ripercuotono talvolta su più di una generazione. Si tratti di lutto, suicidio, delitto, offesa al corpo o alla psiche, in una parola: di trauma, ogni volta che qualcosa è “piantato in asso”, non affrontato, o anche lasciato irrisolto, il legame si scioglie e si apre un buco. Il soggetto, del resto, non può che essere ricondotto a questo buco, in quanto gli è necessario almeno circoscriverlo o delimitarlo. È solo in un secondo tempo (après-coup) che veniamo a sapere che c’è stata simbolizzazione, quando ci si rende conto che qualcosa è stato integrato, o si è trasformato, che una certa posizione si è modificata, testimonianza che il lavoro psichico svolto ha permesso di trattare la questione che si poneva, così che può esserci liberazione, emergenza di cose nuove, e anche creazione.

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Apparso in L’interprétation analytique,1997, col titolo “Notes sur le Fort / Da”.

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Con la sua osservazione del Fort / Da, Freud ci ha rivelato quello che si può chiamare un momento di simbolizzazione esemplare, colto nel vivo, uno di quei momenti in cui l’atto è nel dire e il dire è nell’atto. Questa simbolizzazione concerne un’esperienza fondamentale e primordiale, poiché, a partire della ripetizione della sequenza: presenza / assenza della madre, si può dire che il bambino si costituisce come soggetto che può anch’egli mancare. Si tratta innanzitutto di una scena di famiglia. Un nonno, Freud, osserva il suo nipotino, che è ancora piccolo, ma non più piccolissimo: ha diciotto mesi e pronuncia alcune parole che hanno un senso, almeno per coloro che si prendono cura di lui. L’attenzione di Freud è attirata da un’azione giocosa che il bambino ripete in modo relativamente invariabile, azione a cui associa l’emissione di due fonemi ben distinti, anch’essi invariabili. Quando in Al di là del principio di piacere 1 Freud riferisce le sequenze di ciò che ha osservato, è a partire da un interrogativo fondamentale: che cos’è quella forza, quella pulsione che spinge a riprodurre un avvenimento spiacevole, se non addirittura traumatico, come per ritrovarne esattamente le coordinate di dispiacere? Com’è noto egli darà a quella pulsione il nome di pulsione di morte, e ciò che si trova al di là del dominio regolato dal principio di piacere sarà successivamente chiamato col nome di godimento. Tuttavia, contrariamente a ciò che si aspettava, Freud è obbligato ad ammettere che la ripetizione della scena a cui assiste, e che ha nondimeno súbito legato a qualcosa di spiacevole per il bambino – l’assentarsi della madre –, non manca di apportare a quest’ultimo un guadagno di piacere. In effetti, Freud non constata né tensione né crisi, ma piuttosto un acquietamento (apaisement) trovato nel gioco stesso. Per questo, Freud suppone che il bambino, con la sua azione ripetuta, tenti di superare un sentimento penoso, trasformando la realtà subìta con pena in un’azione volontaria; spostando quel che vi è in gioco sul piano psichico, il bambino si

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S. FREUD, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere, a cura di C. L. Musatti, vol. IX, Boringhieri, Torino 1974.

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autorizzerebbe pertanto a occupare un altro posto di fronte all’alternanza impostagli dalla presenza / assenza della madre. Riprendiamo i riferimenti progressivi di Freud che, come sappiamo, è un osservatore rigoroso ed esigente. Egli situa innanzitutto il contesto: buone relazioni del bambino con chi si occupa di lui, obbedienza rispetto a determinate proibizioni; insiste anche sull’assenza di pianto quando la madre se ne va. Non sappiamo se il bambino possiede un oggetto sostitutivo, ma possiamo pensare che abbia già potuto edificare sull’assenza un minimo di costruzione (simbolica o immaginaria) per poter sopportare la mancanza. In ogni caso, il gioco a cui Freud assiste è una vera elaborazione, di cui misuriamo la portata, il progresso, comparandola per esempio a quel che può apportare l’oggetto transizionale nel senso di Winnicott. Non c’è alcun dubbio che Freud ha a che fare con un momento di simbolizzazione. Cosa mette in evidenza in un primo tempo? Egli osserva che una delle abitudini del bambino è di gettare lontano i suoi giocattoli con grande soddisfazione. Si spinge fino ad affermare che “il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a gettarli via”. Nel momento in cui non li vede più emette il suono “o-o-o”, che la madre traduce a Freud con: “Fort”, cioè: “lontano, partito”. Niente di penoso in tutto ciò, tutto al contrario. Freud precisa allora la sua idea: “L’atto di gettare via l’oggetto, in modo da farlo sparire, potrebbe costituire il soddisfacimento di un impulso che il bambino ha represso nella vita reale, l’impulso di vendicarsi della madre che se n’è andata; in questo caso avrebbe il senso di una sfida: «Benissimo, vattene pure, non ho bisogno di te, sono io che ti mando via».” Comandare la presenza e l’assenza degli oggetti sarebbe un modo piuttosto conveniente di elaborare l’inevitabile tensione dolorosa che provocano le partenze reiterate della madre e, in definitiva, una via d’uscita, un cambiamento persino, in rapporto a una posizione passiva. Freud pensa allora che alla ripetizione dell’azione penosa, si sostituisca progressivamente la ripetizione dell’azione di padronanza. Al dispiacere della perdita, si sostituisce così il piacere d’organizzare, di predisporre da sé la perdita e i ritrovamenti (retrouvailles). Tuttavia, Freud mostra una certa perplessità quando osserva che il bambino ripete

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molto più spesso la prima parte del gioco, quella della scomparsa dell’oggetto, che la seconda, quella della sua ricomparsa, dalla quale trae maggior piacere. In un secondo tempo, Freud isola una scena a cui assiste all’occasione, la scena propriamente detta del rocchetto. I due vocalizzi, ossia il “o-o-o” o “Fort”, tradotto con “lontano”, emesso dopo aver lanciato l’oggetto-rocchetto; e il “Da”, che significa “qui!” o “ecco!”, emesso nel momento in cui l’oggetto ripreso tramite la funicella ricompare; – questi due vocalizzi dividono la scena in due sequenze distinte, e del resto indipendenti dal momento che l’osservatore nota che esse non avvengono necessariamente in successione. Le sequenze dunque per Freud sono: •

oggetto presente > gesto di lanciare lontano > oggetto assente > “o-o-o”



oggetto assente > gesto di tirare verso sé > ricomparsa dell’oggetto > “Da”.

Pertanto per Freud, dopo che il bambino ha constatato di essere senza potere in rapporto alle assenze della madre, non si perde tuttavia d’animo e utilizza un gioco in cui mette in scena ciò che lo ha impressionato per poterlo infine padroneggiare. È addirittura il piacere di esercitare la padronanza appena acquisita, che comanderà la ripetizione. Ma questo non risponde all’interrogativo di Freud: perché il bambino ripete instancabilmente la prima sequenza, a scapito dell’altra? La possibilità di far scomparire l’oggetto sarebbe diventata la posta in gioco di un interesse superiore a quello del piacere del suo ritorno? L’approccio di Lacan sarà un po’ diverso. Egli si servirà dell’illustrazione clinica del Fort /Da in tre lezioni di due suoi seminari: Gli scritti tecnici di Freud 1 e I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 2. La prima sorpresa è che lo svolgimento delle sequenze riportate da Freud non è esattamente lo stesso (di quello riportato da 1

Jacques Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud (1953 – 1954), sedute del 5 maggio 1954 e del 2 giugno 1954, testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di G. Contri, traduzione di Antonello Schiacchiatano e Irène Molina, Einaudi, Torino 1978; edizione francese Seuil, Paris 1975. 2 Jacques Lacan, IL Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), seduta del 12 febbraio 1964, testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di G. Contri, traduzione di Sciana Loaldi e Irène Molina, Einaudi, Torino 1979; edizione francese Seuil, Paris 1973.

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Lacan), cosa che conduce a formulare l’ipotesi di un’interpretazione del testo di Freud da parte di Lacan. Per Lacan, il bambino non solo accetta di essere privato dell’oggetto – come prova l’invenzione del gioco del rocchetto – ma anticipa la scomparsa e la ricomparsa dell’oggetto, e di ciò sono il “Fort” e il “Da” a darne testimonianza. In effetti, Lacan non si limita a considerare questi due fonemi come se dovessimo semplicemente constatarli, rilevarli, (sì, l’oggetto è andato via, sì, l’oggetto è qui, con l’inserimento dell’azione di manipolazione del bambino tra i due momenti in cui i fonemi sono pronunciati), ma gli conferisce innanzitutto un valore d’evocazione e d’appello. Gli dà in realtà un posto predominante e li fa intervenire prima di tutto per promuovere l’azione. In un certo qual modo, il bambino si esorterebbe (s’appellerait) da se stesso a passare all’azione. Le sequenze (per Lacan) dunque sono: •

oggetto presente > “o-o-o” > gesto di lanciare lontano > oggetto assente



oggetto assente > “Da” > gesto di tirare verso sé > oggetto presente

Il fatto che “o-o-o” sia articolato mentre l’oggetto è ancora qui, e “Da” mentre l’oggetto è andato via, manifesta due cose concomitanti: – In primo luogo, che c’è adesso per il bambino una possibilità di regolare la distanza tra sé e l’oggetto. Il suo desiderio entra in gioco, perché egli (che sia lui in rapporto all’oggetto o l’oggetto in rapporto a lui) s’allontana o s’avvicina. – In secondo luogo, che “l’apparizione dei due vocaboli messi in opposizione fonematica” mostra “un bambino in misura di trascendere su un piano simbolico il fenomeno della presenza e dell’assenza”. E questo non sorprende poiché “il momento in cui il desiderio si umanizza è anche quello in cui il bambino nasce al linguaggio”. I due fonemi esistevano già fuori di lui e il bambino li integra per significare a sua volta qualcosa. I due significanti di cui dispone gli permetteranno adesso di “far apparire o scomparire realmente o immaginariamente l’oggetto”. Si comprende meglio perché Lacan tiene tanto a far precedere i gesti del bambino dai due significanti in questione. Effettivamente, perché il loro potere d’evocazione, d’appello, d’anticipazione può ormai comandare l’azione, ma soprattutto perché, in

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ogni caso, la missione del simbolico è di dirigere la vita psichica. “L’introduzione del simbolo, capovolge le posizioni. L’assenza è evocata nella presenza e la presenza nell’assenza”. E si spinge più lontano: “Il simbolico (qui, l’introduzione di una coppia di simboli) rendendo possibile questo capovolgimento, cioè annullando la Cosa esistente, apre il mondo della negatività, (dunque la possibilità della denegazione) che costituisce contemporaneamente il discorso del soggetto umano e la realtà del suo mondo in quanto umano, e questo ancora prima dell’introduzione del no, del rifiuto dell’altro” 1. Ecco perché per Lacan il “Fort” viene detto in presenza dell’oggetto, in quanto, presente, esso può ormai essere evocato come assente. E inversamente per il “Da”. “Tu sei qui, ma io ti rendo assente” – e questo si dice: “Fort”. “Tu non sei qui, ma evocarti ti rende presente” – e questo si dice “Da”. “Distruzione della Cosa dunque, mediante il fatto di dire, di nominare; passaggio della Cosa al piano simbolico; a partire da questi due poli, che esistono fin dall’inizio per il bambino – il reale e il simbolico –, s’installa, si compone, si arricchisce, si diversifica il polo immaginario certo anch’esso già costituito ma inaccessibile senza la possibilità della nominazione”. È abbastanza chiaro che in questa situazione in cui un oggetto prende valore di simbolo, Freud mette l’accento sulla soddisfazione nel gioco e la padronanza acquisita, mentre Lacan privilegia la soddisfazione che nasce dall’evocazione, dall’appello, dalla verbalizzazione. Non dobbiamo infine trascurare – e si tratta del terzo tempo – la nota che Freud si prende la briga di aggiungere più tardi alla sua osservazione e che fa nascere un nuovo interrogativo: “Un giorno la madre era rimasta fuori casa per parecchie ore, e al ritorno venne accolta col saluto “Bebi [ = il bambino] o-o-o”, che in un primo momento parve incomprensibile. Ma presto risultò che durante quel lungo periodo di solitudine il bambino aveva trovato un modo per farsi scomparire lui stesso. Aveva scoperto la propria immagine in uno specchio che arrivava quasi al suolo, e si era accoccolato in modo tale che l’immagine se n’era andata “via”.”

1 Qui come in seguito, le citazioni di Lacan, estratte dai Seminari citati, sono ricostruite dall’autrice in una specie di collage, intercalato da perifrasi.(N.d.T.)

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Dunque il bambino ha ormai a sua disposizione la parola “Fort” per significare la scomparsa, si tratti di sua madre, del rocchetto o della propria immagine. Sa che potrà farli scomparire e sa dirlo. Freud non si pone la questione del momento scelto dal bambino per dire a sua madre: “bebi partito” proprio nel momento in cui essa ricompariva dopo una lunga assenza. Il passo decisivo che il bambino compie in questa circostanza, necessita appunto che la madre sia stata per lungo tempo assente prima di ritornare presso di lui, perché egli possa significarle che anche lui può mancarle. Si vede che si tratta di una questione completamente diversa da quella con cui egli era alle prese in precedenza, ossia quella che si pone quando la madre è assente. È addirittura probabile che sia proprio questa la posta in gioco finale della scena e, in definitiva, non sorprende più di tanto che Freud aggiunga questo episodio successivamente, come in un effetto retroattivo (d’après-coup). L’esito finale del gioco del rocchetto consisterebbe dunque nel fatto che il bambino possa “assentarsi da” sua madre e significarglielo. In questa operazione, qualcosa viene a cadere: l’oggetto-rocchetto, che non è né la madre e neppure il bambino, “ma è un piccolo qualcosa del soggetto che si stacca, pur essendo ancor suo, ancora trattenuto”. Lacan parla di una prova, di una “prova di automutilazione”. Se la parola è forte, è perché Lacan fa di questa perdita preliminare la condizione mediante cui “l’ordine della significanza va a mettersi in prospettiva”. Questo oggetto, ancora trattenuto da un filo, ma che nel suo va-e-vieni si distacca, raffigura per Lacan l’oggetto da cui il bambino si troverà un giorno per sempre separato, e definitivamente, vale a dire l’oggetto a. Se questa scena è esemplare di un lavoro psichico di distacco (détachement), non bisogna dimenticare che viene a ultimare tutta l’elaborazione anteriore che ha condotto il bambino ad assicurarsi di un sentimento di consistenza e della continuità del legame malgrado la discontinuità provocata dalle assenze dalla madre. Tuttavia, lo si vede, grande è l’apertura quando l’intervento della parola permette il superamento del soddisfacimento immediato, portato dalla presenza dell’oggetto primitivo; e l’avvento della parola, che permette di rendere presente l’assente e assente il presente, conferisce tutta la sua portata a quanto Lacan afferma nel

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Seminario su L’angoscia 1: “la sicurezza della presenza, è la possibilità dell’assenza”, dell’assenza dell’Altro e dell’assenza all’Altro.

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Jacques Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia (1962 – 1963), seduta del 5 dicembre 1962, testo stabilito da J. – A. Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, traduzione di A. Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007; edizione francese Seuil, Paris 2004.

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Bemächtigungstrieb La “pulsione di appropriazione” nel gioco del Fort / Da1 Jacques Sédat

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el capitolo II di Aldilà del principio di piacere (1920) 2, Freud riferisce la famosa osservazione di suo nipote Ernst, figlio di sua figlia Sophie Halberstadt, che morirà poco dopo la scrittura di questo capitolo, il 25

gennaio 1920. Freud nota che il bambino di diciotto mesi non soffriva delle assenze della madre, durante le quali tuttavia si serviva di un gioco costituito da due sequenze. In un caso, si accontentava di lanciare lontano un rocchetto attaccato a un filo, in modo ripetitivo, proferendo un “o-o-o” che significa “partire” (Fort). Oppure riportava successivamente il rocchetto nel suo letto, accompagnandolo con un “ecco” (Da). Freud propone due interpretazioni notevolmente differenti del gioco: 1. Il bambino, da passivo che era, abbandonato dalla madre, diviene attivo mettendo in gioco una «pulsione di appropriazione» (Bemächtigungstrieb) che consiste nel «rompere» in qualche modo l’oggetto, in mancanza del potere di elaborare la sua assenza.

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Brano estratto da J. Sédat, Pour introduire l’amour en Psychanalyse (1998), che costituisce la Presentazione al Seminario di François Perrier, L’amour (1970 – 1971), Hachette, Paris 1998; il brano qui tradotto, centrato sull’interpretazione freudiana del gioco del Fort / Da, si può leggere alle pp. 11 – 13. Il titolo qui proposto è del traduttore. 2 S. FREUD, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere, 11 voll., a cura di C. L. Musatti, Boringhieri, Torino 1967 - 1979, vol. IX.

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2. Attraverso la duplice sequenza Fort e Da, il bambino può fare a meno dell’oggetto senza doverlo distruggere, costituendolo al di fuori come oggetto perduto; egli cioè elabora psichicamente l’assenza dell’oggetto separandosene, mediante un’operazione in cui l’oggetto materno è privato della sua onnipotenza e in cui, in effetti, egli acquisisce la possibilità di assentarsi da esso. Nel secondo dei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) 1, Freud segnala che la pulsione di sapere è un derivato dell’appropriazione, la pulsione di sapere “corrisponde (…) a un modo sublimato di appropriazione” 2. Questo significa che quando l’oggetto non ha potuto essere elaborato psichicamente come oggetto perduto — e dunque essere ritrovato successivamente sulla scena della realtà —, la sola relazione possibile all’oggetto è dell’ordine dell’appropriazione, del legame di padronanza. Questo legame di appropriazione può prendere due forme differenti: 1. Nel paranoico, può prendere la forma del “delirio di relazione”, delirio del legame mantenuto sull’inconscio dell’altro. “Per tutte queste manifestazioni dell' inconscio della moglie questo giovane (paranoico) si dimostrava straordinariamente attento e sapeva sempre interpretarle esattamente, per modo che invero aveva sempre ragione e per di più poteva fare appello all ' analisi per giustificare la propria gelosia. In definitiva l'anormalità di quest'uomo si riduceva al fatto di osservare l 'inconscio di sua moglie più attentamente degli altri e di attribuirgli poi un' importanza molto 3

maggiore di quanto sarebbe venuto in mente di fare a chiunque altro” .

2. Nel perverso, il legame di appropriazione non si manifesterà mediante la padronanza dei pensieri dell’altro, ma attraverso il tentativo di padroneggiare il suo godimento, organizzandolo, all’occorrenza, per mezzo della manipolazione (appareillage) del corpo dell’altro: “I misteri del godimento dell’altro ci sfuggono, fingiamo di esserne l’organizzatore”, per parafrasare Jean Cocteau.

1

S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in Opere, cit., vol. IV. Ibid., pp. 502 – 503. 3 S. Freud, Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità (1921), in Opere, cit., vol. IX, p. 370. 2

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Queste manifestazioni di appropriazione dipendono da una relazione arcaica all’altro dove, per questo Io originale, “ciò che è male, ciò che è estraneo all’Io, ciò che si trova al di fuori, sono in un primo tempo identici” 1. Pertanto, ogni oggetto sulla scena della realtà non può che riferirsi al famigliare divenuto estraneo, a una minaccia d’integrità per l’io, che può pensarsi solo nei termini di un legame permanente a quell’oggetto originario che non ha potuto essere perduto. Ora, mantenere il legame primordiale all’oggetto rende impossibile l’investimento di ogni altro oggetto, al fine di scongiurarne la precarietà.

1

S. Freud, La negazione (1925), in Opere, cit., vol. X, p. 199.

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L’AMORE COME PULSIONE DI MORTE1 Moustapha Safouan I

N

el gioco descritto da Freud in Al di là del principio del piacere il primo tratto che ci colpisce è che il bambino non getta lontano tutto quello che gli capita sottomano (accompagnando il gesto con un espressivo “O-o-o” in cui Freud e la madre del bambino riconoscono

il vocabolo Fort) per poi farlo ritornare (accogliendo la sua comparsa con un allegro Da); non si tratta di un gioco di Fort-Da ma soltanto di Fort. Il bambino getta lontano da sé, in un angolo della stanza, sotto il letto o altrove, ogni oggetto che gli capita sottomano; ma il caso vuole che fra quei giocattoli, di cui non fa nessun uso oltre a quello del playing gone, si trovi un rocchetto di legno intorno a cui è avvolto 1

“L’amour comme pulsion de mort” costituisce il capitolo V, pp. 66 – 93, del libro di Moustapha Safouan L’échec du principe du plaisir, Éditions du Seuil, collection Le champ freudien, già diretta da Jacques Lacan, Parigi 1979; traduzione italiana col titolo Essere e piacere. Lo scacco del principio del piacere, Spirali edizioni, Milano 1980. Nella presente traduzione, da noi interamente rivista, non appare il § 3, pp. 83 – 90 dell’edizione francese, corrispondenti alle pp. 80 – 87 dell’edizione italiana, dedicato alla teoria dell’amore di Dio in Spinoza (si può comunque trovarne un riassunto dell’autore alla fine del capitolo), perché non strettamente necessario al tema qui privilegiato del cosiddetto “gioco del Fort/Da”, isolato da Freud in Al di là del principio di piacere e commentato da Lacan a più riprese nel corso dei suoi Seminari e negli Scritti. Sono state inoltre omesse le ultime otto righe del capitolo, sempre per le medesime ragioni. La traduzione italiana (almeno per quanto concerne il capitolo in esame), che abbiamo seguito fin dove era possibile, pur non priva di pregi contiene purtroppo numerose inesattezze, quando non dei veri e propri errori, oltre al fatto, inesplicabile, di non aver riprodotto – se non per le parole straniere – i frequenti corsivi dell’autore, che nel caso in questione non sono affatto dei meri vezzi di stile ma evidenziano piuttosto il knotenpunkt della frase. Nell’impossibilità di verificare alcune modifiche apportate dall’autore per l’edizione italiana, arricchita per l’occasione di una Nota, ci siamo attenuti al testo dell’edizione francese originale, salvo nei casi segnalati. Il libro di Safouan, come sempre esemplare, oggi quasi introvabile nell’edizione francese, è però ancora reperibile in traduzione italiana: http://www.spirali.com/libro/8877701242/essere-e-piacere-lo-scacco-del-principio-del-piacere/[ISBN: 8877701242]. (N.d.C)

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dello spago. Il bambino riesce così a attirare nuovamente verso di sé il rocchetto, dopo averlo fatto sparire con molta abilità al di là del bordo della culla. Si tratta dunque di una modificazione accidentale del gioco resa possibile dalla struttura del giocattolo; capita qualcosa del genere quando cambia il materiale impiegato per scrivere, senza che perciò questa modificazione possa essere considerata un elemento essenziale della scrittura. Inizialmente Freud prende in considerazione l’ipotesi che spiega il movente del gioco con il piacere procurato dal momento della ricomparsa dell’oggetto, ma successivamente scarta tale ipotesi perché constata che il primo atto, quello di gettare, è messo in scena come costitutivo di un gioco in se stesso, molto più spesso dell’integralità dell’episodio con il suo piacevole finale, e al di fuori di quest’ultimo. Anche se il gioco con il rocchetto induce Freud a pensare che il gioco completo si svolga in due tempi, egli precisa che “di norma era dato assistere solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come gioco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto” 1.

Ma perché quel gioco, se il motivo non era il piacere del ritrovamento? Possiamo riprendere qui l’ipotesi del piacere come fine, ricordando il piacere che i bambini trovano solitamente nel giocare al dottore, nonostante il dispiacere della visita medica. Ma l’ipotesi che il bambino ripeta un’esperienza penosa allo scopo di padroneggiarla reggerebbe solo se il bambino si fosse rivolto a uno dei suoi giocattoli, anzi al suo giocattolo preferito, con un: “ritorno” o con un: “aspetta” (o in genere con le parole che la madre ha l’abitudine di dire in simili occasioni) fingendo poi di andare via. Con questo intendiamo dire che giocare al dottore presuppone un bambino relativamente più evoluto del piccolo Hans, il nipotino di Freud di un anno e mezzo, sia nel trattare le relazioni umane sia nell’acquisizione dei significanti intorno a cui si regolano le sue identificazioni. In realtà, è proprio tramite una conseguenza del gioco di Fort che la madre di Hans ha acquisito per lui, come vedremo, una significazione che va oltre le cure che poteva prodigargli, e senza di cui non si può legittimamente parlare di un’ 1

S. FREUD, Al di là del principio del piacere (1920), in Opere, IX, Boringhieri, Torino 1977, p. 201.

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“identificazione” con lei — se non riducendo la significazione di quest’ultimo termine alla semplice cattura immaginaria. Per dimostrarlo ci soffermeremo sul secondo tratto descritto da Freud: Hans non piangeva mai durante l’assenza della madre sebbene le fosse molto attaccato. Questo fatto ci sorprende perché, com’è noto, il bambino dopo i tre mesi reagisce con evidente piacere alla presenza dell’adulto, sia a quella della madre sia a quella di un’altra persona; ma fra il sesto e l’ottavo mese nel comportamento del bambino verso gli altri avviene un cambiamento decisivo che Spitz chiama “angoscia dell’ottavo mese” 1. Di fronte a un estraneo — cioè, sottolineiamolo, di fronte a qualcuno che in precedenza non è mai stato associato a un’esperienza di dispiacere — il bambino reagisce con angoscia al fatto che non è la madre. La reazione del bambino all’assenza della madre ci indica che per lui quel volto non funziona più come una semplice Gestalt, segno del volto umano in generale, ma qua face: la sua presenza si stacca da qualsiasi altra e s’individualizza, essendo ormai una presenza che ha il privilegio di essere la sua. E Spitz ritiene a buon diritto che questa capacità discriminante da parte del bambino di otto mesi “[ ... ] rifletta il fatto che a questo stadio egli ha stabilito una vera relazione oggettuale e che la madre è diventata il suo oggetto. libidico, il suo oggetto d’amore. Non possiamo parlare d’amore finché l’amato non può essere distinto da tutti gli altri e non c’è oggetto libidico finché rimane intercambiabile 2.”

L’osservazione di Spitz a proposito dell’oggetto libidico, la cui specifica proprietà è di non essere intercambiabile, si riallaccia a quella di Lacan su una riflessione di Goethe a proposito di Antigone, come si legge nelle Conversazioni di Ackermann. Volendo far valere i motivi dell’intransigenza di Antigone, Sofocle le fa dire che un marito può essere sostituito ma che di fratello ce n’è uno solo; secondo Goethe, la debolezza dell’argomentazione di Antigone è clamorosa in quanto, per l’appunto, di

1

Cfr. R.A. SPITZ, Il primo anno di vita. Studio psicoanalitico sullo sviluppo delle relazioni oggettuali, Armando, Roma 1977, pp. 157 sgg. 2 Ibid., p. 163.

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fratelli ella ne ha due. L’obiezione, nota Lacan 1, significa che il saggio di Weimar non voleva intendere nulla dell’amore di Antigone per il fratello, di quell’amore che si esprimeva appunto in una simile affermazione di unicità. Fatto sta che Spitz, pur avendo un’esatta visione della significazione del comportamento del bambino di otto mesi, non giunge però a spiegarlo. Sembra che Spitz voglia dire che il bambino reagisce con angoscia all’assenza della madre perché l’ama. Ma perché reagisce così e non con la delusione, o la collera o la depressione? Addurre a motivo la dipendenza vitale del bambino dalla madre non spiega nulla poiché, dal punto di vista delle cure prodigate, la madre è intercambiabile. I fenomeni da ospedalizzazione, che Spitz descrive meglio di chiunque altro, ci persuadono che non è certo per le sue cure che il bambino ama la madre ma, anzi, consente a accettare le cure proprio perché la ama. Questo amore non è un dono che si offre allo stesso titolo delle cure, ma un dono che si significa nel dono delle cure. Si ripropone allora nuovamente l’interrogativo: perché è l’angoscia e non per esempio la delusione a manifestarsi come reazione all’assenza della madre? È inevitabile l’accostamento tra il fenomeno osservato da Spitz e il fatto che il bambino press’a poco a quell’età acquisisce un’immagine di sé, un’immagine che ha questo di unico: che è sua e di nessun altro. Il possesso di un’immagine propria è anche un amore di questa immagine stessa, o amore di “sé”. A causa di questa immagine, ossia senza aspettare d’essere in grado di oggettivarsi nel linguaggio designandosi come “io” o come “bebé”, il bambino non è già più un semplice vivente, immerso nelle vicissitudini della sua sensibilità di vivente e da queste vicissitudini inseparabile, ma, per di più, egli è. È già “colui che è”, possiamo dire, o chi ha il suo posto nell’essere. E ha quel posto in quanto non è uguale a nessun altro. In quanto viene incontro al soggetto in quell’immagine inafferrabile che è l’immagine del corpo proprio, l’essere è infatuazione. Infatuazione che non ha nulla di “naturale”, se con ciò s’intende una relazione immediata. Il narcisismo è amore di sé, certamente, ma questo amore il soggetto non lo trae da sé stesso. 1

J. LACAN, Il seminario, Libro VII, L’etica della psicanalisi (1959-1960), testo stabilito da JacquesAlain Miller, Einaudi, Torino 1994; ed. fr. Le séminaire, Livre VII, L’éthique de la psychanalyse (19591960), Seuil, Parigi 1986.

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Sono note le due tendenze che su questo punto dividono gli analisti: gli uni come Robert Fliess e Balint, pongono all’origine l’amore oggettuale; gli altri invece, come Bergler e Jekels, il narcisismo. La seconda opinione è a nostro parere la più corretta, benché misconosca il carattere mediato (médiatisé) del narcisismo 1. Infatti, perché il bambino si ami, perché sia per se stesso un oggetto libidico, bisogna innanzitutto che egli sia; ma, e qui entra in gioco il misconoscimento, non saprebbe essere, cioè assumere la propria immagine speculare e riconoscervisi, se questa immagine non gli apparisse come ciò che costituisce l’oggetto amato dall’Altro, particolarmente dalla madre – al punto da poter affermare che sono le madri a vegliare di generazione in generazione sulla trasmissione della forma umana. 2 Ne consegue che il suo amore per se stesso va di pari passo con il suo amore per la fonte di questo amore, ossia per la madre. In principio c’è l’amore, e l’amore è fin dal principio “à double face” 3: non è un caso, ma un gemellaggio (jumelage) imposto dalla struttura stessa del narcisismo, se il volto della madre si isola (détache) qua face proprio all’età in cui anche il bambino si isola in quanto tale. In che cosa questo gemellaggio strutturale, che sfugge all’attenzione di Spitz, può contribuire a spiegare l’angoscia dell’ottavo mese? Nel fatto che ci consente di supporre che la comparsa di un altro volto da quello della madre suscita un sentimento di estraneità, paragonabile a quello che pervaderebbe il soggetto se allo specchio gli apparisse un volto diverso dal suo, o il suo volto come altro (per esempio se il suo volto non lo guardasse quando egli lo guarda). E poiché si tratta di un soggetto che non ha ancora imparato a padroneggiare gli effetti di una sua presa nel costituente dello speculare (così come si parla di una presa del soggetto nel costituente della catena significante), non ci sarebbe niente di straordinario se una

1

Analogamente accogliamo la formula di Bergler che “ogni amore è una domanda d'amore”, pur constatando che suona come se la domanda costituisse la finalità nascosta, se non addirittura vergognosa, dell'amore. In realtà si tratta di una proposizione che si può rovesciare: ogni amore è una domanda d'amore e questa domanda è il dono stesso. 2 Quest’ultima proposizione manca nel testo dell’edizione francese. (N.d.C.) 3 Letteralmente: “a doppia faccia”; ma si tenga presente che à double-face (con la lineetta in mezzo) significa “reversibile”. (N.d.C.)

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simile “sorpresa” assumesse le proporzioni di una catastrofe o di un crollo dell’intero campo delle apparenze, poiché nulla è per lui reperibile se egli non lo è più 1. Tanto più stupefacente risulta perciò la placidità del piccolo Hans, dal momento che abbiamo la certezza che a quell’età il bambino reagisce, e addirittura in modo catastrofico, all’assenza della madre. Né può convincere la risposta che a sedici mesi il bambino ha imparato a padroneggiare i suoi rapporti con il campo speculare: si è mai visto un soggetto imparare a disabituarsi dell’amore? Per una risposta più convincente ricorderemo questa osservazione di Dorothy Burlingham, nel suo libro sui gemelli: La separazione dalla madre e la separazione dal gemello a quanto pare costituiscono esperienze emotive di valore equivalente e suscitano le stesse reazioni 2.

Il fatto è che la separazione dà luogo, in entrambi i casi, allo stesso gioco di gone (o all gone) descritto da Freud e, in entrambi i casi, quando l’essere assente ricompare, il bambino dimostra nei suoi confronti un’indifferenza tanto maggiore quanto più era infelice durante la sua assenza. Siamo tentati di pensare, con Dorothy Burlingham, che era dunque per non soffrire che il nipotino di Freud si dimostrava indifferente. A dire il vero, una certa insensibilità non solo può costituire un rifugio dal dolore, ma possiamo anche supporre che il dolore sia uno stato che confina non con la mobilità e la scarica ma, al contrario, con l’immobilità. La migliore testimonianza ce la offre Omero quando descrive la reazione dei cavalli di Patroclo alla morte del loro condottiero. Ciò non toglie che l’osservazione di Freud sull’indifferenza di suo nipote concerne l’indifferenza alla separazione come momento che ha preceduto lo sbocciare del gioco e che si è risolto nel gioco stesso; è pertanto in questo contesto che dobbiamo coglierne la significazione. Ricordiamo a tal fine le distinzioni categoriali di Lacan e la loro applicazione alla relazione madre-bambino.

1

Si veda, alla fine del libro di Spitz, la patetica immagine di un bambino in preda all’angoscia dell’ottavo mese. 2 D. Burlingham, Twins, Imago Publishing Co., London 1952, p. 40.

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In un primo tempo, gli oggetti sono reali mentre la madre è simbolica, nel senso che essa ha valore per la sua presenza o per la sua assenza. Poi, in un secondo tempo che viene introdotto con la domanda, la madre diventa reale, potenza di rispondere o di non rispondere alla domanda, mentre gli oggetti diventano segni del suo amore o della revoca del suo amore. Fin qui nulla da eccepire, salvo precisare che nel primo tempo la madre è simbolica per noi che descriviamo questa relazione ma non per il bambino. Questi reagisce alla presenza della madre con gioia e all’assenza con tristezza (oppure con angoscia quando l’assenza è in qualche modo significata dalla presenza di qualcun altro, di un estraneo), ma questo non significa che per il bambino la presenza della madre sia costituita come tale, separata dalla presenza reale. Il bambino reagisce, per così dire, alla presenza o all’assenza della madre, ma la presenza di un oggetto non basta a fare sorgere il concetto di presenza nella sua universalità. Prova ne è il fatto che se il bambino possedesse questo concetto richiederebbe quella presenza... e la madre sarebbe reale. In altri termini, al di là della presenza della madre reale in quanto si alterna con l’assenza o della sua assenza reale in quanto si alterna con la presenza, per il bambino (che sta per essere preso nel costituente della catena significante dopo essere stato preso nel costituente dello speculare) si tratta di realizzare un’integrazione ben più gravida di conseguenze di quanto non fosse quella del “buono” e del “cattivo”. Buono e cattivo s’integrano nello stesso oggetto. Ma assenza e presenza s’integrano l’una nell’altra; e questa integrazione costituisce precisamente l’essenza della rappresentazione come tale: per esempio l’essenza del leone il cui nome basta da solo a costituire una presenza fatta della sua stessa assenza. Insomma, non c’è presa possibile nel significante senza il possesso in absentia del significato, così come non si può giocare con le onde senza tuffarsi nell’acqua. Da questo punto di vista l’indifferenza del nipotino di Freud rappresenterebbe — a quanto ci sembra — un momento analogo a quell’attimo di sosta che precede la siderazione, un momento di pre-comprensione. Di che cosa? Non dell’assenza della madre, ma semmai del carattere transitorio della sua presenza, del fatto che essa lo

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è stata... e non lo è più 1. È un momento d’integrazione temporale in quanto concede all’oggetto una permanenza nella rappresentazione e questa permanenza gli consente di sussistere come soggetto grammaticale. Non c’è dunque da stupirsi nel veder risolversi questo momento nell’ormai noto gioco del rocchetto, in cui il bambino si trova in certo qual modo alle soglie della predicazione (la mamma c’è o non c’è): difatti è chiaro che l’unico mezzo per concepire la presenza, come pure l’assenza, come predicati, consiste nel sottrarre l’oggetto alla sua presenza reale mandandolo in giro altrove. Il gesto di far sparire è anche un conservare. Capiamo così che l’oggetto gettato lontano è in questo caso assolutamente indifferente, se si prescinde dalla sua funzione di sostegno dell’atto che lo fa sparire. In realtà il bambino giocava al Fortsein 2, secondo l’espressione di Freud, con tutto quello che gli capitava sottomano, mentre se si fosse trattato di padroneggiare il dispiacere per la separazione dalla madre, avrebbe dovuto ricorrere eventualmente al suo giocattolo preferito 3. Inoltre l’universalità di questo gioco, universalità nel senso di una soppressione della particolarità dell’oggetto, dovrebbe condurre il bambino a includersi a sua volta nel gioco. Niente di strano quindi se lo vediamo farsi scomparire davanti allo specchio, poi apparire quasi sorgesse da quell’altrove fittizio che è il deposito della permanenza, così come si dice “deposito oggetti smarriti”. Ma qui sarebbe più esatto dire che giocava non a farsi scomparire ma a vedersi non visto. Quello che era già in gioco nel gesto di far scomparire, era per l’appunto di “vedere” l’oggetto proprio quando non lo si vedeva; altrimenti non avrebbe pensato di riprenderlo, come fece poco dopo, facendo del suo atto a un gioco di Fort-Da. Si vede dunque quale complicazione stava per introdursi nei rapporti tra il piccolo Hans e gli altri, per effetto di questa nuova dimensione propriamente

1

Nel ricondurlo a casa da scuola, dove lo aveva portato il mattino per la prima volta, un bambino, dopo qualche attimo in cui si era mostrato pensoso, dice alla madre: “Ora so che cos'è una madre. – Cos’è? – Qualcuno che parte”. 2 Sein, in tedesco “essere”(N.d.C.) 3 È legittimo supporre che il bambino avesse un giocattolo preferito. Spitz nota che due mesi dopo la comparsa dell'angoscia dell'ottavo mese il bambino sceglie un giocattolo preferito.

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parlando fantasmatica: egli era in procinto di diventare il manipolatore di quella relazione d’amore di cui fino a quel momento aveva soltanto subito gli effetti. Una volta avviata questa manipolazione, per altro inconcepibile senza il significante (non si è mai visto l’anatroccolo nascondersi dietro un cespuglio per spiare come reagirà la madre alla sua assenza), c’è il rischio che il soggetto passi in quel modo la maggior parte della vita. In realtà il gioco di questo bambino di diciotto mesi approda alla frase con cui aveva accolto la ricomparsa della madre: “Bebè o-o-o”: possiamo definirla la sua prima dichiarazione d’amore. E curiosamente è una dichiarazione conforme alla formula che dà Lacan a proposito della parola come messaggio che l’emittente riceve dal ricevente in forma invertita: poiché, senza dubbio, anche il piccolo Hans era “assente” per la madre quando lei lo era per lui. Le dichiarava il suo proprio amore, per significare il suo. Qual è dunque la portata metapsicologica di questo gioco?

2 Freud, com'è noto, ha formulato l’ipotesi che il bambino, gettando lontano tutto ciò che gli capitava sottomano, riproduceva simbolicamente la separazione dalla madre. Non che il dolore per quella separazione costituisse di per sé lo scopo del gioco; tutt’altro: il bambino riproduceva la separazione per padroneggiare il dolore che suscitava; e lo padroneggiava diventando nel gioco l’agente della separazione che nella realtà non faceva che subire. Secondo questa ipotesi avremmo a che fare non con un principio che si contrappone al principio del piacere ma con un principio che è altrettanto fondamentale, se non addirittura più fondamentale, poiché sospende l’azione del principio del piacere imponendo la ripetizione dell’esperienza penosa che il principio del piacere indurrebbe a fuggire. In questa ipotesi, la ripetizione servirebbe a padroneggiare il dispiacere, come la scarica serviva a sbarazzarsene.

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Nonostante la sua “popolarità”, questa ipotesi offre il fianco a un’obiezione che verrebbe in mente a chiunque non sia prevenuto: non si spiega come la semplice ripetizione di un’esperienza dolorosa possa dare la sicurezza che possa essere padroneggiata. Sostenere che è così perché ripetiamo attivamente quanto abbiamo subìto passivamente significa semmai che questa esperienza perverte la nostra attività. In effetti, quando Freud, lasciata da parte l’analisi di questo gioco senza optare per una conclusione definitiva, riprende ulteriormente la questione della ripetizione, le attribuisce una significazione completamente diversa, quella di una primordiale tendenza della vita verso la morte, di un ritorno all’inanimato. Ora, a nostro parere, la significazione metapsicologica del gioco inventato dal nipotino di Freud potrebbe invece formularsi come un’introduzione della morte nella vita; non ritorno della vita alla morte ma entrata inaugurale della morte nella vita. Spieghiamoci.

Quando si descrive questo gioco si dice spesso che il bambino simbolizza l’assenza della madre. Questa formula, peraltro non priva di esattezza, ha lo svantaggio di suggerire che il bambino avrebbe già còlto, prima del gioco, l’assenza della madre in quanto tale; il passo da lui compiuto nel gioco non andrebbe più in là del fatto che l’assenza trova un simbolo nel vocabolo Fort (così come la madre si trova simbolizzata, quanto a lei, nell’oggetto gettato); inoltre, a motivo della struttura binaria del significante, il Fort determinerebbe il Da, e questo darebbe luogo all’alternanza dell’apparire e dello scomparire. Se questa descrizione fosse esatta, l’assenza, conformemente al mito biblico della nominazione, sarebbe una cosa con cui il bambino dovrebbe immediatamente entrare in contatto, senza intervento del significante, pur ricevendo da questo intervento la struttura di opposizione in cui si stabilisce il legame necessario fra assenza e presenza. Ma indubbiamente è la stessa formula che usiamo per descrivere ciò di cui si tratta — una formula necessariamente costituita da elementi discreti, come tutto quello che si articola nell’ordine del significante — a indurci a ipostatizzare l’assenza sotto forma di sostantivo, e aggiungerò: allo stesso titolo della madre; un sostantivo a cui si applicherebbe,

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secundum rem, l’operazione designata con “simbolizzazione”. Così, concepiamo la scena come se si trattasse di un bambino già capace di pensare: “assenza”, di rispondere alla domanda: “Dov’è la mamma?”, con: “assente”, o con: “non c’è” — quando non si tratta che di un bambino che non va oltre l’interiezione “o-o-o”. Dal canto nostro siamo certi che il bambino, prima d’inventare questo gioco, aveva già realizzato un’appercezione dell’assenza della madre. Ma questa appercezione non consiste ancora nell’aver isolato l’assenza in quanto tale, come il campo d’altronde (d’ailleurs) dove tutto scompare o può scomparire, ma da dove tutto esce o può eventualmente uscire, poiché quel che vi scompare non è abolito. In altri termini, fino al momento d’inizio del gioco, l’assenza della madre costituiva come un buco nel campo percettivo, a cui il bambino non mancava di reagire; quel che ancora gli mancava, e che costituisce il passo compiuto nel gioco, era l’isolamento o l’astrazione di quello stesso buco come il “luogo” in cui tutto può inabissarsi: tutto, lui compreso. Un luogo dove la cosa, o l’immagine speculare della cosa, conserva una permanenza che la sottrae agli incidenti 1 dell’apparire e dello scomparire. Ecco perché questo gioco è anzitutto un gioco di Fort — e abbiamo fatto in modo di sottolinearlo. Non si tratta di una strutturazione significante dell’assenza ma dell’apertura preliminare di quel campo dell’assenza dove “essere” si dissocia da “essere percepito” diventando, semmai, sinonimo di “essere pensato”. Il bambino nel gioco non compie soltanto l’acquisizione di una particolare rappresentazione, in questo caso la rappresentazione dell’assenza (che come tale non saprebbe scindersi dalla rappresentazione della presenza), ma acquisisce quella che possiamo chiamare la rappresentazione pura o anche la rappresentazione della rappresentazione come tale. Tutto ciò che un Wallon descrive come “acquisizione della rappresentazione nel bambino” suppone l’acquisizione preliminare della rappresentazione alla seconda potenza. Ecco infatti ciò che Wallon descrive a proposito della nascita della rappresentazione nel bambino:

1

Traduciamo d’ora in poi così (piuttosto che con “caso” o “circostanza”) accident, latino accidens, da accidere, “sopravvenire”. (N.d.C.)

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“La conoscenza [ ... ] presuppone degli esseri separati e opponibili, ma innanzitutto opponibili a colui che li conosce. Per sentirli come staccati dalla propria esistenza il bambino deve poterne fare l’inventario. Gli occorrono dei nomi per fornire loro un’individualità distinta e stabile” 1.

Migliore formulazione non si potrebbe trovare per dire che è la denominazione che fa gli oggetti. Non che senza denominazione gli oggetti non esistano, ma senza denominazione non esisterebbero così come esistono, ossia in quanto oggetti. Wallon prosegue: “Ma la denominazione può corrispondere a uno stadio in cui la parola è ancora semplicemente l'eco del desiderio, della percezione o dell’azione. In questo caso essa non è altro che la formulazione delle impressioni o dei comportamenti che si succedono, ma non ha la capacità di evocarli. Il bambino può non saper far altro che mettere un nome agli oggetti di mano in mano che li percepisce e li maneggia, e limitarsi a enunciare il gesto che compie... Non si tratta ancora né di ricordo né di consegna. Si tratta soltanto di una concomitanza fra le manifestazioni orali e le sue occupazioni momentanee, attraverso cui si attua una corrispondenza sempre più precisa e sempre più familiare.”

Accettiamo in via provvisoria la descrizione, il cui aspetto più rilevante è l’interrogativo: quando nascerà la rappresentazione? Nel paragrafo successivo Wallon risponde: “Viene un giorno in cui lo strumento verbale arriva a possedere in misura sufficiente certi significati così ben differenziati da potersi unire all’immagine degli oggetti o delle azioni anche in loro assenza e da poter servire a renderla mentalmente presente. È l’età in cui la rappresentazione incomincia a esistere di per se stessa. Essa non ha più come supporto necessario una percezione concomitante ma soltanto i propri mezzi d’espressione 2.”

Secondo la descrizione di Wallon, le cose si svolgerebbero così: all’origine la denominazione sarebbe “un atto legato al momento, inscindibile dalla situazione che la impone”. È per esempio il Fort che accompagna il gesto del rigetto, “Nana” che accoglie la comparsa della governante, “acqua” che è l’appello della sete o, se si preferisce, la scarica più immediata e obbligata (il bambino infatti è incapace di compiere l’azione specifica) della sete. Tuttavia, sempre secondo Wallon, via via che vengono impiegati, i nomi finiscono per avere dei significati talmente ben

1 2

H. WALLON, Le origini del pensiero nel bambino, II, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 196. Ibid., p. 97.

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differenziati che il bambino sarà in grado di fare a meno di ogni supporto presente (actuel), per esempio, potrà parlare della governante pur facendo a meno della sua presenza reale, sarà capace di rappresentarsela, cioè di renderla presente in quanto immagine, e ormai il nome sarà legato a questa immagine dell’oggetto ben di più che all’oggetto stesso. Questa descrizione presume che la denominazione cominci come un’operazione incerta, soggetta all’errore – per esempio il bambino può dire “pane” quando invece occorre dire “burro” – e che con l’esercizio il bambino acquisisca nei confronti del significato una sicurezza che consenta la sua riproduzione e la sua denominazione in forma comunicabile e comprensibile agli altri. Ora, dopo le osservazioni di Lacan intorno al bambino che dice “miao-miao” anziché “bau-bau” o viceversa, abbiamo un’idea completamente diversa di questo tipo di errore 1. Nell’esempio di Lacan 2 si tratta di un bambino a cui i genitori si rivolgevano come se fosse un adulto, chiamando il cane “cane” e il gatto “gatto”. Sembrerebbe quindi che il bambino, dal canto suo, non tenga in questo caso in gran conto il linguaggio dei genitori; ha un modo tutto suo di forgiare il significante e magari, quando si presenta l’occasione, di prenderlo in prestito da un supporto sensibile, per esempio dall’abbaiare del cane o dal miagolio del gatto. Però deve ancora sperimentarlo come significante o farne l’esperienza in quanto tale. Ed è esattamente quel che fa quando si dedica alle sostituzioni. In altri termini, gli errori per cui il bambino dice “burro” al posto di “pane”, e così via, non sono necessariamente errori di designazione dovuti a un legame incerto tra significante e significato ma sono degli esercizi di sostituzione che mirano per l’appunto a allentare il legame che si allaccia nelle domande, così da conferire al significante la libertà rispetto al significato e, contemporaneamente, al soggetto la funzione di padrone del significante. La scarsità dei mezzi teorici a disposizione di Wallon — peraltro osservatore senza pari — lo costringe a stabilire tra nomi e immagini un legame di 1

Queste osservazioni si trovano nella seduta del 21 gennaio 1959 del seminario di J.Lacan, tuttora inedito, Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959); una traduzione per nostra cura si può trovare in J. LACAN, Il cane fa miao e il gatto fa bau-bau. La nascita della metafora nel bambino, edizione in formato PDF. (N.d.C.) 2 Sull'esempio "Il cane è un gatto" Franz Brentano ha basato la sua riflessione sulla definizione aristotelica della verità. Cfr. BRENTANO, The True and the Evident, edito da Karl Kraus, Routledge & Kegan Paul, Londra 1966, p. 16.

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subordinazione evidentemente artificioso. Senza che ci sia bisogno di criticare ancora Sartre, quando sostiene che il bambino, per poter dire una frase del tipo “Nana è cattiva” (se la governante è assente e non sta compiendo al momento nessuna cattiveria), dovrebbe riprodurre l’immagine di Nana presente: non solo il nome fa a meno di un simile supporto ma è anche ciò che rende possibile la riproduzione dell’immagine. Proprio perché i nomi attribuiscono alle cose un essere liberato dalle limitazioni dell’hic et nunc ci è permesso di riprodurne le immagini, di averne delle “rappresentazioni” nel senso stretto del termine. Giocando a “gettare via” il bambino si esercita a questa liberazione così come si esercita alla funzione di padrone del significante dedicandosi al gioco della sostituzione. Inoltre, imparando a regolare il proprio scomparire e ricomparire dinanzi allo specchio, il bambino acquista il controllo della propria immagine speculare. Si tratta dunque di un duplice affrancamento, sia dalle limitazioni imposte dallo spazio e dal tempo, sia dagli incidenti dell’apparire e dello scomparire. Ma allora, cosa diviene il vivente, la cui esistenza è incatenata a queste limitazioni e a questi incidenti? Per rispondere dobbiamo esaminare più da vicino questo duplice affrancamento o questo duplice superamento.

L'immagine del corpo proprio conferisce al soggetto, quando è ancora bambino, una trascendenza e un’obiettività in cui egli s’intenzionalizza come unità discreta, separata dagli altri oggetti che lo circondano. A quest’autonomia fittizia, si aggiunge una non meno fittizia fissità, giacché egli appare in questa immagine non solo come in sé e per sé, ma anche sottratto alle relazioni e alle azioni mobili e mutevoli che nella realtà si esercitano costantemente su di lui, nel campo in cui è realmente. A questo sdoppiamento fra l’io speculare e l’io reale corrisponde la distinzione bergsoniana fra l’io profondo, tutto in divenire, e l’io superficiale e consolidato in cui è facile riconoscere l’io che “si pone contrapponendosi” e che sarebbe più appropriato descrivere come l’io che emerge fatta astrazione da ciò che io sono, io che è questa stessa astrazione. Insomma, l’immagine del corpo proprio immortala il

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soggetto. E l’amore che lega il soggetto a questa immagine, che s’interpone in tutte le sue relazioni con gli altri e con il campo speculare, è essenzialmente amore dell’eternità, della propria eternità. Secondo Platone il tempo sarebbe “l’immagine dell’eternità”. A dire il vero, l’eternità è l’immagine (eidos) in quanto tale. Fatto sta che il bambino, che ha “imparato”, se così possiamo dire, a riconoscersi nella propria immagine speculare, all’inizio dispone soltanto di un’immagine, soggetta a comparire e a scomparire, che ancora non controlla – ed è proprio questa l’unica “padronanza” che si tratta di acquisire nel gioco del Fort. Con questo intendiamo dire che la presenza reale dell’immagine speculare è, all’inizio, necessaria per avviare il movimento d’intenzionalizzazione che si deduce dal fatto di questa presenza stessa; e che il bambino non impara tutt’a un tratto a fare a meno del riferimento alla presenza “reale”: questo è il passo che gli consentirà di compiere il gioco. Ora, è soltanto nel significante, nucleo verbale, che l’immagine, come nucleo dell’io nell’ordine del visibile, può conservare la presenza di una traccia al di là della sua scomparsa, oppure della sua assenza allo sguardo. In altri termini, solo il significante permette la trasformazione dello speculare in un campo del visibile, dove il non visto o perfino l’invisibile avranno diritto di cittadinanza 1. Il gioco osservato da Freud culmina quindi in un messaggio in cui il bambino appare come soggetto; un messaggio che egli rivolge a una madre diventata, di pari passo, il significante del suo essere amato. Con questa nuova oggettivazione nell’ordine del linguaggio, che ingloba quella che si fonda sull’immagine speculare rimaneggiandone profondamente la struttura, si compie il radicamento del soggetto nell’ordine dell’essere. La “pompa funebre”, come la chiama Ruggero Bacone, sarà come la testimonianza che un giorno egli è esistito; se è vero che vale di più un cane vivo che un re morto. Ciò che abbiamo chiamato l’introduzione della morte nella vita, non è nient’altro che l’effetto principale della presa del soggetto nel costituente della catena significante. Solo l’uomo che “abita il linguaggio” costruisce quella specie di dimora che chiamiamo sepolcro. 1

Al punto che lo specchio diviene lo strumento da ingannare o da provocare dell’invisibile. Cfr. J. Baltrušaitis, Le miroir: révélations, science-fiction et fallacies, Seuil, Paris 1979; tr. it. di C. Pizzorusso, Lo specchio: rivelazioni, inganni e science-fiction, Adelphi, Milano 1981.

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In quanto passione dell’essere il narcisismo è senza dubbio passione di morte. Ogni amore comporta un augurio di morte (troppo presto realizzato nel caso del nipotino di Freud); augurio che possiamo in effetti descrivere in modo immaginoso come voto di ritorno all’inanimato che il soggetto era come significante prima di nascere. Si tratta, sì, di un rifiuto della vita (rifiuto del resto abbastanza bene indicato nel mito di Narciso), ma più precisamente della vita in quanto apparirebbe, rispetto alla passione narcisistica, come un’intrusione nella calma della pura sussistenza. Come a dire che la pulsione di morte è tanto più virulenta quanto più la morte sfugge al soggetto come ciò che costituisce il senso della vita 1, così come gli sfugge che, almeno in questo caso, non c’è motivo di cercare il significato del significato. Comunque il narcisismo, come passione dell’essere in cui riconosciamo il fondamento della pulsione di morte, pur costituendo una componente forse ineliminabile della sessualità umana, non comprende tutta la libido nel suo complesso, salvo in costellazioni particolari del destino che equivalgono a un isolamento quasi sperimentale di questa componente. Tranne questo estremo, nell’esperienza psicoanalitica il funzionamento del narcisismo risulta essere un funzionamento strutturalmente limitato, nel senso che il soggetto si reputa degno di essere amato nella misura in cui realizza, nel suo essere, cioè nel significante, qualcosa che difetta nella sua immagine, e questo implica che la sua immagine non gli appare tale da realizzare la perfezione. Ci riferiamo qui alla funzione di – f 2, come il punto da cui si origina una mancanza a essere che viene avvertita dal soggetto come insufficienza, “ferita” o 1

Non occorre leggere L'Amour vraiment conjugal di Swedenborg per constatare che la credenza degli amanti nella predestinazione e nella sopravvivenza è un luogo comune. Ciò non toglie che il fatto di non credere alla sopravvivenza possa a volte rivelarsi indizio di follia, come dimostrerebbe una certa osservazione della schizofrenia. 2 Da leggersi: “meno phi”; “phi” minuscolo è la lettera greca con cui Lacan designa il fallo (phallus) immaginario, per mezzo di cui il soggetto cerca di colmare la mancanza a essere operata dalla castrazione simbolica (uno degli effetti, se non quello fondamentale, di ciò che in questo testo Safouan chiama “la presa del soggetto nel costituente della catena significante”). Un soggetto a cui il seno “piatto” di una donna procura un calo immediato del desiderio, o un altro che lo sente aumentare solo se una donna ha i capezzoli erettili (riportiamo esempi forniti dallo stesso Safouan in

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addirittura difetto. Come polo d’interrogazione “amletica” dell’essere, il fallo simbolico (del quale la funzione di – f non è che la risonanza immaginaria) è un significante il cui “messaggio” o la significazione compiuta non è che “Dio è morto” ma che non c’è Dio che io possa essere. Funzione che è dunque tale da incontrarvi la pulsione di morte, ma deviata nel senso di un voto di non-essere, salvo essere il fallo. In altri termini, si tratta di un rifiuto della castrazione che conferisce al rifiuto della vita non so quale accento di maledizione. Si pensi al testamento del marchese di Sade e in particolare a queste righe: “La fossa una volta ricoperta, sarà cosparsa di semi di ghiande, affinché ben presto, il terreno di nuovo adorno di cespugli e il bosco folto come prima, le tracce della mia tomba spariscano dalla faccia della terra, come auspico che la mia memoria si cancellerà dalla mente degli uomini...”

La stessa pulsione si manifesta anche in un'altra forma, quella secondo cui la morte si presenta come condizione del godimento; il “senso” più frequentemente attribuito alla morte è proprio quello del godimento considerato sia come ritorno alla “terra madre” sia come unione con Dio. Queste due forme della deviazione che riceve pertanto la pulsione di morte, a motivo di quello che abbiamo chiamato il condizionamento fallico del narcisismo, indicano sufficientemente come, da un certo punto di vista, la significazione fallica equivale a mettere in gioco nello psichismo un godimento che, spingendosi ben al di là del piacere, ci rende nemici della vita; o perché la mancanza del godimento rende l’esistenza vana, o perché il cammino che vi conduce è la morte. Questa prospettiva, in cui a nostro parere Eros e Thanatos — che per Freud sono contrapposti —

si equivalgono, non comporta la negazione della comune

altri testi), sono casi molto comuni degli effetti suscitati (qui nel desiderio maschile) dalla presenza o dall’assenza di f nell’oggetto sessuale; esempi in cui rinveniamo, sempre con le parole di Safouan, il “condizionamento fallico del narcisismo”, mediante cui il soggetto coltiva il miraggio di rispecchiarsi in un’immagine del corpo proprio priva di difetti. Inversamente, in una nota a piè di pagina aggiunta per l’edizione italiana del presente testo, l’autore precisa il significato del segno – (meno) davanti a f: “Con - f intendiamo anzitutto il fatto che l'immagine del corpo proprio non appaia come una totalità oppure appaia segnata da un difetto”. (N.d.C.)

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definizione dell’amore — in quanto l’amore tende all'unione —, ma conferisce soltanto a quest’unione un senso ironico.

3 […] 1

*** È giunto il momento di dare uno sguardo retrospettivo al percorso di questo capitolo, e di vedere dove ci stiamo dirigendo. Il gioco del piccolo Hans ci permesso di osservare il momento in cui — per impiegare la terminologia aristotelica — nel soggetto si attualizza il potere di numerare il numerabile che è il movimento o il passaggio della cosa 2. Questo momento, che è anche quello dell'integrazione soggettiva della rappresentazione, è difficilmente concepibile senza il significante, né altrove che in un soggetto, nell'unico senso che attribuiamo a questo termine, quello di soggetto che parla. I profondi rimaneggiamenti che questo momento determina nella relazione narcisistica — relazione, ricordiamolo, mediata dall'Altro fin dalla sua genesi — consistono nel fatto che essa viene reperita all’inizio come una cattura istantanea, puntuale o meglio puntiforme, per mezzo di un'immagine in cui l'io si fonda separandosi dalla propria esistenza o dalla propria realtà di vivente; separazione che egli nondimeno vive come una sé-partizione (sépartition), un'automutilazione (auto-morsure), in quanto è anche una separazione da se stesso. I rimaneggiamenti a cui abbiamo accennato si riassumono nel fatto che l'immagine del corpo proprio — immagine che monopolizza tutto l’investimento libidico, col rischio di far precipitare a zero il livello di quella che Bergson chiama “l’attenzione 1

Viene omesso il § 3 sulla teoria dell’amore di Dio in Spinoza (pp. 83 – 90 del’edizione francese; pp. 80 – 87 della trad. it.; si veda tuttavia il riassunto che ne dà l’autore a conclusione di questo testo). (N.d.C.) 2 Cfr. J.M. DUBOIS, Le Temps et l’Instant selon Aristote, Desclée & Brouwer, Paris 1967, pp. 106 - 107.

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alla vita”, e in cui cadono nell’oblio, o rischiano di cadere nell’oblio, tutti gli interessi dell’esistenza, fino alla mia stessa esistenza di vivente — questa immagine, dicevamo, acquista una permanenza che la pone al di sopra degli incidenti 1 dell’apparire e dello scomparire o della loro alternanza. L’io che appare allo specchio non è soltanto me stesso; è anche il medesimo che è apparso un istante prima e che ha continuato a sussistere fra le due apparizioni. Questa sussistenza fra le due apparizioni non significa che l’io abbia conquistato una certa indipendenza rispetto al suo statuto immaginario; significa solamente che grazie al significante (Bebé in “Bebé oo-o-o!”), l’immagine che lo costituisce ha acquisito una sostanzialità che la lascia in preda, come supporto, a tutti gli attributi e a tutti i fantasmi — in particolare a quello che la tramuta in un io permanente — rivestendola d’invisibilità. Fin qui si può dire che l’esame del gioco ci ha consentito di dare una descrizione completa del narcisismo come passione dell’essere, passione di cui l’altra faccia è l’oblio della vita, se non addirittura la sua preclusione (forclusion), nel significato rigoroso di questo termine, secondo cui ciò che è precluso (forclos) è trattato come annullato e non avvenuto. È nel fiume di questo oblio di principio (principiel), di questo oblio anteriore all’esistenza stessa di ciò che è dimenticato, che il soggetto vede riflessa la propria immagine — ed è proprio questo che ci ha permesso di considerare il narcisismo come pulsione di morte. Ora, lasciando da parte il gioco, abbiamo osservato che incontriamo più frequentemente il narcisismo nelle nevrosi, in quanto si trova sottomesso a un condizionamento fallico che lo modula doppiamente. Se da un lato la vita non è preclusa (forclose), non per questo è meno rifiutata, salvo a essere il fallo — il che dà alla passione dell’essere l’accento di

2

. Dall’altro lato, poiché in essa la

castrazione si occulta e contemporaneamente si significa, la morte viene a presentarsi come condizione del godimento, e a essere augurata come tale. Infine, dato che all’amore è comunemente attribuito il potere di unire, che costituisce secondo alcuni addirittura la sua definizione, abbiamo osservato, 1

Cfr. la nota 14 . (N.d.C.) Il mé phúnai, “piuttosto non essere”, è l’estrema maledizione, la volontà di annientamento radicale, la vendetta assoluta sulla vita, cui si spinge l’eroe tragico nell’Edipo a Colono di Sofocle. Lacan vi dedica le pagine finali del suo seminario su L’etica della psicoanalisi, cit. (N.d.C.) 2

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basandoci sulla teoria dell’amore intellettuale di Dio in Spinoza, che il luogo dell’unione è il discorso stesso dell’amante — per questo, aggiungiamolo adesso, al di fuori di questo discorso, nella realtà sociale, la relazione d’amore prende appunto i modi di una tecnica dell’interruzione o della separazione —, ed è appunto questo aspetto che viene a essere codificato, formalizzato, nell’amore cortese. Non è perché “i beni di questo mondo” sono contraddistinti dalla finitudine che ci mettiamo alla ricerca di un godimento senza interruzione, come se l’immagina la coscienza, che dovrebbe piuttosto domandarsi perché il finito non sarebbe il vero; al contrario, è perché è vero che l’essenza dell’amore è, non diremo unione, ma fantasma di unione, che la sua realtà (e avremmo qui potuto ugualmente dire: la sua verità) non può consistere che nel dimostrare ciò che in questa essenza fa difetto.

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Appendice OGGETTO TRANSIZIONALE. 1 D. : Übergangsobjekt. — En. : transitional object. — Es. : objeto transicional. — Fr. : objet transitional. — P. : objeto transicional • Termine introdotto da D.W. Winnicott per designare un oggetto materiale che ha un valore elettivo per il lattante e il bambino, specie al momento di addormentarsi (per esempio un lembo della coperta, un tovagliolo che egli succhia). Il ricorso a oggetti di questo tipo, secondo l’autore, è un fenomeno normale che consente al bambino di effettuare la transizione tra la prima relazione orale con la madre e la « vera relazione oggettuale ».  L’essenziale delle idee di Winnicott sull’oggetto transizionale è esposto in un articolo intitolato Oggetti transizionali e fenomeni transizionali (Transitional Objects and Transitional Phenomena, 1953). 1) Sul piano della descrizione clinica, l’autore pone in evidenza un comportamento osservato spesso nel bambino e lo designa come relazione con l’oggetto transizionale. Si vede di frequente il bambino, tra i quattro e i dodici mesi affezionarsi a un oggetto particolare quale un pompon di lana, il lembo di una coperta o di un piumino, ecc., che egli succhia, stringe a sé, e che si rivela particolarmente indispensabile al momento in cui deve addormentarsi. Questo « oggetto transizionale » conserva a lungo il suo valore prima di perderlo gradualmente; esso può anche riapparire più tardi, specie all’avvicinarsi di una fase di depressione. Winnicott fa rientrare nello stesso gruppo taluni gesti e varie attività boccali (mormorii, per esempio) che egli chiama « fenomeni transizionali ». 2) Sul piano genetico, l’oggetto transizionale si colloca « tra il pollice e l’orso di peluche» (1 a). Infatti, sebbene si distingua dal futuro giocattolo in quanto costituisce «una parte quasi inseparabile del bambino » (1 b), esso è anche il primo «possesso di qualcosa che non è l’Io » (not-me possession).

1

Voce tratta dall’Enciclopedia della psicanalisi, a cura di Jean Laplanche e J. – B. Pontalis, 2 voll., Laterza, Bari 1974. vol 1: ISBN 9788842042587; vol 2: ISBN 9788842042594.

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Dal punto di vista libidico, l’attività rimane di tipo orale. Ciò che cambia è lo status dell’oggetto. Nella primissima attività orale (relazione con il seno), esiste ciò che Winnicott chiama una « creatività primaria »: « Questo seno è costantemente ricreato dal bambino mediante la sua capacità di amare o, si potrebbe dire, mediante il suo bisogno [ ... ]. La madre pone il seno reale nel posto stesso in cui il bambino è pronto a crearlo e al momento giusto» (1 c). Successivamente, funzionerà l’esame di realtà. Tra questi due tempi si situa la relazione con l’oggetto transizionale, che è a metà strada tra il soggettivo e l’oggettivo: « Dal nostro punto di vista, l’oggetto viene dall’esterno: ma il bambino non lo concepisce così. Esso non viene neppure dall’interno: non è un’allucinazione» (1 d). 3) L’oggetto transizionale, pur costituendo un momento di passaggio verso la percezione di un oggetto nettamente differenziato dal soggetto e verso una « relazione oggettuale », non perde per questo la sua funzione nello sviluppo successivo dell’individuo. « L’oggetto transizionale e il fenomeno transizionale apportano a ogni essere umano, fin dall’inizio, qualcosa che resterà sempre importante per lui, cioè un campo neutro di esperienza che non verrà contestato » (1 e). Essi appartengono, secondo Winnicott, al campo dell’illusione: « Questo campo intermedio d’esperienza, di cui egli non deve giustificare l’appartenenza né alla realtà interna, né alla realtà esterna (e condivisa), costituisce la parte più importante dell’esperienza del bambino. Esso si prolungherà, per tutta la sua vita, nell’esperienza intensa che appartiene al campo delle arti, della religione, della vita immaginativa, della creazione scientifica » (1 f). (1) WINNICOTT (D.W.). Ingl. in « I.J.P. », vol. XXIV, 2; Fr., in La Psychanalyse, vol. V, P.U.F., Parigi, 1959.—a) Ingl., 89; Fr., 22. — a) Ingl., 92; Fr., 30. — c) Ingl., 95; Fr., 36. — d) Ingl., 91; Fr., 27. — e) Ingl., 95; Fr., 37-8. — f) Ingl., 97; Fr., 41.

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