La civilt di Golasecca

May 21, 2018 | Author: Anonymous | Category: Storia, Storia antica
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RAFFAELE C. DE MARINIS,

Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università degli Studi di

Milano

La civiltà di Golasecca : i più antichi Celti d’Italia Dattiloscritto a diffusione ristretta, a uso esclusivo degli studenti che devono sostenere l’esame di Paletnologia. Vietata qualunque forma di diffusione e di riproduzione. © RAFFAELE C. DE MARINIS 2007

Due secoli di scoperte : i primi protagonisti delle ricerche Le necropoli dell’VIII - VI secolo a.C. poste lungo entrambe le rive del Ticino subito all’uscita dal lago Maggiore, in particolare quelle lungo la sponda lombarda in comune di Golasecca, hanno dato il nome alla civiltà della prima età del Ferro di un ampio territorio comprendente Lombardia occidentale, Piemonte orientale, Canton Ticino e Val Mesolcina. Le ragioni di questa scelta dipendono dal fatto che a Golasecca si sono verificate le prime scoperte, inoltre l’area di Golasecca-Sesto Calende-Castelletto Ticino è risultata essere una delle più estese e importanti concentrazioni di ritrovamenti riferibili a questa civiltà. Poche culture archeologiche possono vantare un periodo così lungo di rinvenimenti e di studi come quella di Golasecca. Abbiamo notizia che fin dal Settecento sulle colline moreniche immediatamente a nord del paese di Golasecca si verificavano scoperte di tombe a cremazione con urne fittili contenenti ossa combuste e oggetti di bronzo in occasione di lavori agricoli o a seguito dello sradicamento di alberi. Su queste scoperte erano diffuse varie credenze (Giani 1824). La gente del luogo pensava che fossero tesori appartenuti a persone condannate all’inferno che il diavolo aveva tramutato in ceneri e carboni, oppure che si trattasse di vasi contenenti gli impiastri con cui si ungevano le persone colpite da gravi malattie contagiose come la peste. In conseguenza di queste credenze i materiali occasionalmente portati alla luce venivano ridotti in frantumi e dispersi. Non mancava, tuttavia, la voce di qualcuno che affermava che quelle potevano essere le tombe dei propri antenati. A partire probabilmente dagli anni 1815-1820 l’abate Giovan Battista Giani, nato a Golasecca nel 1788, ordinato presbitero nel 1812, cultore di studi classici e dal 1821 professore di “umanità” (cioè greco e latino) all’Imperial Regio Ginnasio di S. Alessandro in Milano, si appassionò alla ricerca delle tombe nel territorio di Golasecca. Scavò personalmente oltre 50 tombe alle Corneliane, al Galliasco, al Monsorino e a Malvai, compiendo accurate osservazioni sulla loro struttura e sui materiali in esse contenuti. Conservò con cura tutto quanto scopriva o riusciva a ottenere dagli occasionali ritrovamenti, formando una grande collezione di antichità. L’abate Giani era convinto di aver trovato il luogo in cui si era svolta la battaglia del 218 a.C. tra Annibale e Publio Cornelio Scipione, in genere localizzata dagli storici più a sud, verso 1

Pavia, ed espose la sua teoria in un volume stampato a Milano nel 1824 per i tipi dell’Imperial Regia Stamperia dal lungo titolo : Battaglia del Ticino tra Annibale e Scipione ossia scoperta del campo di P.C. Scipione, delle vestigia del ponte sul Ticino, del sito della battaglia e delle tombe de’ Romani e de’ Galli in essa periti. In questo volume venivano per la prima volta illustrate le antichità di Golasecca, con un’accurata descrizione delle scoperte compiute dal Giani e una serie di tavole riproducenti le urne, le ciotole, i bicchieri, i boccali, le coppe, le fibule, i fermagli da cintura in lamina bronzea, gli oggetti di ornamento ritrovati nelle tombe. A quell’epoca l’archeologia come disciplina scientifica non era ancora nata né il Giani poteva essere al corrente dei primi tentativi di periodizzazione generale del passato preistorico che in quegli anni erano portati avanti da Ch. J. Thomsen, direttore del museo delle antichità nordiche di Copenaghen ed autore della suddivisione della preistoria in età della Pietra, del Bronzo e del Ferro, esposta per iscritto per la prima volta soltanto nel 1836. E’ quindi comprensibile che il Giani, in assenza di punti di riferimento cronologici, non fosse in grado di comprendere a quale epoca risalissero effettivamente le tombe scoperte a Golasecca. E’ giusto, tuttavia, riconoscere che egli comprese il carattere di civiltà locale dei materiali portati alla luce, quando scrisse che per le urne destinate a contenere le ceneri dei caduti nella battaglia del 218 a.C. si dovette ricorrere alla ceramica della locale popolazione gallica. Il Giani morì nel 1857. Grazie alla sua opera le antichità di Golasecca erano diventate famose e se ne interessarono altri studiosi, antiquari come il Labus, glottologi e numismatici come B. Biondelli, geologi come B. Gastaldi. Nel 1852 l’antiquario Giovanni Labus fece degli scavi a Golasecca e recuperò i materiali di una o più tombe, che furono consegnati al Museo Patrio di Brera (MPA 1436-1446). Da queste scoperte prese lo spunto Bernardino Biondelli (Verona 1804 - Milano 1886), filologo e antiquario, allievo di G.I. Ascoli, collaboratore del Politecnico di C. Cattaneo e studioso di linguistica comparata e dialettologia1 e professore di numismatica e archeologia a Brera. Il Biondelli basandosi su argomenti di carattere toponomastico e linguistico, sosteneva che le antichità di Golasecca fossero da attribuire ai Galli e che quindi fossero monumenti celtici2. Mentre il Giani avendo trovato il maggior numero di tombe sulla collina detta Le Corneliane, riteneva che il nome tramandasse il ricordo di Publio Cornelio Scipione, il Biondelli pensava che il nome della collina su cui era stata scoperta una vera e propria necropoli fosse da ricollegare al gaelico carnell e al celtico cornelia, significante appunto cimitero. Quindi le Corneliane erano un antico cimitero celtico. Inoltre, i circoli di pietre erano secondo il Biondelli dei monumenti celtici, trattandosi di cromlech. Le scoperte del 1852 avvenute nel fondo detto la Brusada e nel vicino Galliasco sono ricordate anche da Cesare Cantù3. Nel 1862 Bartolomeo Gastaldi (1818-1879) nella sua opera Nuovi cenni sugli oggetti di alta antichità, opera con cui si può dire che abbia inizio la scienza preistorica e protostorica italiana, accenna 1 2

Del Biondelli è l’opera Sullo svolgimento delle lingue indoeuropee, Milano 1841. B. Biondelli, Antichi monumenti celtici in Lombardia, in Il Crepuscolo, n. 37, 12 settembre 1852, 16 pp. 2

brevemente alla scoperta di tombe a cremazione sulle colline tra Mercurago e Borgo Ticino e scrive che sembra che appartengano all’età del Bronzo4. Il Gastaldi cita la scoperta “a piccola profondità” di vasi contenenti ossa carbonizzate e qualche volta oggetti in bronzo nel corso dei lavori di dissodamento dei boschi nella regione denominata Pennino, una collina morenica che “dalle alture di Mercurago si estende sino a Borgo Ticino”. La datazione all’età del Bronzo è forse suggerita al Gastaldi dall’aver egli notato una certa somiglianza tra l’impasto di questi vasi, di colore nero o rossastro e ricco di granelli di quarzo, e le ceramiche di impasto delle cd. “marniere”, cioè delle terramare. Il Gastaldi ebbe in dono dal prof. Moro di Arona una fibula di bronzo e un fermaglio da cintura in lamina bronzea, ritrovati entrambi in un’urna cineraria. Inoltre, il sacerdote Ambrogio Radice, prevosto di Sesto Calende, donò al Gastaldi alcune ceramiche ritrovate nelle località S.Anna e I Groppetti di Sesto Calende, ceramiche che furono raffigurate in scala 1:4 nell’opera del Gastaldi : si tratta di un’urna biconica decorata a denti di lupo incisi, di due frammenti pertinenti ad altre due urne biconiche decorate a denti di lupo incisi, di un bicchiere a corpo globoso con orlo esoverso e profilo a S, e di una tazzina a corpo globoso, tutti materiali databili alla fase Golasecca I C ed ora conservati al museo nazionale di Antichità di Torino. Il Gastaldi non mancò di rilevare che questi vasi erano identici a quelli raffigurati dal Giani. Per le ceramiche di Sesto Calende propose una datazione all’età del Bronzo o ai primi tempi dell’età del Ferro. Infine, il geologo torinese riporta la notizia appresa da alcuni lavoratori che anni prima “si rinvennero in un sol gruppo 18 di tali vasi e che ogni vaso era sostenuto e ricoperto da una lastra di pietra”. Verso la metà del secolo e negli anni ’50 e ’60 la nascente archeologia preistorica fece grandi progressi e si cominciò a delineare una periodizzazione sempre più articolata delle età preistoriche. Nell’età del Ferro dell’Europa centrale si riconobbero una prima età caratterizzata dalla civiltà di Hallstatt e una seconda età caratterizzata dalla civiltà di La Tène. L’interesse per le tombe di Golasecca andò quindi aumentando e si formarono nuove importanti collezioni (G. Dalla Rosa di Parma, Carlo Ermes Visconti di S.Vito a Somma Lombarda, avv. Galli a Somma, ing. A. Villa di Greco Milanese, poi lasciata in eredità al principe Borromeo, del quale era l’amministratore, Quaglia a Varese, A. Garovaglio a Como). Sull’epoca e i modi in cui si sono formate queste collezioni sappiamo molto poco. Le collezioni Dalla Rosa, Galli e Visconti sono state visitate dal de Mortillet nel 1865, quindi a quell’epoca esistevano già. Verso la metà degli anni ’60 si interessò alle antichità di Golasecca il grande paletnologo francese Gabriel de Mortillet. G. de Mortillet (1821-1898), uno dei fondatori della paletnologia francese ed europea e destinato a diventare un personaggio molto influente, aveva studiato in un collegio di gesuiti a Chambéry, fatto che probabilmente è all’origine del suo acceso anticlericalismo. Avendo partecipato alla rivoluzione del 1848 e pubblicato un’opera sulla ghigliottina, stampata a caratteri rossi, giudicò prudente lasciare la Francia quando salì al potere Napoleone III. Lavorò in Piemonte come ingegnere e poi in Savoia come 3

C. Cantù, Grande Illustrazione del Lombardo-Veneto, I, Milano 1857, p. 605.

3

conservatore del museo di Annecy. Dopo la cessione della Savoia alla Francia e approfittando di una politica di maggiore apertura sociale da parte di napoleone III, de Mortillet tornò a Parigi e iniziò a lavorare alla creazione del Musée des Antiquitées Nationales di St. Germain-en-Laye, istituito dall’imperatore nel 1863. Nel 1864 fonda la rivista Matériaux pour l’histoire positive et philosophique de l’homme, nel 1865 fonda i Congrès internationaux d’archéologie et anthropologie préhistorique, che si riunirà per la prima volta a Parigi. G. de Mortillet applicò alla preistoria i metodi della geologia, utilizzò il concetto di tipo come equivalente del fossile-guida, pubblicò opere di carattere generale sulla preistoria come Musée préhistorique nel 1881 e Le Préhistorique nel 1883, che saranno più volte ristampati per qualche decennio. Opera del de Mortillet è la sequenza cronologica fondamentale del Paleolitico europeo articolato in Chelleano - Acheuleano - Musteriano - Solutreano - Maddaleniano. Nel 1864 o 1865 G. de Mortillet viene in Italia per studiare le antichità di Golasecca. Visitò, innanzitutto, i luoghi delle scoperte, scavò personalmente una tomba, acquistò una tomba scoperta poco prima allo sbocco del tunnel ferroviario nei pressi di Sesto Calende, rilevò la planimetria di alcuni cromlech del Monsorino e del Bettolino di Vergiate, ricevette qualche ceramica in dono dal Visconti e dal Dalla Rosa, visitò la collezione del curato di Sesto Calende, mentre cercò invano di visitare la collezione Giani presso il banchiere e collezionista d’armi Uboldi di Villareggio. Acquistò a Milano più di una sessantina di oggetti di Golasecca da Michele Giani, nipote dell’abate, per il Museo di Antichità Nazionali di St. Germain-en-Laye (nn. 17173-17235). Il de Mortillet pubblicò le sue osservazioni sulle tombe di Golasecca dapprima in due articoli e poi in un libro dedicato al motivo della croce prima del Cristianesimo5. Nei suoi lavori il de Mortillet criticò le opinioni del Giani e del Biondelli e fu il primo ad inquadrare correttamente le tombe di Golasecca, affermando decisamente che esse risalivano alla prima età del Ferro, al pari delle antichità di Villanova. Importante e straordinariamente moderna è la sua presa di posizione metodologica : bisogna fare dell’archeologia pura, studiare le tombe tenendo conto solo dei fatti osservati, illuminare i testi antichi partendo dall’archeologia e non viceversa. Dopo aver descritto i tipi di tombe e la loro distribuzione nella zona, le caratteristiche tecniche della ceramica e dei corredi funerari di Golasecca, il de Mortillet per rispondere alla domanda “a quale epoca risalgono?” parte da due constatazioni : 1. le tombe contengono oggetti di ferro; 2. Le tombe non contengono oggetti romani. Di conseguenza risalgono all’età del Ferro e più precisamente alla prima età del Ferro. Nel 1867 vi fu l’importante scoperta della prima tomba di guerriero di Sesto Calende, in località La Castiona, prontamente pubblicata da B. Biondelli, che attribuiva le antichità di Golasecca ai Galli6. Dopo 4

B. Gastaldi, Nuovi cenni sugli oggetti di alta antichità trovati nelle torbiere e nelle marniere dell’Italia, Torino 1862, pp. 74-75 e tav. II, nn. 23-25, 27-28. 5 G. de Mortillet, Sépultures anciennes du plateau de Somma (Lombardie), in Revue archéologique, 1865, pp. 453-468, 1866, pp. 50-58; Id., Le signe de la Croix avant le Christianisme, Paris, 1866, 182 pp. 6 B. Biondelli, Di una tomba gallo-italica scoperta a Sesto Calende sul Ticino, Memorie del reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Classe di Lettere e Scienze Morali e Politiche, vol. X, Milano 1867. 4

aver fornito tutte le indicazioni sulle circostanze della scoperta, descritto i materiali del corredo e sottolineato la massima importanza della scoperta, B. Biondelli cerca di stabilire l’epoca approssimativa a cui risale la tomba e “la nazionalità dell’individuo al quale la tomba appartenne”. Per quanto riguarda l’epoca, basandosi su tutta una serie di considerazioni (gli oggetti non hanno nessuna relazione con “l’arte romana”, gli oggetti di bronzo e di ferro sono molto elaborati e rivelano un “perfetto magistero”, il disegno delle figure della situla di bronzo è ancora “primitivo e barbaro”, gli oggetti di bronzo e di ferro si sono conservati e non possono quindi risalire a un’antichità remotissima) il Biondelli concluse che fra tre possibilità - epoca pre-gallica, circa 1000 a.C., epoca etrusca della Padania, ca. 500 a.C., ed epoca delle lotte tra Insubri e Romani circa 200 a.C. - l’ultima era quella giusta. La tomba doveva essere certamente anteriore al dominio romano sulla regione, ma non poteva risalire all’epoca etrusca poichè la ceramica degli Etruschi era diversa da quella ritrovata nella tomba e le figure della situla non possono essere etrusche per il loro stile “primitivo”, mentre mostrano qualche somiglianza con le raffigurazioni delle monete celtiche. Per quanto riguarda la nazionalità, il Biondelli pensava che la tomba fosse quella di un guerriero insubre caduto a difesa della indipendenza nazionale combattendo contro le legioni romane agli inizi del II secolo a.C. Una ulteriore serie di osservazioni e riflessioni portava il Biondelli a trovare identità con le ceramiche di Golasecca e dell’opposta sponda del Ticino e molte affinità con le antichità di Villanova, di Vadena e di Matrei, sostenendo quindi la celticità anche di queste necropoli. Per i Galli dell’Italia settentrionale il Biondelli coniò l’espressione di Gallo-italici. A partire dal 1872 si dedicò agli scavi nell’area delle necropoli di Golasecca e Castelletto Ticino Pompeo Castelfranco (Parigi 1843 - Milano 1921), destinato a diventare il maggiore studioso di Preistoria e Protostoria della Lombardia nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il Castelfrancò scavò nel 1873 i resti di abitazioni al Molinaccio e nel 1874 ai Merlotitt, negli anni 1874-1876 scavò numerose tombe a Golasecca e a Castelletto Ticino, in parte per sé, in parte per incarico ministeriale per rifornire di antichità di Golasecca il museo nazionale preistorico di Roma. Una serie di tombe furono scavate per il museo patrio di Reggio Emilia dietro richiesta di G. Chierici. Altre tombe furono inviate ai musei di Modena e di Parma. Nel 1874 il Castelfranco presentò una comunicazione sulla necropoli di Golasecca al congresso internazionale di Antropologia e Archeologia Preistorica di Stoccolma. Con la memoria Due periodi della prima età del Ferro nella necropoli di Golasecca, pubblicata nel 1876 sul Bullettino di Paletnologia Italiana, ancor oggi perfettamente leggibile e sostanzialmente valida, il Castelfranco riconobbe l’esistenza di due periodi, definiti Golasecca I e Golasecca II nell’ambito delle numerose tombe scoperte nelle necropoli di Golasecca, Sesto Calende e Castelletto Ticino. (contenuto del lavoro) Il Castelfranco aveva perfettamente compreso il valore dei tipi e delle associazioni dei tipi in un medesimo corredo funerario come base per la costruzione della cronologia relativa, dimostrandosi 5

metodologicamente all’avanguardia e precursore del metodo tipologico del Montelius. Le sue osservazioni sono sempre molto precise e bisogna solo rammaricarsi che non siano state accompagnate da una documentazione iconografica più ampia. Sappiamo che aveva in animo di scrivere un libro sulla cultura di Golasecca, che avrebbe dovuto essere pubblicato tramite il Pigorini, ma il progetto non riuscì mai ad andare in porto. Il Castelfranco, inoltre, riconobbe che anche i materiali che in quegli anni si cominciavano a scoprire nei dintorni di Como e a pubblicare regolarmente sulla Rivista archeologica della provincia di Como appartenevano alla cultura di Golasecca, al pari di altre scoperte effettuate nel Varesotto e in provincia di Bergamo. In seguito il nostro autore identificò un terzo periodo della cultura di Golasecca, non rappresentato nella necropoli eponima, ma ben documentato dalle scoperte effettuate nel Lodigiano e nei dintorni di Como, in particolare a Civiglio e a Rondineto, e che venne denominato periodo lodigiano o Golasecca III7. Il Castelfranco ritenne questo periodo contemporaneo delle necropoli Certosa di Bologna, del terzo periodo di Este e dei pozzi di Campo Servirola a S. Polo d’Enza e concluse, dopo attenta disamina dei materiali del Guado di Gugnano, della Mazzucca di Montanaso e di Miradolo, che il gruppo lodigiano era espressione di una civiltà omogenea, identica a quella venuta alla luce nel villaggio di Rondineto e nella necropoli di Civiglio nei dintorni di Como, caratterizzata da vasi modellati al tornio, decorati talora a stampiglia, da grandi fibule a sanguisuga e da fibule Certosa, da anelli a globetti, dall’apparire della scrittura in caratteri nord-etruschi. Secondo il Castelfranco, il periodo lodigiano costituiva uno sviluppo del secondo periodo di Golasecca e che nella necropoli stessa di Golasecca era estremamente raro, tanto da non averlo inizialmente riconosciuto. Soltanto pochissimi materiali attribuibili a questo terzo periodo si conoscevano a Golasecca e per di più ormai senza contesto. Il Golasecca III era espressione, secondo il Castelfranco, di un popolo, i Liguri, che mantenne relazioni con gli Etruschi e che poi ebbe a contendere con i Galli invasori. Quando furono scoperti alcuni bronzi di tipo Golasecca III in tombe a cremazione nel cortile di S. Antonino a Milano, il Castelfranco manifestò la convinzione che Milano fosse già abitata dai Liguri della pianura anteriormente all’invasione gallica8. Più tardi, illustrando il vademecum da toilette in argento e oro da Rebbio9, ritornò sull’argomento del Golasecca III, ribadendo che i materiali del terzo periodo dal Comasco al Lodigiano avevano un’impronta così propria da non poterli confondere con altri rinvenuti al di fuori della Lombardia e che le popolazioni della Lombardia occidentale nel periodo che precedette immediatamente le invasioni galliche avevano raggiunto una loro civiltà inconfondibile e raffinata. Negli anni tra il 1870 e il 1890, essendosi accresciuto l’interesse per le antichità di Golasecca, molte persone scavarono tombe nell’area della necropoli e perlustrarono il territorio alla ricerca sistematica di tombe da scavare per venderne poi gli oggetti. I materiali venivano acquistati sia da musei sia da privati. Tra il 1870 e il 1878 il Museo Patrio di Brera acquistò materiali provenienti dal Monsorino, dalle 7 8

P. Castelfranco, Gruppo lodigiano della prima età del Ferro, in BPI, IX, 1883, 182-202, tav. VIII. P. Castelfranco, Antiche necropoli di Milano, in Notizie degli Scavi, 1886, p. 5; 1887, p. 50 e 383-386. 6

Corneliane, da Varallo Pombia o genericamente dalla necropoli di Golasecca. Acquistarono molti materiali provenienti da tombe scoperte sia a Castelletto Ticino che a Golasecca l’avv. Gottardo Delfinoni e l’avv. Emilio Seletti, le cui collezioni furono poi lasciate in eredità al Museo Patrio di Brera. Nel territorio lombardo operava prevalentemente il Paolo Guazzoni detto il Lanscin, probabilmente il “lancetta” per allusione all’uso del sondino per localizzare le tombe, mentre tra il 1876 e il 1890 nell’area piemontese fu molto attivo Carlo Marazzini, che già nel 1884 aveva scavato nella zona di Castelletto Ticino non meno di 120 tombe. Il Marazzini vendette i materiali delle sue scoperte specialmente al Museo di Antichità di Torino e inoltre al museo civico di Novara, in qualche caso anche a collezionisti lombardi come il Garovaglio. Negli stessi anni moltissime scoperte di tombe della prima età del Ferro, nonché resti di abitati, avvenivano nei dintorni di Como, che dovrà rivelarsi uno dei centri maggiori della cultura di Golasecca, se non il maggiore. A Como operavano il canonico Vincenzo Barelli, Alfonso Garovaglio, Giovanni Antonio Galli. Dal punto di vista scientifico gli studiosi che operavano a Como erano a un livello nettamente inferiore a Pompeo Castelfranco sia per quanto riguarda lo scavo archeologico sia per quanto concerne la capacità di inquadramento cronologico e culturale dei materiali recuperati. Gli studiosi comaschi rimasero fedeli all’impostazione data alle antichità di Golasecca da B. Biondelli, per cui continuarono a chiamare gallo-italiche le numerose tombe a cremazione della prima età del Ferro che sempre più numerose venivano alla luce. Il Castelfranco non mancò di polemizzare con gli archeologi di Como e i suoi articoli contengono spesso battute pungenti nei confronti del Garovaglio. Ne nacque un dissidio, per cui l’ambiente di Como rimase precluso agli studi del Castelfranco e soltanto dopo la morte del Garovaglio grazie ai buoni uffici del dott. Antonio Magni fu considerato anche a Como nella sua giusta luce, al punto di essere nominato Presidente onorario della Società archeologica comense. D’altra parte il Castelfranco entrò spesso in rotta di collisione con la Consulta del Museo Patrio di Archeologia di Milano, che tacciava in sostanza di incompetenza, anche in quanto Reale Ispettore per gli scavi e i monumenti di antichità del circondario di Milano. Il Castelfranco sollecitava l’istituzione di un posto di ruolo per un archeologo che svolgesse le funzioni di direttore del museo archeologico di Milano, aspirazione che non venne mai realizzata. Il Castelfranco insegnava lingua francese e non raggiunse mai una posizione di “potere”. Tuttavia, i suoi legami con P. Strobel, G. Chierici e L. Pigorini, la sua collaborazione al B.P.I., i suoi rapporti con studiosi stranieri della levatura di O. Montelius, gli assicurarono una chiara fama e una grande reputazione scientifica. L’ambiente archeologico di Como, nonostante i suoi limiti dal punto di vista scientifico e l’orizzonte culturale provinciale entro cui si muoveva, fu in grado di creare delle istituzioni che assicurarono alla ricerca archeologica e alla conservazione dei materiali una continuità, che verrà invece completamente a mancare nella zona di Golasecca. A Como fu creata una Commissione Archeologica Provinciale, fu istituito un Museo Civico Archeologico con sede nel palazzo di Paolo Giovio e destinato a raccogliere 9

P. Castelfranco, Vademecum da toeletta di Rebbio (Como), in BPI, XXVI, 1900, 24-33. 7

sistematicamente tutti i materiali che via via venivano scoprendosi nella zona, fu pubblicato regolarmente a partire dal 1872 un periodico intitolato Rivista archeologica della provincia di Como, divenuto poi Rivista archeologica della provincia e dell’antica diocesi di Como, e infine Rivista archeologica dell’antica provincia e diocesi di Como, e infine fu fondata nel 1902 un’associazione, la Società Archeologica Comense, che svolse un ruolo importante come editore della rivista, come promotore della tutela e della ricerca archeologica e che è tuttora attiva. Purtroppo, non si riuscì a fondere la competenza scientifica di un Castelfranco con la capacità organizzativa e la sensibilità per le memorie del proprio passato caratteristica dell’ambiente di Como. Mentre i materiali delle necropoli e degli abitati dei dintorni di Como sono conservati tutti, tranne poche eccezioni, al museo P. Giovio di Como, i materiali delle necropoli di Golasecca finirono dispersi in una miriade di musei e di raccolte private : ricordiamo i musei di Milano, di Como, di Torino, Novara, Legnano, Gallarate, Sesto Calende, Varese, Brescia, Mantova, Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Firenze, Roma, St. Germain-en-Laye, il British Museum di Londra, il Peabody Museum di Harvard, nonché in collezioni tuttora private come Visconti di S. Vito a Somma L., Galli sempre a Somma L., Borromeo all’Isola Bella.

Lo spazio geografico e la dinamica del popolamento Il territorio La cultura archeologica a cui è stato attribuito il nome di Golasecca si estende su un territorio molto ampio : a nord confina con lo spartiacque alpino tra Vorder- e Hinter-Rhein e Canton Ticino e Mesolcina, a sud con il corso del Po, a ovest con la Val Sesia, a est con la zona di Bergamo e il corso del Serio e dell’Adda. Ne facevano parte la regione delle Alpi Centrali con i passi dello Spluga, di S. Bernardino, del Lucomagno, del Gottardo e di Novena, la regione prealpina e subalpina dei laghi detti insubrici, dal lago d’Orta (l’antico Cosius) al Verbano, dal Ceresio fino al Lario, l’alta e bassa pianura dal Vercellese fino al Cremasco. Oscillazioni e incertezze si devono registrare per il confine orientale e per quello occidentale, dipendenti nel primo caso da dinamiche storiche di espansione/contrazione, nel secondo dalla lacunosità della documentazione, specialmente per il Piemonte. E’ ancora da chiarire la pertinenza all’area golasecchiana della Val Brembana e della Val Seriana, in cui l’attribuzione dell’abitato di Parre a una facies retica o pararetica è tutt’altro che scontata. Un altro caso ancora sub iudice è Brescia, in cui nel V secolo appaiono presenti in maniera significativa tanto la componente golasecchiana quanto quella etruscopadana. Tuttavia, ciò che cambia nel corso dei secoli è soprattutto l’intensità del popolamento. Il cuore dell’area culturale golasecchiana è sempre stata la fascia subalpina delle colline moreniche : qui vi erano i centri principali nei dintorni di Como e a Golasecca, qui il popolamento era più denso e maggiore è stata la continuità insediativa per tutta la prima età del Ferro. In altre regioni, invece, come la Val d’Ossola, Val 8

Leventina, Val Mesolcina, Bellinzona e la piana di Magadino, Lodigiano e Lomellina, si alternarono fasi di diffuso insediamento ad altre in cui il popolamento sembra essersi notevolmente contratto o mancare del tutto. Un territorio, quindi, molto ampio, di circa 20.000 km2, che abbracciava una varietà di ambienti morfologici e biogeografici : regioni montuose e vallate alpine, grandi e piccoli laghi prealpini, colline moreniche, alta, media e bassa pianura attraversata da una fitta rete idrografica. In questo spazio geografico così vario, ma senza rigide barriere al suo interno poiché si passa gradualmente da un ambiente all’altro, il record archeologico documenta l’evoluzione ininterrotta di un unico gruppo culturale a partire da una fase avanzata del Bronzo Medio (XIV secolo a.C.) fino agli inizi del IV secolo e per le regioni alpina e prealpina addirittura fino all’epoca della conquista romana. Nel linguaggio tecnico della periodizzazione archeologica, tuttavia, le diverse tappe di questa evoluzione culturale, la cui continuità è stata riconosciuta soltanto in anni recenti, prendono nomi differenti : cultura di Scamozzina-Monza per la fine del Bronzo Medio e gli inizi del Bronzo Recente, cultura di Canegrate per il Bronzo Recente, cultura Protogolasecca per il Bronzo Finale, cultura di Golasecca per tutta la prima età del Ferro. Tralasciando le fasi più antiche, risalenti al Bronzo Medio-Recente, conosciamo circa 170 siti in cui sono state scoperte tombe o abitati riferibili al Protogolasecca e al Golasecca, ma ben pochi sono stati oggetto di ricerche scientifiche. Si tratta per la maggior parte di vecchie scoperte ottocentesche o di rinvenimenti fortuiti.

Il Protogolasecca Il Protogolasecca, erede della tradizione culturale di Canegrate, rappresenta il periodo formativo della cultura di Golasecca e si articola in tre orizzonti cronologici successivi : Ascona I (XII secolo), Ascona II (XI secolo) e Ca’ Morta - Malpensa (X secolo). Per questo periodo, come poi per tutte le fasi successive, conosciamo principalmente gli aspetti funerari e molto meno gli abitati. Per quanto riguarda il rito funerario è esclusiva la cremazione : il defunto veniva cremato, le ossa combuste e le ceneri venivano raccolte in un’urna in genere fittile, deposta poi, insieme a eventuali oggetti di corredo, in una tomba a pozzetto in nuda terra o foderato di ciottoli sovrapposti a secco. Le necropoli di Ascona presso Locarno, Ca’ Morta presso Como, Malpensa, oltre a piccoli gruppi di tombe a Gorduno, Luino, Biandronno, Paderno Dugnano, Biassono, Cuggiono, Galliate, Romentino, Bissone Pavese, S. Pietro (BG) ed Esino Lario, documentano per questo periodo l’esistenza di piccole comunità di villaggio, che godevano di una distribuzione piuttosto uniforme della ricchezza e organizzate dal punto di vista sociale secondo una gerarchia in cui il ruolo guerriero era riconosciuto come preminente. Le necropoli e gli abitati, dei quali i più noti sono quelli dei dintorni di Como (Prestino, Rondineto), dell’Isolino di Varese, di Badia Pavese, Miradolo e Vidolasco presso Crema, appaiono di 9

piccole dimensioni e i corredi funerari ancora scarsamente differenziati. Gli oggetti deposti nelle tombe sono molto semplici e si limitano a segnalare il sesso del defunto : le fibule ad arco semplice, gli ornamenti, le fusarole e i rocchetti sono tipici delle tombe femminili, gli spilloni e in casi eccezionali le armi ricorrono nelle tombe maschili. Spesso vi è soltanto una cuspide di lancia in bronzo, soltanto nella tomba 292 della Ca’ Morta abbiamo una spada e una lancia di bronzo, a connotare il ruolo socialmente preminente del defunto.

Il ripostiglio della Malpensa Il recupero di questo importante ripostiglio è avvenuto in tre tempi. Nel giugno 1977 furono raccolte tre lamine di bronzo decorate a piccoli punti a sbalzo, ripiegate in modo da formare come un pacchetto, e un altro oggetto in lamina bronzea egualmente ripiegato più volte, che affioravano alla superficie di un campo da poco arato in località Bellaria, frazione Casenuove, presso la Malpensa. Nella stessa occasione venne rinvenuto anche un piccolo frammento di falce di bronzo. Gli oggetti furono consegnati all’arch. A. Mira Bonomi, che aprì i “pacchetti” di lamina senza particolari accorgimenti, provocandone la rottura in diversi frammenti. Dopo qualche tempo venni interpellato per un parere sulla natura dei manufatti rinvenuti, tre dei quali riconobbi come schinieri del tipo a lacci, caratteristico dell’età dei Campi di Urne. Considerata l’importanza del ritrovamento, l’allora Soprintendente all’Archeologia, prof.ssa Bianca Maria Scarfì, decise di effettuare un intervento di scavo affidandomene la direzione. Lo scavo, iniziato nel novembre 1977, dovette essere sospeso a seguito di forti nevicate e venne ripreso nel maggio 1978. Condotto su una superficie complessiva di poco più di 50 m2, lo scavo ha portato al recupero di qualche ulteriore frammento di lamina bronzea pertinente agli schinieri e di una serie di oggetti, soprattutto asce, lance, falci, che dovevano aver fatto parte di un ripostiglio, nonché alla scoperta di una tomba a cremazione del Bronzo Finale avanzato10. La località, posta verso il margine di un paleoterrazzo del Ticino (232 m s.l.m.), dista in linea d’aria ca. 1150 m dalla sponda orientale del fiume. Il campo doveva essere stato oggetto di un recente spianamento per facilitarne la coltivazione. In precedenza il fondo non era mai stato arato con un polivomere a trazione meccanica. I nuovi lavori di aratura hanno, pertanto, intaccato le strutture archeologiche sepolte, determinando l’affioramento in superficie di alcuni materiali. Alla profondità di 45 cm dal piano di campagna affiora un banco sabbioso-limoso localmente denominato litta, al cui tetto si era formato un paleosuolo dello spessore di una decina di cm, non più ben distinguibile dal terreno agrario a causa delle commistioni provocate dalle recenti arature. La tomba fu rinvenuta nel q. B 2, scavata in parte nel banco sabbioso-limoso, in parte nell’antico paleosuolo. La lastra di fondo su cui era collocata l’urna si trovava a 55 cm di profondità dal piano di campagna. La lastra di copertura e la parte superiore dell’urna, insieme a frammenti di ossa combuste, erano state trascinate e disperse dall’aratro lungo una diagonale - rispetto 10

Sullo scavo del ripostiglio cfr. R.C. DE MARINIS 1979; e inoltre R.C. DE MARINIS in Riv.Sc.Preist., XXXIII, 1978, pp. 422-423 e in Riv.Sc.Preist., XXXIV, 1979, pp. 293-294. . 10

all’asse maggiore del campo orientato N-S - con andamento da SW verso NE per una lunghezza di circa 2,4 m.

Chiaramente l’urto del vomere era avvenuto da sud verso nord, infatti la lastra del lato

meridionale della tomba era piegata verso nord, schiacciando parte dell’urna, mentre quella del lato settentrionale non è stata ritrovata. Anche la dispersione delle ossa combuste a nord della tomba conferma questa dinamica. I materiali del ripostiglio sono stati rinvenuti tutti in giacitura secondaria, per lo più a una profondità variabile da 25 a 45 cm dal piano di campagna, in parte entro il terreno agrario, in parte entro il paleosuolo, dispersi lungo due traiettorie della lunghezza di 2 m, con il punto di origine in comune nel quadrato A 4: una da SE verso NW, l’altra da NE verso SW. L’azione dell’aratro ha lasciato tracce evidenti anche su alcuni materiali. Una cuspide di lancia è stata tranciata in due dal vomere e le due parti sono state rinvenute a 1,20 m di distanza l’una dall’altra. Sia sulla base dei dati di scavo sia per la differenza cronologica di circa due secoli, non vi è dubbio che il ripostiglio e la tomba costituiscano due complessi nettamente distinti11. La tomba era costituita da un piccolo pozzetto rettangolare, con una beola sul fondo, quattro lastre verticali e una di copertura. L’urna ha una forma biconica asimmetrica, cioè con il tronco di cono superiore di altezza minore rispetto a quello inferiore. Poco sopra la massima espansione del vaso vi è una leggera risega. L’orlo è completamente mancante, ma doveva essere esoverso. La decorazione consiste di una fascia a denti di lupo lungo il diametro massimo del vaso, al di sopra corre una linea di impressioni triangolari, mentre subito sotto la gola una linea orizzontale a rotella e una fila di impressioni a C. I denti di lupo hanno contorno tracciato a rotella e tratteggio interno a incisione. Il breve piede a tacco leggermente distinto è decorato con tre linee orizzontali a rotella. L’urna era chiusa direttamente dalla lastra di copertura della tomba e conteneva al suo interno le ossa combuste e sul fondo una fibula in bronzo ripiegata e deformata intenzionalmente, secondo un uso frequente nelle sepolture a cremazione. Le ossa formavano un insieme compatto ed erano molto fragili. Durante lo svuotamento dell’urna è stato possibile osservare che i frammenti relativi alla teca cranica si trovavano verso il fondo dell’urna. L’ossilegio era stato molto accurato, dal momento che non sono stati rinvenuti carboni del rogo. La fibula è ad arco semplice decorato a sottili incisioni anulari, tranne che nella parte soprastante la staffa, dove l’arco è decorato a tortiglione. Questo tipo di fibula permette di datare la tomba alla fase più avanzata del Bronzo Finale, verso il X secolo a.C. Con lo scavo sono stati recuperati 34 manufatti di bronzo così suddivisi: due asce e il frammento di una terza, due falci e il frammento di una terza, tre lance e il frammento di una quarta, nove lamine di bronzo

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Diversamente da quanto affermato da A. MIRA BONOMI (1979) in una pubblicazione non autorizzata dalla Soprintendenza Archeologica, in cui si è appropriato di parte dei dati della prima campagna di scavo. Tra l’altro gli schinieri sono stati pubblicati al contrario, scambiando la parte interna per quella esterna. Dell’assurdità delle affermazioni di A. Mira Bonomi se ne è reso conto W. DEHN 1980, ma non così altri studiosi. 11

di cui quattro ripiegate a pacchetto, cinque lamine di bronzo pertinenti agli schinieri, sette piccoli frammenti di pani di bronzo, due frammenti di armilla, un frammento di tondino decorato a tortiglione12. Mentre l’urna e parte della struttura della tomba sono state rinvenute ancora in situ, non è possibile stabilire il punto preciso in cui era sepolto il ripostiglio, ma è probabile che il punto sia da localizzare nella parte occidentale del quadrato A 4, cioè nel punto da cui è partita la dispersione dei materiali secondo due direzioni contrapposte. Non essendo stato rinvenuto alcun frammento ceramico da poter riferire al vaso contenitore del ripostiglio, dobbiamo ipotizzare che si trattasse di un ripostiglio “in nuda terra”, un caso molto frequente, che in realtà significa che gli oggetti erano stati collocati in un contenitore di materiale organico, ad es. una sacca di pelle o un recipiente di legno, completamente dissoltosi col passare dei secoli. Il ripostiglio della Malpensa è un classico esempio di ripostiglio a carattere misto, vale a dire contiene diverse categorie di manufatti e manufatti in differente stato di conservazione, cioè oggetti nuovi o comunque ancora perfettamente funzionanti, rottami, lingotti o frammenti di lingotti di rame. Tre lance, due asce e due falci sono state deposte integre, vi sono poi un frammento di ascia ad alette allungate, un frammento di falce e un frammento di cuspide di lancia, che, avendo i margini delle fratture patinati, erano stati deposti nel ripostiglio allo stato di rottame. Tutti i manufatti in lamina bronzea – tre schinieri e altre lamine pertinenti probabilmente a un elmo – erano stati ripiegati più volte. Due schinieri erano stati ripiegati lungo l’asse verticale di simmetria bilaterale e poi lungo quello trasversale a metà altezza e infine lo spicchio così ottenuto era stato ancora ripiegato all’incirca lungo il suo raggio. Il terzo schiniere era già incompleto al momento della sua deposizione nel ripostiglio. Infatti, in questo caso la prima piegatura non è avvenuta lungo l’asse verticale di simmetria bilaterale, ma lungo una linea diagonale rispetto ad esso – che costituiva all’incirca la linea di mezzaria dello schiniere ormai lacunoso da un lato - e poi è stato ripiegato una seconda volta lungo l’asse di massima larghezza e infine una terza volta. Tutti gli oggetti che compongono il ripostiglio costituiscono un complesso perfettamente omogeneo dal punto di vista cronologico. L’ascia ad alette tipo Ortucchio, caratterizzata da alette lunghe e convergenti, doppia spalla, parte distale a lati concavi e rientranti, parte prossimale quasi rettangolare, con incavo largo, arcuato e poco profondo, è tipologicamente ancora molto vicina ad alcune asce ad alette mediane del Bronzo Recente. Si tratta di un tipo a larga diffusione, presente sia nell’Italia settentrionale – ad es., a Salorno, Povo, Frattesina, Monte Battaglia – sia nella penisola, ad es. Pian di Tallone, Urbino, Ortucchio, Surbo. I pochi contesti chiusi, i ripostigli di Pian di Tallone e del Surbo, indicano una datazione agli inizi del Bronzo Finale. L’ascia di Ortucchio era associata, probabilmente, a un coltello tipo Matrei e quindi anche in questo caso la datazione verrebbe a cadere agli inizi del Bronzo Finale13. La stessa datazione è offerta da un tipo di ascia molto simile, che si differenzia dal nostro esemplare per avere la lama più o 12

Sul ripostiglio e la tomba cfr. R.C. DE MARINIS 1979, fig. 13 e tav. LXXXI; ID. 1982, p. 87, figg. 107, 108, 111; ID. 1988, p. 161 e ss., figg. 143-145 (nella didascalia è erroneamente detto che i materiali sono al Castello Sforzesco di Milano); ID. 2004, p. 292 fig. 1, p. 586 scheda 4.22.a. 13 Per l’ascia ad alette mediane tipo Ortucchio cfr. A.M. BIETTI SESTIERI 1973, p. 396 e ss. , figg. 13-14. 12

meno fortemente svasata, a lati concavi ma non rientranti se non rispetto alla spalla. Questo tipo, noto quasi esclusivamente nel Nord Italia, è associato nel ripostiglio di Montichiari (BS) a una falce degli inizi del Bronzo Finale14. Tuttavia, è necessario sottolineare il fatto che i contesti datanti sono tutti ripostigli e poiché in genere i ripostigli contengono materiali più antichi e materiali più recenti, l’ascia tipo Ortucchio potrebbe essere un tipo da assegnare al Bronzo Recente più che al Bronzo Finale, sia pure iniziale. L’aspetto più straordinario delle asce tipo Ortucchio-Malpensa è forse costituito dalla loro diffusione anche su grandi distanze. Un’ascia dello stesso tipo, certamente proveniente dall’Italia, è stata rinvenuta nella tomba 11 di Osternienburg, una località dell’Anhalt, regione storica della Germania orientale lungo il medio corso dell’Elba. Tra l’altro, la tomba si data alla fase Hallstatt A 1, che corrisponde in Italia alla fase di transizione tra Bronzo Recente e Bronzo Finale15. Ancora più eccezionale è il ritrovamento di una forma di fusione per un’ascia tipo Ortucchio-Malpensa nelle rovine della casa del mercante dell’olio di Micene nell’Argolide e questo ritrovamento corroborerebbe una datazione al Bronzo Recente16. L’altra ascia completa del ripostiglio è del tipo ad alette allungate fin quasi al taglio e a differenza dell’ascia ad alette mediane tipo Malpensa/Ortucchio rappresenta una foggia di carattere locale, la cui area di diffusione comprende essenzialmente la Lombardia occidentale e il Canton Ticino, con qualche attestazione in Liguria e nei Grigioni. In uno studio di qualche anno fa’ abbiamo denominato Bosisio Parini questo tipo, poiché uno splendido esemplare fu rinvenuto nel 1856 nella torbiera di Bosisio17. Della terza ascia si conserva soltanto la parte relativa alle alette, si tratta anche in questo caso di un’ascia ad alette allungate, probabilmente del tipo Bosisio Parini, ma mancando le parti prossimali e distali dell’ascia non è possibile definire con sicurezza il tipo. Tutte le asce ad alette allungate tipo Bosisio Parini sono prive di contesto, a parte il caso del ripostiglio della Malpensa, che costituisce l’unico contesto datante per questo tipo. Manca a tutt’oggi uno studio delle falci dell’età del Bronzo in Italia. Le due falci della Malpensa sono caratterizzate da un’impugnatura a lingua da presa e nell’ambito di questa famiglia tipologica un criterio importante di classificazione è costituito dalla netta distinzione tra presa rettilinea e curvatura della lama o al contrario dalla scarsa distinzione tra lama e presa quando il dorso della lama forma con la presa un’unica curvatura. Le falci che rientrano nel primo caso sono caratteristiche del Bronzo Recente, quelle che rientrano nel secondo caso sono caratteristiche del Bronzo Finale. Le falci della Malpensa sono a

curva continua dalla presa alla lama e sono quindi da attribuire al Bronzo Finale. Tutte le altre caratteristiche, come la presa a bordi rilevati con un foro per i ribattini e base a coda di rondine, la presenza di uno sperone triangolare tra impugnatura e inizio del dorso della lama, una forte costolatura che corre lungo il dorso, affiancata da una seconda costolatura meno rilevata lungo tutta la lama, la curvatura della lama ancora non molto ampia, permettono di collocare le nostre

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Il ripostiglio, di cui sopravvivono solo due pezzi, è ancora inedito. Cfr. E. SPROCKHOFF 1930, tav. 11 d. 16 V. G. CHILDE 1960; A.M. BIETTI SESTIERI 1973, p. 399 e note 108-111, fig. 15.2. 17 R.C. DE MARINIS 1994, p. 71 e ss. fig. 46 e carta di distribuzione fig. 47. 15

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falci agli inizi del Bronzo Finale, per le somiglianze ancora ben riconoscibili con i tipi del Bronzo Recente. Delle cuspidi di lancia due appartengono alla stesso tipo, anche se sono di dimensioni leggermente differenti. La lama ha una forma ovale molto allungata, a foglia di salice, con la larghezza massima verso la base, il cannone è provvisto, subito sotto l’inizio delle alette della lama, di due fori laterali per il ribattino che fissava la cuspide all’asta di legno. La punta è arrotondata, non acuta; lungo il bordo corre una solcatura larga 3 mm e il bordo è stato accuratamente martellato per renderlo affilato. Nei ripostigli e negli abitati del Bronzo Recente questo tipo di cuspide di lancia è assente, in particolare è significativa la sua assenza a Peschiera del Garda, che ha restituito un grandissimo numero di manufatti di bronzo, e nelle terramare. Esemplari perfettamente identici a quelli della Malpensa sono documentati in ripostigli a partire dagli inizi del Bronzo Finale: ricordiamo i ripostigli di Sassello (SV), Rhêmes St. Georges (AO) e Pila del Brancon (VR) in Italia18, di Trössing e Bruck an der Mur in Stiria, di Čermožišče e Pekel in Slovenia19, dal fiume Ljubljanica sempre in Slovenia20, di Zagreb Ostava in Croazia21 e di Ker in Ungheria22. Cuspidi di lancia dello stesso tipo compaiono anche in contesti più recenti, ad es. il ripostiglio di Poggio Berni in Romagna23 e quello di Miljana in Croazia24, databili all’XI-X secolo a.C.

Altri

esemplari sono ritrovamenti sporadici o di cui ignoriamo le circostanze del ritrovamento. Una bella cuspide di lancia di questo tipo, ad es., è conservata al museo archeologico di Como, con l’indicazione di provenienza da Como via Gorio, dove furono rinvenute tombe del Bronzo Finale, ma nessuna relazione su queste scoperte menziona la cuspide di lancia. L’area di diffusione di queste lance è molto ampia, dalle Alpi occidentali fino al bacino carpatico, ma la maggiore frequenza si riscontra nella regione alpina orientale. Gli schinieri della Malpensa sono tra loro spaiati, avendo dimensioni e decorazione differenti. Sono formati da una lamina bronzea piuttosto sottile, di forma ovale, con i bordi ripiegati intorno a un filo di bronzo, che in cinque punti per ogni lato e a distanze regolari fuoriescono per formare delle asole, in cui passavano i legacci. Tutti i motivi e le linee di partizione del campo ornamentale sono eseguiti con un fascio di tre linee di piccoli punti a sbalzo. Nello schiniere di maggiori dimensioni la decorazione è costituita da un fascio di tre file di punti a sbalzo che corre lungo tutto il bordo, un’altra fascio simile divide verticalmente in due parti eguali lo schiniere, mentre quattro fasci sono disposti orizzontalmente uno in alto, due in basso e uno al centro, formando quattro campi all’interno di ciascuno dei quali si trova il motivo della ruota raggiata, di chiara

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Per Sassello: F.M. GAMBARI, M. VENTURINO GAMBARI 1994, tav. X; Pila del Brancon: L. SALZANI 1994, nn. 10, 13, 19, 23; Rhêmes St. Georges: R. MOLLO MEZZENA 1997, tav. 11. 19 H. MÜLLER-KARPE 1959, tavv. 126 B 1, 134.16; B. TERŽAN 1995, tavv. 44.17, 120.5. 20 B. TERŽAN 1995, tav. 26.168,169. 21 K. VINSKI GASPARINI 1973, tav. 74 A 1. 22 A. MOZSOLICS 1985, tav. 113.12 23 G. MORICO 1984, fig. 2.5. 24 K. VINSKI GASPARINI 1973, tav. 112.4. 14

valenza solare. La corona della ruota è formata da due file di puntini, i raggi da due file che si incrociano ortogonalmente e al centro, nel punto di incrocio, vi è una borchia a sbalzo, piatta. Il secondo schiniere presenta la stessa fascia di tre file di puntini lungo il bordo, la fascia verticale di mezzaria, una fascia orizzontale in alto e due in basso. Nelle due parti simmetriche centrali tre fasci, sempre di tre file di puntini, sono posti obliquamente e formano due campi per parte, in ciascuno dei quali è collocato il motivo di una testa ornitomorfa stilizzata, rivolta verso il centro, con una borchia al posto dell’occhio. Altre borchie più piccole sono poste negli spazi vuoti. Il terzo schiniere, di cui manca una porzione del lato sinistro, presenta la fascia di tre file di puntini lungo il bordo, la fascia verticale di mezzaria, una fascia orizzontale in alto e due in basso. All’interno di ciascuno dei due campi simmetrici così delimitati sono collocate tre teste ornitomorfe schematiche, formate con un fascio di tre file di puntini, con il becco rivolto verso l’esterno, e una borchia al posto dell’occhio. Gli schinieri a lacci scoperti in Europa – poco più di una cinquanta escludendo quelli della Grecia, di Creta e di Cipro – si possono suddividere in almeno quattro gruppi in base sia alla forma e decorazione che alla cronologia25. Gli schinieri della Malpensa appartengono al gruppo più antico, diffuso dalla parte occidentale del bacino carpatico (Transdanubia e Slavonia) al corso superiore del Danubio e all’area padana, fino a toccare verso ovest la regione di Parigi. Questo gruppo si caratterizza per una decorazione eseguita a piccoli punti sbalzati con i motivi della ruota raggiata (Rinyaszentkiraly, Nadap, Nagyvejke, Stetten Teiritzberg, Veliko Nabrde), della testa ornitomorfa schematizzata (Brodski Varos, Poljanci, Sabbionara di Veronella) e in alcuni casi dell’uccello acquatico reso naturalisticamente (Rinyaszentkiraly, Nadap). Gli schinieri ritrovati lungo il corso superiore del Danubio e nella regione di Parigi (Schäfstall, Winklsass, Cannes-Écluse) hanno invece una decorazione differente formata da motivi lineari e ad arco. Tutti questi schinieri sono stati rinvenuti in ripostigli, che nella maggior parte dei casi possono essere interpretati come raccolte di materiali destinati alla rifusione e quindi come ripostigli di artigiani metallurgi. Al contrario, gli schinieri a lacci rinvenuti in Grecia, a Creta e a Cipro provengono sempre da tombe. Un paio di schinieri simili a quelli della Malpensa e del bacino carpatico con il motivo della ruota raggiata sono stati rinvenuti in Grecia, in una tomba micenea delle pendici settentrionali dell’Acropoli di Atene, databile al TE III C. Si tratta certamente di una importazione o dall’Italia settentrionale o dal bacino carpatico. Gli schinieri di Atene non sono un prodotto locale, bensì importato, anche se la natura del contesto è quello di una tomba e non di un ripostiglio. Tutti i contesti disponibili indicano per gli schinieri della Malpensa una datazione agli inizi del Bronzo Finale (Ha A 1, XII secolo a.C. avanzato).

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Per gli schinieri a lacci cfr. G. VON MERHART 1956-57; W. DEHN 1980; P. SCHAUER 1982; E.F. PETRES 1982; K. JANKOVITS 1997. 15

Gli schinieri della Malpensa ed anche quelli di Veronella provengono dalle stesse officine specializzate nella produzione di oggetti di lusso e di prestigio in lamina bronzea decorata (vasellame e armamento difensivo) che hanno prodotto gli analoghi manufatti diffusi nella parte occidentale del bacino carpatico. Rimane da dire qualcosa sull’oggetto più enigmatico del ripostiglio, una lamina bronzea ripiegata più volte. La forma originaria era quella di un cono, con un diametro alla base di circa 17 cm, e con un’apertura circolare in alto larga un cm e circondata da tre cordonature a sbalzo concentriche. Dalla base si prolungano verso il basso otto strisce di lamina lunghe 11 cm e con l’estremità ripiegata verso l’interno. Questo particolare indica che l’oggetto doveva essere montato insieme a qualche altra parte o su qualche supporto. Sembra delinearsi, quindi, la forma di un elmo, la cui descrizione è difficile, stante la singolarità del manufatto. Delle altre lamine ripiegate rinvenute nel ripostiglio una è completa e sembra adattarsi all’inserimento nella parte inferiore dell’elmo. Lungo un lato presenta cinque tagli orizzontali, che forse servivano al passaggio di qualche cinghia. Alla base due fori quadrangolari potrebbero essere serviti per il fissaggio delle cinghie del sottogola. Nel ripostiglio vi erano altre due lamine simili, ma incomplete. L’elmo completo avrebbe dovuto averne quattro. Dal foro in cima certamente sarebbe fuoriuscito il pennacchio in materiale organico. Non si conosce alcun confronto per un elmo a calotta composta di questo genere. Comunque il nostro oggetto non è né uno scudo né una parte di corazza, come a volte è stato supposto. Nell’Italia settentrionale schinieri della stessa epoca e tipologia di quelli della Malpensa sono stati rinvenuti soltanto a Desmontà di Veronella, in un’area di necropoli protoveneta di vasta estensione, formata da piccoli nuclei di tombe distanti anche qualche centinaio di metri l’uno dall’altro, una situazione che ricorda quella della necropoli della Malpensa. I due schinieri erano stati deposti sul fondo di una piccola fossa, uno appoggiato sopra un piccolo tronco di legno, l’altro al di sotto e ripiegato attorno a un altro tronco di legno. I due schinieri sono eguali per forma e dimensione e quindi costituiscono una coppia. Sono molto simili allo schiniere incompleto della Malpensa. Nel caso di Desmontà è probabile che si tratti di una deposizione di carattere cultuale, votivo, spiegazione che al contrario non può applicarsi al ripostiglio della Malpensa. I materiali del ripostiglio della Malpensa mostrano collegamenti e relazioni con l’ambito strettamente locale, Protogolasecca, nel caso dell’ascia ad alette allungate, relazioni con tutta la regione alpina-padana e la penisola italiana nel caso dell’ascia ad alette mediane tipo Ortucchio, e, infine, con un ambito ancora più vasto per quanto riguarda gli schinieri, un ambito comprendente i territori della cultura dei Campi di Urne dalla Francia orientale e Germania sud-occidentale fino alla Transdanubia e alla Slavonia, vale a dire la parte occidentale e meridionale del bacino carpatico. In tutto questo vasto spazio geografico circolavano i prodotti di officine specializzate nella lavorazione della lamina bronzea destinati all’aristocrazia militare dell’epoca. Non sappiamo se vi fossero uno o più centri produttori e poi circolassero i prodotti oppure se si trattava di officine di artigiani itineranti. L’amplissimo raggio di diffusione di questo artigianato è dimostrato dai collegamenti con la Grecia, dove una coppia di schinieri 16

molto simili a quelli della Malpensa è giunta fino ad Atene e una forma di fusione per un’ascia ad alette mediane di tipo italiano – che presuppone la presenza di un artigiano itinerante – è arrivata fino a Micene.

Il Protogolasecca tipo Ascona (XII-XI sec.a.C.) La conoscenza di questo periodo si basa soprattutto sulla necropoli di Ascona nel Canton Ticino. La necropoli, posta sulla destra del fiume Maggia, in località S. Materno, poco a nord di Ascona, è stata scoperta nell’inverno 1952 nel corso dei lavori per l’ampliamento del cimitero. La prosecuzione dei lavori tra l’aprile e il luglio del 1953 portò alla scoperta di 22 tombe e di alcune aree carboniose, probabilmente resti degli ustrina, nonché di frammenti ceramici pertinenti ad altre urne ormai distrutte, su di un’area complessiva di circa 550 mq. Complessivamente le tombe erano almeno 31, ma bisogna considerare che lo scavo fu eseguito a piccone fino a una profondità di 1.8 m dal piano di campagna e ciò ha sicuramente provocato la perdita di molti dati, inoltre, non sono state esplorate le zone corrispondenti ai viali e lo spiazzo della nuova entrata del cimitero, che potrebbero celare altre tombe. Sono venute alla luce anche tombe romane e resti di strutture di età romana. La zona della foce del Maggia è particolarmente ricca di testimonianze protostoriche. Sulla sinistra del Maggia, in località S. Jorio, vi era una necropoli pertinente alla cultura di Canegrate, più a nord-est, a Minusio Ceresol, una necropoli del Golasecca II, poco a nord-ovest di S. Jorio vi è l’importante necropoli di Solduno, interamente riferibile alla seconda età del Ferro. La necropoli di Ascona si trova lungo le prime pendici della collina di S. Materno, al di là del piede della scarpata è stato trovato solo terreno di natura alluvionale privo di resti archeologici. Le tombe erano semplici buche del diametro di circa 60 cm., scavate nel terreno entro cui veniva deposta l’urna cineraria in ceramica insieme ad abbondante terra di rogo, che ricopriva l’urna per uno spessore di circa 30 cm. Soltanto in alcuni casi la tomba era formata da una cassetta di lastre di beola (tombe 4, 5, 9) oppure vi era una lastra sul fondo e una lastra posta sulla bocca dell’urna (tombe 15, 16) o la sola beola per il fondo (tomba 13). Nelle tre tombe a cassetta era assente la terra di rogo e lo stesso fatto è stato osservato nelle tombe 6, 8 e 12. Le tombe senza terra di rogo sono tra le più recenti della necropoli. Le tombe erano collocate a diversa profondità, alcune erano interamente contenute nello strato di terreno ricco di humus, della potenza di un metro, altre erano parzialmente scavate nello strato sabbioso maculato di ossidi di ferro sottostante, poche tombe erano completamente immerse entro questo strato fino a una profondità massima di 1.6 m dal piano di campagna. Due aree carboniose, delle dimensioni di circa 0.6 x 0.6 m e dello spessore di 0.3, denominate B e C, sono i resti degli ustrina, cioè dei luoghi della pira funeraria. Un acciottolato, denominato A, ricoperto da uno strato di sabbia, recava evidenti segni del fuoco, mentre una grande area carboniosa, indicata con la lettera D, estesa 5 x 5 m, comprendeva al suo interno le due tombe 17 e 18, e i resti di altre ceramiche pertinenti probabilmente ad altre tombe sconvolte.

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Nella necropoli sono riconoscibili due orizzonti cronologici e una stratigrafia orizzontale, che è stata diversamente interpretata da L. Pauli e da M. Primas. Secondo Pauli vi sarebbe stata una separazione tra tombe femminili con le più antiche fibule e urne biconico lenticolari a est e tombe maschili caratterizzate da uno spillone e da urne a forma di scodellone a ovest; in seguito, nella successiva fase cronologica, le due zone si sarebbero espanse avvicinandosi e fondendosi, le urne sono biconiche alte e slanciate, i corredi maschili hanno una sola fibula ad arco semplice e quelli femminili due spilloni o una fibula, pendagli, anelli e ornamenti. Secondo M. Primas, invece, ad Ascona vi è una stratigrafia orizzontale di tipo unidirezionale, con uno sviluppo progressivo da est verso ovest. L’interpretazione di Pauli è inutilmente complicata e sostanzialmente errata, l’interpretazione giusta è quella di M. Primas. La parte più orientale della necropoli è caratterizzata da urne biconico lenticolari, basse e a larga imboccatura, spesso con risega e decorazione a solcature elicoidali lungo la massima espansione. Il corredo della tomba 16 comprende una fibula ad arco di violino rialzato e una fibula deformata dal rogo ma probabilmente di tipo intermedio tra l’arco di violino e l’arco semplice. Nella tomba 15 abbiamo due spilloni, i frammenti di altri due spilloni, un frammento di un pendaglio del tipo a ruota raggiata, anelli e resti di altri oggetti di ornamento, nella tomba 19 anelli e due braccialetti a capi aperti con estremità ravvolte ad occhiello. Le tombe della parte occidentale della necropoli presentano, invece, altre caratteristiche : le urne sono biconiche di forma più alta e più slanciata, decorate con impressioni a falsa cordicella, oppure scodelloni carenati. Vi è una sola urna di forma biconico lenticolare, la tomba 13, che si trova all’estremità orientale di questa zona. Le urne biconiche sono associate a fibule ad arco semplice (tombe 8, 9 e 14), mentre l’unica urna a scodella carenata con corredo è associata a uno spillone. Quindi, sono ben distinguibili due fasi cronologiche : Ascona I caratterizzata da urne biconico lenticolari e databile al XII secolo a.C. grazie alla fibula ad arco di violino rialzato, Ascona II caratterizzata da urne biconiche e da urne a scodella carenata, databile all’XI secolo a.C. grazie alle fibule ad arco semplice della foggia più antica. Si può anche riconoscere la differenza fra tombe maschili e femminili non in base alla foggia vascolare utilizzata come ossuario, ma alla composizione del corredo di oggetti di ornamento quando sono presenti : le tombe femminili hanno le fibule ed altri oggetti di ornamento come i braccialetti o le armille a capi aperti, perle di vetro, anelli, orecchini di doppio filo di bronzo (tombe 7, 8, 9, 12, 14, 16); le tombe maschili hanno gli spilloni (tombe 5, 15, 21). La ceramica della fase Ascona I mostra ancora molte affinità con Canegrate, ma mancano le forme con doppia carenatura e la decorazione a leggere solcature continue tipiche di Canegrate. Nella fase Ascona II la decorazione della ceramica, eseguita a falsa cordicella (a rotella), si concentra lungo la massima espansione del vaso e consiste in motivi semplici : fasci di linee orizzontali, da sole o abbinate a linee a zig-zag, a fasci di linee a ghirlanda, a impressioni a >>>. In qualche caso la decorazione è a piccole coppelle impresse o a solcature elicoidali, sempre lungo il diametro massimo del vaso. 18

Una tomba della fase Ascona I è stata scoperta a Paderno Dugnano. Un pozzetto foderato di ciottoli racchiudeva un’urna biconica con risega e decorazione a solcature elicoidali lungo la spalla, chiusa da una scodella carenata, con lo stesso tipo di decorazione lungo la carena, e contenente insieme alle ossa combuste un frammento di spillone di bronzo. Un’altra tomba della stessa epoca è stata scoperta alla Galizia di Cuggiono e comprendeva un’urna tronco-conica con spalla arrotondata e collo distinto, un’urna biconica con decorazione a solcature elicoidali lungo il diametro massimo e il frammento di un coltello che rappresenta una variante della foggia più antica del tipo Matrei. Ad Albate una tomba scoperta in località Roncaia e di cui non si è conservata l’urna in ceramica aveva un corredo caratterizzato da una fibula ad arco di violino rialzato e una fibula di foggia intermedia tra l’arco di violino e l’arco semplice, lo stesso tipo di associazione riscontrato nella tomba 16 di Ascona.

Il Protogolasecca tipo Ca’ Morta - Malpensa Gruppi di tombe del Bronzo Finale sono stati scoperti nella parte più meridionale del comune di Somma Lombardo e in quello di Vizzola Ticino nell’area tra l’attuale aeroporto della Malpensa e il fiume Ticino. La zona è un’ampia distesa di alluvioni ghiaiose tra le prime colline moreniche di Somma Lombardo a nord, il ripiano pleistocenico terrazzato di Cardano al Campo e Lonate Pozzolo a est e il Ticino a ovest. Il fiume ha inciso queste alluvioni formando una serie di terrazzi. Il paesaggio è quello della brughiera, tipico dell’alta pianura arida. Le tombe del Bronzo Finale si dispongono per la maggior parte lungo il paleoterrazzo più antico a 233235 m di quota, e in parte lungo quello inferiore a 223-225 m. Sono stati individuati, finora, una decina di settori, che si snodano da nord a sud per una lunghezza di circa 3,5 km in linea d’aria e che sono stati denominati con le lettere dell’alfabeto, da A fino a L26. Alcune di queste zone, quelle delle frazioni Case Nuove e Bellaria (G-L), sono molto vicine tra loro e forse costituiscono parti di un unico complesso di tombe senza soluzione di continuità. Le prime scoperte si verificarono nei terreni di proprietà di Federico Caproni27 nei pressi del cimitero di Vizzola (settore A), non sappiamo se prima o dopo la seconda guerra mondiale. Del gruppo di tombe distrutte in questa circostanza, il proprietario conservò i cocci di un’urna e una fibula ad arco semplice, materiali che nel 1968 furono recuperati dall’arch. A. Mira Bonomi. In seguito a ricognizioni effettuate nell’ottobre e nel novembre 1974 il Mira Bonomi scavò o recuperò 22 tombe in quattro punti distinti, denominati B-E. Successivamente, nel corso del 1975, furono recuperate altre quattro tombe nei settori CD-E e nel gennaio 1978 fu individuato un nuovo gruppo, denominato F, nell’area della Piana di Modrone, portando a 32 il numero complessivo delle tombe. I materiali provenienti da queste ricerche si conservano al museo della Società di Studi Patrii di Gallarate28.

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La numerazione dei settori A-F si deve ad A. MIRA BONOMI 1976 e 1981. Fratello maggiore di Gianni Caproni (1886-1957), pioniere dell’industria aeronautica italiana. Federico Caproni, oltre a collaborare con il fratello, si dedicò alla bonifica della brughiera, impiantando una moderna azienda agricola. Ha lasciato una biblioteca specializzata nell’agronomia e nella storia dell’agricoltura. 28 Sulle scoperte delle tombe della Malpensa cfr. A. MIRA BONOMI 1976; ID. 1981. 27

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Nel 1977 la scoperta, in seguito alle arature, di tre schinieri di bronzo più volte ripiegati nella frazione Case Nuove (settore G, località Bellaria) ha dato avvio a due campagne di scavo, che portarono al recupero di un ripostiglio di bronzi e alla scoperta di una tomba del Bronzo Finale, mentre altre due urne venute alla luce circa 150 m più a nord, furono recuperate presso gli occasionali scopritori29. Nel 1982 altre due tombe sono state scoperte circa 250 m più a nord del punto del ripostiglio (settore H), da una di queste proviene un’urna che è stato possibile ricomporre quasi integralmente30. Negli anni 1987-1990 la Soprintendenza Archeologica della Lombardia curò una serie di prospezioni geofisiche accompagnate da qualche saggio di scavo nell’area oggetto dell’ampliamento dell’aeroporto della Malpensa. Non si ha notizia di scoperte di nuove tombe31. Nel maggio 1993 nella parte più settentrionale dell’area della necropoli in località Belcora (settore I) furono scavati due tumuli del Bronzo Finale, i cui materiali sono oggi conservati al museo civico di Arsago Seprio32. Infine, nel giugno 2003 nella frazione Case Nuove, in via Ferrarin, a poco meno di 400 m verso sud-est rispetto al punto in cui furono scoperti il ripostiglio e una tomba, nel corso dello sterro per le fondazioni di un albergo sono venute alla luce due nuove tombe (settore L)33. Nel complesso si ha la notizia di oltre 40 tombe del Bronzo Finale tra Belcora e il cimitero di Vizzola ed è certo che diverse decine di tombe sono state distrutte nel corso di lavori agricoli o edilizi senza che ne rimanesse la minima traccia. Probabilmente proviene dalla zona della Malpensa l’urna conservata dal prof. Walter Bacchella di Novara, urna che sarebbe stata rinvenuta nel 185934. Insieme alla Ca’ Morta e a Morano Po, la Malpensa costituisce uno dei complessi più significativi per lo studio del Bronzo Finale nell’Italia nord-occidentale. Le tombe della Malpensa, tutte a cremazione, erano nella maggior parte dei casi a pozzetto in nuda terra con una piccola lastra sul fondo e una lastra a chiusura dell’imboccatura dell’urna. La ciotola-coperchio fittile non è mai documentata, esattamente come nelle necropoli di Ascona e della Ca’ Morta, ma a differenza di quella di Morano Po, dove tutte le tombe erano di norma provviste di ciotola-coperchio35. In qualche caso il pozzetto era foderato di ciottoli e più raramente di lastre che formavano una cassetta. Le urne della Malpensa sono per la maggior parte a imboccatura molto larga e corpo panciuto con spalla arrotondata e profilo sinuoso oppure con leggera risega prima della massima espansione del vaso. Alcune 29

Cfr. R.C. DE MARINIS 1979. Le due urne, recuperate in frammenti, sono state ricomposte integralmente da chi scrive con un rimontaggio provvisorio e fino al 1987 si trovavano nel mio ufficio presso la Soprintendenza Archeologica della Lombardia a Milano. 30 La scoperta è avvenuta nel mappale 3370 di proprietà Caletti. Cfr. M.A. Binaghi in Somma Lombardo. La ricerca archeologica come contributo alla storia del territorio, Somma Lombardo, 1985, p. 13 e fig. a p. 107. 31 Cfr. NSAL 1987, p. 218; 1988-89, p. 57; 1990, pp. 123-124, segnalazioni tutte a firma di M.A. Binaghi. 32 M.A. BINAGHI in NSAL, 1992-1993, pp. 25-26. 33 Cfr. La Prealpina, 25 giugno 2003. L’urna della prima tomba conteneva insieme alle ossa combuste una fibula ad arco semplice, quella della seconda tomba uno spillone. 34 Cfr. A. MIRA BONOMI in Sibrium, XII, 1973-75, p. 73 e tavv. IV, 1 e V. 35 Per Ascona cfr. R.C. DE MARINIS 2000; per la Ca’ Morta F. RITTATORE VONWILLER 1966; Età Ferro a Como, tavv. 1-8; per Morano Po. M. VENTURINO GAMBARI 2006. 20

urne a larga imboccatura hanno forma biconica con risega. Circa un quarto delle urne sono vasi biconici di forma più chiusa e quindi con maggiore profondità e maggiore altezza in rapporto al diametro massimo, con o senza risega. Un certo numero di urne sia fra quelle di forma biconica slanciata sia fra quelle a larga imboccatura presentano quattro o più presette triangolari lungo la massima espansione del vaso. Un’urna (t. E 5) ha la forma di una scodella a vasca tronco-conica con profilo ricurvo, breve parete distinta ed orlo esoverso. Dal settore B proviene un boccale situliforme con spalla arrotondata. Appartengono probabilmente a un boccale i frammenti della tomba C 4, in cui vi era anche un frammento di vasetto con presa a doppia perforazione verticale. La decorazione è a falsa cordicella, a solcature, in qualche caso a incisione. Una sola urna presenta la risega decorata a solcature oblique elicoidali (t. C 7). Le urne decorate a cordicella mostrano una varietà di motivi: denti di lupo contrapposti per il vertice, fasci di linee spezzate, fasci di linee ad angolo inscritti uno nell’altro e contornati da coppelle, bande verticali campite a spina di pesce o a reticolo, denti di lupo campiti a reticolo. Fasci di linee orizzontali sottolineano la gola e il piede. Le urne decorate a solcature presentano gruppi di solcature orizzontali nella parte superiore del vaso e gruppi di solcature verticali lungo la massima espansione. Le tombe che hanno restituito qualche oggetto di corredo sono poche. Fibule ad arco semplice con tortiglione nella parte sopra la staffa provengono dalle tombe D 8, C 10, dalla tomba scoperta nella zona del ripostiglio e da quella del settore A. Una fibula ad arco leggermente ingrossato e con arco tutto a tortiglione era nella t. C 4. Nella t. D 5 vi erano quattro fibule: una ad arco semplice liscio a sezione quadrata nella metà verso la molla e a tortiglione nella metà verso la staffa, la metà posteriore di una fibula ad arco semplice, due fibule ad arco leggermente ingrossato decorato a sottili solcature anulari. In questa tomba vi erano, inoltre, un’armilla di bronzo a capi aperti, con sezione romboidale, un frammento di altra armilla simile e un anello con sezione a losanga. Un frammento di armilla dello stesso tipo era nella t. C 10 insieme a un frammento di pendaglio in lamina bronzea a forma di bulla con grossa borchia al centro. Due pendagli a bulla in doppia lamina bronzea e decorati a punti e borchie a sbalzo erano nella t. C 4 ed uno nella tomba D 8. Tutti i corredi superstiti sono attribuibili a tombe femminili. Il principale indicatore cronologico per la datazione delle tombe della Malpensa è la fibula ad arco semplice decorato a tortiglione nella parte sopra la staffa o ad arco leggermente ingrossato. Si tratta di forme ormai evolute di fibule ad arco semplice che caratterizzano l’ultima fase cronologica del Bronzo Finale (X secolo a.C.). Per quanto riguarda gli aspetti culturali la Malpensa mostra strette affinità con la Ca’ Morta e le altre necropoli dei dintorni di Como (Moncucco, Cardano, S. Fermo, S. Maria di Vergosa)36. Alla Ca’ Morta ritroviamo la stessa prevalenza di urne a larga imboccatura e corpo panciuto o biconico rispetto alle urne di forma biconica più slanciata, la costante assenza della ciotola-coperchio, una decorazione a cordicella

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Per la Ca’ Morta cfr. F. RITTATORE VONWILLER 1966, tavv. XXV-XXVIII, LIV-LV; Età Ferro a Como, tavv. 1-8. Per le altre necropoli dei dintorni di Como: R.C. DE MARINIS 1971-72. 21

con fasci di linee che si incrociano ad angolo, a denti di lupo, a bande campite a reticolo, ma certamente la decorazione delle urne della Malpensa è più esuberante, estendendosi a gran parte della superficie del vaso, e inoltre più ricca per la varietà dei motivi, alcuni dei quali come le linee spezzate o a meandro sono assenti alla Ca’ Morta. Comuni alla Malpensa e alla Ca’ Morta sono le prese a linguetta triangolare lungo la massima espansione del vaso, assenti a Morano Po. Alla Ca’ Morta sono relativamente frequenti i bicchieri all’interno dell’urna, un aspetto del rituale funerario che diventerà canonico nel Golasecca I e II. La loro mancanza alla Malpensa può forse essere attribuita alle circostanze delle scoperte, nella maggior parte dei casi recuperi occasionali più che scavi veri e propri. Malpensa e Ca’ Morta costituiscono due facies affini, ma ciascuna con qualche sua particolarità locale, della stessa cultura Protogolasecca nella sua fase cronologica più evoluta. Urne cinerarie della facies Ca’ Morta – Malpensa sono state rinvenute a Biandronno, Ispra, Biassono e Galliate37. Per quanto fortemente frammentarie, le ceramiche del Bronzo Finale rinvenute all’Isolino di Varese appartengono a questa stessa facies culturale. Sono, invece, piuttosto marcate le differenze con la necropoli di Morano Po. Qui è costante l’uso della ciotola-coperchio, mentre è assente il bicchiere all’interno dell’urna. A Morano mancano le urne a larga imboccatura, gli ossuari sono tutti di forma biconica simmetrica e slanciata, tendenzialmente chiusa, la decorazione è più standardizzata e si limita in genere alla massima espansione del vaso. Queste differenze in parte si spiegano con la differenza cronologica: a Morano è ben documentata la fase dell’XI secolo, assente alla Malpensa e alla Ca’ Morta, mentre maggiori punti di contatto si riscontrano nelle tombe più recenti, come ad es. le tombe 3/94 e 5/94. Le maggiori affinità si possono osservare nella forma delle scodelle, che a Morano Po venivano utilizzate come coperchio dei cinerari, mentre alla Ca’ Morta e alla Malpensa quando sono presenti vengono utilizzate come contenitori dei resti combusti del defunto, secondo un costume che nell’area della cultura di Golasecca si ritroverà anche nella prima e nella seconda età del Ferro soprattutto nel Canton Ticino e in Lomellina. Infine, i ritrovamenti della Malpensa hanno un grande interesse ai fini della ricostruzione delle vicende del popolamento nell’area della cultura di Golasecca. E’ noto, infatti, che il Protogolasecca costituisce il periodo formativo della successiva cultura della prima età del Ferro. Nel corso del X secolo a.C. l’area di Sesto Calende – Golasecca – Castelletto Ticino, che a partire dall’VIII secolo costituirà la sede di un grande comprensorio protourbano, non appare ancora interessata da abitati e necropoli. Nel Bronzo Finale il popolamento si concentrava 5-6 km più a sud di Golasecca lungo la sponda sinistra del Ticino, appunto alla Malpensa, mentre un secondo raggruppamento importante della stessa epoca si trovava 15 km più a sud di Vizzola Ticino lungo la sponda piemontese tra Galliate e Romentino. E’ probabilmente partendo da questi due gruppi, Galliate e Malpensa, che in seguito il popolamento si concentrerà nell’area di SC-GCT.

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Per Biandronno: G. GUERRESCHI 1971, p. 480 e ss., figg. 7-9 e tav. III; per Biassono: R.C. DE MARINIS 1971-72, p. 66, tav. III B e IV A; Galliate: R.C. DE MARINIS 2001, p. 21 e ss., figg. 3-4. 22

Già nelle fasi più avanzate del Bronzo Finale si possono riconoscere alcuni dei caratteri che saranno distintivi della cultura di Golasecca : il rito funerario, una prima forma di concentrazione demografica nei dintorni di Como, un’apertura ai contatti e agli scambi con il mondo transalpino nord-occidentale da una parte e con la penisola italiana, in particolare con l’area centro-occidentale (la futura Etruria) dall’altra. Le spade di Gattinara e di Bernate appartengono rispettivamente ai tipi Stockstadt e Rankweil, diffusi nell’Europa centro-occidentale, la cuspide di lancia di Luino è decorata in uno stile caratteristico dell’ambiente palafitticolo svizzero. Per contro due palette di tipo Protogolasecca e molte perle d’ambra tipo Allumiere sono state scoperte al Montlingerberg (cantone di S. Gallo) e fibule ad arco semplice, sempre di tipo Protogolasecca, sono documentate negli insediamenti palafitticoli svizzeri. Le perle d’ambra di tipo Allumiere testimoniano l’inizio di un fenomeno che crescerà di intensità e di importanza con il passare dei secoli, gli scambi tra penisola italiana e mondo mediterraneo in genere ed Europa transalpina. Perle dello stesso tipo sono state trovate all’Isolino di Varese, nel grande abitato protoveneto di Frattesina (Rovigo), nella necropoli di Bismantova nell’Appennino reggiano e in Italia centrale nella necropoli protovillanoviana di Allumiere La Pozza. Le armille di bronzo del tipo Zerba, conosciute nelle necropoli dei dintorni di Como, in alcune tombe di Biandronno e di Romentino, e nell’abitato di Badia Pavese, documentano i rapporti con l’Appennino ligure-emiliano, la Versilia e la Toscana, poiché armille dello stesso tipo provengono dai ripostigli di Zerba, di Loto presso Sestri Levante, Colle Le Banche preso Camaiore, Pariana (Massa) e Limone Montenero (Livorno). E’ possibile che questi contatti siano stati favoriti dagli spostamenti degli artigiani metallurghi itineranti. La loro attività è testimoniata dal ripostiglio di forme di fusione di Cermenate e da quello della Malpensa. In quest’ultimo oltre ad asce, falci e cuspidi di lancia nuove e a diversi oggetti rotti raccolti per essere rifusi, c’erano tre reperti eccezionali, tre schinieri in lamina bronzea del tipo a lacci, decorati a puntini e borchiette sbalzati con i motivi del sole e della testa di cigno (o altro uccello acquatico come l’anatra), il primo simboleggiato dalla ruota raggiata, il secondo stilizzato geometricamente. Gli schinieri della Malpensa appartengono al tipo più antico finora conosciuto in Europa, come gli schinieri di Rinyaszentkiraly o di Nadap nel bacino carpatico, di Brodskj Varos o Veliko Nabrde in Croazia, di Stetten Teiritzberg in Austria, di Cannes-Écluse presso Parigi e di Desmontà di Veronella (VR), questi ultimi provenienti da una necropoli protoveneta ma privi di contesto, mentre tutti gli altri provengono da ripostigli. Uno schiniere identico a quello della Malpensa con le quattro ruote raggiate simmetricamente disposte proviene da una tomba dell’acropoli di Atene, di età geometrica, ma che sembra aver riutilizzato una più antica tomba di età micenea. L’esemplare di Atene non è di fabbrica locale, poiché gli schinieri micenei hanno forma e decorazione differenti rispetto a quelli centro-europei e dell’Italia settentrionale. L’ampiezza dei confronti che è possibile istituire per alcuni dei materiali del ripostiglio della Malpensa dimostra che all’inizio del Bronzo Finale vi era un’estesa rete di contatti, soprattutto per quanto riguarda la metallurgia e i manufatti riconducibili alla sfera del prestigio tra Italia settentrionale, area medio danubiana del bacino carpatico ed Egeo. 23

Deposizioni rituali in laghi, fiumi e paludi : la spada di Prato Pagano di Bernate La spada è stata scoperta nell’inverno 1847-48 durante lavori di bonifica in un fondo di proprietà G. Lucini nella località Prato Pagano, un’area un tempo paludosa subito a sud delle colline di Grandate e di Bernate, alla confluenza del rio Rossola con il Seveso. La località dista soltanto poco più di un km. dalla parte più meridionale della necropoli della Ca’ Morta. L’impugnatura è fusa in un unico pezzo, internamente cavo, e unita alla lama mediante due ribattini. Presenta un pomo a disco con un pomello centrale, un fusto tricostolato e una guardia semicircolare. La lama è del tipo pistilliforme, con la massima larghezza verso la punta. L’impugnatura è decorata a cerchielli concentrici, mentre sulla guardia è inciso il motivo della “barca solare”. La spada appartiene al tipo Rankweil, diffuso soprattutto a nord delle Alpi dal Vorarlberg alla Westfalia ed è databile verso l’XIX secolo a.C. Si tratta di una spada adatta, per la robustezza della lama, a colpire soprattutto di taglio, per menare fendenti, ad es. stando su un carro da combattimento. Il pomo presenta un foro che serviva per legare la spada al polso durante il combattimento. Il fatto che la spada sia intatta, mentre in questo periodo le spade deposte nelle tombe venivano ritualmente spezzate, e che sia stata rinvenuta in un luogo un tempo occupato da una palude colloca il ritrovamento nell’ambito di una categoria a cui nella letteratura di lingua tedesca è stato dato il nome di Gewässerfunde e che comprende rinvenimenti nelle acque di fiumi, torrenti, laghi, stagni e paludi. Il rito della deposizione nelle acque di armi, specialmente spade, ed oggetti di prestigio quale offerta alle divinità è ampiamente attestato in Europa durante l’età del Bronzo e del Ferro. E’ possibile che il suo significato sia almeno in parte differente a seconda dei luoghi e dei tempi. Alcuni autori hanno ritenuto di poter riconoscere nelle leggende medioevali un’eco di questo aspetto della religiosità preistorica. La spada magica Excalibur fu donata a re Artù da una divinità femminile emergente dalle acque e quando è ormai prossimo a morire Artù ordina che la spada sia gettata nelle acque del lago affinchè possa tornare in possesso dell’entità soprannaturale. Nella saga dei Nibelunghi il tesoro conquistato da Sigfrido e offerto a Crimilde quale dote verrà affondato nelle acque del Reno da Hagen e mai più recuperato. Il fenomeno delle offerte nelle acque oltre a una dimensione propriamente religiosa doveva possederne una di carattere sociale. Le élites sociali accumulavano nelle loro mani quantità più o meno grandi di beni e ne offrivano una parte alla divinità, a beneficio di tutta la comunità, poiché la divinità avrebbe assicurato in cambio favorevoli condizioni di vita (pioggia, fertilità dei terreni e degli animali). In questo modo le élites consolidavano il proprio prestigio e potere e nello stesso tempo operavano un riequilibrio delle diseguaglianze, assicurando la coesione sociale in un’epoca in cui erano ancora assenti gli strumenti tipici delle società urbane per raggiungere questo scopo (una classe politica e sacerdotale, templi, forze armate istituzionalizzate).

Il IX e VIII secolo a.C.

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Poco dopo gli inizi dell’età del Ferro, nel corso del IX secolo a.C., gli abitati della bassa pianura vengono abbandonati, il popolamento si concentra nell’alta pianura e nelle fasce sub-alpina e prealpina. Anche le regioni montane appaiono vuote di ritrovamenti per un lungo periodo dal IX fino agli inizi del VI secolo. Per gli abitati della bassa pianura le ragioni dell’abbandono probabilmente sono da ricercare in fattori di carattere climatico. Il passaggio dal clima Sub-boreale a quello Sub-atlantico è contrassegnato da una maggiore piovosità e dall’espansione dei ghiacciai alpini, segno inequivocabile di un abbassamento della temperatura media soprattutto estiva. Un clima più umido per regioni topograficamente depresse come la bassa pianura, in un’epoca in cui i corsi d’acqua non erano dotati di argini artificiali, ha significato certamente estesi fenomeni di alluvionamento e di impaludamento, che hanno costretto gli uomini a ritirarsi verso le aree più asciutte dell’alta pianura e delle colline moreniche. Importanti centri della cultura di Golasecca come Ameno sul lago d’Orta e la zona di Castelletto Ticino-Sesto CalendeGolasecca cominciano ad essere attivi proprio nel IX e VIII secolo, mentre il fenomeno di concentrazione demografica nei dintorni di Como diventa più consistente. Con il IX e VIII secolo inizia a manifestarsi una differenza tra la ceramica dell’area occidentale (Ameno, Golasecca) e quella più orientale (Como). Nell’area occidentale viene adottata come urna cineraria un vaso di forma biconica decorato a triangoli tratteggiati (denti di lupo), dapprima eseguiti con la tecnica dell’impressione a falsa cordicella e poi a incisione. In quella orientale, invece, l’urna decorata a denti di lupo, pur essendo documentata, è affiancata da un altro tipo, a forma di situla, forse di influsso paleoveneto, che sembra essere utilizzato prevalentemente per le deposizioni femminili, mentre l’urna biconica è riservata a quelle maschili. Nelle necropoli di Golasecca e Sesto Calende nel corso dell’VIII e VII secolo le tombe sono frequentemente collocate all’interno di circoli di pietre, del diametro variabile da 3 fino a 10 metri, fenomeno del tutto sconosciuto nella zona di Como. A Como fin dal IX e soprattutto nell’VIII secolo le tombe presentano una maggiore ricchezza per quanto concerne il numero e la qualità degli oggetti deposti nel corredo funerario : fibule ad arco ingrossato, ad arco costolato, a grandi coste, pendagli, perline di osso e di vetro (cfr. il ricco corredo femminile della tomba 289 della Ca’ Morta), spilloni, lance, spade e coltelli di bronzo, vasi di bronzo e a partire dall’VIII secolo anche oggetti di prestigio importati da diverse aree della penisola italiana. Una prova dei rapporti instaurati con l’Etruria fin da questo periodo è stata fornita dal ritrovamento negli scavi di via Isonzo (area IACP) a Prestino di un frammento di lamina bronzea pertinente a un cinturone a losanga di tipo villanoviano. Il frammento comprende parte della piastra quadrangolare a bordi ripiegati verso l’interno e fornita di due fori passanti per il fissaggio alla cintura di cuoio, e l’inizio della parte foliata con i margini ripiegati leggermente verso l’esterno e recante una raffigurazione ornitomorfa stilizzata rivolta verso il centro del cinturone.

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Nell’ambito della civiltà villanoviana le città che hanno restituito il maggior numero di cinturoni a losanga, caratteristici del costume femminile, sono nell’ordine Bologna, Veio, Tarquinia, Vulci, Populonia. Nel IX e VIII secolo il ferro è ancora assente, tranne rare eccezioni. La tomba di Moncucco (Como) con un’urna biconica decorata da due fasce di denti di lupo a falsa cordicella e una spada di bronzo rotta ritualmente in 7-8 pezzi, aveva in un vaso posto accanto all’urna un piccolo coltello con la lama di ferro e il manico di bronzo, il più antico oggetto di ferro finora conosciuto nell’ambito della cultura di Golasecca. La tomba è databile alla fine del IX - inizi dell’VIII secolo a.C.

L’origine della metallurgia del Ferro Si possono incontrare piccoli manufatti di ferro, quasi sempre di carattere ornamentale e in genere di ferro meteoritico (facilmente riconoscibile perché contiene alte percentuali di nichel e cobalto) fin dal IV e III millennio a.C. nel Vicino Oriente. Gli Egiziani lo chiamavano “metallo del cielo” o “rame nero del cielo” ed anche il termine greco “sideros” fa riferimento all’origine celeste del ferro. Nel II millennio a.C. in Anatolia nell’ambito delle regioni sotto il dominio degli Hittiti, si cominciarono a utilizzare minerali di ferro come fondente per rendere più fluide le scorie dei minerali di rame, che arricchendosi di ossidi di ferro, liberavano più facilmente il rame. In questo procedimento capitava di frequente di produrre accidentalmente anche del ferro. Nel XV-XIII si producevano quindi piccole quantità di ferro e spesso, inavvertitamente, di acciaio, che per le sue qualità di maggiore durezza rispetto al bronzo veniva richiesto agli Hittiti dai sovrani dell’Egitto. E’ celebre lo splendido pugnale con lama in acciaio e manico e fodero in oro rinvenuto nella tomba di Tutanchamon. Dopo il crollo dell’impero hittita e degli altri importanti centri dell’economia palaziale, fra cui quelli micenei, verso il 1200 a.C., l’interruzione dei regolari contatti commerciali tra il Mediterraneo orientale, l’Italia e l’Europa nord-occidentale, da cui proveniva lo stagno indispensabile per la fabbricazione del bronzo, favorì l’adozione del ferro come sostituto del bronzo. Già nell’XI e X secolo a.C. in Grecia quasi tutti i manufatti erano fabbricati in ferro, mentre nella stessa epoca la metallurgia del ferro era ancora sconosciuta in Italia e nell’Europa continentale. A partire dal XIX secolo la ripresa dei contatti tra Mediterraneo orientale ed Europa protostorica, grazie a Fenici e Greci, ristabilì i rifornimenti di stagno e mentre le armi e gli attrezzi da lavoro continuarono a essere fabbricati in ferro, gli oggetti di ornamento (fibule, spilloni, anelli, braccialetti, pendagli) tornarono a essere fabbricati in bronzo, al pari di tutto l’armamento difensivo (elmi, corazze, schinieri). Grazie ai contatti ristabiliti con la Grecia anche le popolazioni protostoriche europee appresero l’uso del ferro. Un ruolo importante nella diffusione della metallurgia del ferro è stato svolto dalla più antica colonia greca in Occidente, Pithecusa, sull’isola di Ischia, fondata verso il 775 a.C. Gli scavi hanno 26

rivelato la lavorazione in loco di minerali di ferro provenienti dall’isola d’Elba già nel corso dell’VIII secolo. Un’altra via di diffusione della nuova tecnologia è stata quella balcanica, sempre a partire dalla Grecia. Importanti miniere di ferro furono localizzate in Stiria e in Carinzia, la futura regione del Noricum. Una prova di questo fatto viene fornita dalla linguistica comparata : il termine per designare il ferro nelle lingue germaniche (Eisen, Iron) deriva da Isarnon, la parola con cui gli Illiri dei Balcani chiamavano il ferro. La metallurgia del ferro presentava maggiori difficoltà rispetto a quella del bronzo. Il punto di fusione del ferro, 1537°, è considerevolmente più elevato di quello del rame e nella protostoria e nell’antichità non si era in grado di costruire fornaci capaci di raggiungere questa temperatura. I primi a riuscire a fondere il ferro furono i Cinesi del periodo degli “Stati Combattenti” (475-221 a.C.). Durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) la fusione del ferro era praticata comunemente. In Europa soltanto verso la fine del Medioevo si cominciò a fondere il ferro. Durante l’età del Ferro i minerali erano caricati in fornaci che raggiungevano i 1200°, temperatura alla quale si formava un massello spugnoso contenente ferro ma anche molta scoria (ossido ferroso, silicato di ferro, ganga silicea). Riscaldando il massello la scoria diventava viscosa e poteva in parte essere eliminata. Con la forgiatura si otteneva il ferro dolce, che presenta una durezza e una resistenza alla trazione inferiori al bronzo. Tuttavia, con la forgiatura poiché il massello veniva a contatto con il carbone di legna incandescente e con l’ossido di carbonio prodotto dalla combustione, poteva avvenire un processo di cementazione, cioè l’assorbimento di carbonio. Si produceva così un ferro che era in parte puro (ferrite) e in parte in lega con il carbonio (cementite o carburo di ferro). Ben presto nel Vicino Oriente e in Grecia si scoprì che raffreddando rapidamente il ferro cementato, aumentava considerevolmente la sua durezza. Questo processo si chiama tempratura e la sua conoscenza è già attestata in Omero, come dimostra l’episodio di Ulisse che acceca Polifemo : “Come un fabbro una gran scure o un’ascia nell’acqua fredda immerge con sibilo acuto temprandola, e questa è appunto la forza del ferro, così strideva l’occhio del mostro intorno al palo di ulivo...” (Odissea, IX, vv. 390-395). Nell’Europa della prima età del Ferro non si sapeva ancora controllare la qualità del ferro prodotto, la maggior parte dei manufatti era di ferro dolce e solo una piccola parte di acciaio, cioè di ferro con una percentuale di carbonio, mentre altri manufatti presentavano una struttura perlitica, con strati alterni di ferrite e di cementite ed altri ancora avevano soltanto la parte tagliente dello strumento di ferro carburato. Nella seconda età del Ferro, invece, la maggior parte dei manufatti era ormai di ferro cementato con una buona percentuale di carbonio (acciaio), anche se si continuava a produrre molti manufatti di ferro dolce.

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Relazioni con gli Etruschi e prime forme di società stratificata La tomba della Vigna di Mezzo fu scoperta verso il 1878 in un fondo di proprietà del conte Giovanni Giovio nei pressi della via Ronchetto di Breccia (Como). Del ricco corredo sopravvivono solo alcuni pezzi. Di un’anfora di lamina bronzea con due anse rimane ora soltanto un’ansa a maniglia con infilati pendagli antropomorfi, mentre è andato perduto un frammento del corpo decorato a puntini e borchiette a sbalzo. Anche il frammento di uno spillone con capocchia conica non è più rintracciabile. Si conservano ancora un frammento di bicchiere fittile decorato a sfaccettature oblique, un coltello di bronzo a lama serpeggiante, una coppia di morsi equini in bronzo del tipo con filetto a treccia snodato e campanello per le redini, e un bidente con un lungo manico decorato a tortiglione con un’apertura al centro. La funzione di quest’ultimo oggetto non è chiara, essendo rotta l’estremità distale, cioè la parte più direttamente funzionale, poteva trattarsi di un raffio per prendere le carni poste a bollire in grandi recipienti in occasione di sacrifici e banchetti rituali oppure di un’insegna sacrale e di potere, quale si ritrova in Etruria ad es. nel circolo del tridente di Vetulonia o nelle insegne dei magistrati etruschi del IV e III secolo a.C., a forma di spiedo, ma con un’impugnatura simile a quella del bidente della Vigna di Mezzo. La scoperta della Vigna di Mezzo, insieme ad altre avvenute presso la Cascina Fontana, la località Fabbrica e recentemente in via Tito Livio, dimostra che la parte più meridionale dell’area in seguito occupata dall’abitato protostorico del VI e V secolo, era, nel X-VIII secolo, ancora utilizzata come area funeraria, quindi l’abitato in quest’epoca doveva avere dimensioni molto più ridotte. La tomba della Vigna di Mezzo era maschile, come dimostrano lo spillone e i morsi equini. La presenza di una coppia di morsi (i due frammenti, infatti, non possono appartenere a un unico morso) induce a ritenere che fosse una tomba a carro, di cui peraltro nulla si è conservato. L’anfora doveva essere formata da due lamine di bronzo, una per la parte superiore con orlo, collo e spalla, e una per la parte inferiore del corpo, unite lungo la massima espansione del vaso con una serie di ribattini a grossa capocchia conica. La spalla e il corpo oltre alla decorazione di file orizzontali di puntini e borchiette a sbalzo, recavano probabilmente anche il consueto motivo della barca solare ornitomorfa. Anfore di questo tipo sono state scoperte in Etruria a Veio-necropoli dei Quattro Fontanili, t. AA 1, e a Narce, t. 38, in Italia settentrionale a Colognola ai Colli (Verona) e a nord delle Alpi a Gevelinghausen e Seddin in Germania, a Przeslawice in Polonia, a Rorbaek in Danimarca. Abbiamo già accennato a rapporti tra Italia centrale, area di Golasecca e Mittelland elvetico nelle fasi più avanzate del Bronzo Finale. Tuttavia, è soltanto a partire dalla fine dell’VIII secolo a.C. con l’intensificarsi delle relazioni commerciali tra Etruria e territori a nord del Po e a nord delle Alpi, che la civiltà di Golasecca, grazie al controllo delle vie di accesso attraverso il corso dei fiumi e dei laghi insubrici a importanti passi alpini come il S. Bernardino o il Gottardo, ha iniziato a svolgere il ruolo di ponte di collegamento tra penisola italiana, e quindi Mediterraneo, ed Europa centro-occidentale, vocazione naturale del territorio che viene scoperta e valorizzata per la prima volta proprio dalle genti 28

della prima età del Ferro. Questi rapporti diventeranno sempre più stretti nel corso del VII secolo e la crescente importanza degli scambi costituì la base stessa per una più marcata differenziazione sociale, l’emergere di un ceto aristocratico dominante e la nascita di grandi centri protourbani.

Nascita dei centri protourbani L’addensarsi dei ritrovamenti relativi sia agli abitati che alle necropoli nelle aree di Como e di Golasecca consente di parlare, a partire dal 700 a.C., di comprensori protourbani, centri preminenti rispetto a tutti gli altri abitati sparsi nel territorio. In queste due aree anche la semplice rappresentazione cartografica dei ritrovamenti pertinenti agli abitati e alle necropoli mostra con chiarezza l’evolversi da una situazione di villaggi autonomi e indipendenti, ma dislocati in un medesimo comprensorio, a un unico grande centro protourbano o preurbano che dir si voglia, secondo un modello che è conosciuto con un certo décalage cronologico dall’Etruria fino a Este e a Padova nel Veneto. Con l’espressione ‘centro protourbano’ si è soliti indicare grandi aggregazioni di villaggi densamente popolati, che si formano parallelamente all’emergere di differenziazioni socio-economiche, allo sviluppo degli scambi commerciali a lungo raggio, alla nascita di officine artigianali specializzate nella produzione della ceramica e dei manufatti di metallo, integrate stabilmente nella comunità. Anche se i centri di Como e di Golasecca non furono protagonisti di un processo di completa urbanizzazione, essi esercitarono funzioni tipiche dei centri urbani, come l’essere sede delle élites sociali e delle attività artigianali specializzate, centri di riferimento per l’organizzazione di un ampio territorio da essi dipendente, importanti scali lungo gli itinerari commerciali. Queste aggregazioni di villaggi, di cui conosciamo soprattutto le necropoli e molto meno l’organizzazione interna, rappresentarono comunque un superamento delle condizioni di vita preistoriche, in particolare per quanto riguarda l'economia : la loro stessa dislocazione topografica dimostra che non potevano essere villaggi rurali autosufficienti, bensì agglomerati che si ponevano gerarchicamente a capo di un territorio caratterizzato da una minore densità demografica e da insediamenti sparsi. Per comprendere il concetto di comprensorio protourbano è necessario domandarsi che cosa sia nella sua essenza una città. Una città è tale non per le sue dimensioni, per il suo numero di abitanti, e neppure per l’edilizia monumentale. La definizione che coglie meglio l’essenza del fenomeno città è quella data dal grande sociologo tedesco Max Weber (1922) : un centro abitato in cui la maggior parte delle persone non sono impegnate nelle attività economiche della produzione primaria, ma in attività di altro genere : artigianali, commerciali, burocratiche, politiche e religiose. Le estese aggregazioni di villaggi dei dintorni di Como e della zona di Golasecca, anche se prive di pianificazione urbana e di edifici monumentali, devono essere considerate di natura essenzialmente urbana in virtù delle trasformazioni dell’organizzazione produttiva e sociale che sottendono e delle funzioni di poli coordinatori dello spazio rurale circostante che vengono a svolgere. Como e Golasecca

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sono, infatti, i capoluoghi delle due principali province culturali identificabili nell’ambito della civiltà di Golasecca.

Il comprensorio protourbano di Golasecca-Sesto Calende-Castelletto Ticino Resti di abitazioni sono stati scoperti un po’ su tutto il ripiano fluvio-glaciale su cui sorge l’attuale paese di Castelletto, che è delimitato a nord, a est e a sud dalla accentuata scarpata morfologica del Ticino e a ovest dalla profonda incisione di un paleoalveo del Ticino, sul cui fondo corre attualmente la linea ferroviaria Novara-Arona. La superficie complessiva del villaggio protostorico raggiunge i 140 ettari, ma solo una piccola parte ha potuto finora essere esplorata e non sappiamo quindi se si tratti di un unico grande insediamento o di più villaggi ubicati a breve distanza l’uno dall’altro e separati da spazi vuoti. Sulla sponda lombarda resti di abitazioni sono stati rinvenuti soltanto al Molinaccio, lungo la riva del fiume ai piedi della scarpata del pianoro morenico su cui sorge il paese di Golasecca, e più a nord alla Cascina Testa, in comune di Sesto Calende, sempre lungo il fiume : probabilmente si tratta solo di piccoli nuclei abitativi in relazione ai punti di approdo. Tutt’intorno al grande abitato di Castelletto Ticino si susseguono le zone utilizzate per le necropoli, almeno in parte disposte lungo i percorsi che conducevano in direzione nord, nord-est, sud e nord-ovest. La maggiore concentrazione di tombe è senza dubbio quella subito a nord di Golasecca e quindi esattamente di fronte all’abitato di Castelletto : Lazzaretto, Malvai, Cascina Melissa, I Guasti, Monsorino, Galliasco, Le Corneliane, Mambrino, Cascina Brivio, Presualdo e Gajaccio sono tutte località che hanno restituito un grande numero di tombe. Questo raggruppamento proseguiva in direzione di Vergiate fino alle colline della Bonella e di Ferrera. Più a nord, a Sesto Calende, sempre lungo la sponda lombarda del Ticino, i gruppi di tombe si snodano da Impiove e Mulini di Mezzo ai Mulini Bellaria, Carrera, Montrucco, via Adige, per risalire fino a La Castiona, San Giorgio e Oriano Ticino. A sud e a ovest dell’abitato di Castelletto erano sparsi altri importanti raggruppamenti di tombe : Dorbiè e Bosco del Monte verso sud, Aronco, Motto della Forca e Motto Fontanile verso ovest. Anche la semplice elencazione credo sia sufficiente per avere un’idea dell’estensione e della consistenza demografica di questo comprensorio proto-urbano, sviluppatosi dalla fine dell’VIII agli inizi del V secolo a.C. La scelta insediativa lungo il corso del Ticino all’altezza di Castelletto e Golasecca è chiaramente collegata a motivi di carattere commerciale. In questa zona, infatti, il Ticino scorre in una gola larga in alcuni punti solo 75 metri, e forma delle rapide. Nel Medioevo e ancora in età moderna soltanto i battellieri di Golasecca erano capaci di affrontare la navigazione in questo tratto reso difficile dalla presenza di rapide e pietraie, queste ultime, tuttavia, in alcuni periodi dell’anno rendevano possibile attraversare il fiume a piedi. Da questa circostanza deriva probabilmente il nome di Gullasecca, attestato già nel XIII secolo. 30

Considerato che in questo tratto del fiume era agevole istituire una forma di controllo dei traffici con pagamento di pedaggi e che, essendo il paesaggio circostante dominato dalla brughiera, non possono essere state le risorse agricole ad aver determinato la nascita di un centro proto-urbano, ne consegue che il motivo del suo sorgere non può che essere stato un fattore di carattere commerciale e più precisamente l’intensificarsi degli scambi tra gli Etruschi da una parte e i Celti transalpini dall’altra.

Il comprensorio protourbano di Como La Como preromana non sorgeva nella convalle affacciata sul lago dove fu fondata Novum Comum e prosperarono la Como medievale e moderna, ma lungo il versante sud-occidentale del Monte della Croce. La sua estensione era considerevole, poiché resti di abitazioni della prima età del Ferro sono stati scoperti per una lunghezza in linea d’aria di 1,9 km in direzione NW-SE e di 1 km in direzione NE-SW. La dorsale collinare che circonda ad ovest e a sud Como è costituita da una formazione rocciosa oligomiocenica (gonfolite, localmente detta molassa o molera) comprendente arenarie, marne arenacee, conglomerati ciottolosi e marne argilloso arenacee, ed è spezzata in tre tronconi dalla sella di S. Fermo e dalla Val di Vico che separano il Sasso di Cavallasca dal Monte della Croce, e dalla depressione della Camerlata, che separa il Baradello, ultima propaggine del Monte della Croce, dal Monte Tre Croci. Nel caso del Monte della Croce mentre i versanti nord-orientale, rivolto verso la convalle di Como, e meridionale, rivolto verso Camerlata, sono molto ripidi e scoscesi, quello sud-occidentale digrada più dolcemente formando una prima serie di terrazzi tra 450 e 400 m ed una serie di più ampi pianori tra 400 e 350 m di quota, rivolti verso la piana dell’alto Seveso. La zona è ricca di fonti e di piccoli rivi, che hanno inciso le pendici formando vallette che separano i diversi ripiani (fonte della Mojenca, rio Val, rio Mora, tutti confluenti nel Seveso, e rio Seliga, che piegando verso est confluisce nel bacino dell’Acquanegra e del Cosia). La posizione dominante verso la pianura, l’ampiezza dei pianori, la ricchezza di risorse idriche, la protezione dai venti di nord-est, sono tutti elementi che possono avere influito sulla scelta della zona come sede dell’abitato protostorico. Le prime scoperte risalgono agli anni 1875-1879 e si devono all’opera del canonico V. Barelli e del dott. G.A. Galli, sindaco di Rondineto. Purtroppo tutta l’area è stata interessata a partire dalla fine degli anni ’50 da una intensa e rapida urbanizzazione, che ha provocato la distruzione e la perdita di un inestimabile patrimonio archeologico. Gli interventi degli organi di tutela sono stati occasionali e privi di una visione scientifica complessiva del problema. Alla Società Archeologica Comense va il merito di aver raccolto una preziosa serie di dati topografici, del recupero di molti materiali archeologici e di aver pubblicato una carta archeologica della zona nel 1969, in seguito ulteriormente aggiornata. Regolari campagne di scavo sono state condotte soltanto dopo la metà degli anni ’70 : Pianvalle (1976-1979), via Rigamonti a S.

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Fermo (1979), Brecciago (1980), via Isonzo area IACP (1981-1985), via Proda (1985), via Picchi (1993), via Isonzo 22-24 (1995), via Tito Livio (1996). Non si conoscono ancora i confini precisi dell’abitato durante il periodo della sua massima espansione, il V secolo a.C. Un limite abbastanza sicuro si può riconoscere a NE nella isoipsa dei 450 m, poiché al di sopra di questa quota le testimonianze si rarefanno, e a NW nella sella di S. Fermo, poiché subito al di là ha inizio la necropoli di S. Maria di Vergosa. Molto incerto è il limite occidentale e meridionale dell’abitato. Infatti, non è sicuro che i ritrovamenti di Prestino-area della iscrizione, della piscina di Casate e di via Picchi rappresentino il limite effettivo dell’abitato, che da questo lato potrebbe essere stato ben più ampio e un indizio in questo senso è fornito dai ritrovamenti avvenuti nel 1993 in via Rimembranze, circa 500 m più a sud di via Picchi. Verso sud-est i gruppi di tombe che iniziano nei terreni intorno alla Villa Giovio e proseguono fino a Respaù e lungo la via Varesina fino a Camerlata indicano che l’abitato non proseguiva oltre da questa parte.

L’estensione complessiva dell’abitato poteva

raggiungere i 150 ettari, una dimensione paragonabile a quella delle grandi città etrusche, ma non sappiamo se tutta questa superficie fosse realmente occupata in modo continuo da abitazioni o se l’occupazione fosse del tipo a macchia di leopardo. Subito al di fuori dell’abitato o a breve distanza da esso si incontrano numerosi gruppi di tombe, che si dispongono lungo le probabili vie che si diramavano dall’abitato. A sud possiamo riconoscere due grandi aree cimiteriali, la principale delle quali è senza dubbio la Ca’ Morta o necropoli meridionale : essa ha inizio circa 1 km in linea d’aria dal margine meridionale dell’abitato e si snoda in direzione N-S per 1250 metri, dal Crotto di Lazzago (cava Butti) fino alle pendici settentrionali della collina di Grandate (cave Gini e fratelli Cremona). Un altro raggruppamento di nuclei di tombe si snoda in direzione da ovest verso est lungo le pendici meridionali del Monte Caprino e del Monte Baradello, per una lunghezza di circa 2 km : ha inizio nell’attuale via Tito Livio e nei terreni attigui alla Villa Giovio, prosegue con altri gruppi di tombe nelle località Salvadonica, Ronchetti di Rebbio, fondo Rovelli e fondo Amadeo presso Respaù; altre tombe sono state scoperte ancora più verso est, nei pressi dell’ospedale S. Anna e della basilica di S. Carpoforo. Tutti questi gruppi formavano la necropoli sud-orientale. Subito al di fuori del limite nordoccidentale dell’abitato sono venuti alla luce numerosi gruppi di tombe all’asilo di San Fermo, nel fondo Selva Buggia, a Santa Maria di Vergosa e presso la cascina Amatta. Altri gruppi di tombe si trovavano a nord dell’abitato a Moncucco, Cardano, Villa Nessi e ancora più a nord a Valeria di Borgo Vico. Nel complesso vi erano quattro aree destinate a necropoli a nord, nord-ovest, sud e sud-est dell’abitato. Le ceramiche più antiche scoperte nell’abitato protostorico, databili al Protogolasecca (X sec.a.C.) e al Golasecca I (IX-VII sec.a.C.), sono state rinvenute soprattutto in discariche, in riempimenti o ridepositate in strati più recenti, mentre non si sono conservate strutture d’abitato coeve. All’interno di quella che sarà 32

l’area di massima espansione dell’abitato i ritrovamenti riferibili a questi periodi più antichi sono relativamente pochi e distanziati e questo fatto suggerisce l’ipotesi che appartengano a villaggi diversi posti a breve distanza uno dall’altro. A riprova della minore estensione e del frazionamento in diversi nuclei distinti vi è anche il fatto dell’uso a scopo funerario di alcune zone che saranno poi occupate da abitazioni del V secolo a.C. (villa Cantaluppi, via Tito Livio, Vigna di Mezzo presso via Ronchetto, podere Vitali in località Fabbrica).

La necropoli settentrionale Poche centinaia di metri a nord dell’abitato protostorico dei dintorni di Como, posto lungo il versante sudoccidentale del Monte della Croce da S. Fermo a Brecciago, diversi gruppi di tombe sono stati scoperti sui pendii orientali del Sasso di Cavallasca e nella Val di Vico. Per quanto non vi siano mai state condotte indagini scientifiche in anni recenti, è verosimile ritenere che costituissero la necropoli settentrionale dell’abitato, con gruppi di tombe disseminate lungo le vie che uscendo dall’abitato conducevano da una parte verso il lago di Lugano e dall’altra verso la sponda occidentale del Lario. Tra il 1870 e il 1874 un numero imprecisato di tombe, ma sicuramente diverse decine, furono scoperte nel corso dei lavori di sistemazione e dissodamento del giardino e del vigneto intorno alla Villa Nessi (ora Bianchi) in Val di Vico. Tra il 1874 e il 1876 analoghe scoperte furono fatte nel podere attiguo alla villa Fusi a Moncucco, sempre durante lavori di sterro a scopo agricolo. Qui le tombe venute alla luce erano certamente dell’ordine delle centinaia. A Cardano, in terreno di proprietà Ciceri contiguo a quello del podere Fusi, gruppi di tombe vennero alla luce nel 1888 e nel 1891. Infine, nel 1908 un nuovo gruppo di tombe fu distrutto in occasione di lavori nel giardino della Villa Noseda, in Val di Vico. Il ritrovamento di una Schnabelkanne bronzea del IV sec.a.C. durante i lavori per la ristrutturazione della Villa Olmo, nella proprietà del duca Visconti di Modrone, a Valeria di Borgo Vico, indica che probabilmente la necropoli si estendeva fino a quel punto. I materiali superstiti (principalmente ceramiche, fibule e spilloni) si datano dal X fino al V secolo a.C., l’unico oggetto più recente è il vaso bronzeo di Valeria di Borgo Vico. La maggior parte dei materiali sembra pertinente al X, IX e VIII secolo a.C. Va sottolineato che il IX - VIII secolo è un periodo poco rappresentato in tutte le altre necropoli dei dintorni di Como. A Moncucco lo scavo di una dozzina di tombe fu controllato nel febbraio 1876 dal canonico Vincenzo Barelli e grazie alle sue osservazioni è possibile ricostruire qualche corredo di grande interesse e rarità. In un’urna a corpo ovoide fra le ossa combuste vi era una cuspide di lancia in bronzo, decorata alla base con denti di lupo e fasci di linee orizzontali. Un’altra urna conteneva insieme a “minutissime ossa” combuste alcune fibule ad arco ingrossato e due braccialetti di filo di bronzo avvolto a spirale con appesi pendagli di lamina bronzea a forma di bulla circolare, una delle quali racchiudeva “un sassolino lucido, angoloso, di selce”. Un’urna biconica decorata con due fasce di denti di lupo impressi a cordicella conteneva una

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spada di bronzo spezzata ritualmente in sei frammenti, mentre in un vaso posto accanto all’urna fu trovato un coltellino di ferro con impugnatura di bronzo. Tombe del VII secolo erano presenti soprattutto a Villa Nessi, tombe del VI secolo a Cardano, a Villa Nessi e a Villa Noseda. Tombe del Golasecca III A (V secolo a.C.) sono note solo a Cardano. Tra i materiali recuperati di particolare importanza sono i frammenti di alcuni vasetti di vetro policromo, probabilmente di fabbrica rodia, importati attraverso gli Etruschi della pianura padana, gli unici esemplari finora scoperti nelle necropoli dei dintorni di Como.

La necropoli nord-occidentale L’abitato protostorico dei dintorni di Como si estendeva con direzione NW-SE lungo i pendi e i ripiani del versante meridionale del Monte della Croce. I resti di abitazioni scoperti nella località Camerano rappresentano l’area più settentrionale e occidentale dell’insediamento, subito al di là della quale sono venuti alla luce numerosi gruppi di tombe che costituivano probabilmente una delle necropoli che contornavano in più punti l’abitato. La necropoli nord-occidentale si estendeva per almeno 600 metri in direzione nord-sud. Le scoperte di cui si ha notizia sono state fatte tra il 1870 e il 1927 nelle località Asilo infantile di S. Fermo (1903, 1904), fondo Selva Buggia contiguo al cimitero di Vergosa (1884), podere Vitali (1870, 1874), chiesa parrocchiale di S. Maria di Vergosa (1877), podere Dossetto (1891), fondo Ronco Pezza di fronte alla chiesa di S. Maria di Vergosa (1927). Altri ritrovamenti si sono verificati una quarantina di anni fa nel giardino della attuale Villa Canepa, corrispondente all’area dell’ex-podere Vitali. Nessuna indagine scientifica è mai stata condotta in questa necropoli. I materiali superstiti consentono di affermare che il suo periodo di utilizzo ha avuto inizio già nel Bronzo Finale (ritrovamenti dell’Asilo infantile e della Villa Canepa) con il periodo Protogolasecca. Ben rappresentati dovevano essere il IX e l’VIII secolo a.C. (Selva Buggia, Villa Canepa, S. Maria di Vergosa). Una tomba del IX secolo a.C. fu scoperta nell’aprile 1877 a 12 metri dal lato NE della chiesa di S. Maria di Vergosa nel fare le fondazioni per il muro di recinzione del podere Vitali. La tomba, formata da pietre e lastre sovrapposte a secco, conteneva un’urna cineraria del tipo a grande boccale situliforme, con ricca decorazione eseguita a falsa cordicella, una tazzina, due fibule ad arco ingrossato e decorato a piccole costolature piatte, frammenti di armilla e di catenelle di bronzo. Per la loro rarità sono da ricordare anche uno spillone a capocchia conica tipo Vadena da Selva Buggia (VIII secolo) e uno spillone a capocchia composta da Villa Canepa. Importanti materiali furono scoperti nel 1891 nel podere Dossetto, tra S. Maria di Vergosa e Mornago, fra i quali una grande fibula ad arco ingrossato e costolato lunga quasi 12 cm. (IX secolo a.C.) e alcuni elementi bronzei per i finimenti di un carro trainato da due cavalli (quattro anelli per il passaggio delle tirelle e due specie di piuoli che dovevano essere fissati in qualche punto della cassa del carro o del timone e a cui probabilmente erano agganciate delle catenelle), databili probabilmente al VII secolo a.C. 34

Materiali riconducibili al VII secolo provengono anche da Selva Buggia, mentre sembrano assenti le fasi del Golasecca II (VI secolo). Il Golasecca III A è ben documentato e tombe di questo periodo sono state scoperte a Selva Buggia, S. Maria di Vergosa e nel fondo Ronco Pezza.

La necropoli della Ca’ Morta La Ca’ Morta era una casa posta lungo la strada provinciale detta comacina, nei campi intorno alla quale si effettuavano di tanto in tanto rinvenimenti di tombe a cremazione. Il nome fu poi utilizzato per denominare tutta la serie di gruppi di tombe a più riprese scoperti subito a occidente dell’arco di dossi tra la via Varesina e le pendici settentrionali della collina di Grandate. Questi gruppi di tombe si estendevano per oltre un chilometro in direzione nord-sud e costituivano la necropoli meridionale del grande abitato protostorico dei dintorni di Como. Le prime scoperte ricordate sono avvenute nel 1842 nel cavare sabbia per la “strada postale” (attuale via Varesina) in comune di Rebbio. In questa occasione in una tomba vennero alla luce una situla di bronzo decorata a puntini sbalzati, oggi perduta, e il celebre corredo da toilette in argento massiccio con laminette d’oro. Altre tombe furono scoperte nel 1885 durante la costruzione della linea ferroviaria Como-Varese sul confine Grandate-Rebbio (fra cui la tomba con il coperchio in lamina bronzea decorata a sbalzo e a bulino), nel 1888 presso la Cascina Due Porte, nel 1890 in un fondo presso la strada Varesina in comune di Breccia, nel 1909 nel campo dei fratelli Molteni presso la Ca’ Morta. A partire dal 1916 e fino al 1936 le scoperte si intensificarono nelle numerose cave di sabbia e ghiaia aperte nella zona : cave del rag. Carlo Manzoni, dei fratelli Ballerini, Frangi e Catella - poi dei fratelli Cremona - , Alessandro Gini, S.A. Cave di Grandate, che rilevò la cava Manzoni, e infine cava G. Butti verso il crotto di Lazzago, nella quale fu scoperta la tomba del Carro. Negli anni ’20 e ’30, pur in assenza di forme regolari di controllo dei lavori di cava, l’interessamento alle occasionali scoperte da parte di mons. Baserga e dell’ing. Giussani permise il recupero di importanti materiali e preziose notizie su un certo numero di tombe. A partire dal 1955 fino al 1978 la Società Archeologica Comense, in accordo con la Soprintendenza Archeologica della Lombardia e fino al 1974 sotto la direzione del prof. F. Rittatore Vonwiller, ha esercitato un’attività di controllo dei lavori di cava (cave Ballerini, Bianchi, Frey, Dalla Zuanna, Ferretti) ed alcune limitate porzioni dell’area sono state oggetto di prospezione più o meno sistematica (area IACP). Attualmente l’area, da tempo sottoposta a una forte pressione di espansione edilizia e quasi completamente edificata, ha esaurito le sue potenzialità archeologiche.

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90 80 70 60 50 40 30 20 10 1980

1970

1960

1950

1940

1930

1920

1910

1900

1890

1880

1870

1860

0

Dal grafico è possibile vedere come il numero delle tombe scoperte sia in stretto rapporto a forme di controllo dei lavori di cava. E’ comunque difficile effettuare una stima dell’entità complessiva della necropoli. Le tombe per le quali esiste documentazione o una qualche segnalazione sono 326, a cui bisogna aggiungere alcuni gruppi di tombe di cui non si conosce il numero preciso. Tenendo conto del numero di tombe scoperte nei diversi anni, del numero delle cave e dell’intensità dei lavori estrattivi a seconda dei periodi, si può ipotizzare che il numero complessivo delle tombe della necropoli della Ca’ Morta non fosse inferiore alle 1500 unità. I 4/5 delle tombe sono state distrutte senza che ne rimanesse traccia.

Lo studio delle necropoli e i riti funerari Spesso l’immagine delle società del passato è ricostruita prevalentemente attraverso lo studio delle necropoli. Ciò si verifica perché i materiali provenienti dalle tombe costituiscono in molti casi la principale fonte archeologica disponibile o perché gli abitati non sono stati individuati o non sono stati sufficientemente indagati. Infatti, l’indagine esaustiva di un abitato è di norma molto più lunga e costosa dello scavo di un gruppo di tombe o anche di un’intera necropoli. Nel caso della cultura di Golasecca le tombe sono state il punto di partenza per il riconoscimento della sua specificità culturale e tuttora costituiscono il principale strumento a disposizione dell’archeologo per delinearne le caratteristiche culturali e la loro evoluzione nel corso del tempo. Lo scavo e lo studio delle necropoli riveste un’importanza straordinaria per comprendere le concezioni dell’al di là di popolazioni la cui esistenza è spesso documentata solo da resti di cultura materiale, per stimare la composizione demografica della popolazione e per ricostruire l’organizzazione della società. Infatti, nel caso delle tombe l’archeologo può operare a livello dell’individuo (a parte i casi di sepolture collettive), poiché può verificarsi che la tomba grazie alla sua struttura, alla sua posizione topografica, alla

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maggiore o minore complessità del corredo funerario conservi come fossilizzato il ruolo e il rango sociale del defunto o la sua appartenenza a specifiche classi sociali. Tuttavia, non bisogna trascurare il fatto che le credenze religiose e il rituale funerario possono oscurare molti aspetti del reale e fornire un’immagine depauperata o deformata delle società del passato. Valga come esempio il fatto che in una società stratificata la componente più numerosa della popolazione e nello stesso tempo il gradino più basso della scala sociale può non apparire del tutto nelle fonti archeologiche per due motivi in parte complementari : per una sua esclusione dalle necropoli riservate ai restanti segmenti del corpo sociale e/o per una sua minore visibilità archeologica (semplici fosse senza altra struttura in cui veniva gettato il cadavere nel caso delle inumazioni, o semplici buche in cui erano deposti i resti combusti senza alcuna protezione e totale assenza di oggetti di corredo). Come ha scritto B. D’Agostino, il rapporto tra il mondo dei vivi e la comunità dei morti è metaforico e il passaggio da un sistema all’altro comporta trasformazioni strutturali, ma bisogna ammettere che un rapporto sia pure complesso di omologia tra società dei vivi e comunità dei morti deve necessariamente esistere e lo dimostrano molti esempi storici, come il caso dell’antico Egitto. Quindi ideologia religiosa, ruolo e rango sociale dell’individuo, sua appartenenza a specifici gruppi socio-economici possono emergere da un’attenta analisi dei riti e dei corredi funerari. Classi di età, il sesso, le differenze sociali costituiscono il triplice asse lungo il quale si può pervenire a cogliere attraverso l’analisi di una necropoli l’immagine di una società del passato. Le fonti archeologiche e quelle etnografiche documentano una grande varietà nelle pratiche funerarie in relazione al trattamento del cadavere : l’abbandono, l’esposizione e il seppellimento secondario, l’inumazione in posizione distesa o rannicchiata, la mummificazione, la cremazione. L’inumazione è la pratica funeraria più antica. Spesso il defunto veniva deposto nella tomba in posizione rannicchiata su un fianco, la posizione del sonno secondo alcuni, la posizione fetale secondo altri che vedono in ciò la restituzione dell’individuo al grembo della madre terra in vista di una sua rinascita nel mondo dell’aldilà. La cremazione dei defunti compare per la prima volta in qualche cultura neolitica (Protosesklo in Tessaglia, Linearbandkeramik e Lengyel nell’Europa centrale), ma si tratta di pochi casi o di fenomeni ancora circoscritti. La sua diffusione comincia ad acquistare importanza nel corso dell’età del Rame in culture come quelle di Baden, della Ceramica Cordata o del Vaso Campaniforme, senza mai diventare predominante, mentre nella successiva età del Bronzo molte culture dell’Anatolia, dei Balcani, del bacino carpatico e dell’Italia settentrionale adottano la cremazione come rito funerario esclusivo. A partire dal XIII secolo a.C. con l’inizio dell’età dei Campi di Urne la cremazione conquista quasi tutta l’Europa, dalla cerchia nordica alla penisola iberica e alla Grecia. Nel corso dell’età del Ferro molte popolazioni ritorneranno alla pratica dell’inumazione, altre rimarranno tenacemente fedeli al rito della cremazione, altre vedranno il costante coesistere dei due riti. Nell’Italia settentrionale le popolazioni liguri, quelle “protoceltiche” della cultura di Golasecca, i Veneti, i Reti 37

continuarono nella pratica della cremazione, che rimarrà anche dopo la conquista romana, mentre un ritorno all’inumazione avviene in seguito al diffondersi del Cristianesimo, che determinerà anche l’abbandono del rito del corredo funerario all’interno delle tombe e delle offerte all’esterno. Presso le popolazioni alpine del mondo ligure e golasecchiano la cremazione viene abbandonata già nel corso della prima età del Ferro. Nell’ambito della cultura di Golasecca, nella cosiddetta facies di Bellinzona diffusa a nord del Monte Ceneri, agli inizi del VI secolo è praticata la cremazione, quindi si passa, dopo una breve fase di biritualismo, al prevalere dell’inumazione fino all’epoca augustea, quando l’influsso culturale romano provocherà un ritorno alla cremazione. La storia dei riti funerari è quindi particolarmente complessa anche all’interno delle singole popolazioni, come dimostrano gli esempi degli Etruschi e dei Romani. Quale sia la natura effettiva della differenziazione tra i due riti funerari non sappiamo con precisione, ma sembra che a volte la scelta sia in relazione alle differenti classi di età e al sesso, a volte in relazione a differenziazioni socio-economiche, ma a volte esclusivamente in relazione a differenti credenze religiose. Nel rito della cremazione è riconosciuta la presenza del culto del fuoco, considerato una potenza divina distruttrice e allo stesso tempo rigeneratrice. A questo culto sarebbe connessa la credenza in un’anima immateriale ed eterna e quindi il desiderio di liberarla dall’involucro corporeo per consentirle di raggiungere immediatamente l’adilà, concepito in una sfera celeste piuttosto che infera e sotterranea. La frequente presenza di simboli solari sia nell’età del Bronzo che nell’età del Ferro confermerebbe l’aspetto celeste-solare delle credenze religiose delle popolazioni che praticavano la cremazione. I rituali connessi alla cremazione possono comprendere molte varianti a seconda dei tempi e dei luoghi. Nella cultura di Golasecca in generale e nelle necropoli dei dintorni di Como in particolare la cremazione avveniva in un luogo separato dalla necropoli vera e propria, non ci sono cioè casi di tombe a cremazione diretta, costruite sul luogo stesso della pira funeraria. La disorganicità delle ricerche condotte alla Ca’ Morta e la casualità della maggior parte delle scoperte avvenute nelle necropoli dei dintorni di Como non ha consentito l’identificazione di zone adibite agli ustrini. Dopo aver spento il rogo funebre con acqua o altri liquidi, avveniva la cerimonia della raccolta delle ossa combuste o delle ceneri probabilmente con una paletta, le ossa potevano essere lavate e poi raccolte e avvolte in un tessuto e deposte nell’urna cineraria. La presenza di tessuti è confermata da numerose osservazioni effettuate al momento della scoperta, ma nessun lembo consistente è mai stato recuperato. L’urna era calata entro un pozzetto o una cista litica che potevano essere riempiti con terra di rogo. Il defunto era in genere cremato con tutto il suo abbigliamento, per cui gli spilloni e le fibule che servivano per allacciare le vesti e molti altri oggetti di ornamento appaiono deformati dal calore del rogo. All’interno della tomba e spesso all’interno della stessa urna cineraria venivano collocati oggetti nuovi o comunque integri, che non hanno subito l’azione del rogo, relativi all’abbigliamento e agli ornamenti, oggetti per la cura della persona come i servizi da toilette, utensili come fusarole, rocchetti, punteruoli, coltelli, armi come spade o lance. Accanto all’urna poteva essere collocato un servizio ceramico da tavola 38

con ciotole, coppe, scodelle, tazzine, boccali, bicchieri, ollette oppure altri utensili da cucina come gli spiedi. E’ dimostrato che alcune ceramiche contenevano offerte alimentari. Una delle caratteristiche più diffuse delle tombe a cremazione è la frammentazione o la deformazione rituale degli oggetti, in particolare armi e utensili. Le spade venivano spezzate in più parti (v. tomba 292 della Ca’ Morta, tomba della spada di Moncucco) oppure ripiegate più volte (v. tomba dell’elmo della Ca’ Morta). Anche le fibule e gli spilloni potevano essere resi inservibili mediante torsione. La frammentazione rituale è un fenomeno di amplissima diffusione geografica e cronologica, per cui il suo significato varierà a seconda dei tempi e dei luoghi. Nel caso delle tombe a cremazione della protostoria europea è possibile che la frantumazione rituale sia da assimilare alla cremazione del corpo del defunto : l’oggetto viene rotto, “ucciso”, per liberarne l’essenza spirituale in modo che possa andare anch’esso “nella terra degli spiriti” a raggiungere il defunto. Le tombe bisome La composizione demografica della popolazione Uno degli aspetti più importanti dello studio delle necropoli è quello paleodemografico, che permette di ottenere informazioni sullo stato di salute e la durata media della vita delle popolazioni antiche. Gli studi condotti su un consistente numero di resti scheletrici dell’Europa e del Vicino Oriente dal Neolitico fino ai tempi medioevali ha fatto emergere tre particolarità fondamentali della struttura demografica delle popolazioni pre-jenneriane, anteriori cioè all’introduzione delle prime vaccinazioni : 1. La sovramortalità femminile, causata certamente dal parto; 2. il tasso altissimo di mortalità infantile; 3. La rarità delle stigmate senili. Inoltre, si coglie una tendenza al prolungarsi della durata media della vita dai tempi preistorici fino all’età classica greca e romana e un’inversione di tendenza a partire dall’età tardo antica e alto medioevale. Un altro problema che si pone negli studi paleodemografici è quello di capire se le necropoli scavate dagli archeologi siao rappresentative dell’intera popolazione o soltanto di una parte più o meno limitata. E’ indispensabile utilizzare come confronto le popolazioni europee pre-jenneriane o le popolazioni di interesse etnografico, che hanno dimostrato di possedere strutture demografiche sufficientemente analoghe, nonostante le differenze culturali e del genere di vita. La distribuzione percentuale per età di morte nella Francia del XVIII secolo secondo Durville offre un buon punto di riferimento :

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30,00% 25,00% 20,00% 15,00% 10,00% 5,00% 0,00% 0-1

2 20

2140

4160

6180

81-

Su 100 nati solo il 50 % raggiungeva l’età adulta. Le speranze di vita alla nascita erano quindi fortemente abbassate dall’alto tasso di mortalità infantile e non potevano superare i 25 anni di media. Tuttavia, nel caso di strutture demografiche pre-jenneriane è più ragionevole valutare la durata media della vita di coloro che raggiungevano l’età adulta, che nel caso illustrato poteva essere intorno ai 50-55 anni. Il rapporto tra tombe di sub-adulti e di adulti nella Preistoria e nell’Antichità mostra valori abbastanza comparabili, con oscillazioni verso l’alto della mortalità infantile e giovanile o in qualche caso verso il basso, fatto che può dipendere dall’incompletezza del campione. In linea generale si può ritenere che i tassi di mortalità infantile nella Preistoria non fossero inferiori a quelli della Francia del ‘700, anzi dovevano essere superiori al 50 % ma non di molto. Ciò che cambiava più nettamente era la durata media della vita di coloro che raggiungevano l’età adulta, certamente inferiore ai 50 anni vista la rarità delle stigmate senili. Un campione di poco più di 500 individui dell’età del Bronzo Media e Recente delle regioni padane ha fornito i seguenti valori : sub-adulti (infanti, bambini e giovani) 55,68 % adulti tra 20 e 60 anni adulti senili (più di 60 anni)

37,92 % 6,38 %

E’ evidente da questi valori che le necropoli dell’età del Bronzo rappresentavano l’intera popolazione senza alcuna esclusione di qualche classe di età. Lo stesso fenomeno si registra nelle altre regioni europee durante l’età del Bronzo o le epoche precedenti. Una situazione differente è mostrata, invece, dalle necropoli della prima età del Ferro sia in Italia che in Europa. In questo periodo i bambini sono decisamente sottorappresentati nella documentazione funeraria. Anche la Ca’ Morta e le altre necropoli golasecchiane non sfuggono a questa regola. Le analisi dei resti cremati da tombe della necropoli della Ca’ Morta sono state eseguite da L. Cardini e C. Corrain, che hanno esaminato 62 tombe con resti di 69 inidividui, tutte degli scavi condotti tra il 1955 e il 1965, e da C. Cattaneo, che ha esaminato finora 19 tombe degli scavi 1966-1975. Alle informazioni della Ca’ Morta si possono aggiungere i dati di un piccolo gruppo di tombe di Dalpe nel Canton Ticino, studiate da M.R. Sauter, e quelli della necropoli di Castaneda nella Val Mesolcina : 40

sub-adulti

adulti

Ca’ Morta

22.72 %

77.27 %

Dalpe

30.00 %

70.00 %

Castaneda

21.30 %

78.60 %

In tutti e tre i casi vi è una incidenza troppo bassa dei soggetti morti in età infantile o giovanile. Il fatto che nelle necropoli della prima età del Ferro mancano neonati, infanti e bambini al di sotto dei primi anni di vita trova riscontro in quanto si verifica in Grecia tra il 1025 e il 750 a.C. (Protogeometrico e Geometrico antico e medio), quando nelle necropoli le tombe dei bambini diventano rare e nei riti funerari si accentua la differenza tra le élites e la gente comune. Per comprendere il fenomeno della sottorappresentazione dei soggetti morti in età neonatale e nella primissima infanzia sono utili alcuni passi degli autori antichi. Plinio (Nat.Hist., VII, 72) scrive che hominem prius quam genito dente cremari mos gentium non est, mentre Plutarco (Vita di Numa, XII) ricorda che Numa stabilì che per un bambino morto prima di 3 anni non bisognava portare il lutto. Quindi i bambini morti prima dell’eruzione della dentatura o sotto i 3 anni subivano un trattamento differente : invece di essere cremati, venivano seppelliti in luoghi diversi o era loro riservato un trattamento le cui tracce non sono archeologicamente visibili. Concezioni analoghe dovevano essere in vigore presso le popolazioni della prima età del Ferro dell’Italia settentrionale e dell’Europa centrale.

Il VII secolo a.C.(G. I C) Come abbiamo già detto, i fattori determinanti per la nascita e lo sviluppo di questi centri protourbani furono i contatti con gli Etruschi e lo stabilirsi di relazioni commerciali a largo raggio. I Golasecchiani grazie al controllo delle vie d’acqua e dei valichi alpini diventarono gli intermediari dei commerci greci ed etruschi con i Celti d’Oltralpe. Il significato della cultura di Golasecca per la protostoria europea risiede essenzialmente nel fatto di avere svolto questa funzione di tramite tra due mondi. Le relazioni tra Mediterraneo ed Europa continentale e nord-occidentale erano nell’antichità importantissime poiché attraverso di esse le civiltà mediterranee potevano procurarsi una materia prima come lo stagno, presente in abbondanza solo in Cornovaglia e nella Galizia atlantica. Lo stagno era indispensabile per la produzione del bronzo e se si pensa che in bronzo si fabbricavano elmi, corazze, schinieri e scudi, cioè tutto l’apparato difensivo dell’armamento oplitico, si comprenderà il ruolo strategico di questi commerci. Greci ed Etruschi ottenevano lo stagno dai Celti, in alcuni periodi attraverso il corridoio del Rodano e la colonia focese di

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Marsiglia, in altri quasi esclusivamente attraverso i passi delle Alpi centrali controllati dalle genti della cultura di Golasecca. Il fenomeno della gerarchizzazione del territorio si accompagna a modifiche strutturali della comunità, con la formazione di stabili élites sociali. Possiamo seguire questo processo attraverso l’analisi degli aspetti funerari, che mostrano come da una situazione socialmente indifferenziata o poco articolata, caratterizzata dall’esistenza di alcuni personaggi di rango e per il resto dalla semplice indicazione del sesso del defunto attraverso la differenza degli oggetti di abbigliamento (spilloni per i maschi, fibule ad arco semplice, ingrossato o a grandi coste per le donne) o alcuni indicatori di attività e di ruolo (cuspidi di lancia per gli uomini, fusarole e rocchetti per le donne), si passi gradualmente a situazioni sempre più complesse, che molto probabilmente esprimono una trasformazione dell’assetto della società. I primi segni di un nuovo assetto sociale si colgono a Como già nel corso dell’VIII secolo con la tomba della Vigna di Mezzo. Un altro ritrovamento della Ca’ Morta, la tomba detta del carrettino, offre indicazioni ancora più evidenti del fatto che verso il 700 a.C. si accentua la tendenza verso stabili differenziazioni socio-economiche e che il processo di stratificazione sociale è in pieno svolgimento. Per quanto il corredo di questa tomba sia stato solo parzialmente recuperato, trattandosi di una scoperta fortuita avvenuta durante il 1950 nel corso dei lavori estrattivi nella cava Gini, l’inventario dei materiali superstiti è ampio e particolarmente significativo : un’anfora di lamina bronzea decorata a punti e borchiette a sbalzo con il motivo della barca solare a prua e poppa ornitomorfe, un attingitoio con manico incurvato a S di tipo villanoviano bolognese, due ciotole di lamina bronzea con il corpo decorato a baccellature piatte di produzione vetuloniese, una delle quali era montata su un carrettino cultuale a quattro ruote, un coltello a lama serpeggiante, un’ascia di bronzo con immanicatura a cannone finemente decorata, di tipo villanoviano bolognese (tipo S. Francesco), un coltello, una cuspide di lancia ed una “sciabola” da cavalleria in ferro, una chiave di bronzo del tipo a gancio e con impugnatura desinente ad anello, una coppia di morsi equini in ferro del tipo Platenitz, di ascendenza tracio-cimmeria, alcuni frammenti di bronzo e di ferro pertinenti a un carro che mostrano deformazioni prodotte dal calore e quindi devono essere stati sul rogo funebre. Del carro rimangono alcune piastrine di ferro con due chiodi sono i morsetti che tenevano uniti i gavelli lignei costituenti la corona della ruota - e frammenti dei rivestimenti angolari in bronzo della cassa del carro. Non ci sono elementi per stabilire se il carro fosse a due o a quattro ruote. Il fatto che siano stati recuperati i resti di due soli angolari, renderebbe più probabile l’ipotesi di un carro a due ruote. L’uso di elementi tubolari di bronzo per rivestire gli angoli della cassa del carro è di origine etrusca e dall’Italia centrale si è diffuso verso nord, arrivando in qualche caso anche al di là delle Alpi. In conclusione, in questa tomba dovevano essere state poste le ceneri di un importante personaggio, un signore-guerriero che attraverso le armi e il carro vuole evidenziare anche nel rituale funerario la sua superiorità sociale, e che era in grado di accedere a oggetti di prestigio provenienti dal mondo etrusco, 42

come le coppe baccellate di Vetulonia, ma che conserva tradizioni locali più affini al mondo transalpino che non a quello mediterraneo, come dimostrano la composizione del servizio per bere, comprendente anfora, attingitoio e ciotola ma privo di brocca, e l’uso di farsi cremare sul carro.

Le chiavi protostoriche Un oggetto di bronzo della tomba del Carrettino della Ca’ Morta è costituito da un manico terminante ad anello in cui è infilata un’asta a tortiglione che finisce con una punta leggermente ripiegata. Il manico era decorato con una o due figurine probabilmente ornitomorfe, attualmente mancanti essendo state spezzate al momento della deposizione nella tomba; inoltre, in origine l’asta subito dopo l’impugnatura doveva essere piegata verso il basso formando un angolo quasi a 90°, mentre ora è diritta essendo stata raddrizzata (in alternativa si può pensare a un oggetto non finito). Questo singolare manufatto è in realtà una chiave e trova stretti confronti in analoghi esemplari rinvenuti nelle palafitte svizzere della fine dell’età dei Campi di Urne (ca. X-IX secolo a.C.). Chiavi a gancio di questo tipo sono conosciute nel mondo paleoveneto, ad es. in tombe della fine dell’VIII (Este, tomba Benvenuti 277) o del VII secolo a.C. (Este, t. Benvenuti 122), a S. Lucia di Tolmino (tomba 1229 scavi Szombathy) e nel mondo hallstattiano (ad es. Hallstatt, tomba 329). Per comprendere il funzionamento di queste chiavi è di grande aiuto un passo dell’Odissea, canto XXI, vv. 5-50. Quando Penelope, ispirata da Atena, propone di sposare colui dei Proci che fosse riuscito a tendere l’arco di Ulisse e a scagliare una freccia attraverso i dodici anelli di dodici scuri poste in fila su pali, si reca nella stanza del tesoro per prendere l’arco che Ulisse aveva appeso alle pareti : “uscì dalla sua camera per le alte scale, e con la forte mano teneva la bella chiave di bronzo, ben curvata, e l’impugnatura era d’avorio. ............................................................................... e come la nobile donna raggiunse la stanza e salì la soglia di quercia, che l’artigiano aveva abilmente lisciato, messo in squadra gli stipiti, e su di essi innalzato e messo in opera le splendide porte, velocemente sciolse le cinghie della maniglia, introdusse la chiave e mirato diritto sollevò il chiavistello della porta : come muggisce un toro che pascola nel prato, così muggirono le belle porte percosse dalla chiave e subito si aprirono.” Le chiavi protostoriche del tipo a gancio, dette chiavi di Penelope o chiavi del tempio (perché nel mondo greco erano rimaste in uso per i templi anche quando si erano diffusi altri tipi più evoluti di chiave), venivano inserite in un foro della porta fino a raggiungere il chiavistello e a inserire la punta a gancio in una tacca, quindi una volta agganciata la sbarra si poteva farla scorrere entro le guide spostandola 43

lateralmente con un giro della chiave. Per mezzo di cinghie fissate alla sbarra, si poteva rimettere a posto il chiavistello e chiudere la porta dal di fuori. Le cinghie venivano poi legate all’anello della maniglia. Nel corso dell’età del Ferro le chiavi a gancio diventano più elaborate e complesse, come dimostrano le raffigurazioni sui dischi di Montebelluna e i ritrovamenti numerosi soprattutto negli abitati dell’area retica (Sanzeno in Val di Non, S. Paolo di Appiano, Rotzo nell’altopiano di Asiago). Le serrature con chiavi fornite di denti compaiono in età romana. L’apparizione delle chiavi a gancio alla fine dell’età dei Campi di Urne e all’inizio dell’età del Ferro è un indizio che andava affermandosi il concetto di proprietà privata. Mentre nelle precedenti comunità preistoriche il controllo sociale si esercitava soprattutto attraverso le strutture parentelari, nelle grandi comunità protostoriche la coabitazione di numerosi nuclei famigliari, in cui i legami tradizionali di parentela tendevano ad affievolirsi e di contro cresceva l’importanza di quelli economici, rendeva necessario proteggere meglio i propri beni.

Da questo momento, a Como, le tombe con il corredo più ricco si collocano nella necropoli meridionale e le altre necropoli vengono utilizzate per deposizioni comuni. Nel VII secolo sia a Como che a Golasecca circa 1/3 delle tombe hanno un corredo ceramico più ampio rispetto alla norma, comprendente un servizio di vasellame da tavola con bicchieri, boccali, coppe e scodelle in numero variabile a seconda dei casi, fino a raggiungere una dozzina o anche una trentina di pezzi. La maggiore diversificazione dei corredi è dimostrata dall’uso di un vaso di bronzo come cinerario o come elemento di corredo e dalla presenza in alcune tombe di manufatti di grande pregio e di importazione dall’Etruria e in qualche caso da Este. Una delle tombe più importanti che documenta sia l’esistenza di élites sociali sia le relazioni con il mondo etrusco è la cosiddetta tomba del bacile scoperta il 1.III.1884 a Castelletto Ticino nella zona Motto Fontanile e il cui corredo fu acquistato dal museo di Antichità di Torino per lire 3000. La tomba si trovava lungo un pendio esposto a nord ed era formata da una cassetta di lastre divisa in due scompartimenti, chiusa da un lastrone delle dimensioni di m 1,20 x 0,90, e ricoperta da una sopracopertura di pietre dello spessore tra due e tre metri. Il pietrame della sopracopertura, che si configura come un vero e proprio tumulo, era formato da lastre di 20-30 cm di lunghezza e 5 cm di spessore. Il fondo della cassetta litica era pavimentato con piccole lastre. Nei due scompartimenti si trovava il corredo composto da una situla di lamina bronzea, due coppe fittili e un bicchiere a corpo globoso con decorazione a solcature elicoidali, una cista a cordoni in bronzo con due manici girevoli, uno spillone a globetti in ferro e un bacile di doppia lamina bronzea decorato a bulino sul diritto e a sbalzo dal rovescio, raffigurante una teoria di sfingi con ali aperte e leoni a fauci spalancate. Si tratta certamente di un prodotto di importazione, di stile orientalizzante, proveniente probabilmente dalla città etrusca di 44

Vetulonia. Un disco di lamina bronzea dal circolo delle sfingi di Vetulonia offre, infatti, i migliori confronti stilistici per la decorazione del bacile di Castelletto. E’ probabile che le ceneri fossero contenute nella situla, dal momento che la cista a cordoni conserva non solo gli attacchi ma anche i manici, contrariamente a quanto si verifica per i recipienti bronzei utilizzati come urna cineraria. Del corredo di un’altra tomba scavata a Golasecca verso il 1878-1881 da Paolo Guazzoni detto il Lanscin (forse il “lancetta”), facevano parte una situla e una patera di lamina bronzea. La situla non è di fabbrica locale e per le sue caratteristiche formali deve ritenersi un’importazione dall’Etruria, dove se ne conoscono esemplari a Populonia, Marsiliana d’Albegna e Orvieto. Questo stesso tipo di situla di fabbrica etrusca è stato scoperto anche a nord delle Alpi, a Oberempt in Westfalia, utilizzato come urna cineraria, e in una ricca tomba hallstattiana del periodo Ha C 1 a Frankfurt-Stadtwald. Ciò dimostra con chiarezza che i traffici

dall’Etruria verso le regioni dell’Europa centro-occidentale abitate dai Celti passavano

attraverso il territorio della cultura di Golasecca, utilizzando soprattutto la via del Ticino. Sempre da Golasecca proviene una kylix di bucchero del tipo Rasmussen 1-c, databile alla seconda metà del VII secolo a.C. Faceva parte della collezione

Giani Krumm e purtroppo non conosciamo le

circostanze della scoperta. Un’altra kylix di bucchero sarebbe stata scoperta in una tomba di Castelletto Ticino e faceva parte della collezione di antichità di Golasecca della signora T. Bogni. Una tomba particolarmente ricca doveva essere quella scavata tra il 1862 e il 1865 dal marchese Guido Dalla Rosa, di Parma, a nord di Sesto Calende in località San Giorgio, dalla quale provengono i frammenti di un grande kyathos di bucchero, interamente decorato a intaglio con fregi animalistici di stile tardo orientalizzante e di probabile fabbrica vetuloniese. Un altro ritrovamento avvenuto nel secolo scorso e ricordato da Pompeo Castelfranco, ma oggi purtroppo perduto, documenta ulteriormente i rapporti di Golasecca con l’Etruria : un orecchino d’oro decorato con la tecnica tipicamente etrusca della saldatura invisibile, detta granulazione. A questo proposito si può ricordare che gioielli etruschi decorati a granulazione sono stati scoperti nelle tombe hallstattiane di Ins Grosholz e di Jegenstorf Hurst nel cantone di Berna. A Como nella seconda metà del VII secolo i rapporti con l’Etruria sono meno documentati, mentre appare una maggiore apertura agli influssi culturali di Este. Ad esempio, è ampiamente attestato l’uso dell’ossuario fittile situliforme, che non compare a Golasecca, e che inoltre sembra riservato nella maggior parte dei casi alle deposizioni femminili in contrapposizione al vaso biconico delle tombe maschili, secondo un costume che trova riscontro a Este. La migliore prova dell’esistenza di contatti e scambi con Este è fornita da una delle tombe scoperte verso la fine del gennaio 1885 a Grandate, ma nelle vicinanze della Ca’ Morta, durante lo spianamento di un dosso per la costruzione della linea ferroviaria Como-Varese delle Ferrovie Nord. 45

La tomba I/1885 era costituita da un pozzetto circolare con pareti foderate di grossi ciottoli sovrapposti a secco, chiuso da un lastrone di granito schistoso di 1,65 x 0,80 m. La terra attorno e dentro il pozzetto era “untuosa e nerastra, mista a tritume di carbone”, segno che il pozzetto funerario era stato riempito con abbondante terra di rogo. La tomba utilizzava come cinerario una situla bronzea a spalla cordonata chiusa da un coperchio in lamina bronzea decorato a sbalzo dal rovescio e a bulino dal diritto con una teoria di quattro animali procedenti secondo la stessa direzione da sinistra verso destra e inframmezzati da motivi vegetali, un prodotto tipico dell’artigianato artistico di Este. A un montone o un muflone, comunque un capride, con il muso eretto quasi a contatto dei frutti di una palmetta, segue il motivo stilizzato dei fiori di loto intrecciati, quindi uno stambecco con il muso piegato verso terra per brucare un fiore che fa parte di un secondo motivo a fiori di loto intrecciati. Anche il terzo animale ha il muso chinato verso terra in atto di brucare. Davanti a lui un cervo dalle corna ramificate e nodose e con la testa ritta verso l’alto e il muso appoggiato al fiore di un altro motivo a fiori di loto. Il gusto naturalistico e la plasticità della rappresentazione dei quadrupedi brucanti disposti in teoria, il riempimento di ogni spazio libero con ornati fitomorfi per un senso di horror vacui, i temi iconografici e decorativi, nonché la tecnica impiegata dello sbalzo dal rovescio e della delineazione del contorno delle figure a bulino sul diritto con l’uso dei puntini a sbalzo per alcuni particolari, ricollegano strettamente questo coperchio alla più antica arte delle officine di Este, fiorita nella seconda metà del VII e agli inizi del VI secolo a.C. Coperchi simili sono stati scoperti ad Este (tomba Rebato 187), ad Hallstatt (t. 696), a Sticna in Slovenia. Allo stesso stile appartiene la celebre situla Benvenuti di Este. Il corredo della tomba I/1885 di Grandate comprendeva fibule ad arco serpeggiante sia di bronzo che di ferro, e un gancio da cintura in ferro, elementi tipici delle deposizioni maschili, oltre a una serie di ceramiche che non sono state conservate. La fibula a drago di bronzo permette di datare la tomba alla seconda metà del VII secolo a.C. Nella situla di bronzo erano contenute le ceneri e abbondanti ossa combuste, che già un tempo conservate al museo Giovio in un barattolo di vetro, sono andate perse nel corso degli anni. Avrebbero potuto fornire preziose indicazioni sull’età del defunto. Le fibule a drago e ad arco serpeggiante sono tipiche delle deposizioni maschili. Del corredo faceva parte una collana formata da una ventina di metatarsi di Sus forati a un’estremità, la quale potrebbe costituire l’indizio che la tomba era quella di un bambino. Infatti, nell’età del Ferro gli amuleti - e tale doveva essere il valore di una collana di denti animali - accompagnavano i corredi funerari prevalentemente delle donne e dei bambini, secondo un uso che risulta diffuso su di un’ampia area comprendente l’Europa centrale e l’Italia e che presuppone un patrimonio spirituale e religioso di fondo comune. Le fonti antiche e i confronti etnografici aiutano a comprendere il significato della deposizione degli amuleti nelle tombe. I bambini e i giovani portavano gli amuleti fino al momento del passaggio, attraverso i riti di iniziazione, all’età adulta. Per le donne il passaggio all’età adulta era segnato dal

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matrimonio. La collocazione degli amuleti nelle tombe era riservata a coloro che erano colpiti da mors immatura, quindi i bambini, ma anche le donne non sposate e forse anche quelle senza figli. Poiché per la tomba di Grandate gli oggetti di corredo escludono il carattere femminile, le ossa combuste potevano essere quelle di un bambino. Si tratta di un’ipotesi non più verificabile. In ogni caso la presenza di una situla di lamina bronzea come cinerario e di un oggetto prodotto da un artigianato di lusso e importato da Este indica che si trattava della tomba di un individuo appartenente alla nascente aristocrazia. Nel VII secolo i corredi femminili sono meno ricchi e meno complessi rispetto a quelli maschili, anche se bisogna precisare che il fenomeno si riscontra soprattutto a Golasecca, molto meno a Como. Qui, infatti, iniziano a comparire tombe femminili con oggetti relativi all’abbigliamento che denotano un certo lusso, come le fibule a grandi coste con lunghe catenelle e pendagli a doppia spirale, pendagli con rametti di corallo grezzo, perle e tubetti di pasta vitrea di importazione, perle di ambra, oppure con oggetti che dovevano essere collegati a specifiche attività femminili connesse a un rango elevato, come le palette di bronzo.

Per quanto tombe del VII secolo a.C. fossero presenti nelle necropoli settentrionale, nord-occidentale e sud-orientale poste intorno all’abitato protostorico, soltanto le ricerche condotte alla Ca’ Morta, la necropoli meridionale, ci consentono di avere un’idea delle caratteristiche dei corredi funerari di questo periodo. Questo perché solo per la Ca’ Morta abbiamo dati di scavo e quindi corredi funerari più o meno integri, mentre da tutte le altre necropoli provengono materiali ormai privi di contesto. Circa un terzo delle tombe ha un corredo ceramico più ampio rispetto alla norma, comprendente un servizio di vasellame da tavola con bicchieri, boccali, coppe, scodelle in numero variabile. La maggiore diversificazione dei corredi è dimostrata dall’uso di un vaso di bronzo come cinerario o come elemento del corredo e dalla presenza in alcune tombe di manufatti di grande pregio di importazione dall’Etruria o da Este. E’ ampiamente attestato l’uso dell’ossuario situliforme, che non compare a Golasecca e che nella maggior parte dei casi sembra riservato alle deposizioni femminili in contrapposizione al vaso biconico delle tombe maschili, secondo un costume ben documentato a Este. I corredi maschili si caratterizzano per la presenza di spilloni, fibule ad arco serpeggiante in bronzo o più frequentemente in ferro, corredi da toilette in ferro e coltello di ferro. Le tombe femminili mostrano una maggiore varietà di oggetti : le fibule sono a navicella, a sanguisuga, a grandi coste, queste ultime a volte con lunghe catenelle appese al dorso e terminanti in pendaglietti a doppia spirale. Sull’ago delle fibule si può trovare infilato un grande disco di lamina bronzea decorato a punti, borchiette e cordonature a sbalzo, con funzione di ferma-pieghe. Dei corredi femminli fanno parte orecchini di doppio filo di bronzo avvolto a spirale, su cui frequentemente era appesa una perla di lamina 47

bronzea, anelli di lamina di forma circolare o ovale, decorati a puntini a sbalzo, pendagli dei tipi a melograna, a coda di pesce, di filo di bronzo con inserito un pezzetto di corallo, perle di ambra, perle di vetro blu con filature gialle circolari concentriche, tubetti di vetro azzurro con linee ondulate bianche. L’uso della fusarola per connotare il sesso femminile, frequente nei periodi precedenti, tende a diventare raro. Caratteristica dei corredi femminili è, infine, la paletta di bronzo.

Le palette rituali Le palette di bronzo sono frequenti soprattutto nell’area della cultura di Golasecca e in quella paleoveneta, ma si ritrovano anche a Bologna e in Etruria, in area falisca e nel Piceno. Nel territorio golasecchiano le palette in bronzo sono documentate dal Bronzo Finale avanzato (X secolo) fino al Golasecca II A, mentre dalla fase II B fino al G. III A vengono fabbricate in ferro. Nel mondo paleoveneto le palette in bronzo sono note dal VII fino al III secolo a.C. A Bologna frammenti di palette sono presenti nel ripostiglio di S. Francesco, mentre in Etruria compaiono quasi unicamente nel periodo orientalizzante a Vetulonia, Sovana e Chiusi. La maggior parte delle palette sono state scoperte nelle tombe, altri esemplari sono stati rinvenuti in abitati, ad es. Vidolasco presso Crema, o in stipi votive (stipe Baratela di Este, stipe di via Rialto a Padova, stipe di S. Pietro Montagnon). Nell’ambito della cultura di Golasecca le palette più antiche, databili al periodo Protogolasecca tipo Ca’ Morta-Malpensa, sono quelle scoperte negli abitati di Vidolasco e di Badia Pavese, queste ultime probabilmente in un ripostiglio. Tutte le altre palette di bronzo finora conosciute provengono dalla Ca’ Morta. Nelle necropoli di Golasecca-Castelletto-Sesto Calende non vi era l’uso di deporre le palette nelle tombe. Non soltanto la Ca’ Morta è l’unica necropoli dei dintorni di Como ad avere restituito palette, ma questi oggetti provengono quasi tutti dall’area centrale della necropoli : cava Manzoni con 4 esemplari, cava Ballerini e Valloni di Rebbio con un esemplare ciascuna, mentre una sola paletta proviene da una tomba della cava Frangi nella parte più meridionale della necropoli. Dopo la fase Golasecca II A le palette sono fabbricate in ferro ed anche in questo caso compaiono soltanto in una parte circoscritta della necropoli della Ca ‘ Morta : la cava Dalla Zuanna (tombe 122 e 173 del G. II B, tombe 114 e 116 del G. III A). Dall’analisi della composizione dei corredi, emerge abbastanza chiaramente la pertinenza delle palette a tombe femminili o a tombe con doppia deposizione, una delle quali era sicuramente femminile (ad es. la tomba 114 della fase G. III A 2). La pertinenza femminile delle palette trova conferma nel mondo paleoveneto e una recente scoperta nella necropoli Ricovero aiuta a comprendere la funzione e il significato di questi oggetti. In passato gli studiosi avevano formulato varie ipotesi, interpretando le palette come coltelli per tagliare torte o focacce sacre, come specchi, come strumento utilizzato per raccogliere le ossa combuste dal rogo funebre, oppure per togliere le braci dal focolare, o più genericamente come oggetto con funzioni sacrali. 48

Già in alcune tombe di Sovana in Etruria le palette di bronzo erano state trovate associate a bracieri in terracotta. Nella tomba 23/1983 della casa di Ricovero di Este - una tomba femminile dal ricchissimo corredo - al centro della cassetta funeraria era stata collocata una serie completa di attrezzi per il focolare, per cucinare le carni e per servire bevande : due alari, un paio di molle, due spiedi, una paletta e un mestolo con lungo manico. Sembra quindi evidente che in questo contesto la paletta non poteva che essere associata alla cura del focolare, come strumento per togliere le braci. Inoltre, il fatto che le palette siano associate a tombe femminili con corredo piuttosto ricco e nel caso della Ca’ Morta circoscritte a una determinata area della necropoli potrebbe indicare una loro funzione rituale/simbolica in connessione con la cura del focolare di luoghi di culto e quale attributo di donne di rango elevato con funzioni sacerdotali. Non è escluso che la paletta da focolare fosse usata anche nelle cerimonie funebri durante l’operazione dell’ossilegio, cioè la raccolta delle ceneri e delle ossa combuste del defunto, questo limitatamente all’ambito delle culture che praticavano la cremazione, come Golasecca o Este, poiché altrove (Etruria, Piceno) la paletta può comparire in tombe a inumazione, come ad es. a Sovana, e in questo caso la paletta poteva essere unicamente connessa al focolare.

Le tombe di guerriero di Sesto Calende Un altro aspetto che Como condivide con Este è il venir meno della connotazione guerriera nelle tombe maschili di grado elevato, a differenza di quanto si può osservare a Golasecca. La floridezza economica determinata dai traffici con l’Etruria e con i Celti d’Oltralpe si riflette nei corredi tombali, che rivelano un generale arricchimento e in alcuni casi una concentrazione eccezionale di beni nelle mani di pochi. Sono emblematiche in questo senso le due tombe di guerriero di Sesto Calende, la prima databile verso la fine del VII, la seconda ai primi decenni del VI secolo a.C. La prima tomba fu scoperta nel 1867 nel corso di lavori agricoli in un campo della località La Castiona. Della ceramica sopravvivono i frammenti dell’urna biconica decorata a fasce di denti di lupo incisi, tipica della fase G. I C, e della ciotola-coperchio, una coppa con piede cordonato e il piede cordonato di una seconda coppa. L’elmo a calotta composta, un tipo diffuso principalmente nel Piceno e nell’area hallstattiana orientale (Slovenia), ma documentato anche nel Veneto, aveva una tesa interna in lamina bronzea decorata a sbalzo con il motivo della rosetta, caratteristico della più antica arte delle situle. La daga hallstattiana ad antenne appartiene a un tipo caratterizzato da un’impugnatura cilindrica o leggermente fusiforme formata dal codolo della lama inserito a incastro in un cilindro probabilmente di legno, ricoperto da una lamina di ferro in un unico pezzo. Questo tipo ha la sua massima diffusione in Svizzera, nella Francia orientale e nella Germania sud-occidentale. Gli schinieri bronzei, di tipo anatomico al pari di quelli greci di età arcaica, sono certamente un’importazione dall’Etruria. La grande situla tipo Kurd è decorata con la tecnica a punti e borchiette sbalzati. La prima fascia figurata, compresa tra due fasce a cerchielli concentrici con borchia al centro, presenta una teoria di uccelli dal 49

lungo becco ricurvo. La seconda fascia, di maggiore altezza, ha un carattere narrativo : un animale, probabilmente un capro, viene condotto al sacrificio, un uomo lo afferra per le corna, mentre un altro brandisce la scure e un cavaliere segue la scena; dall’altro lato una cerbiatta che allatta volge il capo all’indietro verso un cervo che la segue, di fronte a lei due suonatori di lira affrontati o forse due pugilatori. Del carro rimanevano i cerchioni in ferro delle due ruote, aventi un diametro di quasi 80 cm, la chiavetta in ferro da inserire nel mozzo per impedire alla ruota di sfilarsi dall’asse, e parti del rivestimento in bronzo della sponda arcuata della fiancata del carro. Certamente non tutto il corredo è giunto fino a noi. Certamente più ricco era il corredo della seconda tomba, su cui ci soffermiamo più dettagliatamente. Agli inizi del dicembre 1928 fu scoperta a Sesto Calende, nei pressi dell’Asilo Bassetti, un’importante tomba di guerriero, ricca di numerosi oggetti di corredo, per molti aspetti paragonabile a quella venuta alla luce nel 1867 sempre a Sesto Calende, ma qualche centinaio di metri più a monte, nella località La Castiona. Le vicende dello scavo e del recupero dei materiali di questa tomba e di altre tombe vicine sono difficili da ricostruire per mancanza di documentazione adeguata. Lo scavo venne condotto per trincee e piuttosto velocemente da operai sterratori e non furono redatte planimetrie delle strutture funerarie e della disposizione degli oggetti di corredo. I materiali recuperati non furono tenuti distinti per singoli corredi, motivo per cui la loro identificazione e le rispettive associazioni sono gravate da dubbi e incertezze. Le fonti disponibili per operare una ricostruzione, nonché per cercare di comprendere le caratteristiche delle diverse strutture funerarie, in particolare della tomba principale con armi, vasellame bronzeo e carro a due ruote, si limitano a due brevi resoconti pubblicati da Alda Levi (1929) e da Ettore Ghislanzoni (1930), allo studio pubblicato da Ghislanzoni a quindici anni dalla scoperta (1944), al taccuino di quattro fogli dell’ing. Malachia Bogni, tecnico del comune di Sesto Calende che diresse le operazioni di sterro38, e ad alcune lettere conservate nell’archivio topografico della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, al museo civico di Varese e nell’archivio del comune di Sesto Calende, non molto produttive dal punto di vista scientifico.

Cronaca delle scoperte Le scoperte si sono verificate verso la fine del novembre 1928 in occasione dei lavori di sterro per spianare il terreno per la costruzione della palestra della Casa del Balilla, già Asilo e in seguito nuovamente Asilo Bassetti, in un terreno donato dal comm. Sacchi, proprietario del terreno confinante subito a monte. Poiché i primi lavori condussero alla scoperta di alcune tombe, il dr. Piero Massari, ispettore onorario alle Antichità per la provincia di Varese, avvisò la dr.ssa Alda Levi, ispettrice con sede a Milano39, con una lettera datata 1.12.1928, in cui comunicava che nel terreno da livellare, posto a quota 38

Riprodotto in E. GHISLANZONI 1944, pp. 53-54. Presso il Castello Sforzesco di Milano vi era un ufficio distaccato della Soprintendenza Archeologica, retto dalla dott.ssa Alda Levi, mentre la Soprintendenza aveva sede a Padova ed esercitava la sua giurisdizione sulle tre Venezie, come allora si diceva, e sulla Lombardia. Alda Levi (1890-1950) resse la sede staccata di Milano dal 1925 al gennaio

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più alta rispetto a quello adiacente all’Asilo, erano state scoperte, alla profondità di 60-80 cm dal piano di campagna, tre tombe disposte a triangolo, scavate nel terreno giallognolo (limo sabbioso) subito sottostante l’agrario e localmente denominato “litta”.

Le tombe avevano una struttura circolare,

probabilmente un pozzetto foderato di ciottoli, ed erano coperte da un masso. All’interno del pozzetto era l’urna cineraria chiusa da una ciotola-coperchio e dentro l’urna il vasetto accessorio contenente fibule di bronzo. Da questa lettera dobbiamo inferire che la scoperta si verificò in data anteriore al 1 dicembre e che le tombe vennero almeno parzialmente scavate. L’ispettrice Alda Levi trasmise le notizie al Soprintendente Ettore Ghislanzoni in data 3.12.1928, il quale in risposta telegrafò all’ispettrice di recarsi subito a Sesto Calende. L’8 dicembre, un sabato, alla presenza dell’ing. Bogni, del dott. Massari e della dott.ssa Alda Levi, si completò lo scavo delle tombe venute alla luce nei giorni precedenti alla distanza di 40 m a est dell’edificio dell’Asilo. La prima tomba individuata fu rinvenuta alla profondità di 60 cm dal piano di campagna e consisteva in una cassetta di lastre di pietra di forma irregolare. All’interno si trovava l’urna cineraria, a corpo globoso su basso piede tronco-conico, decorata con fasce di triangoli a stralucido, e contenente oltre alle ossa combuste un bicchiere, quattro fibule a sanguisuga, due fibule serpeggianti, un’armilla a capi aperti e i frammenti di un corredo da toilette in bronzo. Secondo l’ing. Bogni nella stessa cassetta vi era anche un altro vaso su alto piede, mentre secondo la Levi il vaso si trovava a breve distanza dalla tomba, ma in nuda terra40. A pochi metri di distanza, verso il muro di cinta, venne alla luce un’altra tomba in nuda fossa con un solo sasso di copertura. L’urna cineraria, un’olla a corpo ovoide, collo distinto, orlo esoverso e base a fondo rientrante, era chiusa da una ciotola-coperchio a basso piede, che andò in frantumi al momento dello scavo. Conteneva “molte ossa carbonizzate” (Bogni), un bicchiere a corpo globoso, con profilo a S e decorato con quattro cerchielli spiraliformi impressi a stampiglia e “frammenti di oggetti di ferro del tutto ossidati” (Levi), identificabili probabilmente con una fibula ad arco serpeggiante recante ancora aderenti pezzetti di ossa combuste. I “frammenti di un’altra olla” (Levi) o “rottami di altro vaso nell’interno dell’urna” (Bogni) non sono più identificabili tra il materiale conservato senza distinzione dei corredi. Tuttavia, trovandosi all’interno dell’urna, per motivi di dimensione dovrebbe essere ricercato tra i quattro boccali in frammenti provenienti dalle scoperte del 1928-1929, uno dei quali tra l’altro presenta la stessa decorazione a stampiglia del bicchiere di questa tomba41.

1939, quando a causa delle leggi razziali dovette lasciare l’ufficio. Alda Levi iniziò la sua carriera come ispettrice presso la Soprintendenza Archeologica di Napoli nel 1915, nel periodo in cui Vittorio Spinazzola (1863-1943) stava conducendo gli scavi di via dell’Abbondanza a Pompei. Gli scavi, iniziati nel 1910 e che avevano suscitato un vasto interesse nel mondo scientifico, furono interrotti nel 1923 e Spinazzola, oppositore del fascismo, lasciò il servizio nel 1924. E’ forse in conseguenza di questi avvenimenti che Alda Levi fu trasferita a Milano. Sposerà Vittorio Spinazzola nel 1932 e alla fine della guerra curò insieme a Salvatore Aurigemma la pubblicazione postuma di Spinazzola sugli scavi di via dell’Abbondanza, redigendo gran parte delle note dell’opera utilizzando i suoi appunti e quelli del marito. 40 R.C. DE MARINIS 1975, tav. IV B. 41 Le prime due (Bogni) o tre (Levi) tombe sono state pubblicate da R.C. DE MARINIS 1975, p. 221 e ss., tavv. IV B e V A. Il boccale della tomba 2 potrebbe essere quello a tav. IX B 3. 51

Qualche metro verso est42 il proseguimento dello sterro portò alla luce, a 50 cm di profondità, una nuova tomba, una grande “fossa circolare rivestita di ciottoloni a secco e restringentesi verso l’alto”, la cui parte superiore sembrava essere stata disfatta dai lavori agricoli43. Dapprima affiorarono “in mezzo a terra nera e grassa uno schiniere di bronzo e frammenti di un vaso fittile fuori del perimetro della tomba”44, in seguito una grossa situla di 45 cm di diametro, decorata a punti e borchie a sbalzo, scambiata dall’ing. Bogni per una corazza, “vicino alla situla si vedevano i resti di un vasetto di coccio, l’ossuario” (Levi) o “un’urna a pezzi a vernice nera di forma del tipo della seconda tomba” (Bogni). L’orlo, il collo e i manici della situla tipo Kurd erano staccati e caduti all’interno (Levi). “Incuneati nel terreno, dietro la situla, apparvero due schinieri” (Levi), “di cui uno intero” (Bogni). “Davanti alla situla stavano invece due pezzi dell’arco di due diverse ruote in ferro”(Levi), “due archi di ferro con pezzetti di legno relativi, come cerchio di ruote” (Bogni) e si trovarono anche “alamari e guarnizioni” (Bogni) in bronzo, “una grande quantità di appliques di bronzo”, un acciarino e una cuspide di lancia in ferro. Inoltre, “braccialetto, anelli, catenelle, ecc.” (Bogni), e una “secchia (forse due), una situla con bel manico” (Bogni). Il Soprintendente Ghislanzoni, partito in treno da Padova, arrivò a Sesto Calende alle 16,25, quando le operazioni di scavo erano ormai terminate. Vide i materiali recuperati a casa dell’ing. Bogni e racconta in una lettera inviata a Mario Bertolone il 18 luglio 1937 di avere visto i due schinieri e altri materiali in un secchio da cantiere insieme a cazzuole e martelli45. In un’altra lettera datata 25 dicembre 1937, indirizzata sempre a Bertolone, Ghislanzoni scrive: “non si è avuto cura di far togliere con la necessaria diligenza e pazienza la terra che circondava gli oggetti, i quali, sebbene rotti in pezzi, certamente aderivano alla terra che li riempiva. Sarebbe stato così possibile riconoscere la forma e certamente la disposizione degli oggetti e anche fotografarli”46. Sono particolari che ci danno l’idea di come si sia proceduto. Quello che si capisce meno è come mai la dott.ssa Levi abbia lasciato compiere quello scempio e come mai il Soprintendente non abbia dato disposizioni precise per il proseguimento dei lavori sotto la direzione della dott.ssa Levi o di un assistente di scavo della Soprintendenza archeologica47. A causa di un’abbondante nevicata, a cui seguirono giorni di gelo, i lavori furono interrotti per diversi giorni. Nel frattempo l’11 dicembre il Soprintendente scriveva una lettera al comune di Sesto Calende, sottolineando la grande importanza della scoperta e il 18 dicembre inviava una relazione al Ministero. La ripresa dei lavori avvenne il 19 dicembre, sempre sotto la sorveglianza dell’ing. Bogni. Nella parte occidentale dell’area precedentemente indagata, indicata con la lettera b nello schizzo del Bogni, si 42

Il Ghislanzoni scrive “a nord”, ma a nord c’era il muro di confine della proprietà, mentre l’area sopraelevata da livellare si trovava a est dell’Asilo ed ancora oggi quest’area è nettamente sopraelevata rispetto al terreno posto tra il lato orientale dell’edificio dell’Asilo e l’inizio dell’area degli scavi, terreno sul quale vi è attualmente un campo da tennis. Tutte le indicazioni del Ghislanzoni devono essere corrette di 90° in senso orario. 43 E. Ghislanzoni, relazione del 18 dicembre 1928 nell’ATS della Lombardia. Ghislanzoni raccolse questa notizia interrogando gli operai che avevano effettuato lo sterro. Così afferma in una lettera a Bertolone del 18 luglio 1937, conservata nell’archivio dei musei civici di Varese (faldone 85, n. 49). Cfr. D. BANCHIERI 2003, p. 295. 44 Circostanze riferite dall’ing. Bogni a Ettore Ghislanzoni. Cfr. relazione del 18 dicembre 1928 nell’ATS della Lombardia. 45 Archivio dei musei civici di Varese (faldone 85, n. 49). Cfr. D. BANCHIERI 2003, p. 295. 46 Archivio dei musei civici di Varese (faldone 85, n. 54). Cfr. D. BANCHIERI 2003, p. 297.

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trovarono altri oggetti di bronzo: “catene, morsi di bardature da cavallo…un secchio con manico simile al precedente, un vasetto della solita forma e dimensione ma di rame massiccio” (Bogni) e inoltre l’impugnatura ad antenne della daga di ferro, un elmo e i resti di un carrettino cultuale in bronzo. Secondo A. Levi “un manico a cordone con parte dell’orlo di un’altra situla o cista di bronzo e i ricchissimi resti di un carrettino cultuale” furono ritrovati “a una certa distanza” dall’area in cui vennero alla luce la situla tipo Kurd, gli schinieri, i resti di una ruota e la cuspide di lancia di ferro. La situla in questione è probabilmente la grande situla a collo distinto con due attacchi a doppio occhiello e due reggi-manici. Proseguendo a sbancare il terreno verso est e sud-est apparvero un cumulo di sassi di forma irregolare e quasi a ridosso di un vecchio muro di ciottolame la copertura di una tomba formata da una lastra circondata da un cerchio di ciottoli. A questo punto furono nuovamente interrotti i lavori e si inviò un telegramma al Soprintendente. Il 22 dicembre le operazioni ripresero alla presenza dell’ing. Bogni, dell’assistente di scavo della Soprintendenza Martinelli, dell’ispettrice Alda Levi e del dott. Massari. Nel corso della giornata arrivò anche il Soprintendente Ettore Ghislanzoni, quando Levi e Massari erano già ripartiti. Fu scavata la tomba rinvenuta presso il vecchio muro a sud-est della tomba del guerriero. La tomba era a pozzetto foderato di piccole lastre litiche e conteneva l’urna biconica decorata a cordicella, chiusa da una ciotola-coperchio e al suo interno vi erano un bicchiere e le ossa combuste. Probabilmente si finì di porre alla luce il cumulo di sassi e si iniziò a demolirlo. Alle 12.00 del 23 dicembre i lavori furono sospesi e riprenderanno il 4 e 5 gennaio del 1929 con la partecipazione dell’assistente di scavo Martinelli. Demolendo il cumulo di sassi vennero alla luce le falere, i morsi con i sostegni laterali, numerosi altri frammenti di cerchione di ruota in ferro, e tutti gli elementi di bronzo pertinenti alla cassa del carro. Inoltre “frammenti di urne e un vasetto nero quasi intatto” (Bogni). Tutti i materiali furono imballati e spediti a Padova. Da qui furono poi trasferiti a Bologna per il restauro e nel gennaio 1938 vennero depositati presso il museo civico archeologico di Varese, dove tuttora si conservano. L’ampio studio dedicato da E. Ghislanzoni alla seconda tomba di guerriero di Sesto Calende si concentrava soprattutto sulla situla figurata, sulle armi, sul carro e sui finimenti equini, con molte osservazioni ancor oggi utili per l’interpretazione delle diverse parti costituenti il carro. Le conclusioni cronologiche e storiche – datazione della tomba alla seconda metà del V secolo a.C. e sua attribuzione a un comandante di presidi posti dagli Etruschi lungo le sponde del Ticino a difesa del territorio – sono ormai superate e del tutto inattendibili. Nel 1954 Mario Bertolone pubblicava per la prima volta il disegno e la ricostruzione grafica del carrettino cultuale, insieme ad alcuni frammenti di ceramiche e bronzi rimasti fino allora inediti. Chi scrive riprendeva lo studio della seconda tomba di guerriero e delle altre tombe scoperte nell’inverno 1928-1929, pubblicando con disegni la maggior parte dei materiali e

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A quell’epoca la Soprintendenza con sede a Padova aveva alcuni assistenti di scavo di un certo valore come Antonio Nicolussi. 53

discutendone la cronologia alla luce dei sostanziali progressi intervenuti nella conoscenza della cultura di Golasecca a partire dalla fine degli anni ’60 - inizi anni ’70. La tomba di guerriero veniva attribuita al Golasecca II A (inizi del VI secolo a.C.), sulla base delle ceramiche, di parte del vasellame bronzeo e dell’impugnatura del pugnale tardo hallstattiano48. In seguito, Christofer Pare ha studiato il carro a due ruote, pubblicando per la prima volta i disegni delle diverse parti che lo componevano49. Recentemente la tomba è stata ripresentata in occasione della mostra “Celti dal cuore dell’Europa all’Insubria” allestita nel novembre 2004 al museo civico di Varese50. La seconda tomba di guerriero51 Sulla struttura, forma e dimensioni della tomba possiamo formulare solo congetture in assenza di una sia pur schematica planimetria. Secondo quanto venne riferito al Ghislanzoni le pareti della fossa sarebbero state rivestite di ciottoli a secco52, d’altra parte possiamo escludere la presenza di lastroni litici, che sarebbero stati facilmente riconosciuti. Non conosciamo l’orientamento della fossa e

neppure la

profondità, rispetto al piano di campagna o alla copertura della tomba, del piano di deposizione sul quale giacevano i materiali di corredo. L’altezza della situla tipo Kurd – 56,2 cm – o il diametro delle ruote del carro, 75 cm, forniscono al riguardo un’indicazione minima. L’incertezza maggiore concerne l’ubicazione del carro a due ruote, poiché tutti gli elementi della cassa, i morsi e una ruota furono scoperti smontando il cumulo di sassi messo in luce subito a est e a sud-est dell’area da cui provengono la situla figurata, il rimanente vasellame bronzeo, le armi, il carrettino cultuale e la maggior parte degli oggetti di corredo. Tuttavia, una ruota era già stata rinvenuta vicino alla situla Kurd. In base alle notizie relative alla progressiva messa in luce dei vari materiali di corredo e delle varie parti del carro e alla pianta dei ritrovamenti schizzata nel taccuino dell’ing. Bogni (probabilmente in scala 1: 100), sembra che i materiali venuti alla luce nei punti a, b e c fossero allineati lungo un asse orientato verso sud-est per una lunghezza di almeno tre metri. Si può, quindi, ipotizzare che la tomba fosse una grande fossa orientata NW-SE, lunga almeno 3,5 e larga almeno 1,5 m53, con nella metà nord-occidentale il carrettino cultuale, l’elmo, la spada, la lancia, le due ciste a cordoni, il bicchiere e le coppe di bronzo, gli schinieri, la situla figurata, la situla a due manici, e nella parte sud-orientale il carro a due ruote con i morsi e le bardature dei cavalli. Molto probabilmente la fossa sarà stata chiusa da un assito ligneo e come sopracopertura un accumulo di sassi a guisa di tumulo. Nel corso del tempo, specialmente in seguito ai lavori agricoli, gran parte delle pietre della sopracopertura è stata asportata e dispersa. Nello schizzo del taccuino dell’ing. Bogni l’accumulo di ciottoli è indicato con la lettera “c” e si può osservare che corrisponde solo in parte all’area

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Cfr. R.C. DE MARINIS 1975, p. 220 e ss., p. 257 e ss. C.F.E. PARE 1992, tavv. 135-136. 50 D. LIMONTA, M. PIZZO 2004. 51 In letteratura è invalsa la denominazione di Sesto Calende tomba A per la tomba di guerriero scoperta nel 1867 e tomba B per quella scoperta nel 1928-1929, quindi anche noi ricorreremo a quest’uso. 52 Cfr. nota 6. 53 Lo schizzo dell’area dei ritrovamenti nel taccuino dell’ing. Bogni non può essere in scala, altrimenti dovremmo ipotizzare una lunghezza della tomba di almeno 15 m, il che sembra inverosimile. 49

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di ritrovamento dei materiali, inoltre una o entrambe le strisce lunghe e strette che si dipartono verso est e verso sud potrebbero corrispondere a una dispersione del pietrame della sopracopertura54. Sembra esserci una certa concordanza nella disposizione dei materiali di corredo tra la tomba di guerriero A e la tomba B: elmo e armi, poi situla Kurd figurata con accanto gli schinieri e infine le ruote e la cassa del carro, mentre la ceramica sarebbe stata ritrovata sia nella zona delle armi che in quella del carro. Il rito funerario era certamente la cremazione, ma nessuna delle informazioni tramandate ci indica in modo chiaro in quale contenitore ceramico o di lamina bronzea fossero presenti le ossa combuste del defunto. Secondo l’ing. Bogni nell’area in cui venne alla luce la situla figurata, indicata con la lettera “a” nel suo schizzo, vi era “terra nera e grassa” e questo è indubbiamente un segno preciso di una tomba a cremazione. L’ispettrice Alda Levi ha scritto che “vicino alla situla si vedevano i resti di un vasetto di coccio, l’ossuario”. L’espressione “vasetto di coccio” non ci permette in nessun modo di comprendere le caratteristiche di questa eventuale urna cineraria. Sembra riferirsi allo stesso vaso l’ing. Bogni quando annota “un’urna a pezzi a vernice nera di forma del tipo della seconda tomba”, quindi l’urna sarebbe stata un’olla a corpo ovoide. Tuttavia, tra le ceramiche superstiti dei ritrovamenti del 1928-1929, se escludiamo le urne cinerarie delle tombe 1, 2 e 4, quest’ultima tra l’altro di IX secolo a.C., non troviamo alcun vaso che possa essere riferibile a un’urna cineraria.

Inoltre, bisogna tener conto anche del fatto che a

quell’epoca, specialmente da parte dei non addetti ai lavori, il termine urna veniva utilizzato in maniera generica, anche per vasi che non assolvevano a quella funzione specifica. Anche nell’area del carro e in quella del carrettino cultuale furono rinvenuti “cocci di urne di terracotta” e “frammenti di urne”, secondo quanto riferisce l’ing. Bogni. Nelle tombe della cultura di Golasecca era una regola costantemente osservata deporre nell’urna insieme alle ossa combuste il cd. bicchiere o vasetto accessorio. Ora, dalla tomba di guerriero B proviene un bicchiere a corpo globulare con profilo a S, ma in bronzo, un fatto del tutto eccezionale, e sembra quindi improbabile che un bicchiere in bronzo venisse deposto in una comune urna cineraria fittile. Al contrario, alla luce di questa considerazione sembra probabile che anche l’urna contenente le ceneri del principeguerriero fosse un vaso di bronzo e a questo proposito l’unico possibile candidato è la cista a cordoni, priva di manici e con le anse spezzate, come di norma nella cultura di Golasecca per i vasi di bronzo quando assolvevano la funzione di cinerario55.

Le ceramiche 54

Cfr. il foglio 2 del taccuino dell’ing. Bogni in E. GHISLANZONI 1944, p. 58. Già nel 1975 avevo formulato l’ipotesi che la cista a cordoni fosse l’urna cineraria della tomba (cfr. R.C. DE MARINIS 1975, p. 269). S. Piggott nel suo noto lavoro sui carri preistorici dedica qualche riga anche alle due tombe di Sesto Calende e scrive che nella tomba B la cista a cordoni conteneva i resti della cremazione (S. PIGGOTT 1983, p. 183), ma non è chiaro quale sia la fonte della sua affermazione, probabilmente si tratta di una notizia che gli è stata trasmessa da David e Francesca Ridgway (cfr. l’introduzione a p. 7 del libro di Piggott), i quali comunque l’hanno sicuramente tratta dal mio lavoro del 1975 senza darsi la briga di fornire a Piggott i necessari riferimenti bibliografici. Questo non tanto per mettere in evidenza un modo di procedere poco corretto quanto per chiarire che non ci sono altre fonti su questo aspetto della seconda tomba di guerriero di Sesto Calende (infatti, la bibliografia riportata da Piggott è del tutto inutilizzabile a questo proposito) e che non si può presentare come un dato certo quella che è una ipotesi, anche se a mio avviso con un buon grado di verosimiglianza. 55

55

Ceramiche furono rinvenute in almeno quattro punti della tomba, come si evince da tutte le notizie che abbiamo precedentemente riportato. Purtroppo queste ceramiche non sono state adeguatamente descritte. Dal complesso dei materiali venuti alla luce nel 1928-1929, una volta escluse le ceramiche pertinenti alle tombe 1, 2 e 4, rimangono 24 vasi: un guttus ornitomorfo, due boccali situliformi - uno dei quali probabilmente è pertinente alla tomba 2 – e due vasi situliformi a una o due anse56, una tazza a collo distinto57; due tazzine con ansa sopraelevata58; un bicchiere a collo distinto, corpo a calotta e basso piede59; un frammento di boccale o di tazza60; due scodelle a basso piede, vasca tronco-conica e orlo rientrante61; una ciotola a basso piede62; dieci coppe su piede di media altezza: tre con vasca a calotta in un caso, tronco-conica in due casi, labbro rientrante e piede decorato con due cordoni orizzontali63; una coppa con vasca tronco-conica, orlo rientrante e piede decorato da quattro cordonature, di cui le prime due piccole e ravvicinate64; tre coppe con vasca tronco-conica, orlo rientrante e piede decorato in due casi da tre e in un caso da cinque larghe costolature arrotondate65; due coppe a vasca tronco-conica, orlo rientrante, piede di media altezza con orlo svasato a tromba liscio66; una coppa con vasca a calotta, orlo rientrante e piede di media altezza liscio67. Vi sono, inoltre, i frammenti di un probabile doppiere con alto piede svasato a tromba. Tutta la ceramica è di impasto da fine a mediamente depurato, modellata alla tournette o tornio lento, con superficie esterna ingubbiata e accuratamente lisciata, di colore nero semilucido o nero lucente. Le tre coppe con piede a due cordoni, quella con piede a quattro cordoni ed una di quelle con piede liscio, hanno una superficie nera lucente, accuratamente lucidata a stecca, mentre le coppe con piede a costolature hanno un impasto meno fine e una superficie nera semilucida. Per le sue caratteristiche tecniche e in parte anche per quelle tipologiche, si tratta indubbiamente di ceramiche riferibili al secondo periodo della cultura di Golasecca. Infatti, l’ingubbiatura con argilla finissima, che assume un colore nero o rosso a seconda della cottura, non è documentata nel primo periodo, neppure nella fase più recente (I C). Tra la prima e la seconda tomba di guerriero di Sesto Calende vi è quindi una precisa differenza cronologica, dimostrata innanzitutto dalla ceramica: la tomba A si data al G. I C, la tomba B al G. II A68. 56

E. GHISLANZONI 1944, fig. 61; R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, 3, X A 1, 3, 4; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 41, 59-60, 62. Il boccale con decorazione a stampiglia è forse della tomba 2. 57 E. GHISLANZONI 1944, figg. 60 e 63.3; R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, B 2; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 42. 58 M. BERTOLONE 1953-54, tav. XXXVI, 4 ; R.C. DE MARINIS 1975, tav. X A 5; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 5758. 59 E. GHISLANZONI 1944, figg. 58, 63.4; R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, B 4; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 43. 60 R.C. DE MARINIS 1975, tav. X, A 6; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 61. 61 E. GHISLANZONI 1944, figg. 53 e 63.2 ; R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, 10 ; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 44-45. 62 R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, 11 ; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 46. 63 E. GHISLANZONI 1944, figg. 56-57, 63.6, 9; R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, 7-8; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 50-52. 64 R.C. DE MARINIS 1975, p. 234; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 56. 65 E. GHISLANZONI 1944, figg. 55 e 63.7 ; R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, 5-6 ; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 5355. 66 E. GHISLANZONI 1944, fig. 63.8, 13; R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, 9 ; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 47-48. 67 E. GHISLANZONI 1944, fig. 54; R.C. DE MARINIS 1975, p. 234; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 49. 68 Per la ceramica della tomba A cfr. R.C. DE MARINIS 1982, p. 6 e ss., fig. 1 e tav. I. 56

Per quanto riguarda le fogge vascolari, soltanto le coppe con piede a cordoni sono già presenti nella fase I C, tutte le altre forme compaiono a partire dal G. II A. Le coppe con piede a due cordoni sono frequenti nel G. I C, ma la loro prosecuzione nella fase II A è attestata dalla tomba 40 della necropoli B di Ameno69. Le coppe con piede a costolature arrotondate in serie continua, ancora assenti nel G. I C, sono documentate nel G. II A da una tomba scoperta nel 1877 a Golasecca e da una tomba della necropoli A di Ameno70. Un nuovo ritrovamento, la tomba 29 di Castelletto Ticino loc. Dorbiè Superiore71, conferma le conclusioni a cui eravamo giunti nel 1975 e nel 1982. Il corredo della tomba comprende una coppa con piede decorato a un cordone e una coppa con piede decorato da due costolature arrotondate contigue. Le coppe sono associate a un’urna a corpo ovoide inornata e a una seconda urna a corpo ovoide decorata a denti di lupo incisi, a due bicchieri a collo distinto e spalla carenata e a una fibula a drago con due paia di corni desinenti a globetto e un piccolo nodulo ferma-pieghe di forma lenticolare. I bicchieri appartengono a una tipologia caratteristica dell’area di Como, mentre a Golasecca è rara, e indicano una datazione al G. II. Ancora più puntuale è la cronologia offerta dalla fibula. Fibule a drago dello stesso identico tipo provengono dalla tomba 23 di Valtravaglia72, dalla t. 33 di Ameno B73, dalla t. II/1935 della Ca’ Morta74, tutte tombe che appartengono a una fase iniziale del G. II, come dimostra la presenza di urne decorate a denti di lupo incisi nelle due tombe di Valtravaglia e di Ameno, lo stesso fenomeno riscontrabile nella t. 29 di Dorbiè, e di un’urna a corpo panciuto e larga imboccatura in quella della Ca’ Morta. Le scodelle a vasca tronco-conica, orlo fortemente introflesso e basso piede svasato a tromba sono una foggia caratteristica di tutto il secondo periodo di Golasecca. Non ci sono confronti, invece, per la ciotola con vasca a calotta, orlo rientrante e basso piede tronco-conico, una forma che si ritrova soltanto nel G. III A ma con caratteristiche un po’ differenti, in particolare la modellazione al tornio. Vi erano almeno due vasi situliformi a collo distinto, orlo esoverso e spalla quasi orizzontale a spigolo vivo. Lo si deduce dalle dimensioni leggermente differenti dell’altezza del collo e dall’esistenza di due fondi quasi certamente pertinenti a questi vasi sia per le dimensioni che per le caratteristiche del corpo ceramico. Si tratta di ceramica di impasto fine, modellata alla tournette, ingubbiata e accuratamente lisciata e lucidata alla stecca, per cui la superficie ha assunto un colore nero lucente. Un piccolo frammento con spalla e inizio della parete conserva parte dell’attacco inferiore dell’ansa e può appartenere o al minore dei due vasi precedenti o a un terzo esemplare. I boccali e i vasi situliformi di foggia così nettamente articolata sono caratteristici del G. II, soprattutto nelle necropoli dei dintorni di Como.

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M. PRIMAS 1970, tav. 8 E; L. PAULI 1971, tav. 8: 3-6; R.C. DE MARINIS 1982, tav. XII, 4-7. Per la tipologia e la cronologia delle coppe con piede decorato a cordoni o a costolature in serie continua nella cultura di Golasecca cfr. R.C. DE MARINIS 1982, p. 12 e ss. e tav. II. 71 Cfr. M. RUFFA 1998, pp. 28-30 e tav. VI. 72 M. PRIMAS 1970, tav. XIII A; P. SARONIO 1970, tav. IX. 73 M. PRIMAS 1970, tav. 8 B. In L. PAULI 1971, tav. 6: 12-16, la fibula è inserita nella tomba 32, ma si tratta di un errore di inventariazione del materiale conservato al Museo di Antichità di Torino. 74 R.C. DE MARINIS, D. PREMOLI SILVA 1969, tav. XVI. 70

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Un boccale si conserva quasi integralmente, mancando solo di parte del collo e dell’orlo. Il corpo è tronco-conico a profilo leggermente ricurvo, la spalla è arrotondata e cadente, il collo distinto, il fondo è piatto. L’ansa a nastro è impostata dall’orlo alla spalla. Lungo la spalla corrono tre solcature orizzontali, che poi scendono sotto l’attacco inferiore dell’ansa. Lungo la faccia esterna dell’ansa vi sono tre motivi spiraliformi impressi a stampiglia e lo stesso motivo si ripete sotto il fascio di solcature. Ceramica di impasto bruno-nerastro modellata alla tournette, superficie ingabbiata, di colore nero lucente. Il motivo spiraliforme impresso a stampiglia sembra essere un marker cronologico della fase iniziale del G. II. Lo ritroviamo nella tomba 1 di Ameno A su un bicchiere, a Valtravaglia nella tomba 23 su due bicchieri75, a Sesto Calende nella tomba 2 del 1928, sempre su un bicchiere76. Di un altro boccale simile per forma, ma di dimensioni maggiori, si conservano alcuni frammenti combacianti del corpo e del fondo e un frammento del collo e dell’orlo77. Lungo la spalla è decorato con tre sottili solcature orizzontali e subito sotto con un motivo a zig-zag formato da coppie di solcature a V, di cui se ne conserva una soltanto. L’impasto è abbastanza fine e il pezzo è modellato alla tournette, la superficie di colore rosso chiaro semilucida. La decorazione del collo e del corpo con motivi geometrici e figurativi schematici è ottenuta con una pittura di colore bruno scuro che lascia a risparmio i motivi decorativi. Secondo M. Bertolone il vaso è stato dapprima completamente ricoperto dalla pittura e poi sono state asportate le parti costituenti i motivi decorativi. Il collo è decorato con strisce verticali, il corpo con figure umane schematiche a braccia aperte e gambe divaricate, che sembrano tenersi per mano l’una con l’altra. Tutte le figure mostrano il fallo, di nessuna si conserva la testa, soltanto una sembra avere una chioma svolazzante. In un caso tra una figura e l’altra all’altezza della testa c’è un tondo, motivo che probabilmente si ripeteva anche in tutti gli altri casi, ma la parte relativa non è mai conservata. La teoria di figure umane che sembrano danzare poggia su una fascia formata da linee orizzontali, a zig-zag e da listelli verticali. Il fondo esterno del boccale è decorato con un motivo irregolare a stella reso a stralucido. Nella cultura di Golasecca vi sono alcuni casi di decorazioni figurative antropomorfe realizzate con una pittura di colore grigio-piombo, grafitifera: su una coppa da Bosco del Monte, su un bicchiere da Golasecca e su una coppa con vasca a navicella da Castelletto Ticino, tutte ceramiche databili al G. I C78. Sempre nel G. I C è frequente la decorazione con motivi geometrico-lineari in colore rosso-bruno su fondo rosso chiaro79, mentre una decorazione a risparmio come quella del boccale di Sesto Calende non ha finora confronti. Il motivo della teoria di antropomorfi schematici che si tengono per mano ha un confronto preciso nell’uovo di struzzo dipinto dal territorio vulcente, di età orientalizzante80.

75

M. PRIMAS 1970, tavv. 4 A3, e 13: 5-6; L. PAULI 1971, tav. 1: 2; P. SARONIO 1970, tav. IX. R.C. DE MARINIS 1975, tav. V A 2. Un frammento di boccale con lo stesso motivo spiraliforme impresso a stampiglia si conserva nella collezione Visconti a Somma Lombardo. 77 M. BERTOLONE 1953-54, pp. 70-71, tav. XXXVI, 1; R.C. DE MARINIS 1975, tav. V A 3. 78 R.C. DE MARINIS 1985, fig. a p. 73 e fig. a p. 74 ; M. BERTOLONE 1953-54, tav. XLI, 2; F. RONCORONI 2005, tav. 6 : 25. 79 Alla Ca’ Morta nelle tombe 11, 22, 111, 126 (F. RITTATORE VONWILLER 1966); a Valtravaglia nella tomba 2 (P. SARONIO 1970, tav. I); a Golasecca su un’urna e un bicchiere della collezione Delfinoni (materiali inediti), su un’urna della collezione Ponti e su un bicchiere della collezione Castelfranco (M. BERTOLONE 1953-54, tav. XL, 4, 6). 80 Cfr. M. MARTELLI in Etruschi nuova immagine, fig. a p. 172. 76

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Il boccale a corpo panciuto, collo distinto verticale, orlo esoverso e piccolo piede distinto e il bicchiere a collo distinto e basso piede tronco-conico sono forme fortemente articolate tipiche del G. II, quando la ceramica viene modellata al tornio lento. Il bicchiere recava un ornato di carattere geometrico lineare di colore biancastro, in parte visibile ai tempi del Bertolone, ora quasi completamente obliterato. E’ probabile che si tratti di una decorazione a lamelle di stagno applicate, mentre Bertolone pensava a una vernice di colore giallo-biancastro81. Vi erano, inoltre, i resti di due tazzine ad ansa rialzata, corpo globoso, breve collo distinto, orlo esoverso e basso piede tronco-conico. Tazzine di questo tipo sono documentate finora soltanto nelle necropoli dei dintorni di Como: ad Albate nella tomba VII, alla Ca’ Morta nelle tombe 29, 24, tutte tombe databili al G. II A, e sempre alla Ca’ Morta nella t. 130, del G. II B82. Queste tazzine creano una difficoltà di ordine cronologico, poiché sono simili a quella della tomba 130 e non a quelle più antiche, del G. II A. Dobbiamo, infatti, domandarci fino a che punto il complesso di ceramiche venute alla luce a Sesto Calende nell’inverno 1928-1929 sia cronologicamente omogeneo: quali ceramiche erano effettivamente associate alla tomba di guerriero e quali appartenevano a una o più tombe di età posteriore non documentate dalle scarne informazioni di cui disponiamo? Tra le ceramiche spicca per il suo interesse il guttus ornitomorfo, di elegante fattura83. Il largo becco piatto e il collo flessuoso non lasciano dubbi che si tratti di un uccello acquatico della famiglia degli Anatidi, e più precisamente un’anatra piuttosto che un cigno o un’oca a causa della lunghezza del collo, che non è notevole. Sul dorso è impostata l’apertura del vaso con un breve collo e l’orlo esoverso, mentre la fuoriuscita del liquido avveniva mediante uno stretto canale, largo appena un millimetro, che attraversa tutta la coda del pennuto. Nella prima età del Ferro sono relativamente frequenti in diversi ambiti culturali vasi configurati a corpo animale che dovevano avere la funzione di contenitore di qualche liquido prezioso da versare goccia a goccia. A Bologna sono noti gli askoi configurati a corpo di uccello e testa di toro, in cui l’imboccatura corrisponde alla coda e il versatoio al muso, come ad es. nella tomba Benacci 52584, a Este nella tomba Ricovero 131 il vaso è un bovide dal corpo quasi sferoidale, con imboccatura sul dorso e muso che funge da beccuccio di versamento85. Nella civiltà di Golasecca i guttti sono sempre a forma di anatra e il versatoio è sempre uno stretto canale che attraversa la coda. Un esemplare molto simile a quello di Sesto Calende proviene da Bosco del Monte ed era associato a un’urna del secondo periodo86. Il confronto migliore per Sesto Calende è però con i tre gutti ornitomorfi raccordati a un unico piede della tomba X di Albate, di poco posteriore alla seconda tomba di guerriero di Sesto Calende. Altri due gutti ornitomorfi erano nella tomba 140 della Ca’ Morta, databile al G. II B. Sia la tomba di Albate che la 140 della Ca’

81

M. BERTOLONE 1953-54, p. 94, fig. 1. Per le tombe della Ca’ Morta v. F. RITTATORE VONWILLER 1966, tavv. XXXVIII, XLVII. Quella della t. 24 è inedita. Per Albate G. BASERGA 1910, fig. 3. 83 E. GHISLANZONI 1944, fig. 62; R.C. DE MARINIS 1975, tav. IX, 1; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 39. 84 Cfr. Guerrieri Principi Eroi, p. 603 scheda 5.1 (Anna Dore), con bibliografia precedente. 85 Cfr. Este I, p. , tav. 86 R.C. DE MARINIS 1998, p. 293, figg. 8-9. 82

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Morta sono entrambe tombe femminili87. L’esemplare della tomba 113 di Cerinasca d’Arbedo si differenzia da tutti gli altri per l’alto collo imbutiforme impostato sul dorso. Se le associazioni sono attendibili, la tomba appartiene ormai al IV secolo a.C. per la presenza di due fibule LT B 188. E’ impossibile stabilire quale liquido fosse contenuto in questi vasi, certamente non acqua, forse vino o più probabilmente qualche essenza profumata. Ciò che appare più che probabile è che si tratti di vasi cerimoniali, utilizzati nel corso di libagioni e riti da parte del principe-guerriero o da parte di sacerdotesse. Infine, vi sono diversi frammenti di ceramica con frattura grigiastra e superficie nero lucida, fra cui sono riconoscibili un alto piede svasato a tromba e alcuni frammenti a sezione quadrangolare e internamente cavi. E’ probabile che si tratti di un doppiere del tipo ben documentato alla Ca’ Morta89 con bracci a mezzaluna formati in un unico pezzo separatamente dal piede di sostegno e alloggiati sulla parte leggermente concava della sommità del piede. Bertolone pensava, invece, a un altro vaso ornitomorfo, ma la cosa sembra alquanto improbabile. Finora si conosceva soltanto un altro caso di probabile doppiere nel territorio di SC-G-CT. Nel 1877 furono acquistati dal museo patrio di Brera un bicchiere della forma tipica del G. II B, ma provvisto alla base di un peduncolo, e una coppa anch’essa provvista di peduncolo alla base, che dovevano quindi essere collocati su un sostegno a forma di doppiere, forse il bicchiere al centro e due coppe alle estremità dei due bracci a mezzaluna. Questi materiali provengono da una tomba di dimensioni maggiori del solito, ma già violata da tempo. La conferma della presenza dei doppieri anche nell’area SC-G-CT è venuta con lo scavo 2004 ai Mulini Bellaria di Sesto Calende, dove una tomba di grandi dimensioni, databile al G. II A, conteneva un doppiere a due bracci con due ciotole a base peduncolata, decorato a stampiglia e a stralucido90.

Oggetti d’ornamento Non abbiamo fibule che possano essere ricondotte al corredo della tomba di guerriero. D’altra parte il modo in cui furono recuperati i materiali ci dà la certezza che molti oggetti, soprattutto di piccola dimensione, sono andati irrimediabilmente perduti. L’unico oggetto che si riferisce all’ornamentazione della persona è un’armilla a capi sovrapposti, in verga di bronzo con sezione biconvessa, che si assottiglia ai capi91. Nella cultura di Golasecca le armille a capi sovrapposti sono caratteristiche dei corredi maschili e quelle a capi aperti dei corredi femminili. Mentre abbiamo molti corredi femminili che documentano il tipo a capi aperti, i corredi maschili con armille a capi sovrapposti sono pochi: possiamo citare le tombe 17 e 225 della Ca’ Morta, databili rispettivamente al G. II A e al G. II B92, e le tombe 14 e 2 di Mesocco,

87

Per Albate tomba X: P. CASTELFRANCO 1909; R.C. DE MARINIS 1988, figg. 167-168; R.C. DE MARINIS, P. FRONTINI 1990, tav. I e figg. 12-17, 30. 88 Cfr. Leponti, II, p. 462 n. 543 con bibliografia. 89 Cfr. Ca’ Morta tombe 122, 130, 147/148, 177 centrale in F. RITTATORE VONWILLER 1966, tavv. XLV-XLVIII. 90 R. MELLA PARIANI 2003-2004, p. 29. 91 E. GHISLANZONI 1944, p. 41 ( ?); R.C. DE MARINIS 1975, tav. V B; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, nn. 30. La citazione di Ghislanzoni non è chiara, la sua descrizione corrisponde solo nelle dimensioni al pezzo conservato insieme ai materiali scoperti nell’inverno 1928-1929. Comunque, a togliere ogni dubbio, l’armilla è elencata al n. 29 nel verbale di deposito dei materiali al museo civico di Varese stilato il 20 gennaio 1938. 92 Per la tomba 17 cfr. F. RITTATORE VONWILLER 1966, p. 125, tavv. XXXVII e LXII. La tomba 225 è inedita. 60

rispettivamente del G. II B e del G. III A 193. L’armilla della Ca’ Morta 225 presenta i capi terminanti a doppio globetto. Se ne conoscono esemplari simili ormai privi di contesto94. La tomba 225 aveva una grande sopracopertura di ciottoli e una lastra di chiusura del loculo funerario. Il corredo comprendeva frammenti di fibule serpeggianti e a drago in bronzo e in ferro, tre cuspidi di lancia di ferro, un coltello di ferro, un fodero di pugnale in lamina di ferro con puntale bilobato, frammenti di due morsi, un acciarino e altri frammenti di ferro. L’urna era una cista fittile a cordoni e vi erano i frammenti di un doppiere decorato a stampiglia. Certamente il corredo di questa tomba, venuta alla luce nella cava Bianchi (exBallerini) nell’estate 1966, non è stato recuperato in maniera integrale, ma le fibule, i morsi di cavallo, l’acciarino come pars pro toto per il carro, indicano una deposizione maschile. Le tombe di Mesocco, essendo a inumazione, ci mostrano che queste armille, che hanno in genere diametro intorno a 7,5 – 8,5 cm, erano portate infilate sul braccio, all’incirca a metà dell’avambraccio. La dimensione dell’armilla della seconda tomba di guerriero di Sesto Calende ci fornisce, quindi, l’indizio che il defunto era un individuo adulto. Infatti, vi sono anche armille a capi sovrapposti di dimensioni minori, con diametro di 4,5-5,5 cm. E’ il caso di una tomba degli scavi A. Betrand – A. Maitre, il cui corredo comprende un pendaglio a secchiello, un frammento di fibula serpeggiante, un netta-unghie in bronzo, mentre l’urna è un’olla a corpo globulare decorata a stralucido, di piccole dimensioni (h 15 cm)95. Alla luce delle dimensioni dell’armilla e dell’urna è probabile che si trattasse della tomba di un individuo non adulto. Armille a capi sovrapposti di piccole dimensioni provengono anche da due tombe di Varallo Pombia, tt. 4/1995 e 5/199596. In entrambe mancano fibule od altri oggetti di corredo diagnostici del sesso del defunto. La prima era già stata violata ab antiquo e sono state recuperate soltanto “due piccole porzioni di ossa calcinate”, la seconda è riferibile in base all’analisi dei pochi resti cremati recuperati nell’urna, a un soggetto “adolescente tra i 15 e i 20 anni di età”. Numerose armille a capi sovrapposti, con un diametro variabile tra i 5 e i 6 cm, furono rinvenute nella tomba del Motto della Forca di Castelletto Ticino scavata da Carlo Marazzini nell’ottobre 1887, ora conservata al museo civico di Novara97. Anche in questo caso, purtroppo, non abbiamo fibule o altri oggetti diagnostici del genere. Nella tomba già violata da tempo, vi era un tripode con vasca di bronzo e gambe di ferro98. L’analisi critica delle fonti disponibili, condotta da Gambari, ha permesso di stabilire che non vi è certezza della presenza in questa tomba di un morso di cavallo in ferro e neppure di una fibula a navicella, elementi che sarebbero stati tra loro contraddittori, almeno per quanto riguarda la cultura di Golasecca.

Il vasellame bronzeo 93

B. SCHMID-SIKIMIĆ 2002, fig. 3.53 e fig. 3.14. Ad es., al Musée des Antiquitées Nationales di St. Germain-en-Laye, n. 17188, da Golasecca, acquisto di G. de Mortillet nel 1871 presso Michele Giani, nipote dell’abate Giovan Battista Giani. 95 Materiali al Musée des Antiquitées Nationales di St. Germain-en-Laye, nn. 20781-20784. 96 M. SQUARZANTI in La birra e il fiume, pp. 55-61, figg. 51 e 55. 97 F.M. GAMBARI, in F.M. GAMBARI, L. MALNATI 1980, pp. 45-49, tavv. XIV B, XV. 98 L’unico contesto disponibile per valutare a quale genere fosse pertinente il tripode nelle tombe della cultura di Golasecca è la tomba del tripode di Sesto Calende, loc. Mulini Bellaria, per cui cfr. infra a p. e ss. La tomba era femminile, ma da un unico caso è difficile inferire norme generali. 94

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La tomba conteneva il più ricco corredo di vasellame bronzeo mai scoperto nell’ambito della civiltà di Golasecca: una grande situla figurata, una situla con due manici, una cista a cordoni, un bicchiere, una coppa, una tazza, tutti recuperati in condizioni molto precarie. Inoltre, il manico di un’altra situla e pochi frammenti di una seconda cista a cordoni documentano la presenza di altri due vasi di bronzo e dicono chiaramente quanto infelice sia stato lo “scavo” di questa tomba. Tutto il vasellame bronzeo è venuto alla luce nei punti “a” e “b” dello schizzo dell’ing. Bogni, vale a dire nella parte più occidentale della tomba. La situla figurata ha più o meno le stesse dimensioni di quella della prima tomba di guerriero ed anche la decorazione è praticamente identica99. Si tratta di una situla tipo Kurd, caratterizzata da collo distinto con orlo avvolto su un tondino di bronzo di rinforzo, spalla a spigolo e corpo tronco-conico; tra collo e spalla corrono tre cordonature orizzontali a sbalzo. Le due anse sono a nastro con margini costolati ed attacchi a doppia T fissati con due ribattini sulla spalla e sul lato interno del collo. La piastrina fissata all’interno è decorata a punti e borchie a sbalzo. La parte superiore del corpo è formata da due lamine fissate con dodici ribattini, probabilmente anche la parte inferiore era costituita da due lamine, ma il dato non è sicuro essendo questa parte quasi totalmente mancante. Il fondo era formato da una lamina a scodella con il bordo fissato al margine inferiore del corpo per mezzo di oltre venti ribattini. Il fondo aveva la fascia periferica piatta, che costituiva la base d’appoggio, e per il resto era rientrante. L’altezza totale della situla è di 57 cm, il diametro alla bocca di 39 e al piede di 23,5 cm, il diametro massimo alla spalla è di 45 cm. Lo spessore delle lamine è di mezzo millimetro, quello massimo delle anse di 2 mm. La capacità della situla è stata stimata in 55 litri. Se fosse stata riempita di acqua o di altri liquidi (idromele, vino) non avrebbe retto durante il trasporto. Quindi, questa come anche la situla simile della tomba A non dovevano avere una funzione pratica, ma solo di carattere cerimoniale e di prestigio. La parte superiore del corpo, alta 31,5 cm, è decorata e suddivisa in quattro fasce orizzontali da file di puntini a sbalzo. Le figure sono rese con un contorno a puntini a sbalzo e una campitura interna a punti più grossi, sempre a sbalzo. La prima fascia presenta un riempitivo formato da una successione di borchie contornate da due cordonature circolari, la seconda una sequenza di nove uccelli schematici, con becco adunco e tre zampe, rivolti verso destra, la terza ripete il motivo della prima. La quarta fascia, che ha un’altezza di 14 cm, presenta il fregio figurato, la cui conservazione è purtroppo molto parziale, ma che in base a quanto sopravvive sembra ripetere con qualche variazione la stessa sequenza di figure del fregio della situla della tomba A. Tutta la parte figurata è articolata in due pannelli che corrispondono alle due lamine. Nel primo, da destra verso sinistra abbiamo dapprima un lacerto di figura rivolta verso destra, di cui rimane soltanto parte del dorso, quindi due personaggi con spada alla cintola rivolti verso sinistra, il primo di maggiori dimensioni brandisce una scure, di fronte a loro un quadrupede fornito di un paio di corna, probabilmente un capride,

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Cfr. E. GHISLANZONI 1944, p. 5 e ss., figg. 8, 9, tav. I con sviluppo dell’ornato figurato a 2/5 della grand. nat.; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 32. 62

è la vittima destinata al sacrificio. Segue un cavallo, come indicano le redini, mentre la figura del cavaliere non si è conservata. La differenza rispetto alla situla della tomba A consiste nel fatto che in quest’ultima tra il cavaliere e il capro vi è un personaggio stante rivolto verso destra, assente invece nella situla della tomba B, dove tuttavia forse vi corrisponde quello collocato all’estrema destra del pannello. Il secondo riquadro è ancora più lacunoso del primo. Come è noto, nella situla della tomba A vi erano da sinistra verso destra un cervo, una cerva con il capo rivolto all’indietro, mentre un piccolo succhia il latte, due pugili affrontati e un uccello in posizione verticale rivolto verso destra. Nella situla della tomba B si riconoscono chiaramente i due duellanti affrontati e l’uccello in posizione verticale, mentre nella parte a sinistra vi sono certamente due figure di quadrupedi rivolte verso destra, di cui il primo è un cervo, mentre poco si può dire del secondo, probabilmente una cerbiatta, ma mancano il muso, che comunque non è rivolto all’indietro, le zampe e il ventre. Il restauro Proni, effettuato negli anni ’30 del secolo scorso, a nostro avviso, è sostanzialmente attendibile. Nel 1980 è stata proposta da Clemens Eibner una diversa ricostruzione100: il frammento con i due personaggi che si apprestano al sacrificio e il muso e le zampe anteriori dell’animale è stato spostato nel pannello di sinistra, nella convinzione che il dorso del personaggio incompleto corrisponda al dorso di uno dei due duellanti, e di conseguenza i frammenti con i lacerti di cervo e cerbiatta sono stati spostati nel pannello di destra, collocandoli davanti alla figura di cavallo. Questa ricostruzione viene giustificata oltre che dal completamento della figura di uno dei duellanti, dal fatto che l’animale che precede il cavallo ha una coda corta e non può essere un bovide. Ma perché si deve interpretare l’animale destinato al sacrificio come un bovide? Si tratta di figure schematiche e solo alcuni dettagli macroscopici ci permettono di identificare la specie. Né possiamo appellarci alla dimensione delle figure, perché in quest’arte schematica non vengono rispettate: ad es., nella situla di Trezzo le dimensioni dei cervi e dei cani sono identiche. Nella stessa situla di Sesto Calende B l’uccello in posizione verticale ha dimensioni superiori a quelle dei due duellanti. L’animale destinato al sacrificio può benissimo essere un capride e quindi la coda corta è pienamente coerente. Inoltre, non viene tenuto conto del fatto che il dorso del personaggio all’estrema destra nel restauro Proni mal si adatta ad essere il dorso di uno dei duellanti, perché risulterebbe più alto dell’altro duellante. Ma soprattutto, spostando i frammenti come fa Eibner, non tornano più i conti con la disposizione delle nove figure di uccelli, che nel restauro Proni risultano tutte più o meno della stessa lunghezza e regolarmente distanziate, mentre nella ricostruzione Eibner all’estrema destra rimarrebbe una testa di uccello senza corpo, perché subito seguirebbe un altro uccello quasi completamente conservato, e nel pannello di sinistra due figure di uccelli avrebbero corpo e testa enormemente distanziate. Una ricostruzione quindi non credibile101. Le situle tipo Kurd compaiono verso la fine dell’età del Bronzo e sono diffuse soprattutto nel bacino carpatico e nell’area nord-alpina, anche se non mancano ritrovamenti nel Veneto e nel Trentino. Le situle 100

C. EIBNER, Zur Rekonstruktion des Frieses auf der Situla B von Sesto Calende, in appendice a A. EIBNER, 1981, pp. 261 e ss. 101 Questa ricostruzione è stata adottata anche nel restauro effettuato nel 1989-1990, probabilmente in maniera del tutto autonoma e indipendente dalle proposte di Eibner, ma non per questo meno errata. 63

dell’età del Bronzo hanno la spalla arrotondata, una o più costolature tra collo e spalla e la loro altezza è sempre al di sotto dei 40 cm. Quelle della prima età del Ferro, documentate da circa una trentina di esemplari e diffuse soprattutto in Etruria e nel mondo hallstattiano orientale, in misura minore in quello occidentale, hanno quasi sempre dimensioni superiori ai 40 cm di altezza, la spalla è a spigolo e nella maggior parte dei casi sono assenti le cordonature tra collo e spalla102. Le due situle di Sesto Calende presentano le cordonature alla base del collo, come nella situla della tomba dei vasi borchiati di via Tiepolo a Padova e in quella della tomba 696 di Hallstatt. La situla della tomba A ha la spalla arrotondata, quella della tomba B a spigolo. Per il resto sembrano uscite dalla medesima bottega a distanza di breve tempo, vista la quasi identità della decorazione. La tecnica con cui sono eseguite le figure delle due situle di Sesto Calende è quella dei punti e borchie a sbalzo, la stessa con cui erano decorati i manufatti in lamina bronzea dell’età dei Campi d’Urne e che nella prima età del Ferro sopravvive soltanto nel gruppo hallstattiano orientale di Klein-Klein, oltre che nell’area di Golasecca. A Bologna, a Este e nel mondo dell’arte delle situle dell’area alpina centroorientale questa tecnica, pur perdurando in qualche caso solo per l’esecuzione di fregi ornamentali, è soppiantata dalla tecnica che delinea le figure a sbalzo dal rovescio e a bulino dal diritto. Golasecca rimarrà fedele alla tecnica tradizionale fino alla fase II B, come dimostra la situla di Trezzo d’Adda, mentre sbalzo e incisione a bulino sono utilizzati solo per la decorazione di alcune placche da cintura in lamina bronzea delle necropoli del Sopraceneri (Cerinasca, Giubiasco)103. L’utilizzo della medesima tecnica per i fregi figurati a Klein-Klein e a Sesto Calende ha indotto Gero von Merhart a ritenere che l’origine delle situle di Sesto Calende fosse da ricercare in un’officina dell’area alpina orientale, in particolare a Klein-Klein stessa. In seguito anche Margarita Primas (1970) ha sostenuto la tesi che le situle di Sesto Calende siano state prodotte sotto l’influsso delle officine alpinoorientali, giungendo anche a ipotizzare l’arrivo di un ristretto ceto di signori hallstattiani orientali nell’area di Golasecca. In realtà, pur nei limiti di un’arte essenzialmente schematica, l’aspetto descrittivonarrativo e quello commemorativo sono resi in maniera più organica a Sesto Calende, le figure animali e umane sono più reali e volumetriche rispetto a quelle di Klein-Klein. Anche i motivi sono differenti, l’unico punto in comune sembra il fregio di uccelli. A Klein-Klein domina l’horror vacui, con un affastellamento caotico di motivi figurativi e riempimenti ornamentali. Niente di tutto questo a Sesto Calende. Si tratta, quindi, di due tradizioni toreutiche autonome e indipendenti. Inoltre, a Golasecca non solo si produceva localmente vasellame bronzeo, come dimostrano le ciste a cordoni e il bicchiere stesso della tomba B di Sesto Calende, bicchiere che ripete in bronzo la forma di quelli in ceramica, ma si è formata una tradizione che ha continuato a evolversi fino alla fase II B, come dimostra la situla di Trezzo104.

102

Sulle situle tipo Kurd dopo il fondamentale lavoro di GERO VON MERHART 1952, p. 29 e ss., e tavv. 16-19, cfr. M. EGG 1985, p. 371 e ss., aggiornamento dei ritrovamenti dell’età del Ferro alla nota 130 e carta di distribuzione fig. 39. 103 Sulle placche da cintura ticinesi cfr. R.C. DE MARINIS 2000. 104 Sulla situla di Trezzo d’Adda cfr. R.C. DE MARINIS 1974, in particolare p. 71 e ss. e tav. I con lo sviluppo di tutto il fregio decorato. 64

La scena dei duellanti nella situla B richiama le analoghe scene dell’arte rupestre della Val Camonica105, non si tratta infatti di pugilato come sembra nella situla della tomba A, ma di duello con un bastone o una daga e i due duellanti sono ritratti mentre si affrontano impugnando l’arma tenuta in posizione verticale. Tutte le situle tipo Kurd sono state scoperte in ricche tombe maschili, spesso dal carattere principesco, con armi, finimenti equini, carro, abbondante vasellame bronzeo. Il fregio figurato della situla ha un evidente carattere narrativo, nello stesso tempo commemorativo e forse anche simbolico: la scena del sacrificio definisce il ruolo del principe-guerriero, garante del sacrificio nei confronti della comunità, i duellanti forse alludono alle gare svolte in occasione delle cerimonie funebri, nella situla A l’allattamento del vitello potrebbe simbolicamente esprimere il ruolo del principe-guerriero come garante della sussistenza del gruppo sociale. Vicino alla situla tipo Kurd è stata scoperta un’altra situla di grandi dimensioni, a collo distinto e corpo tronco-conico formato da due lamine congiunte verticalmente in corrispondenza degli attacchi delle anse e da una terza lamina fissata al margine inferiore delle due precedenti, mentre il fondo era unito a incastro. La situla aveva due manici ed era provvista anche di reggi-manici106. L’orlo è arrotolato intorno a una verga di bronzo cava. Sul collo sono fissati i due attacchi a piastrina rettangolare e provvisti di doppio occhiello per l’inserzione dei manici e in posizione intermedia i due reggi-manici. Dei due manici, di verga a tortiglione, ne rimane uno soltanto, deformato, ma certamente pertinente alla situla perché era ancora inserito in uno degli occhielli. Manca qualsiasi frammento della spalla, non sappiamo quindi se la situla fosse provvista di cordonature all’inizio della spalla. L’altezza ricostruibile è intorno ai 33 cm, il ø massimo intorno ai 29 cm, il ø del fondo di circa 16 cm. Le situle a spalla cordonata sono caratteristiche dell’area di Golasecca, dove sono documentate da 17 esemplari, di cui uno solo, da Garlasco, recuperato in condizioni molto frammentarie, aveva dimensioni paragonabili a quelle della situla della tomba B di Sesto Calende. Ma forse è più probabile che la situla in questione fosse a spalla liscia, come sembrerebbe lecito inferire da un minuscolo frammento, e quindi di tipo bolognese. A Bologna, infatti, il maggior numero di situle è del tipo a collo distinto, spalla liscia, attacchi per due manici e reggi-manici (se ne conoscono più di 80 esemplari). Ad es., una situla dello stesso tipo e di dimensioni simili proviene dalla tomba 37 della necropoli Benacci Caprara di Bologna107. Vi era quasi certamente una seconda situla, poiché tra il materiale si trova un manico del solito tipo di verga di bronzo decorata a tortiglione e con le terminazioni a testa di cigno stilizzata, anche questo deformato, ma completo108. Per la diversa conformazione delle estremità non può appartenere alla situla con attacchi a doppio occhiello e reggi-manici e per le sue dimensioni non può appartenere alla cista a cordoni, quindi doveva essere il manico o uno dei due manici di un’altra situla. 105

Cfr. ad es. le figure di duellanti di Seradina in R.C. DE MARINIS 1988/b, fig. 123. Cfr. E. GHISLANZONI 1944, p. 18, fig. 11/a. La fig. 11/b non può essere il fondo di questa situla, come ritiene Ghislanzoni, poiché il diametro di circa 24 cm è troppo grande, mentre corrisponde alle dimensioni della situla Kurd figurata. R.C. DE MARINIS 1975, p. 227, lettera ‘d’, tav. VIII, 4. 107 Cfr. S. TOVOLI 1989, p. 251 con bibliografia precedente e per la t. Benacci Caprara 37 tav. 41 n. 43. 108 Cfr. R.C. DE MARINIS 1975, tav. VIII, 7, erroneamente attribuito alla cista a cordoni, ma cfr. la rettifica a p. 269. 106

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Le ciste a cordoni sono un recipiente in lamina bronzea ampiamente diffuso tra la fine dell’VIII e il V secolo a.C. a Bologna, nel mondo hallstattiano soprattutto orientale, nel gruppo di S. Lucia lungo la valle dell’Isonzo, nel Piceno e nella cultura di Golasecca. Non vi era un unico centro produttore, ma sono state individuate diverse botteghe artigianali, ciascuna con le proprie particolarità tecniche e formali109. La produzione tipica di Golasecca, documentata da quasi una trentina di esemplari, mostra nel corso del tempo una chiara evoluzione110.

Le ciste a cordoni del G. I C e II A si caratterizzano per avere nello

spazio tra un cordone e l’altro una serie di punti a sbalzo piuttosto grossi, mentre le dimensioni possono essere standard, intorno ai 20 cm di altezza e ai 21 cm di diametro, oppure piccole, intorno ai 15-16 cm di altezza e 17-18 di diametro. Le produzioni più recenti, oltre ad avere dimensioni maggiori, in genere 2426 cm di altezza e 27-30 di diametro, presentano una decorazione a punti sbalzati piccoli, molto fini e ravvicinati. La cista a cordoni della seconda tomba di guerriero rientra nella serie di piccole dimensioni della produzione più antica e si può confrontare perfettamente con l’esemplare della tomba XII di Albate, databile al G. II A111. Il fondo è del tipo con una fascia a sbalzo e la parte centrale piatta, meno probabilmente con una borchia centrale contornata da cordonature concentriche a sbalzo, due tipi di fondo entrambi frequenti in pari misura nelle ciste a cordoni di produzione golasecchiana. I frammenti superstiti della cista a cordoni della tomba B sembrano favorire l’ipotesi di un fondo con parte centrale piatta. Inoltre, rimangono i frammenti di una seconda cista a cordoni: un frammento di orlo e parete nel punto di sovrapposizione delle lamine, con parte dell’ansa ad occhiello fissata con una piccola piastrina di forma ovale e un ribattino a capocchia globosa; un secondo frammento di orlo e parete con fila di borchiette a sbalzo, un frammento di parete con cordonatura a sbalzo, un’ansa ad occhiello con le due piastrine per il fissaggio, due frammenti combacianti del cordone di bronzo di rinforzo dell’orlo, che permettono di valutare il diametro della bocca intorno ai 18,5 cm, quindi le dimensioni sono le stesse della cista a cordoni precedente. Un unicum della tomba di guerriero B è il bicchiere di bronzo a corpo globoso e profilo a S, che ripete esattamente la forma dei bicchieri del G. I C e II A112. Il fondo è ombelicato e all’inizio della spalla corrono tre sottili costolature arrotondate, orizzontali, che intendono riprodurre le canoniche tre solcature o fascette a risparmio dei bicchieri golasecchiani. Lo spessore è di un mm. Il pezzo è completo, a parte una piccola lacuna sul corpo e alcune linee di frattura. Lo spessore e la presenza delle tre sottili costolature rilevate all’esterno fanno ipotizzare una fusione a cera persa. Il bicchiere costituisce anche un prezioso punto di riferimento cronologico per la datazione della tomba.

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Il lavoro principale di riferimento è B. STJERNQUIST 1967. Sulle ciste a cordoni nella cultura di Golasecca cfr. R.C. DE MARINIS 2000. 111 Cfr. R.C. DE MARINIS 2000, fig. 6. 112 E. GHISLANZONI 1944, p. 18, fig. 13; R.C. DE MARINIS 1975, p. 227, tav. VIII, 5. 110

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Di una piccola tazza in lamina bronzea, con corpo carenato e orlo distinto ed esoverso, rimangono solo frammenti, che consentono di valutare il diametro della bocca in 9 cm e la massima espansione del corpo in 9,3 cm. L’altezza è conservata per soli 3 cm, ma quella originaria doveva essere intorno ai 5,5. Manca completamente l’ansa sopraelevata e la parte di orlo e parete a cui era fissata113. Un buon confronto è offerto dalla piccola tazza in lamina bronzea della tomba III di Albate, databile al G. II A o alla fase II AB114. Di una coppetta in lamina bronzea, con orlo leggermente rientrante e corpo a calotta si conservano due frammenti per un’altezza massima di 4,5 cm. Il diametro è valutabile intorno ai 14 cm. Non ci sono tracce di decorazione incisa lungo l’orlo, come di norma per le tazze-attingitoio del Golasecca I C e II. Inoltre, la forma a calotta, molto larga e poco profonda, non corrisponde a quella delle tazze-attingitoio. Doveva trattarsi, quindi, di una coppetta priva di ansa115. Infine, alcuni frammenti di lamina bronzea decorati a sbalzo e a bulino appartengono a un coperchio di situla del tipo a bassa calotta tronco-conica e presa a corolla di probabile produzione atestina116. Il frammento più ampio, di appena 7 x 3 cm, è pertinente alla parte di fregio figurato verso il bordo117. Rimangono la fila di borchiette a sbalzo e la cordonatura che delimitavano il fregio dalla parte del bordo, del fregio sopravvive parte del motivo a palmette contrapposte, sufficiente per ricostruirlo completamente. Dal gambo si sviluppano, simmetricamente contrapposte, tre palmette per parte, di cui quella centrale, in asse con lo stelo, ha un cuore arcuato nell’angolo formato dalle volute divergenti del calice e quattro petali disposti a ventaglio. Ciascuna delle volute dà origine a un’altra palmetta. Le due palmette laterali appaiono quindi disposte perpendicolarmente ai lati di quella centrale. Il motivo era ripetuto in maniera speculare dal lato opposto del gambo. I petali e il cuore della palmetta, delineati a bulino, sono ulteriormente evidenziati da un grosso punto a sbalzo. I sepali del calice e lo stelo sono resi a bulino sul diritto e a sbalzo dal rovescio, uno sbalzo non arrotondato, ma leggermente carenato, a sezione angolata. Altri dieci frammenti, di dimensioni minuscole, potrebbero aver appartenuto a questo coperchio, alcuni certamente, altri in maniera dubitativa. Il coperchio forse era quello della grande situla a collo distinto, con due manici e due reggi-manici. Per la forma, i motivi decorativi e la tecnica a bulino e a sbalzo rientra nella serie dei coperchi attribuiti alla più antica arte delle situle della cerchia di Este e da qui diffusi nell’area alto adriatica e in quella della cultura di Golasecca. Questi coperchi hanno dimensioni oscillanti tra i 21 e i 25 cm di diametro, il fregio figurato è compreso tra due piccole fasce costituite da una cordonatura contornata da una fila di borchiette a

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E. GHISLANZONI 1944, p. 18; R.C. DE MARINIS 1975, p. 227, tav. VIII, 6. R.C. DE MARINIS 1990-91, p. 183 e ss., fig. 15.8. 115 E. GHISLANZONI 1944, p. 18, fig. 12; R.C. DE MARINIS 1975, p. 227; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 37. 116 Per la documentazione sui coperchi della cerchia di Este e la più antica arte delle situle di Este rimando a O.H. FREY 1969, per la definizione del tipo cfr. Studi Este e Golasecca, p. 67 e fig. 12: 2. 117 Il frammento è stato pubblicato per la prima volta da M. BERTOLONE 1954, p. 69 e tav. XXXV. Cfr. anche O.H. FREY 1969, n. 12 e R.C. DE MARINIS 1975, p. 235 e tav. X A 2. Per tutti i coperchi di produzione atestina citati cfr. O.H. FREY 1969. 114

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sbalzo118 e comprende motivi animali quasi sempre inframezzati da motivi vegetali che fungono da riempitivo o da elemento di separazione, come è appunto il caso delle due palmette contrapposte. Quest’ultimo motivo si ritrova soltanto sul coperchio di Grandate, una tomba del Golasecca I C scoperta nel 1885119, dove lo schema del motivo è identico, ma la palmetta è sostituita da un semplice bocciolo. Si tratta di un motivo orientalizzante, che ritroviamo con alcune varianti sulla stele di Crespellano e sull’altare di via Fondazza a Bologna120. Altri aspetti accomunano il coperchio di Sesto Calende a quello di Grandate, l’uso dei puntini a sbalzo per dare maggior risalto ai petali della palmetta, che negli altri coperchi attribuiti alla medesima cerchia artigianale si ritrova solo a Grandate e sulle ali della sfinge nell’esemplare da Hallstatt. Per quanto riguarda la cronologia le opere più antiche della cerchia di Este possono essere assegnate al terzo (Rebato t. 187, Stična, S. Lucia t. 351) e all’ultimo quarto (Randi t. 34, Ricovero 233) del VII secolo a.C., vale a dire alle fasi cronologiche Este II tardo e Este II-III. Il coperchio di Hallstatt, tomba 696 (Ha D 2), appartiene a un corredo non esente da dubbi di confusione e potrebbe forse appartenere alla tomba 697 (Ha C 2)121. La tomba di Grandate è databile verso la fine del Golasecca I C (terzo quarto VII secolo), mentre la seconda tomba del guerriero di Sesto Calende è da collocare agli inizi del Golasecca II, quindi verso la fine del VII secolo.

L’armamento offensivo e difensivo La tomba conteneva un elmo, una coppia di schinieri, una spada corta o meglio pugnale, una cuspide di lancia, vale a dire lo stesso armamentario della tomba A, con l’unica differenza della cuspide di freccia, che risulta assente nella tomba B. L’elmo, di bronzo, è a calotta composta di tipo alpino sud-orientale122. La calotta è formata da tre lamine: quella mediana è una striscia rettangolare ma con i lati lunghi rientranti, lunga 38 e larga 16 cm ai capi e 10,2 nella parte mediana, ripiegata a semicerchio; le due laterali hanno una forma a ¾ di cerchio, con larghezza massima di 21 e altezza massima di 14,5 cm, ed erano fissate alla lamina mediana con dodici ribattini ciascuna. Al margine inferiore della calotta così formata era sovrapposta per 17 mm la fascia di base, alta 5,5 cm, fissata con oltre trenta ribattini a capocchia semiglobosa, fascia che piegando ad angolo quasi retto formava una tesa ampia 3 cm e con breve orlo ripiegato verso l’interno. Dei perni in bronzo fuso per il fissaggio della cresta in materiale organico (quasi certamente di crine di cavallo) si conservano i due sostegni sommitali a forma di sfinge alata, ma privi di dettagli incisi, e quello della fascia di base in corrispondenza della fronte, a forma di gancio, ma probabilmente una protome di cavallo stilizzata. 118

Solo nel coperchio Randi il fregio è marginato da una cordonatura semplice, senza le borchiette, mentre in quello Ricovero 233 dalle borchiette senza la cordonatura. 119 Cfr. R.C. DE MARINIS 1992, p. 182 e ss., figg. 12-13. 120 Per gli altari di via Fondazza cfr. G. BERMOND MONTANARI in La formazione della città in Emilia Romagna. Catalogo della mostra, Bologna 1987, pp. 83-88. Per Crespellano cfr. M. ZUFFA 1953, figg. 1-2 (nella parte centrale della fascia rettangolare di base). 121 A questo proposito cfr. F.R. HODSON 1990, p. 153. 122 E. GHISLANZONI 1944, p. 22 e ss, fig. 20; R.C. DE MARINIS 1975, p. 229, tav. V B; M. EGG 1986, n. 99 p. 164 e fig. 111; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 28. 68

Appartengono alla tesa interna sei piccoli frammenti di lamina bronzea in parte combacianti, decorati a sbalzo dal rovescio e a bulino sul diritto con un fregio di palmette con archetti intrecciati alla base123. Il motivo è schematico, i petali sono ridotti a tre e recano un piccolo punto a sbalzo all’apice, l’ugola è una borchietta a sbalzo e sono assenti le volute divergenti del calice. Gli elmi a calotta composta, definiti da Stane Gabrovec e in seguito oggetto di uno studio sistematico da parte di Markus Egg124, comprendono due tipi: il primo, denominato piceno con le due varianti Novilara e Fabriano, si caratterizza per avere le lamine laterali della calotta di forma semicircolare, la tesa ampia con bordo ripiegato verticalmente e una serie di chiodi a capocchia globosa per il fissaggio della tesa interna; il secondo, denominato alpino sud-orientale, presenta le lamine laterali a ¾ di cerchio, la tesa con bordo verticale ripiegato verso l’interno e tesa interna decorata. L’elmo della tomba A appartiene alla variante Fabriano del tipo piceno, l’elmo della tomba B al tipo alpino sud-orientale. Il tipo piceno è diffuso, come dice il nome, nel Piceno e con un solo esemplare nel Veneto, quello alpino sud-orientale è diffuso nella cultura hallstattiana orientale della Bassa Carniola / Dolenjska in Slovenia e con un solo esemplare in Romagna. La decorazione della tesa interna dell’elmo della seconda tomba di guerriero trova precisi confronti nella tomba con corazza di Novo Mesto, anche in questo caso sulla tesa interna dell’elmo, e sulla tesa del frammento di elmo dalla tomba dell’anno 1883 di Magdalenska Gora125. Per quanto riguarda la datazione degli elmi a calotta composta tutti i contesti disponibili sia nel Piceno che in Slovenia indicano un orizzonte cronologico di pieno VII secolo a.C. (Piceno III, Ha C 2), mentre, come vedremo più avanti, l’unico caso un poco più recente sembra essere quello di Sesto Calende B. Gli schinieri sono in robusta lamina bronzea, liscia e ben elastica, hanno forma anatomica con resa accurata del muscolo del polpaccio126. Lungo i bordi presentano una serie continua di forellini per l’affrancatura dell’imbottitura. Quello sinistro è stato recuperato quasi integro, a parte qualche lacuna lungo i bordi e il rigonfiamento del polpaccio, l’altro invece presentava più ampie lacune. Secondo Ghislanzoni lungo la parte interna dei bordi erano ancora conservati “pezzi di stoffa”. Come quelli della tomba A, anche gli schinieri della tomba B appartengono al tipo greco arcaico, ma con la differenza che sono più corti e non arrivano a coprire il ginocchio127. L’uso di deporre una coppia di schinieri è frequente nelle tombe etrusche a partire dal periodo orientalizzante, in quelle picene e in quelle umbre della Romagna, mentre non si registra a Bologna, nel mondo paleoveneto, e neppure in quello hallstattiano orientale, dove invece nelle tombe dei personaggi più eminenti sono presenti le corazze.

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Il mio disegno risale al 1971, ma a quanto pare una parte di questi frammenti è ora irreperibile! Cfr. M. EGG 1986, pp. 23 e ss., p. 154 e ss. , n. 97, fig. 109 e tav. 44 (Sesto Calende A), n. 99 e fig. 111 (Sesto Calende B). Inoltre, M. EGG 1988, p. 233 e ss. 125 Cfr. M. EGG 1986 nn. 102 e 104. 126 E. GHISLANZONI 1944, p. 25 e ss., fig. 21; R.C. DE MARINIS 1975, p. 229, tav. VI, 1; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 29. 127 Per gli schinieri greci arcaici v. A. SNODGRASS 1964, p. 86 e ss. 124

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L’armamento comprendeva un pugnale ad antenne, di cui si conserva soltanto l’impugnatura con la parte di lama compresa all’interno della guardia128. L’impugnatura è in bronzo e la lama in ferro. L’elsa è ad antenne ricurve terminanti a globetto con piccola appendice biconvessa, la guardia ha forma semicircolare con terminazioni a doppia costolatura e globetto. Nella parte mediana sia dell’elsa che della guardia vi è una decorazione di tre doppi circoletti impressi (occhi di dato). L’impugnatura, leggermente fusiforme, è formata da dischetti di bronzo, di altezza variabile da 3,7 a 4,4 mm, alternati a dischetti di ferro di minore spessore (da 1,8 a 2,4 mm) inseriti sul codolo della lama, tranne che nel tratto iniziale di 13 mm, a diretto contatto con l’elsa, formato da un unico cilindretto di bronzo. Questa particolarità dell’impugnatura era già stata descritta chiaramente dal Ghislanzoni: “verso la estremità superiore , cioè verso la verga piegata ad antenne, c’è un’aggiunta riconoscibile anche nella nostra fig. 19 per il colore più chiaro. Questa aggiunta è di bronzo pieno ed in essa con leggeri solchi trasversali paralleli si è voluto ripetere l’elemento decorativo dei dischi alternati di metallo diverso”. Questa parte, che secondo Ghislanzoni era stata aggiunta in un secondo momento, veniva chiaramente evidenziata nel disegno pubblicato da chi scrive nel 1975: un tratto di 13 mm adiacente all’elsa è stato aggiunto forse in seguito a una rottura causata da un difetto di fusione o da un evento per noi imprecisabile e sul pezzo aggiunto sono stati tracciati tre leggeri solchi trasversali per ripetere il motivo decorativo dell’impugnatura129. Probabilmente al centro dell’elsa vi era un globetto che copriva l’estremità del codolo in ferro della spada. Il frammento di lama superstite presenta sezione lenticolare con bordi appiattiti e reca ancora qualche traccia del legno del fodero da entrambi i lati. Il pugnale della tomba B ha un riscontro molto preciso in un esemplare scoperto nel 1869 a Sion in rue de Lausanne, al punto che si può ipotizzare la provenienza da una medesima officina130. Devo alla cortesia di Philippe Curdy una precisa descrizione di questo pugnale. L’impugnatura ha l’elsa e la guardia in bronzo, mentre l’impugnatura stricto sensu è formata da undici dischetti di ferro dello spessore di 4 mm alternati a dodici dischetti più sottili (1 mm di spessore) di ferro. Sulla faccia anteriore della guardia vi è un motivo a croce ottenuto per incrostazione di lamelle di rame probabilmente puro. Un’impugnatura simile, ma in condizioni molto frammentarie essendo stata sul rogo, proviene da una tomba della Ca’ Morta, scoperta forse nel 1928, ma pervenuta al museo di Como soltanto nel 1940. Pugnali con impugnature simili, ma differenti in molti particolari, provengono da tombe dell’Ha D 1 di 128

E. GHISLANZONI 1944, p. 20 e ss., fig. 19; R.C. DE MARINIS 1975, p. 227 e ss., tav. VI, 4; S. SIEVERS 1982, n. 118; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 26. 129 Con il restauro dei materiali della seconda tomba di guerriero effettuato negli anni 1989-1990 questa parte dell’impugnatura è stata sostituita da un’integrazione in resina. La scheda di restauro, piuttosto sommaria, sembra indicare che vi fossero delle parti in gesso che sono state sostituite con l’integrazione. Non liquet. 130 In letteratura troviamo descrizioni diverse di questo pugnale. W. DRACK (1964) scrive: “Griff aus Bronze mit feinen Eisenplättchen-Einlagen”, successivamente W. DRACK (1972-73, p. 136) modifica la descrizione: “Der Griff erscheint aus mehreren Teilen zusammengesetz: die Parierstange ist für sich gebildet, dann folgen abwechslungsweise zwölf Eisenscheiben und elf Bronzescheiben…..“. M. PRIMAS, in UFAS IV, 1974, p. 37 scrive: „..der Antennendolch aus Sitten mit eisernen Blatt und bronzenem durch Eiseneinlagen geschmücktem Griff“. G. KAENEL 1986, p. 326: „La poigné de bronze ornée de rondelles de fer“. Infine S. SIEVERS 1982, p. 33: « Die Dolche aus Sesto Calende und Sitten weisen eine durch Eisenscheibchen unterteilte Griffstange auf“. G. KAENEL (1986, p. 326): „La poigné de bronze ornée de rondelles de fer“. Infine, S. SIEVERS 1982, p. 33: « Die Dolche aus Sesto Calende und Sitten weisen eine durch Eisenscheibchen unterteilte Griffstange auf“. 70

Sulz e di Magdalenenberg, mentre impugnature in bronzo con elsa ad antenne molto simili ma pertinenti a coltelli sono ampiamente diffuse nell’Italia nord-orientale (S. Matteo delle Chiaviche, Este, Belluno, dintorni di Udine, S. Lucia di Tolmino) e lungo il versante alpino settentrionale (Neuenegg, Thalheim, Böblingen, Hoffenheim, Hallstatt). Quando presenti, i contesti sono sempre Ha D 1 o 2131. Inoltre, su una statua-stele di Filetto, in Lunigiana, è chiaramente raffigurato un pugnale con impugnatura tipo Sesto Calende-Sion132. Le impugnature di Neuenegg e di Belluno presentano una decorazione a incrostazione di ferro. Al contrario, in ambito hallstattiano nel periodo Ha D è molto diffusa la decorazione a incrostazione di bronzo o rame su ferro. Infine, due cavigliotti di bronzo, fusiformi, con pomello ai capi e foro ellittico al centro, sono stati interpretati concordemente come elementi dei finimenti equini, per il passaggio delle redini133. La recente scoperta di una tomba degli inizi del periodo tardo hallstattiano nella periferia del tumulo 14 di ErtingenBinzwangen (Biberach, Baden-Württemberg) mostra con chiarezza che questi elementi in coppia potevano far parte del sistema di sospensione del pugnale alla cintura134 e quindi non si può escludere che questo fosse l’uso anche per i due cavigliotti di Sesto Calende B.

Arredi cultuali Come abbiamo ricordato precedentemente, già Alda Levi nel suo resoconto segnalava “i ricchissimi resti di un carrettino cultuale”. Il Ghislanzoni pubblicò una foto dei frammenti riferibili al carrettino e lo descrisse come bruciaprofumi o meglio portavivande scorrevole, richiamando confronti con oggetti simili dal circolo dei Lebeti di Vetulonia e da Bologna135, ma dobbiamo a Mario Bertolone un accurato studio di tutti i frammenti e la ricostruzione grafica del carrettino136, che è risultato diverso rispetto ai confronti proposti dal Ghislanzoni. Il carrettino era costituito da un piano mobile di forma rettangolare (circa 27 x 18,5 cm), in lamina bronzea con bordo ripiegato verso il basso, a cui sono attaccati piccoli pendagli a goccia. La lamina è decorata a punti, borchiette e cordonature concentriche a sbalzo, ma non è chiaramente riconoscibile il disegno formato dai punti sbalzati. Ai due lati corti erano fissate sotto la lamina due barrette di ferro, sulle cui estremità erano inserite le quattro rotelle di bronzo, a otto raggi e mozzi tronco-conici. Sul carrettino era certamente montato un bacino con orlo esoverso fortemente aggettante, dal quale pendono piccoli pendagli a goccia. Il diametro massimo all’orlo è di 27,5. Non è precisabile l’altezza del recipiente. La parte più incerta della ricostruzione Bertolone è il modo in cui il bacino era fissato al piano mobile. In particolare l’elemento mediano che Bertolone definisce ad ombrello è una piccola ciotola, sempre in lamina bronzea, del diametro massimo all’orlo di poco più di 10 cm, che poteva essere collocata sul piano 131

Cfr. R.C. DE MARINIS 1975, p. 238 e ss. ; S. SIEVERS 1982, p. 33 e ss. Cfr. R.C. DE MARINIS 2004, fig. 18 e carta di diffusione fig. 19. 133 E. GHISLANZONI 1944, p. 39 e figg. 48-b; C. PARE 1992, carta di distribuzione fig. 101-c; M. EGG 1996, p. 183 e ss., fig. 93: 7-8 e carta di distribuzione fig. 111; D. LIMONTA 2004, n. 21. M. Egg ricorda che in qualche caso avevano un altro scopo, servivano al rinforzo della cintura. 134 F. KLEIN 2005, p. 83-84 e fig. 67. 135 E. GHISLANZONI 1944, pp. 18-20 e fig. 14. 132

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mobile nella parte anteriore o posteriore del carrettino. Il bacino era sorretto, oltre da un elemento centrale di raccordo, di forma tubolare, anche da quattro asticciole di ferro fissate sul piano con dei ribattini che nello stesso tempo assicuravano il fissaggio delle barrette di ferro. La ricostruzione di Bertolone ha permesso di meglio comprendere la funzione cultuale del carrettino, che appare inquadrabile con sicurezza nei cd. Kesselwagen, documentati fin dall’epoca dei Campi di Urne nell’Europa centrale e settentrionale, e nella prima età del Ferro presenti nell’area della cultura di Golasecca e in quella hallstattiana orientale137.

Il carro a due ruote Nella tomba era stato deposto un carro a due ruote, del quale sono stati recuperati molti elementi. Le ruote avevano un diametro di 75 cm, determinato da E. Ghislanzoni e M. Bertolone in base alla curvatura dei cerchioni138. I cerchioni sono in ferro, a sezione piano-convessa, con due bordi verticali dalla parte interna. Larghi 2,4 cm, erano fissati ai gavelli mediante chiodi a capocchia rettangolare lunga 5 e larga 0,8 cm, alloggiata in una scanalatura della faccia convessa dei cerchioni139. I chiodi hanno gambo a sezione quadrata ed erano lunghi almeno 11 cm140 e posizionati a distanza di 5 cm l’uno dall’altro. I cerchioni sono stati classificati da C. Pare (1992, p. 60) nel suo tipo I-b. A noi sembra che non si inseriscano bene in nessuno dei tipi definiti da Pare141. La lunghezza dei chiodi fornisce un’indicazione sull’ampiezza - almeno 13 cm - della fascia perimetrale lignea, probabilmente formata da due serie di quattro gavelli. Otto morsetti in lamina bronzea ripiegata a U erano applicati ai gavelli in posizione equidistante tra un raggio e l’altro. I capi dei morsetti hanno forma trilobata a traforo – ciascun lobo riproduce un motivo a pelta - ed erano fissati al gavello mediante un piccolo chiodo a testa piatta posto al centro di ogni lobo. La larghezza dei morsetti, di 3,3 cm alla base, fornisce un’indicazione sullo spessore dei gavelli nella parte verso l’interno della ruota. Ne rimangono tre conservati per poco più della metà e frammenti di altri quattro. Dovevano essere otto per ciascuna ruota. I raggi o razzi dovevano essere otto ed erano rivestiti nella parte prossima al mozzo da una lamina bronzea per una lunghezza di almeno 3,3 cm. Di questi rivestimenti ne rimangono 7 su 16. Altri morsetti in lamina bronzea erano applicati alla parte dei raggi prossima ai gavelli e ai gavelli stessi. La parte

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M. BERTOLONE 1954, pp. 67-69, tavv. XXXI-XXXIV. Dall’area della cultura di Golasecca si conosce il carrettino della tomba della Ca’ Morta (cava Gini) e sempre dalla Ca’ Morta (ancora cava Gini) proviene una piccola ruota di bronzo pertinente a un altro carrettino scoperto in una tomba agli inizi degli anni ’40 del XX secolo (R.C. DE MARINIS, D. PREMOLI SILVA 1969, tav. VI B). Sui carrettini cultuali cfr. C. PARE 1992, p. 177 e ss.; M. EGG 1996, p. 14 e ss. 138 Secondo N. CAMERIN 1997, pp. 40 e 333, il diametro sarebbe 84 cm, secondo D. LIMONTA 2004, p. 46 sarebbe intorno a 80-82 cm. Tuttavia credo che sia più attendibile la misurazione fatta in passato, prima del restauro 1989-1990, chiaramente condotto senza alcuna assistenza scientifica, e che potrebbe aver modificato la curvatura originaria. 139 E. GHISLANZONI 1944, p. 26, fig. 22; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 1. 140 Secondo il dato riferito da E. GHISLANZONI 1944, p. 26, che non è il caso di mettere in dubbio. Attualmente la lunghezza conservata è minore, ma sappiamo bene che spesso lo stato di conservazione dei reperti archeologici nei musei non migliora con il passare del tempo. 141 La classificazione dei cerchioni è stata fatta da C. PARE 1992, p. 45 e ss. e fig. 48 in base alla loro sezione, tranne che nel caso dei tipi I e V, dove il criterio principale è la forma dei chiodi. I cerchioni di tipo I-b hanno uno spessore nettamente inferiore a quelli di Sesto Calende, che per questo aspetto si inquadrerebbero meglio nel tipo III. 137

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superiore, piatta, ha forma di bocciolo con due ampie volute divergenti che si involvono a spirale, rese a traforo, ed era fissata al gavello con cinque piccoli ribattini, la parte inferiore ha forma triangolare ed è incurvata a semicerchio per adattarsi ai razzi, a cui era fissata con due piccoli ribattini. Se ne conservano due interi più i frammenti di altri quattro, dovevano essere otto per ciascuna ruota142. L’interpretazione che ha dato il Ghislanzoni di questi pezzi come lamine ornamentali della cassa del carro è certamente errata143. Tra l’altro questi morsetti furono rinvenuti nella zona indicata come “a” nel taccuino del Bogni, da cui non provengono parti della cassa del carro, ma cerchioni e mozzi delle ruote, a cui quindi devono essere associati. La lunghezza dei mozzi è stata calcolata da E. Ghislanzoni e M. Bertolone intorno ai 41 cm, misura che ci sembra sostanzialmente attendibile144. Rimangono le lamine che coprivano il collo dei mozzi (cd. barile), 3 su 4, due acciarini e una chiavetta blocca-acciarino, entrambi in ferro. I copri-mozzi sono stati realizzati con una lamina bronzea trapezoidale ripiegata in modo da formare un tronco di cono con entrambe le basi svasate. I lati corti sono sovrapposti e fissati con sei ribattini di bronzo a capocchia piatta e gambo a sezione quadrata. La base maggiore è decorata con tre cordonature parallele145. Non ci sono elementi riferibili alla testa del mozzo e neppure al copri-asse. Gli acciarini sono in ferro, hanno una forma semilunata e un gambo a sezione quadrangolare. Al centro del margine inferiore della testa semilunata, in asse col fusto, vi è un anellino, mentre verso la parte distale del fusto vi è un foro rettangolare per il passaggio della chiavetta, a forma di T146. La testa della chiavetta era provvista di un anellino147. Attraverso i due anellini, dell’acciarino e della chiavetta, come ha già scritto E. Ghislanzoni, doveva passare una corda o una striscia di cuoio che legava strettamente chiavetta e acciarino, in modo che i due pezzi non potessero sfilarsi, la chiavetta dall’acciarino e quest’ultimo dalla testa dell’asse148. Copri-mozzi simili, ma non identici, a quelli di Sesto Calende B sono noti in ambito hallstattiano occidentale con i tipi Ins e Erkenbrechtsweiler utilizzati nei carri di tipo rispettivamente 4 (databile ad Ha C 2) e 5 (databile ad Ha D 1) secondo Pare149, e nell’Italia centrale in contesti di età orientalizzante (VII secolo) a S. Maria in Campo di Fabriano tomba 3, a Populonia nel tumulo dei Carri e a Castellina in 142

E. GHISLANZONI 1944, p. 34, fig. 37/a-b; C. Pare 1992, tav. 136.6-10; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 5. E. GHISLANZONI 1944, p. 34 e figg. 37-a, 37-b e 38. Interpretazione ripresa recentemente da D. LIMONTA 2004, p. 46 e ss. C. PARE 1992, p. 60, tav. 136: 6-8, 10, li considera giustamente dei ferma-gavelli. 144 Cfr. E. GHISLANZONI 1944, fig. 22. 145 E. GHISLANZONI 1944, p. 27, fig. 23; C. PARE 1992, tav. 136.2; N. CAMERIN 1997, fig. 8 A; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 3. 146 E. GHISLANZONI 1944, p. 27, fig. 24/a-b; N. CAMERIN 1997, fig. 8 B; D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, n. 4. 147 Il restauro del 1989-1990 ha eliminato ogni traccia di questo anellino. 148 Secondo N. CAMERIN 1997, p. 40, e D. LIMONTA, M. PIZZO 2004, p. 46, all’anellino dell’acciarino dovevano essere appesi anellini o altri pendagli che tintinnavano durante la marcia. Questa interpretazione sembra fortemente improbabile alla luce delle piccole dimensioni dell’occhiello (4,5 x 3,3 mm). Quando anelli e pendagli sono presenti, sono appesi ad anelli di maggiori dimensioni collocati nella parte alta dell’acciarino, mentre l’anellino in asse col fusto ne risulta sempre privo. Cfr., ad es., Wijchen in C. PARE 1992, tavv. 1-3. D’altra parte l’anellino dell’acciarino veniva a trovarsi a stretto contatto con la testa dell’asse, non vi era quindi neanche lo spazio per far pendere anellini e pendagli. 149 C. PARE 1992, p. 64 e ss. Più recentemente M. Trachsel ha “ribattezzato” il tipo Ins come tipo Lhotka e quello Erkenbrechtsweiler come tipo Marainville, mentre del copri-mozzo di Harburg-Marbach ha fatto un tipo a sé stante, a cui attribuisce anche gli esemplari di Sesto Calende B. Cfr. M. TRACHSEL 2004, p. 496 e ss. 143

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Chianti150. Il confronto più preciso è offerto dal copri-mozzo della tomba 1/1973 di Harburg-Marbach151, considerato da C. Pare un tipo di transizione tra il tipo Breiterbronn e i mozzi conici. Per quanto riguarda la cronologia il contesto della tomba è Ha C 2152. Non molto diverso è anche il copri-mozzo della tomba del carro a quattro ruote della Ca’ Morta-cava Butti, che è soltanto più corto (10,5 invece di 14 cm), ma presenta la stessa forma e le tre costolature parallele alla base153. La tomba è di alcune generazioni più recente di quella di Sesto Calende B, collocandosi nella fase G. III A 1, ca. 490-450 a.C.154 L’acciarino con testa semilunata è documentato in ambito transalpino nella tomba VI del tumulo Hochmichele, a Hilpoltstein-Weinsfeld, Repperndorf, e Praga Bubenec tomba 3/1907, tutte tombe databili all’Ha D 1 o all’Ha D 2, nel carro della Ca’ Morta presso Como e in quello di Vix, due tombe dell’Ha D 3155. Acciarini con testa semilunata sono rimasti in uso per lungo tempo e si ritrovano anche in età romana, come mostrano alcuni esempi dalla Baviera databili al I-II secolo d.C. considerati come un’eredità delle forme celtiche156. Della cassa del carro sono rimaste numerose guarnizioni in lamina bronzea che rivestivano le ringhiere di legno e qualche elemento in ferro, ma non essendo state recuperate integralmente non è possibile operare una ricostruzione attraverso gli attacchi dei vari frammenti, che non combaciano tra loro, e non avendo una planimetria con l’ubicazione dei pezzi all’interno della tomba la ricostruzione precisa è problematica. Il migliore aiuto per una comprensione delle caratteristiche generali della cassa del carro viene dalle raffigurazione dell’arte delle situle157. Le situle Benvenuti di Este e Arnoaldi di Bologna, la cista di S. Maurizio presso Bolzano, le situle di Vače e di Toplice in Slovenia e di Kuffarn in Austria e la lamina di Rovereto mostrano figure di bighe trainate da coppie di cavalli, in cui l’elemento comune è la presenza di una voluta nell’angolo anteriore della cassa, mentre la fiancata ha una forma triangolare (situle Arnoaldi e di Kuffarn) oppure rettangolare con la sommità arcuata (situle Benvenuti, di Toplice, di Vače, cista di S. Maurizio, lamina di Rovereto). La fiancata può essere aperta, a giorno, cioè limitata alle ringhiere, come appare chiaramente nella cista di S. Maurizio e nella situla Arnoaldi, oppure chiusa da tiranti o da lastre di cuoio o da tavole di legno. L’elemento sicuro nella ricostruzione della cassa del carro di Sesto Calende B è la terminazione a voluta della ringhiera laterale e il suo collegamento nell’angolo anteriore con un tubo cilindrico con estremità a disco pertinente alla ringhiera del parapetto. Infatti, l’elemento a voluta, in bronzo fuso a sezione romboidale, che si innesta in un tubo ricurvo di doppia lamina bronzea fornito di tre chiodi con grossa 150

Cfr. C. PARE 1992, fig. 61, p. 169 e ss. e fig. 113 (Fabriano); Carri da guerra 1997, p. 155 e ss., figg. 2, 4 e 10, Tav. VI (Populonia); E. WOYTOWITSCH 1978, n. 68 e tav. 11 (Castellina in Chianti). 151 C. PARE 1992, fig. 61 e tav. 75 B. 152 Cfr. C. PARE 1992, p. 152 per la datazione della tomba e la scheda cat. N. 117. 153 Cfr. E. GHISLANZONI 1930, fig. 2 e tav. I A. Il disegno pubblicato da C. PARE 1992, tav. 134: 1 è sbagliato, i coprimozzi del barile sono più corti di almeno 3 cm rispetto al reale. 154 Cfr. R.C. DE MARINIS 1981, p. 63 e ss., tav. 27-28. 155 C. PARE 1992, pp. 90-91, tavv. 21: 1-2; 27 B 1-3; 76: 13; 81: 1; 122 B 2. Per la Ca’ Morta: E. GHISLANZONI 1930, tav. I A 7. 156 Cfr. J. GARBSCH (a c. di), Mann und Ross und Wagen, Transport und Verkehr im antiken Bayern, München, 1986, pp. 58-59, figg. 37-39. 157 Per la documentazione iconografica cfr. W. LUCKE, O.H. FREY 1962 e O.H. FREY 1969. 74

capocchia sferica, presenta l’altra estremità con una placchetta rettangolare con foro piegata ad angolo retto rispetto al piano della voluta e questa placchetta si inserisce nel foro del tubo cilindrico che costituiva un capo della ringhiera del parapetto. Il chiodo con capocchia piriforme e gambo attualmente lungo poco più di 3 cm, che univa il tubo cilindrico del parapetto alla terminazione a voluta della ringhiera laterale, doveva fissare anche il fusto verticale in legno del parapetto. Dei tubi in lamina bronzea di rivestimento delle ringhiere della cassa rimangono in tutto undici frammenti di diversa lunghezza, ma che mancando i punti di assemblaggio non consentono una ricostruzione precisa. Certamente due frammenti di diametro maggiore a tutti gli altri e caratterizzati da una insellatura longitudinale con fori passanti erano pertinenti al rivestimento della predella, che costituiva la parte posteriore del pianale della cassa del carro.

I finimenti equini Ci si muove su un terreno più sicuro nel caso dei finimenti equini. Innanzitutto sono conservati in maniera quasi completa i morsi con relativi montanti e ganci per le redini per due cavalli158. I morsi sono del tipo a filetto in ferro, a cannone snodato, più sottile al centro e con le estremità ad anello. I sostegni o montanti laterali hanno forma parabolica, a U molto aperta, e sono costituiti da una stanghetta di bronzo fuso a sezione ellittica, che termina ai due capi con un pomello biconico sormontato da un globetto. Lungo ciascuna delle due stanghette si trova un anellino laterale, fuso insieme al montante, a cui è appeso un anello di bronzo che serviva per l’attacco delle corregge di cuoio, mentre nel punto centrale del sostegno è inserito trasversalmente in due fori un mezzo anello di bronzo, fuso a parte, che serviva per il collegamento al filetto e per l’inserimento della campanella, l’anello a cui era collegato il gancio per le redini. Dei quattro ganci se ne sono conservati tre completi e il frammento di un quarto, due hanno ancora la campanella e in un caso aderente alla campanella un frammento del filetto. I ganci sono in bronzo fuso, hanno un fusto leggermente fusiforme terminante da una parte con un anello e dall’altra con il gancio costituito da una piastra a forma di pelta, decorata a occhi di dado sulla faccia esterna. La campanella è un anello di bronzo a sezione circolare. Si conservano nove dischetti di bronzo con globetti equidistanti lungo l’orlo, e un passante quadrangolare sulla faccia interna, con quattro aperture rettangolari che permettevano l’incrocio ad angolo retto delle corregge159. Uno ha il diametro di 5,4 cm, e presenta al centro della faccia esterna un pomello alto 16 mm. Altri otto hanno diametro di 3,7 cm e di questi cinque hanno un pomello alto 14 mm e tre un globetto alto 4 mm. Si tratta di piccole falere che erano collocate nei punti di incrocio delle cinghie di cuoio che formavano la cd. testiera, cioè quella parte dei finimenti che si infilavano sulla testa del cavallo per sorreggere i montanti laterali del morso. Una serie di anelli, catenelle, ganci, cavigliotti, ganci ad omega, tutti in bronzo, facevano certamente parte dei finimenti equini, ma il loro uso preciso è difficile da definire sia per l’incompletezza dei 158

E. GHISLANZONI 1944, figg. 39, 40; R.C. DE MARINIS 1975, tav. VII; D. LIMONTA 2004, nn. 14-15 e foto a colori tav. f.t. non numerata. 75

materiali recuperati sia per il fatto che, come più volte ripetuto, manca una planimetria con la registrazione della posizione dei reperti, che avrebbe senza dubbio aiutato la comprensione della loro funzione160. D’altra parte, anche nei casi in cui si disponga di un accurato rilievo e addirittura della conservazione di importanti parti strutturali in legno, come è il caso del giogo nella tomba principesca tardo hallstattiana di Eberdingen-Hochdorf, rimane la difficoltà di comprendere con precisione la funzione di tutte gli elementi dei finimenti equini. Nel caso della tomba di Sesto Calende, la proposta di E. Ghislanzoni, di inserire nei quattro ganci a omega una catenella formata da anelli e anellini di diversa grandezza non è convincente, perché non si capisce come avrebbe potuto essere posizionato il pezzo una volta inseriti gli anelli. Sulla base del confronto con Hochdorf è possibile avanzare un’altra ipotesi. La lunghezza dei ganci ad omega di maggiori dimensioni è di 10,1 – 10,7 cm e di quelli minori di 4,4 – 4,7. Queste dimensioni corrispondono alla larghezza delle fasce di cuoio, una grande e l’altra piccola, che a Hochdorf erano in relazione con il giogo e che probabilmente servivano per allacciare il collo del cavallo al giogo. Al capo di queste fasce erano incernierate delle verghette di ferro a cui erano uniti anelli di bronzo che formavano un triangolo con al vertice un anello maggiore161. L’unico confronto preciso per i sostegni laterali a U è con il ripostiglio di Woskowice Male (già Lorzendorf), che comprendeva anche tre ciste a cordoni, una situla di tipo renano-ticinese, tre collari di lamina bronzea, due catenelle di bronzo e 46 falere simili a quelle di Sesto Calende162. Nella Germania meridionale si conoscono montanti simili, ma non in bronzo pieno, bensì in legno, con rivestimento in metallo delle stanghette laterali, a partire dalla fase Ha D 1 per poi persistere a lungo fino all’età La Tène163. Conclusioni A che epoca risale la seconda tomba di guerriero di Sesto Calende? Dobbiamo innanzitutto collocarla nella cronologia relativa della cultura di Golasecca e a questo scopo è necessario prendere in considerazione i manufatti di produzione locale. Come abbiamo visto in precedenza, tra i materiali recuperati non vi sono fibule riferibili alla tomba. Lasciando da parte le coppe con piede a cordoni, tutte le ceramiche superstiti, comprese quelle delle tombe venute alla luce prima di quella del guerriero, appartengono al Golasecca II. Le coppe con piede a due, tre o quattro cordoni sono indubbiamente un tipo caratteristico del G. I C, ma la tomba 40 della necropoli B di Ameno164, che è sicuramente databile al G. II A, ha una coppa con piede a due cordoni e documenta il prolungarsi del tipo oltre la fase I C. Inoltre, gli esemplari della tomba del guerriero hanno una superficie nero lucente, come molte delle ceramiche del G. II e a differenza di quelle del G. I. Non vi è, quindi, un solo pezzo o frammento che 159

E. GHISLANZONI 1944, figg. 44-46; R.C. DE MARINIS 1975, tav. VII, 7-9; D. LIMONTA 2004, nn. 16-17. E. GHISLANZONI 1944, figg. 47, 48, 50, 51; R.C. DE MARINIS 1975, tav. VIII, 1, 3; D. LIMONTA 2004, nn. 18-19, 2125. 161 Cfr. J. BIEL 1985, fig. 77, tav. 48 e p. 155 e ss. 162 M. GEDL 2001, nn. 53, 54, 55 e 58, e tav. 56 B, 57-59, con bibliografia precedente. 163 Cfr. M. EGG, Zu den hallstattzeitlichen “Tüllenaufsätzen“, in JRGZM, 33, 1986, p. 215 e ss., carta di distribuzione a fig. 5; 160

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possa essere ricondotto con sicurezza al Golasecca I C.

Il bicchiere di bronzo ripete esattamente la

forma dei bicchieri con profilo a S, caratteristici della fase I C, ma ancora presenti nella successiva fase II A, come dimostrano vari casi165. La cista a cordoni ha due riscontri puntuali nelle tombe 9 e 12 di Albate, databili al G. II A166. Anche l’armilla a capi sovrapposti ha un confronto puntuale in una tomba del G. II A, la t. 17 della Ca’ Morta. Quindi, tutti gli elementi disponibili concorrono a collocare la tomba del guerriero nella fase G. II A, verso la fine del VII – inizi del VI secolo a.C. Alcuni altri materiali consentono di istituire correlazioni cronologiche con altri ambiti culturali. L’elmo a calotta composta di tipo alpino sud-orientale è documentato soltanto in contesti dell’Ha C 2, ma l’impugnatura ad antenne del pugnale appartiene al tipo Neuenegg, che è presente solo in contesti del periodo Ha D167. Il frammento di coperchio di fabbrica atestina appartiene alla produzione più antica di Este databile alle fasi Este II tardo e Este II-III. Mentre Este II tardo è contemporaneo del G. I C e di Ha C 2, Este II-III è, almeno in parte, correlabile con il G. II A e con Ha D 1. Infine, alcuni elementi del carro, in particolare i copri-mozzi in lamina bronzea, simili ai tipi Ins e Erkenbrechtsweiler, rimandano ai carri di tipo 4 (databile ad Ha C 2) e 5 (databile ad Ha D 1) secondo Pare168. Utilizzando tutti i dati sopra esposti è possibile concludere che la seconda tomba di guerriero di Sesto Calende si deve datare al G. II A, correlabile da una parte con Este II-III e dall’altra con Ha D 1, in termini di cronologia assoluta verso la fine del VII o inizi del VI secolo a.C. Il carro a due ruote da corsa o da battaglia, con balaustre laterali e parapetto, corrispondente al latino currus, si diffonde in Italia dalla Grecia e viene frequentemente deposto nelle tombe principesche in Etruria e nel Piceno durante il periodo orientalizzante (VII secolo) : cfr. Populonia, tomba a camera del podere S. Cerbone; Marsiliana d’Albegna, circolo della Perazzetta, circolo della fibula; Castellina in Chianti; S. Maria in Campo di Fabriano; S. Giuliano; ecc. Il tipo con cassa a lati ricurvi e a volute è conosciuto non solo dai ritrovamenti come quello del circolo della Perazzetta di Marsiliana, ma anche da numerose raffigurazioni sia in Etruria (pisside in avorio della tomba della Pania a Chiusi, tomba Regolini Galassi di Cerveteri) che nell’arte delle situle (situla Benvenuti di Este). Il tipo di mozzo con parti laterali troncoconiche è diffuso in Etruria e nel Piceno e si ritrova frequentemente nelle tombe hallstattiane del Giura Svevo (tipo Erkenbrechtsweiler). La sua presenza nella tomba di Sesto Calende dimostra la via attraverso cui la tecnologia etrusca per la costruzione delle ruote ha raggiunto i paesi transalpini.

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M. PRIMAS 1970, tav. 8 E; L. PAULI 1971, tav. 8.3-5; R.C. DE MARINIS 1982, tav. XII, 4-7. R.C. DE MARINIS 1975, tav. V A.2 (Sesto Calende, loc. Asilo, t. 2/1928), tav. XV D (Castelletto Ticino, loc. Bosco del Monte t. M); ID. 1982, tav. XII, 1-3 (Golasecca t. anno 1877). 166 Cfr. supra a p. e note 167 Cfr. supra a p. 168 Cfr. supra a p. 165

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Al contrario, tutti i finimenti equini rinvenuti nella seconda tomba di guerriero, in particolare i sostegni laterali a forma di U dei morsi e i ganci per le redini, rimandano a tipologie diffuse nel mondo hallstattiano, ma note in Italia soltanto nell’ambito della cultura di Golasecca. Anche nell’armamento si può constatare la coesistenza di influssi culturali provenienti da regioni differenti. L’elmo a calotta composta appartiene a una varietà caratteristica della cultura hallstattiana della Slovenia, il pugnale è del tipo Neuenegg, caratteristico del mondo hallstattiano occidentale, gli schinieri provengono dall’Etruria. La presenza di oggetti simbolo del potere e di una condizione sociale molto elevata, come il carro e le armi, di arredi di lusso come il vasellame bronzeo, di manufatti di importazione come gli schinieri di tipo greco e il coperchio di lamina bronzea proveniente da Este, dimostra che nella società golasecchiana si era formato un ceto di carattere aristocratico. La eterogeneità degli influssi culturali ravvisabili negli oggetti di corredo è, inoltre, un chiaro indizio del ruolo che la civiltà di Golasecca svolgeva negli scambi commerciali tra la penisola e l’Europa centrale. I capi delle comunità locali assumono il controllo di questi scambi e adottano, con un rapido processo di acculturamento, costumi e ideologie delle aristocrazie con cui vengono a contatto. La grande somiglianza tra i corredi delle due tombe di guerriero induce a ritenere che il divario cronologico debba essere contenuto nell’ambito di una sola generazione. E’ possibile che ci troviamo di fronte alle tombe di due membri di una medesima dinastia, forse padre e figlio, che esercitava un’autorità di tipo principesco sul territorio di Sesto Calende-Golasecca-Castelletto Ticino.

Le perle di vetro Perle di faience di colore azzurro compaiono in Europa già nell’antica età del Bronzo. Per faience si intende un manufatto con un nucleo ceramico non argilloso (sabbia, quarzo triturato) ricoperto da una smaltatura vetrosa. Nel corso del Bronzo Medio e Recente cominciano a diffondersi perle, in genere di piccole dimensioni, di pasta vitrea e in qualche caso anche di vero vetro. Il termine ‘pasta vitrea’, da tempo largamente utilizzato in archeologia, è piuttosto generico ed equivoco. Si può utilizzare come equivalente a “fritta”, una pasta vetrosa, spugnosa, con grandi quantità di bolle, cotta a bassa temperatura e che non raggiunge la completa vetrificazione, da distinguere rispetto al “vetro fuso opaco”, in cui la temperatura superiore a 850° ha prodotto una fusione completa dei componenti e una struttura compatta e omogenea. La produzione di oggetti in faience, fritta e vetro ha una lunga tradizione nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo orientale (Egitto, Siria-Palestina, isole dell’Egeo e Grecia) ed è possibile che alcuni degli ornamenti di vetro dell’età del Bronzo europea siano delle importazioni da quest’area. Nel Bronzo Finale (XI-X secolo) una importante tradizione artigianale di produzione di manufatti vitrei si forma nel Veneto e la produzione locale è documentata dalla frequenza degli scarti di lavorazione sotto forma di colature e dei crogioli.

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A partire dalla fine dell’VIII secolo in ambito fenicio e poi anche greco si intensifica una produzione di perle, pendagli e vasetti di vetro policromo destinata all’esportazione in tutti i paesi del Mediterraneo. In assenza di analisi chimico-fisiche sistematiche è molto difficile stabilire l’origine delle perle di vetro. E’ probabile che centri di fabbricazione siano sorti anche in Etruria e che il Veneto abbia continuato nella sua tradizione, ma il principale centro di produzione sembra essere stato nei Balcani settentrionali, in particolare nell’area hallstattiana della Slovenia e nel territorio degli Japodi e dei Liburni. Le perle della prima età del Ferro sono spesso di grandi dimensioni rispetto a quelle dei periodi precedenti, anche se continua l’uso delle piccole perle ad anello, hanno forma sferoidale e sono decorate con fili di vetro di diverso colore inseriti per pressione nella pasta ancora calda, in modo da formare motivi oculiformi, che possono essere ad anello semplice o a più cerchi concentrici. Le filature impresse sono di colore giallo e spiccano su un fondo azzurro nel caso del vetro o bruno scuro nel caso della fritta. Un secondo tipo di perla ha forma ad anello ed è decorata con filature a zig-zag di colore giallo su fondo azzurro o di colore bianco su fondo nero. Vi sono, infine, perle monocrome, che mantengono il colore naturale del vetro, azzurro o azzurro-verdastro, senza alcun motivo decorativo, o che hanno un colore blu intenso. Nella cultura di Golasecca le perle di vetro non sono molto numerose ed è probabile quindi che fossero importate. La maggior parte provengono dalle necropoli dei dintorni di Como, soprattutto dalla Ca’ Morta e da Albate. I più antichi esemplari sono le tre perline monocrome della tomba 289 della Ca’ Morta (IX secolo). Le perle documentate nelle tombe del Golasecca I C (VII secolo) e II (VI secolo) sono quasi tutte del tipo con decorazione oculiforme a cerchi concentrici gialli e per la maggior parte sembrano essere di “fritta” e in minor misura di vetro fuso opaco. Vi sono perle di grandi dimensioni, fino a 3,4 cm di diametro (cfr. il materiale della situla Baserga). Appartengono a tipi ampiamente diffusi a Este, Bologna e soprattutto nell’area japodica. Le perle con filature impresse compaiono sempre nelle tombe femminili, mentre in quelle maschili sono documentate le perle di vetro monocrome. Di particolare interesse sono le perle della tomba III/1921 dalla cava Manzoni, perché alla decorazione oculiforme si unisce un motivo a zick-zack. Questo tipo, presente anche nella tomba X di Albate, ha la sua massima concentrazione nel territorio degli Japodi. Sempre nella tomba III/1921 vi sono i frammenti di due perle cilindriche costolate decorate con filature bianche a festone su fondo azzurro. In questo caso è probabile che si tratti di un’importazione dall’Etruria, dove il tipo è frequente nel periodo orientalizzante. Nelle perle decorate a cerchi concentrici è da notare che il motivo si ripete tre volte e che il motivo degli occhi abbinato al valore magico del numero tre aveva certamente funzione apotropaica. E’ possibile che a questa funzione concorresse anche il colore blu delle perle. Con l’inizio della fase III A cessa l’uso di deporre nei corredi funerari perle di vetro nel territorio della cultura di Golasecca, proprio nel momento in cui si diffondono dal Mediterraneo all’Europa centrale

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nuovi tipi di perle a occhi blu con iride bianca su fondo azzurro o giallo (le cosiddette Schichtaugenperlen). Non si è per ora in grado di dare una spiegazione a questo fatto.

Il corallo Nella cultura di Golasecca il corallo è documentato dagli inizi del VII fino a tutto il V secolo a.C.169 Il maggior numero di ritrovamenti concerne le necropoli dei dintorni di Como, in particolare la Ca’ Morta. Disponendo in ordine cronologico i corredi funerari in cui compaiono elementi in corallo, si possono osservare alcune differenze e alcune costanti, le prime concernono la tipologia dei manufatti, le seconde il significato del corallo nei contesti funerari. Golasecca I Nelle tombe del Golasecca I B (fine VIII - inizi VII sec.a.C.) e C (VII sec.a.C.) il corallo è usato in maniera semplice, come parte di un pendaglio : un segmento di rametto di corallo allo stato naturale agganciato a un cappio all’estremità di un pendaglietto di filo di bronzo avvolto a spirale in modo da formare una T. Pendaglietti di questo tipo170 sono noti nelle tombe 200 e 302 della Ca’ Morta, databili verso la fine del G. I B o l’inizio del G. I C, nelle tombe I/1928 della Cava Frangi alla Ca’ Morta, III di Longone al Segrino e 12 di Castelletto Ticino, databili tutte al G. I C. La tomba 302 della Ca’ Morta, scavata nel dicembre del 1979 nel terreno IACP a nord della via Cecilio, era costituita da un pozzetto chiuso da due lastre di grandi dimensioni171. Il pozzetto conteneva un grande boccale in ceramica con un’ansa a nastro spezzata ab antiquo, usato come cinerario, e una scodella, che fungeva da coperchio, di forma troncoconica, a basso piede e con orlo rientrante. Frammisto alle ossa combuste è stato ritrovato un abbondante corredo, comprendente una fibula a drago con quattro coppie di cornetti laterali, una fibula a navicella romboidale con staffa corta e liscia, due fibule a grandi coste dall’arco delle quali pendono sette lunghe catenelle terminanti con pendagli a doppia spirale, due dischi di lamina bronzea decorati a puntini, cerchietti e cordonature a sbalzo infilati sull’ago delle due fibule a grandi coste. Proseguendo nell’elenco del corredo, abbiamo cinque anelli da dito in lamina bronzea con placchetta ovale decorata a sbalzo con un motivo solare di schema cruciforme, sei elementi tubolari da collana formati da verghetta di bronzo a sezione triangolare avvolta a stretta spirale (i cd. saltaleoni), quattro pendaglietti di filo di bronzo avvolto a spirale a forma di T con inserito un elemento di corallo grezzo, alcuni fortemente frammentari, dodici tra orecchini e braccialetti di dimensioni differenti formati da un filo di bronzo ripiegato in due e poi avvolto a spirale per due giri e mezzo, e infine un anello da cintura con tracce di usura a un lato. I pendaglietti con corallo facevano parte di una collana, la cui esistenza è documentata dai numerosi “saltaleoni”. Tutto il corredo è costituito da fibule e ornamenti tipicamente femminili, tranne la fibula a 169

Per un primo quadro generale del corallo nell’Italia settentrionale e la regione alpina cfr. De Marinis 1997, pp. 153159. 170 Cfr. Peroni e coll. 1975, fig. 60 n. 12, pp. 220 e 230.

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drago. La presenza di un singolo oggetto “di sesso diverso” nelle tombe a cremazione pone problemi di interpretazione non ancora risolti172. Per quanto riguarda la datazione, la forma poco articolata del boccale tronco-conico e le caratteristiche del corpo ceramico e del trattamento della superficie indurrebbero a collocare la tomba nel G. I B. Con questa cronologia si accordano gli anelli di lamina bronzea, che tipologicamente precedono quelli in uso nel G. I C173, e la fibula a drago con quattro coppie di cornetti laterali, un tipo raro nell’ambito della cultura di Golasecca e di chiara ascendenza peninsulare. In Etruria le fibule a drago con tre coppie di cornetti laterali sono caratteristiche della fase Veio II B secondo la Close-Brooks e II B/II C secondo la Judith Toms, vale a dire in termini di cronologia assoluta il terzo quarto dell’VIII sec.a.C.174 Il tipo con quattro coppie di cornetti laterali caratterizza, invece, il periodo immediatamente successivo, cioè l’ Orientalizzante, soprattutto nelle sue fasi più antiche. Il tipo ha un’ampia diffusione dall’Etruria alla Sicilia175. Nel Piceno sembra persistere per tutto il periodo orientalizzante176. Nell’ambito della cultura di Golasecca oltre al caso della tomba 302 della Ca’ Morta, conosciamo una fibula di questo tipo a Dongo177 ed un’altra nella tomba 23 di Castel Valtravaglia, dove è associata a un’urna biconico-sferoidale decorata a denti di lupo, di tipologia molto tarda, a una scodella con orlo gradiforme, a un bicchiere a corpo globoso, con profilo a S e decorazione impressa a stampiglia sulla spalla, e ad un’altra fibula a drago ma di differente tipologia178. Tutti i materiali indicano una datazione alla fase G. II A, agli inizi del VI sec.a.C., a parte la fibula a drago con quattro coppie di cornetti laterali, che sembra un elemento decisamente più antico rispetto al resto del corredo. E’ interessante ritrovare associati nella tomba 302 della Ca’ Morta i pendaglietti con corallo, che sono la prova sicura di contatti con il mondo mediterraneo, e la fibula a drago a cornetti laterali, un tipo originario del versante tirrenico della penisola italiana. Lo stesso tipo di pendaglietto con un pezzetto di corallo agganciato da fili di bronzo avvolti a spirale è presente nella tomba 200 della Ca’ Morta, con corredo composto solo da un’urna cineraria situliforme, la ciotola-coperchio e un bicchiere carenato179. La ceramica orienta verso la fase G. I B per le sue caratteristiche formali e tecniche. La limitatezza del corredo non consente di definire il sesso del defunto. Bisogna osservare, tuttavia, che il rito della cremazione può oscurare molti aspetti del reale. La presenza di pendaglietti con corallo, un prodotto esotico per le genti della cultura di Golasecca e che soprattutto agli inizi del VII secolo doveva essere una novità e rivestire un certo valore, non ci autorizza ad 171

La tomba è ancora inedita. E’ stata recentemente esposta nel nuovo allestimento del museo archeologico P. Giovio di Como. 172 Cfr. su questo problema Capuis 1993, p. 81. 173 Cfr. ad es. quelli della Ca’ Morta tomba 123 : Rittatore Vonwiller 1966, tav. LXI. 174 Close Brooks 1965, pp. 59-60 e fig. 7; Toms 1986, p. 82 e fig. 29 III 15. 175 Cfr. ad es. Tarquinia, tomba a fossa n. 9 di Poggio Gallinaro : Hencken 1968, p. 350 e ss., fig. 349 d, h, i. Marsiliana d’Albegna, tomba 63 : Minto 1921, pp. 116-117, Müller-Karpe 1959, tav. 35 nn. 6-10. Per Pitecusa e le numerose attestazioni in Sicilia rimando a Saronio 1970, p. 137 con bibl. alle note 101-106. 176 Secondo Beinhauer 1985, p. 265, tav. p. 552 n. 19, tabella p. 554, tav. 63 n. 754 (Servici t. 14), tav. 147 n. 1659 (Servici t. 99). 177 De Marinis 1995, pp. 1-10, fig. 1. 178 Saronio 1970, pp. 135 e ss., e tav. IX. 81

etichettare questa tomba come “povera” in virtù dell’assenza di fibule o altri oggetti di ornamento; più probabilmente siamo di fronte a un caso in cui il defunto era stato cremato con tutto il suo abbigliamento e i suoi ornamenti e l’alto grado di temperatura raggiunta dalla combustione ne ha determinato la perdita più o meno totale180. La tomba scoperta nell’agosto 1928 nella cava Frangi, nella parte più meridionale della vasta necropoli della Ca’ Morta, aveva un corredo di particolare interesse, del quale purtroppo solo due pezzi si conservano ancora al museo di Como, l’urna cineraria di forma biconica con decorazione di due fasce di denti di lupo alternate a due piccole fasce a reticolo, e una splendida paletta in bronzo decorata con denti di lupo incisi, file di puntini e occhi di dado. Negli anelli dell’estremità del manico sono inseriti due anelli di verghetta di bronzo che recano appesi tre pendagli antropomorfi schematici del tipo a coda di rondine. La paletta era contenuta nell’urna biconica insieme a carboni e ossa combuste e una serie numerosa di oggetti d’ornamento attualmente non rintracciabili al museo di Como, ma abbastanza accuratamente descritti da mons. G. Baserga, e solo in piccola parte raffigurati181. Vi erano due fibule a grandi coste con lunghe catenelle terminanti con pendagli a doppia spirale, e una fibula ad arco composto, con arco ribassato e digradante verso la staffa, lunga e liscia. Non sappiamo se il rivestimento fosse in ambra o altra sostanza organica. Un disco di lamina bronzea decorato a sbalzo era certamente uno di quei dischi ferma-pieghe infilati sull’ago delle fibule. Vi erano due perle di pasta vitrea o di vetro “a zone bianche e blu” e due pendaglietti a T con agganciato un pezzetto di corallo. Moltissime spirali del consueto tipo a piccola fettuccia di bronzo a sezione triangolare, i cosiddetti saltaleoni, e un elemento tubolare in bronzo decorato con costolature, indicano che dovevano esserci i resti di una collana con pendenti, a cui molto probabilmente erano appesi anche i pendaglietti con corallo. Molti frammenti di filo di bronzo avvolto a spirale, anelli di filo di bronzo a spirale di differente diametro, due grandi anelli a sezione circolare o biconvessa, e due anelli piccoli di nastrino bronzeo completano il quadro del ricco corredo, che per le caratteristiche delle fibule e degli ornamenti era certamente pertinente a una deposizione femminile. La tipologia della fibula ad arco composto, unica fibula raffigurata, della paletta e dell’urna indicano concordemente una datazione al periodo G. I C (VII secolo a.C.). Nella tomba III di Longone al Segrino182 l’urna cineraria era di tipo situliforme, a collo distinto, e con decorazione di una fila di coppelle lungo la spalla, chiusa da una ciotola-coperchio a labbro rientrante, su piede di media altezza. Le due ceramiche di questa tomba si datano al G. I C, anche per le caratteristiche tecniche dell’impasto e della rifinitura della superficie a stecca. Dentro l’urna insieme alle ossa combuste vi erano frammenti di anelli e di braccialetti di filo di bronzo avvolto a spirale, due pendagli a doppia spirale e sei pendaglietti di filo di bronzo a T con agganciato un pezzetto di corallo, che si conservava ancora in tre casi.

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Anche questa tomba della Ca’ Morta è inedita. Per il possibile rapporto tra grado di cremazione e status sociale cfr. Capuis 1993, p. 78. Baserga 1929, pp. e figg. 1-6. Pisani Dossi 1908, pp. 10-11, figg. 6-7. Il materiale si conserva ancora nella collezione Pisani Dossi a Corbetta. 82

Lo stesso livello cronologico, il G. I C, e ancora una volta la pertinenza a una deposizione femminile sono documentati dalla tomba 12 di Castelletto Ticino (scavi C. Marazzini) al Museo di Antichità di Torino. Il corredo comprendeva un’urna biconica decorata a fasce di denti di lupo e a reticolo, una coppa a vasca tronco-conica su piede di media altezza, un bicchiere a corpo globoso ed orlo esoverso, due fusarole, una fibula a navicella frammentata, frammenti di “saltaleoni” e di braccialetti ed anelli di filo di bronzo e un pendaglietto di filo di bronzo a T con inserito un pezzetto di corallo183. Pendaglietti dello stesso tipo sono presenti nella necropoli di Valtravaglia, nella tomba XXIX, dove tuttavia non è più conservato l’inserto di materiale organico, e nella tomba XX, dove l’inserto non è corallo, ma corno184. Almeno una dozzina di esemplari di pendaglietti a T con corallo sono noti nella necropoli di Golasecca, tutti ormai privi di contesto185. La collana del Museo di Antichità di Torino, di asserita provenienza da Golasecca186, formata da tubetti spiraliformi di bronzo alternati a cilindretti di corallo e ciondoli di corallo a forma di campanule, comprendente ben 55 pezzi di corallo lavorato, è con ogni probabilità un pastiche ottocentesco. E’ interessante osservare che il corallo compare nella cultura di Golasecca a partire dal 700 a.C. , cioè dal momento in cui si trovano i primi oggetti di importazione dall’Etruria o che comunque traggono ispirazione dai contatti con l’Etruria : ricordiamo il frammento di cinturone villanoviano da Prestino, il vasetto a stivale di tipo bolognese dal fondo Giovio presso Breccia, le ciotole baccellate di tipo vetuloniese dalla tomba del carrettino della Ca’ Morta187. Quindi il corallo fa parte fin dall’inizio di quei beni esotici, oggetti di prestigio e di lusso, che dall’Etruria pervengono a nord del Po, sia in direzione dell’area della cultura di Golasecca sia in direzione di Este e dell’area alpina orientale, dando avvio a quella corrente di scambi tra mondo mediterraneo e regione alpina destinata a crescere sempre più di importanza dal VII fino a tutto il V secolo a.C. Golasecca II Con il Golasecca II (VI secolo a.C.) i pendagli a T con corallo (tipo Longone) non si trovano più nei corredi funerari. In questo periodo il corallo viene utilizzato esclusivamente come elemento di rivestimento dell’arco delle fibule.

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Pauli 1971, p. 141 e tav. 13 nn. 3-12. Un pendaglietto di filo di bronzo avvolto a spirale a forma di T ma ormai privo dell’elemento in materiale organico, che probabilmente era in origine corallo, si trova anche nella tomba 50 di Castelletto Ticino al Museo di Antichità di Torino : cfr. Pauli 1971, tav. 26 n. 5. Il corredo (tav. 26 nn. 1-13) è inattendibile, mescolando urna biconica e ciotola-coperchio decorate a cordicella del G. I A 2, con una coppa a medio piede cordonato del G. I C e un’olla a corpo ovoide decorata con cerchielli concentrici impressi a stampiglia del G. II. 184 Batchvarova 1967-69, fig. 5 n. 16; Saronio 1970, p. 130 e tav. VI, 13. 185 Almeno 7 pendaglietti con corallo erano nella collezione P. Castelfranco, ora al museo archeologico di Milano; altri esemplari nelle collezioni Giani (al museo di St. Germaine-en-Laye), Borromeo (all’Isola Bella), al museo archeologico di Varese. 186 Ricci 1897, fig. 2. 187 De Marinis 1988, p. 178 e ss.; De Marinis c.s. 83

La tomba XII di Albate aveva un ricco e interessante corredo, una parte del quale si conserva ancora al museo civico di Como188. Il cinerario era una cista a cordoni con doppio manico mobile189, di un tipo caratteristico della cultura di Golasecca, chiusa da un coperchio di legno, una capeduncola di lamina bronzea recava sul fondo una sostanza nerastra; oltre ad alcune ceramiche vi erano catenelle con pendagli a melograno, una fibula a sanguisuga con anima in cotto e decorazione lineare geometrica, quattro perle di vetro del tipo a decorazione oculiforme con filature gialle, deformate dal calore del rogo, e cinque frammenti di corallo. I frammenti di corallo sono pertinenti a rametti troncati obliquamente o perpendicolarmente alle due estremità ed attraversati da un foro longitudinale per consentire il loro inserimento sull’arco in verghetta di bronzo di una fibula. Che i frammenti fossero pertinenti a una o più fibule ad arco composto è dimostrabile in un caso dalla serie di fori non passanti che circondano il foro centrale e nei quali erano inseriti sottilissimi listelli di legno che servivano per mantenere in posizione i segmenti di corallo l’uno con l’altro, secondo la stessa tecnica che si riscontra per i segmenti d’ambra che rivestono il corpo delle fibule ad arco composto. La tomba XII di Albate è databile alla fase G. II A (primi decenni del VI secolo a.C.) in base alla tipologia della cista a cordoni e della capeduncola bronzea. Tre frammenti di rametti di corallo attraversati da fori longitudinali e probabilmente pertinenti a rivestimento di fibule ad arco composto provengono dalla tomba 4 della Ca’ Morta190, databile al G. II AB (circa metà VI secolo a.C.). La tomba 4 venne alla luce verso la metà del dicembre 1955 durante i lavori di squatamento del terreno subito a sud della cava Gini, nella parte più meridionale della necropoli della Ca’ Morta, e distrutta senza che si potesse effettuare uno scavo regolare, ma un operaio raccolse il corredo (o parte del corredo), che fu poi consegnato nel gennaio del 1956 al segretario della Società Archeologica Comense, prof. P. Maggi. Nonostante la mancanza di controllo scientifico, il corredo della tomba 4 sembra del tutto omogeneo ed affidabile. La tomba era a cassetta di piccole lastre di pietra. L’analisi delle ossa combuste indica la deposizione di un individuo adulto gracile, gli oggetti di corredo sono di carattere femminile. L’urna, in ceramica di impasto depurato e a superficie liscia a stralucido, è a corpo panciuto, con collo distinto alto e diritto e piccolo piede tronco-conico. Il collo è decorato da tre sottili solcature. Una ciotola a corpo tronco-conico su basso piede, con croce a stralucido sul fondo esterno, serviva probabilmente come copertura dell’urna. All’interno dell’urna, insieme alle ossa combuste, vi erano il frammento di una piccola fibula a sanguisuga in bronzo, priva di staffa, molla e ago; il frammento di una fibula a sanguisuga con corpo decorato a sottili costolature, priva di staffa, molla e ago; le anime in cotto di due fibule a sanguisuga, una piccola e una di media grandezza; tre frammenti di corallo pertinenti a una o due fibule ad arco composto; un piccolo fermaglio da cintura in lamina bronzea; quattro perle di pasta vitrea con decorazione oculiforme a filature gialle, deformate per effetto del calore del rogo; una perla in lamina bronzea di forma biconica pertinente a un orecchino di doppio filo bronzeo 188

Baserga 1910, p. 16 e ss., fig. 9; De Marinis, Frontini 1990, fig. 31. I due manici non sono conservati, come di norma quando i recipienti erano utilizzati come cinerario. 190 Rittatore Vonwiller 1966, p. 133 e ss., tav. XLI, tav. LXVIII. Una fibula di questa tomba è stata erroneamente inserita nella tomba 122 : cfr. tav. LXXIV, la fibula in alto a destra. Parte dei materiali di questa tomba furono erroneamente pubblicati da M. Bertolone come appartenenti alla tomba del carrettino : cfr. M. Bertolone in Sibrium, III, 1956/57, p. 38 nn. 6-10, tav. XV, 2-5. 189

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avvolto a spirale. Si tratta, quindi, di una deposizione femminile, databile alla fase G. II A/B (circa terzo quarto del VI sec.a.C.) per la tipologia delle fibule e soprattutto della perla biconica in lamina bronzea191. I rametti di corallo, non ben conservati e fortemente alterati, ma ancora perfettamente riconoscibili in alcuni tratti in cui si è conservata la superficie originaria, sono attraversati da sottili perforazioni longitudinali, e in un caso anche trasversale, che servivano per infilare il pezzo sulla verghetta bronzea dell’arco della fibula. Un’altra fibula ad arco composto con corallo è stata ritrovata nella tomba 248 della Ca’ Morta192. Scavata nell’autunno 1975 nel terreno I.A.C.P. sovrastante la cava Bianchi, la tomba era costituita da un pozzetto sub-circolare foderato in lastrine di pietra, compreso il fondo, chiuso da un lastrone con sopracopertura in ciottoli. L’analisi delle ossa combuste indica la presenza di un individuo adulto193. Il corredo comprende un’urna situliforme in ceramica decorata a fasce rosse e nere separate da cordoni orizzontali e una scodella ad orlo gradiforme, che era collocata in posizione diritta entro la bocca dell’urna. Gli oggetti relativi all’abbigliamento e all’ornamentazione, ritrovati insieme alle ossa combuste dentro l’urna, comprendono i resti di una fibula ad arco composto in bronzo con elemento di corallo, una fibula a sanguisuga in bronzo con anima in cotto e corpo decorato a sottili e fitte costolature, spezzata e incompleta per effetto del rogo, e due frammenti di altra analoga fibula, una fibula a sanguisuga deformata e priva di staffa, un disco in lamina bronzea decorato a cordonature concentriche e puntini a sbalzo, da infilare sull’ago di una fibula, i frammenti di un secondo disco simile, un anello di bronzo in frammenti. Per la tipologia delle fibule a sanguisuga a fitte e sottili costolature e della scodella a orlo gradiforme la tomba si colloca nella fase G. II A/B. Anche in questo caso le fibule indiziano una deposizione femminile. Fibule ad arco composto con rivestimento di corallo si trovano ancora nel G. II B, come dimostrano le tombe 122 della Ca’ Morta194 e della situla di Trezzo d’Adda195. In queste tombe si conservano anche elementi più o meno consistenti della parte in bronzo della fibula, dalle quali si può comprendere che le fibule con arco rivestito di corallo erano sostanzialmente simili per la forma generale dell’arco e della staffa a quelle con arco rivestito di elementi d’ambra196, almeno durante il G. II B. La tomba 122 della Ca’ Morta appartiene alla serie di tombe femminili dal ricco corredo scoperte nella cava Dalla Zuanna197. Scavata il 4 e 5 maggio 1959, era costituita da una fossa quadrata di 1 m di lato, foderata di pietre e lastre, con sopracopertura in grandi pietroni. Il corredo ceramico comprendeva due vasetti situliformi senza anse in ceramica, decorati a stampiglia a file di cerchielli e di S, due boccali 191

Su questo punto cfr. De Marinis 1981, p. 232 e ss., fig. 6. Età del Ferro a Como, 1978, p. 136 e tav. 24. 193 L’analisi è stata effettuata dalla dott.ssa Cristina Cattaneo collaboratrice del Laboratorio di Bioarcheologia del Museo P. Giovio di Como. 194 Rittatore Vonwiller 1966, p. 147 e ss., tavv. XLVIII, LXXII-LXXIV. 195 De Marinis 1974, p. 68 n. 8, tav. 2 nn. 5-8. 196 Per la tipologia delle fibule con arco rivestito d’ambra nella cultura di Golasecca cfr. De Marinis 1992, p. 168 e ss., fig. 6. 197 Come ad es. le tombe 140, 130, 147/8. I resti ossei della tomba 122 sono stati attribuiti ad un adulto maschio, ma gli oggetti del corredo parlano chiaramente a favore di una deposizione femminile. 192

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tronco-conici decorati a stampiglia con file di rosette, un boccale a corpo ovoide con ansa a occhiello, in ceramica a superficie rossastra, un’olletta a corpo globoso decorato a cordoni, in ceramica rossastra, con fasce verniciate in nero all’orlo e al piede. Un grande doppiere è formato da due parti separate : base con alto piede svasato a tromba e due bracci a Y internamente cavi, due coppe con orlo cordonato e puntale per l’inserimento nei sostegni. Tutto il doppiere è decorato a stampiglia con file di rosette a sei petali. Un secondo doppiere, decorato a stampiglia con file di S e di cerchielli concentrici, è formato da tre parti separate : piede svasato a tromba, due bracci a mezzaluna a sezione poligonale, in un unico pezzo, due coppe con piccoli puntali198. Il cinerario era costituito da una cista a cordoni in lamina bronzea, decorata a fini puntini a sbalzo tra un cordone e l’altro. Il fondo della cista, attualmente staccato, presenta due fasce a sbalzo e al centro una borchia contornata da due cordonature concentriche. Vi era, inoltre, una capeduncola in lamina di bronzo, con ansa soprelevata, molto frammentaria. Gli abbondanti oggetti di ornamento e relativi all’abbigliamento comprendono frammenti di fibule ad arco composto e otto elementi di corallo del rivestimento dell’arco; una fibula a grandi coste in bronzo, con staffa lunga, deformata e spezzata per effetto del rogo; una fibula a navicella con decorazione incisa, in frammenti, priva di staffa, di molla e di ago, e frammenti di una seconda fibula simile. Un pendaglio tipo Trezzo e una serie di catenelle ad anelli intrecciati sono spezzati e deformati per effetto del calore del rogo funebre. Frammenti di orecchino o di braccialetto di doppio filo di bronzo avvolto a spirale, una perla in pasta vitrea con decorazione oculiforme gialla, sette anelli in bronzo di diametri differenti, e alcuni spiedi in ferro rotti in numerosi frammenti, completano il quadro dell’abbondante corredo. Tutti gli oggetti sono caratteristici delle deposizioni femminili, compresi gli spiedi, come di norma nell’ambito della cultura di Golasecca. Anche nella zona di Golasecca-Sesto Calende-Castelletto Ticino sono presenti nei ricchi corredi femminili fibule ad arco rivestito con elementi di corallo. Nella tomba del tripode di Sesto Calende199 vi erano quattro fibule ad arco composto, che ho denominato tipo Lazzaretto da un ritrovamento effettuato nel secolo scorso al Lazzaretto di Golasecca200. Delle quattro fibule si sono conservate solo le parti in bronzo e le perle di ambra infilate sulla punta della staffa, ma nel corso dello scavo erano stati osservati presso queste fibule i resti di una sostanza bianca. Il corallo proveniente da corredi funerari di tombe a cremazione appare sempre di colore bianco e di consistenza molle e farinosa. Infatti, si decolora e si riduce a carbonato di calcio, pur mantenendo - ma non sempre - la forma originaria, comprese le caratteristiche striature della superficie. Quindi, molto probabilmente nel caso della tomba del Tripode si trattava del corallo che rivestiva l’arco delle fibule ormai completamente disfatto.

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Per una buona documentazione fotografica di un doppiere e dei due boccali situliformi decorati a stampiglia di questa tomba cfr. De Marinis 1985, pp. 51 e ss., fig. 10 a p. 63. 199 Per la tomba del tripode cfr. Studi Etruschi, XLVII, 1979, pp. 521-523, tav. LXXXIII; De Marinis 1988, figg. 176181. 200 De Marinis 1992, pp. 168 e ss., fig. 6 n. 7. 86

Nello stesso periodo G. II B si diffondono nella cultura di Golasecca le fibule a sanguisuga con anima in cotto, staffa lunga con terminazione a globetto e appendice tronco-conica a vaso, decorate sul dorso dell’arco con file di intarsi circolari di corallo201. In genere le file sono tre, ma varia il numero degli alveoli con inseriti i dischetti circolari di corallo, che possono seguire diversi schemi : 3-3-3, 3-4-3, 4-4-4, 4-5-4, 5-5-5. A volte anche il globetto terminale della staffa può essere decorato con inserti circolari di corallo, mentre nell’appendice tronco-conica cava veniva inserito un pezzetto di corallo. L’uso di decorare oggetti di bronzo con inserzioni di corallo non si limita alle fibule, ma si estende anche ai pendagli a secchiello e ai pendaglietti a goccia posti al termine delle catenelle nei pendagli tipo Trezzo202. Che la sostanza bianca inserita negli alveoli delle fibule sia corallo è stato dimostrato da analisi fatte eseguire già dal Viollier (1907) e più recentemente dalla dott.ssa Mayer del Landesmuseum di Zurigo203. L. Campi (1897) riferisce di aver potuto stabilire la natura di corallo della decorazione di alcune fibule di Mechel mediante l’uso di un reagente chimico. Le fibule con coralli incastonati sono molto frequenti nella cultura di Golasecca durante il G. II B, ma si ritrovano anche in ambito etrusco, in particolare nell’Etruria Padana (Adria, Forcello di Bagnolo S. Vito, S. Polo d’Enza, Marzabotto, Verucchio, Orvieto), nel mondo paleoveneto (Este, Padova, Oppeano, Gazzo Veronese, Montebelluna), con una concentrazione di ritrovamenti nella zona alpina nei pressi di Belluno (Caverzano, Chies d’Alpago, Cugnan, Safforze), a S. Lucia di Tolmino e in alcune necropoli hallstattiane della Slovenia (Vace, Sticna). Fibule di questo tipo compaiono sporadicamente anche nell’area retica (Trentino) e a nord delle Alpi204. La fibula a sanguisuga con molla bilaterale da Mechel, già pubblicata dal Campi, ha il dorso e il globetto della staffa decorati con coralli205. Altri frammenti di staffe con globetti decorati a coralli provengono sempre da Mechel e una staffa decorata con inserzioni di corallo proviene anche dall’area cultuale di Calferi di Stenico nelle Giudicarie trentine206. Golasecca III A Mentre dopo la fase G. II B - Este III medio queste fibule escono dall’uso quasi ovunque, nell’area golasecchiana compare un nuovo tipo con corpo di maggiori dimensioni e un grandissimo numero di

201

Cfr. De Marinis 1992, p. 168 e ss., con bibliografia precedente alla nota 11. De Marinis 1992, p. 166 nn. 16-17, fig. 3 n. 8, p. 166 n. 19, fig. 4, pp. 175-76 e bibliografia precedente. 203 Ringrazio per la cortese informazione la dott.ssa Claudia Mangani. 204 Cfr. la carta di distribuzione in Primas 1970, tav. 53, dove però sono inseriti sia i tipi del G. II B che quelli del G. III A. Per la documentazione cfr. inoltre von Eles Masi 1986, nn. 1508-1595. Per il Forcello diversi esemplari inediti, cfr. Studi Etruschi, XLVII, 1979, tav. LXXVII-b. Per Verucchio cfr. Morico 1987, fig. 176, nn. 9-10. Per S. Polo e Bismantova cfr. Damiani in Damiani e altri 1992, p. 128-129, tav. LXI, 926-931, tav. LXII, 932-940. L’affermazione che le inserzioni siano di “pasta vitrea bianca” è priva di fondamento. Si tratta di corallo che ha perso il suo colore naturale, come di norma si verifica nella maggior parte dei ritrovamenti archeologici. Anche l’affermazione che queste fibule siano già presenti nel G. II A non è condivisibile. Infatti, gli unici casi attualmente noti prima della fase G. II B, la tomba 1/1928 di Sesto Calende a cui si fa riferimento (nota 120) e la t. 234 della Ca’ Morta si datano alla mia fase G. II A-B (ca. 550-525 a.C.) e non al G. II A (prima metà del VI sec.a.C.). Per la fibula della tomba 10 del Crocefisso del Tufo di Orvieto cfr. De Marinis 1981, p. 249 con bibliografia precedente. 205 Campi 1885, tav. VI,1; Adam 1983, fig. 2 n. 1. 206 Cfr. Campi 1897, pp. 16-17; Perini 1983, fig. 43. 202

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incavi, fino a 200. Questo tipo più tardo, denominato tipo Palestro207, è caratteristico del Golasecca III A, soprattutto della fase III A 1, nelle necropoli golasecchiane del Sopra Ceneri (Gudo, Cerinasca d’Arbedo, Gorduno, Dalpe, Minusio), mentre si incontra raramente nell’area di pianura (Palestro), dove è più frequente il tipo Mazzucca di Montanaso, privo di decorazione con coralli. Anche per quanto concerne le fibule ad arco rivestito di corallo un nuovo tipo si afferma con il G. III A, ben documentato alla Ca’ Morta nelle tombe 116 e VIII/1926, a Respaù e a Brembate Sotto tomba 12208. I segmenti di corallo che formano il rivestimento dell’arco sono più corti e più regolari e ciascun segmento presenta una o due scanalature in cui è inserito un nastrino d’oro o un filo d’oro avvolto a spirale. Resti di una fibula di questo genere erano presenti anche nella necropoli di Cuggiono. Ca’ Morta t. 116 e Brembate Sotto t. 12 hanno un corredo tipicamente femminile, indiziato dalle fibule ad arco composto e a sanguisuga, dai numerosi oggetti di ornamento e da una paletta. Un frammento di fibula di questo tipo proviene anche dalla tomba del Carro, una tomba femminile a giudicare dalle fibule e dagli ornamenti, mentre sono assenti indicatori di carattere maschile209. La tomba VIII/1926, detta anche tomba dell’Elmo210, presenta, invece, un corredo dai caratteri misti : la spada, le lance, l’elmo e due fibule ad arco serpeggiante, di cui una d’argento, indicano chiaramente un personaggio maschile, una fibula a sanguisuga, un orecchino con perla biconica di bronzo, la fibula ad arco composto con oro e corallo, le perle d’ambra, i pendagli a secchiello indiziano la presenza di una deposizione femminile. La fibula a sanguisuga e l’orecchino sono stati certamente sul rogo essendo deformati per effetto del calore. In considerazione della omogeneità cronologica dei materiali, è preferibile pensare a una tomba bisoma piuttosto che a confusione dei corredi di due tombe distinte. Nei periodi La Tène A e B vengono decorate con inserzioni di corallo anche le armille a capi aperti tipo Castaneda tomba 76, un tipo presente nelle necropoli di Giubiasco e di Molinazzo d’Arbedo nel Canton Ticino, di Castaneda nella Val Mesolcina e nella tomba 1 della necropoli di Breno in Val Camonica211. Conclusioni La cultura di Golasecca permette di osservare l’evoluzione dell’uso del corallo lungo l’arco cronologico di ben tre secoli e accanto alle variazioni tipologiche degli oggetti ornamentali che impiegano il corallo emergono anche alcune costanti. I pendagli tipo Longone del G. I, le fibule ad arco rivestito del G. II, le fibule a sanguisuga con arco decorato a incrostazioni di corallo del G. II B e III A 1, le fibule ad arco composto con corallo e oro del G. III A 1 sono sempre in contesti femminili oppure in corredi pertinenti a tombe bisome (tomba della situla di Trezzo, tomba dell’elmo della Ca’ Morta). Quindi nella cultura di Golasecca il corallo era un ornamento riservato esclusivamente alle donne, almeno a livello di ideologia 207

De Marinis 1981, p. 220 e fig. 4. Cfr. De Marinis 1981, pp. 223-224, tav. 7 n. 19 (Cuggiono); tav. 19 nn. 10, 14 (Brembate Sotto 12)); tav. 24 n. 6 (Ca’ Morta 116); tav. 28 n. 10 (Ca’ Morta, t. del carro); tav. 31 nn. 6,9 (Ca’ Morta t. VIII/1926). Gli esemplari di Respaù, che sono tra i meglio conservati, sono ancora inediti. 209 De Marinis 1981, pp. 63 e ss., tavv. 27-28. 210 De Marinis 1981, pp. 56 e ss., tavv. 29-31. 208

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funeraria. D’altra parte la connessione del corallo con un ambito femminile è attestata anche nel mondo mediterraneo : i frammenti di corallo scoperti nel mondo greco provengono spesso da santuari di divinità femminili come Hera (Samo, Argo, Perachora, Delo, Poseidonia),

Artemide (Efeso) o

Afrodite

(Gravisca)212. A partire dal IV secolo si verifica un cambiamento e i pochi oggetti di bronzo con incrostazioni di corallo che si conoscono compaiono anche nelle tombe maschili, come è il caso della tomba 76 di Castaneda, una tomba con spada di ferro La Tène, ed è probabile che questo nuovo orientamento sia da ricondurre a un influsso proveniente dalla civiltà La Tène. Presso i Paleoveneti l’utilizzo principale del corallo è quello di vaghi di collana insieme a perle di vetro, di ambra, di terracotta, a volte anche di rame o di oro. Collane con pezzetti di corallo forati compaiono in tutte le fasi da Este II-tardo (ad es. Ricovero 149) fino a Este III-tardo (Capodaglio 38)213. Non si trovano quindi le fibule con arco rivestito di corallo che abbiamo visto nella cultura di Golasecca. Anche ad Este, comunque, nel periodo III-medio sono diffuse le fibule con incrostazioni di corallo e si trovano anche altri oggetti, come elementi di corredo da toilette o pendagli a secchiello con incrostazioni di corallo214. Nel complesso, possiamo affermare che l’uso del corallo presenta molte differenze rispetto alla cultura di Golasecca, la quale anche per questo aspetto conferma la sua particolare fisionomia culturale. L’intensificarsi dell’uso del corallo nel corso del VI e del V secolo a.C. nell’Italia settentrionale, nella regione alpina e nell’ambito tardo-hallstattiano occidentale nell’Europa centrale (Champion 1985, Spindler 1983) pose le premesse di un uso ancor più sistematico del corallo da parte dei Celti dell’età di La Tène, al punto che gli studiosi pensavano un tempo che l’incrostazione di oggetti di metallo con il corallo fosse un’invenzione celtica (Reinach 1899, Jacobsthal 1944). In realtà è probabile che i Celti abbiano appreso questa tecnica nell’Italia settentrionale grazie ai contatti con la cultura di Golasecca e l’abbiano fatta propria portandola poi al più grande splendore. Infine, per comprendere quale valore fosse attribuito al corallo nell’ambito delle culture protostoriche della regione alpina e padana, e in particolare in quello della cultura di Golasecca, possiamo utilizzare lo studio di Ludwig Pauli (1975) sugli amuleti nelle tombe, opera di grande importanza per cercare di ricostruire le concezioni religiose delle genti protostoriche europee. L’attenta analisi della presenza di diverse categorie di amuleti nelle tombe della necropoli di Dürrnberg e di altre necropoli dell’età del Ferro nell’Europa centrale e il confronto con le fonti antiche e le documentazioni etnografiche hanno condotto Pauli a riconoscere che questi amuleti erano collocati soprattutto nelle tombe di donne e bambini 211

Cfr. Primas 1968-69, fig. 1 n. 4; Primas 1965-66, fig. 9 n. 2; Ulrich 1914, tavv. 31 n. 18 e 46 n. 21; De Marinis 1989, fig. 121 n. 5. 212 Su questo tema cfr. A. Hermary, Il corallo nel mondo greco, relazione tenuta al convegno di Ravello (dicembre 1996). L’affermazione di J. Boardmann 1980, p. 77 e nota 141, secondo cui il corallo rinvenuto nei siti greci proveniva forse dal Mar Rosso, non è condivisibile e sembra basarsi solo sul fatto delle non frequenti attestazioni del corallo nel mondo greco. Per la documentazione cfr. inoltre Tescione 1965. 213 Cfr. Frey 1969, tavv. 19 n. 3; 22 n. 2; 26 n. 2; 28 n. 10; 29 nn. 1-2; 31 n. 4; pag. 19. Cfr. inoltre Tescione 1965, pp. 123-124, figg. 44-45. 214 Cfr. da Carceri d’Este in Tescione 1965, fig. 46. 89

e per quanto riguarda le donne soprattutto quelle non sposate o prive di figli o morte di parto. Poiché l’analisi che abbiamo condotto sulla presenza del corallo nei corredi funerari della cultura di Golasecca ci ha condotto alla conclusione che il corallo e gli oggetti decorati con il corallo erano riservati alle tombe femminili, emerge un certo grado di analogia con le conclusioni a cui era pervenuto L. Pauli ed è quindi probabile che al corallo fosse attribuito un particolare valore di protezione contro gli influssi negativi che potevano colpire la donna, primo fra tutti quello della infertilità.

Il VI secolo a.C. A partire dall’inizio del VI secolo si verifica un forte cambiamento nella cultura di Golasecca, pur sempre nell’ambito della continuità con la tradizione precedente. La ceramica migliora come qualità, è prodotta al tornio lento con impasti più depurati e fini ingubbiature che danno alla superficie un aspetto perfettamente levigato, spesso lucente, è cotta a temperature più elevate, nascono fogge vascolari fortemente articolate e specializzate, si utilizzano tecniche decorative più raffinate come la decorazione a stralucido, a stampiglia, a incrostazione con lamelle di stagno, a fasce rosse e nere. Tutto ciò denota una produzione ormai uscita dal ristretto ambito domestico e caratteristica di botteghe artigianali. La decorazione a fasce rosse e nere alternate, organizzata in fasce orizzontali separate da piccoli cordoni rilevati, è caratteristica della civiltà paleoveneta, in particolare di Este, ma diffusa in tutto il territorio paleoveneto. Fa la sua prima apparizione nella fase di passaggio dal secondo al terzo periodo, intorno alla fine del VII secolo a.C., e permane in uso per circa tre secoli. Le fasce nere erano ottenute con un colore a base di grafite, quelle rosse utilizzavano l’ocra. Da Este la decorazione a fasce rosse e nere si diffuse, sia sotto forma di manufatti importati, sia sotto forma di imitazione, nella cultura dell’Isonzo (S. Lucia di Tolmino), nell’ambiente culturale hallstattiano orientale dell’Austria e della Slovenia, e nelle culture locali dell’Istria. La presenza di questo stile decorativo anche nella cultura di Golasecca è senza dubbio da ricondurre a un influsso paleoveneto. Non si tratta di prodotti importati, ma di adozione di un tipo di ornamentazione applicato a vasi prodotti localmente, come si può riconoscere dalle fogge vascolari. Nelle necropoli di Golasecca sono abbastanza diffuse le olle cordonate a fasce rosse e nere, nelle necropoli dei dintorni di Como, in particolare alla Ca’ Morta, questa moda sembra meno rappresentata. I vasi a fasce rosse nere compaiono a partire dalla metà del VI secolo e si ritrovano ancora sporadicamente agli inizi del G. III A, per poi scomparire del tutto. Alla Ca’ Morta il pezzo più interessante è il vaso cordonato scoperto verso il 1919 nella cava Manzoni, caratterizzato da una serie continua di bugne coniche sporgenti all’altezza della spalla. Serviva come cinerario ed era chiuso da una patera cordonata, anch’essa decorata a fasce rosse e nere. La sua datazione precisa è problematica in assenza di sicure associazioni, ma è probabile che si debba collocare verso la metà del VI secolo a.C.

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Un’altra tecnica decorativa che si diffonde alla Ca’ Morta nel VI secolo a.C. è quella a lamelle metalliche incrostate sulla superficie del vaso. La tecnica decorativa con sottilissimi nastri metallici, larghi al massimo mezzo centimetro, e poi incollati con un mastice e disposti a formare motivi geometrici lineari, a zig-zag, a fasce parallele, a linee spezzate, a meandri, a rombi, risale all’età dei Campi di Urne ed era diffusa nell’ambiente alpino nord-occidentale. Il più antico esempio di questa decorazione è stato, però, rinvenuto in Lombardia a Canegrate (tomba 83) e si data quindi al XIII secolo a.C. Nel Bronzo Finale è nota anche nella penisola italiana, in particolare nel Protovillanoviano d’Etruria e il suo uso continua a essere attestato nella prima età del Ferro, sia nella cultura villanoviana che in altri gruppi contemporanei. A Golasecca si hanno ceramiche decorate a lamelle metalliche già nel primo periodo, ma la sua maggiore diffusione avviene nel corso del VI secolo a.C. L’esempio meglio conservato è quello della coppa della tomba XIV di Albate. Questo tipo di decorazione in molti casi non è più visibile, o quasi, sia per la notevole alterazione subita dai sottili nastri metallici a seconda delle condizioni di conservazione, sia purtroppo per il fatto che spesso è stata obliterata da interventi di restauro passati e recenti, non essendo stata riconosciuta. Nei casi in cui è stato possibile effettuare l’analisi della composizione chimica di queste lamelle, è sempre risultato trattarsi di stagno o di lega di stagno e argento. Tra il 525 e il 480 circa a.C. (fase G. II B) a Como alcune forme ceramiche come bicchieri, boccali, vasi situliformi con o senza anse, i cosiddetti doppieri e la variante più rara a tre bracci e tre coppe (Ca’ Morta tomba 243, Albate tomba 20) presentano una caratteristica decorazione a stampiglia, che copre tutta la superficie del vaso e in qualche caso si alterna con una decorazione a lamelle di stagno incrostate. I doppieri e i vasi a tre coppe non sono certamente vasi di uso quotidiano o vasellame da tavola. Si tratta di ceramiche dalla forma molto elaborata, ma tecnicamente non sempre plausibile in considerazione dell’estrema fragilità specialmente nei punti di collegamento dei bracci al sostegno del tipo a piede svasato a tromba. Questi vasi compaiono nelle tombe femminili più ricche. L’interpretazione più probabile è quella di una loro destinazione rituale in quanto vasellame specializzato da utilizzare in atti di culto o durante le cerimonie funerarie, senza poter specificare ulteriormente la loro funzione precisa. L’ipotesi di incensieri o bruciaprofumi sembra in contraddizione col fatto che non si osservano mai, all’interno delle coppe, tracce di fuoco o incrostazioni di qualche sostanza. La decorazione a stampiglia era eseguita con uno stampo che recava a rilievo il motivo e veniva impresso sulla pasta ancora molle del vaso. Il repertorio comprende motivi a cerchielli concentrici o occhi di dado, vari tipi di rosette, di S coricate o verticali, a doppia protome ornitomorfa schematizzata, a doppio gancio, a 8, a Y rovesciato (forse un calice floreale rovesciato) e antropomorfi. Nella civiltà di Golasecca la decorazione a stampiglia compare nell’area occidentale (Golasecca, Sesto Calende, Castelletto Ticino) fin dagli inizi del VI secolo, ma senza conoscere una grande diffusione e inoltre con una gamma di motivi differente rispetto a quella che troviamo a Como (ad es. spirali, scudetti tratteggiati, Z, svastica, uccelli acquatici stilizzati a S). A Como l’uso della stampiglia compare per la 91

prima volta nella fase G. II A-B (circa 550-525 a.C.) e si afferma poi con lo stile a fitta stampigliatura nella successiva fase G. II B (ultimo quarto del VI - inizi del V sec. a.C.). Passando al G. III A la decorazione a stampiglia continua, ma cambiano i motivi e la sintassi ornamentale. I motivi sono sempre isolati o a coppie o al massimo in numero di tre. I motivi figurativi, come cavalli, cavalieri, volatili, diventano molto più frequenti. La decorazione a stampiglia della cultura di Golasecca, in particolare quella della Ca’ Morta, richiama la decorazione a stampiglia della fase Arnoaldi di Bologna (Villanoviano IV B, ca. 675 - 575 a.C.) e quella diffusa nell’Etruria settentrionale interna (Val d’Arno, Mugello), anche se il repertorio dei motivi presenta molte differenze. Inoltre, è sensibile lo scarto cronologico, poiché questa tecnica decorativa si afferma a Como quando a Bologna tende ormai a scomparire.

La necropoli di Albate Numerose scoperte effettuate tra il 1868 e il 1913 ad Albate, circa 1,5 km a est della Ca’ Morta, dimostrano l’esistenza di una necropoli sviluppatasi a partire dal Bronzo Finale fino al Golasecca III A. Il nucleo principale sembra essere stato nella località Roncaia, sulla destra della strada provinciale per Cantù, e nella contigua località Cassotta, sulla sinistra della medesima strada. I ritrovamenti effettuati nel 1868 all’Acquanegra ma nelle vicinanze della Roncaia indicano l’estendersi della necropoli verso ovest, mentre altre scoperte avvennero nel 1891 a Trecallo a breve distanza dalla Roncaia verso est. Alcune tombe venute alla luce nel fondo Natta alla Roncaia e nella cava Malinverno alla Cassotta risalgono al Bronzo Finale (Protogolasecca). Non sono documentate tombe del periodo Golasecca I, mentre la maggior parte dei ritrovamenti risalgono al Golasecca II, specialmente alle fasi II A e II A-B (circa 600 - 525 a.C.). Una capeduncola di lamina bronzea di una foggia tipica del Golasecca III A proviene dall’Acquanegra. Dalla necropoli di Albate proviene un considerevole numero di recipienti di lamina bronzea, in particolare situle, ciste a cordoni e capeduncole. L’area del fondo di proprietà Corbetta Marzorati nella località Roncaia, studiata da mons. Giovanni Baserga, comprendeva una vicina all’altra tombe del Golasecca II A e II A-B tra le più ricche finora conosciute per queste fasi per l’abbondanza del vasellame bronzeo. Da una o più tombe scoperte nel 1897 in località Cassotta provengono una capeduncola bronzea, una brocchetta a corpo ovoide affusolato in lamina bronzea, con ansa provvista di piccole costolature longitudinali, attacco superiore a T rovesciata, attacco inferiore a piastrina circolare e fissata al corpo per mezzo di ribattini, e infine un frammento, ora perduto, di una ceramica figulina, probabilmente una piccola lekythos attica decorata a fasce. La brocchetta bronzea è un manufatto etrusco, di fabbrica orvietana. La presenza di importazioni etrusche e probabilmente anche greche conferma che la necropoli di Albate doveva ospitare nella prima metà del VI secolo le tombe più ricche di tutta l’area del comprensorio protourbano dei dintorni di Como.

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Per quanto i corredi delle tombe di Albate, frutto di scoperte occasionali senza controllo scientifico, ci siano giunti incompleti, l’abbondanza di vasellame bronzeo (cinque tazze-attingitoio, una tazzina, quattro situle a spalla cordonata, due ciste a cordoni) e di fibule con corpo rivestito di ambra o di corallo, e la presenza di importazioni dall’Etruria - fatto molto raro per la prima metà del VI secolo a.C. - indicano chiaramente che questa era l’area cimiteriale delle famiglie più eminenti. Il corredo più ricco di tutta la necropoli di Albate è quello della tomba X, conservato nelle civiche raccolte archeologiche di Milano. L’urna cineraria era costituita da una situla di lamina bronzea a spalla cordonata. Il corredo comprendeva una coppa ad alto piede e orlo cordonato, un boccale tronco-conico, un bicchiere a collo distinto e con decorazione impressa a stampiglia sul corpo, un grande guttus a tre bracci e tre coppe ornitomorfe. I tre gutti sono modellati a forma di anatra e la coda costituisce il beccuccio per versare. La parte anteriore del corpo delle anatre è decorata a lamelle di stagno incrostate che formano un motivo a spina di pesce e la stessa tecnica è stata usata per decorare i tre bracci del vaso. Il corredo comprendeva anche una fusarola, fibule a grandi coste e ad arco composto con elementi rettangolari di ambra, quattro perle di pasta vitrea decorate a fasce concentriche gialle, una ricca serie di pendagli, alcuni con catenelle ad anellini intrecciati terminanti con pendagli a doppia spirale, altre formate da elementi a otto e terminanti con pendagli a melagrana, nonché alcuni elementi a tubo in bronzo fuso, che facevano parte del sostegno delle catenelle. Si tratta certamente della tomba di una donna, come indicano il tipo delle fibule e la presenza della fusarola, oltre ai numerosi pendagli. La tomba è databile a una fase avanzata ma non ancora finale del Golasecca II (fase II A-B, circa 550525 a.C.). Il grado di diversificazione e complessità dei corredi aumenta e indica tutta una serie di dislivelli di ricchezza che sono espressione di una più articolata differenziazione socio-economica. L’onore di sepolture sontuose, tanto a Golasecca quanto a Como, si estende anche alle donne, anzi l’esibizione della ricchezza e del prestigio diventa nettamente prevalente nelle tombe femminili, soprattutto nella fase G. II B (fine VI - inizi V secolo). A Como sembrano esclusive delle tombe femminili alcune fogge vascolari fortemente specializzate come i doppieri, i candelabri a tre bracci, i gutti ornitomorfi, a Golasecca i tripodi, sia a Como che a Golasecca alcuni utensili legati al rituale del banchetto come gli spiedi, un ricco corredo ceramico che allude al banchetto funebre nonchè una abbondanza di oggetti di ornamento di lusso come le fibule con arco composto con ambra o corallo, le fibule a sanguisuga con incrostazioni circolari di corallo, le fibule con lunghe catenelle e pendagli, le collane con elaborati pendagli e catenelle come quelli tipo Trezzo,. Lo stesso vasellame bronzeo (situle, tazze-attingitoio, ciste a cordoni) è prevalentemente documentato in tombe femminili. Ormai il ricco corredo funerario è diventato un privilegio esteso a tutti i membri di una famiglia di rango elevato e ciò indica la stabile presenza di un ceto dominante di carattere aristocratico.

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Per comprendere l’organizzazione delle necropoli, che sarebbe di grande utilità per la ricostruzione delle strutture sociali, possiamo disporre soltanto delle planimetrie di limitati settori della necropoli della Ca’ Morta : l’area delle tombe 232-299 scavate nel 1975-1976, della cava Bianchi con le tombe 182-201, della cava Ferretti con le tombe 33-44 e il piccolo nucleo delle tombe 309-315. Di tutte le altre tombe non è stata redatta una planimetria. Lo studio di questi settori della necropoli ha permesso di raggiungere qualche conclusione di carattere generale. Le tombe del X e del IX secolo a.C. sono sparse su tutta l’area a una certa distanza l’una dall’altra. Le tombe del G. I B - I C appaiono più concentrate lungo una direttrice nord-sud, quelle del G. II formano raggruppamenti ancora più densi. A prima vista le tombe sembrano formare raggruppamenti omogenei per quanto riguarda il sesso. Nell’area delle tombe 232-299, infatti, nuclei più estesi di tombe femminili si alternano a nuclei più ridotti di tombe maschili, nell’area della cava Ferretti il nucleo maggiore è formato da tombe maschili e così pure nella cava Bianchi. L’articolazione planimetrica della necropoli per nuclei formati da tombe di una stessa categoria per quanto riguarda il sesso sembra abbastanza singolare, anche se non può escludersi del tutto. Scomponendo il dato per fasi cronologiche è possibile pervenire a un’altra interpretazione. La situazione delle tombe del G. II A-B e II B (ca. 550-480 a.C.) appare caratterizzata da piccoli nuclei comprendenti una tomba maschile e due o più tombe femminili. L’assenza dell’analisi delle ossa combuste non consente per ora di individuare le tombe dei bambini o dei giovani e di rendere più chiara l’interpretazione dei piccoli raggruppamenti con una lettura per classi di età, oltre che per sesso. Appare comunque probabile che questi raggruppamenti abbiano un carattere familiare. Si può osservare che questi nuclei sembrano quasi fondersi l’uno con l’altro e formare un’unità più ampia, che potrebbe corrispondere a famiglie tra loro imparentate, appartenenti a una stessa gens.

L’impressione di un legame è rafforzata dalla

somiglianza dei corredi sia sul piano della tipologia dei materiali, sia per quanto concerne l’aspetto quantitativo e qualitativo. Si tratta, quindi, di un gruppo molto omogeneo ed è significativo che su 21 tombe siano assenti vasi di lamina bronzea e quelle ceramiche specializzate a destinazione rituale come i doppieri, i cd. candelabri a tre bracci, i gutti ornitomorfi, documentati abbondantemente nel gruppo di tombe che è stato scoperto una trentina di metri più a nord e delle quali non è stata redatta la planimetria : tombe 287, 288, 255, 293; tombe delle cave Ballerini Nord e Dalla Zuannna : 122, 130, 140, 147/8, 177, 217. E’ probabile che queste tombe costituissero, a loro volta, un gruppo omogeneo per la maggiore complessità nella composizione dei corredi, caratterizzati da manufatti più pregiati e più abbondanti. Appare evidente una differenziazione socio-economica rispetto al gruppo delle tombe 232-283. La distribuzione delle tombe non era quindi casuale, ma rispondeva a determinate convenzioni. Una riprova di questo fatto viene dalla considerazione che almeno in certi periodi le tombe più ricche o con oggetti dotati di grande valenza simbolica sono spazialmente concentrate : è il caso della cava Butti all’estremità settentrionale della Ca’ Morta, da cui provengono le più ricche tombe del G. III A, compresa quella del Carro. Ad Albate l’area studiata da mons. Baserga comprendeva una vicina all’altra tombe del G. II A e II A-B tra le più ricche finora conosciute per questo periodo. 94

Una ricca tomba femminile della fase G. II B è stata scoperta nel 1977 a Sesto Calende, in località Mulini Bellaria, a breve distanza dalla riva del Ticino, sul paleoterrazzo del fiume lungo il quale corre attualmente la strada del Sempione. La tomba, n. 4, era stata già violata in passato, risultando priva della lastra di copertura e di parte del corredo funerario, fra cui l’urna cineraria e il bicchiere accessorio. La tomba 4 aveva una struttura a cassone a pianta leggermente trapezoidale, formato da lastre di pietra sommariamente squadrate e rinforzate alla base da ciottoli, con lunghezza di 2,45 – 2,55, larghezza di 0,95 – 1,25 e profondità di 1,20 m. L’orientamento era est-ovest con uno spostamento verso nord di 21 gradi. La lastra di copertura mancava, essendo già stata asportata da tempo.

Il fondo della tomba era

parzialmente pavimentato con piccole lastre e ciottoli piatti. Le lastre dei lati lunghi apparivano lievemente inclinate verso l’interno. Il lato lungo meridionale era formato da un unico lastrone, a cui si appoggiava verso l’angolo sud-occidentale una lastra più piccola, quello settentrionale da un’unica grande lastra a cui si appoggiavano verso est altre due lastre, rinvenute una inclinata verso l’esterno e l’altra spostata di 2,5 m a seguito delle manomissioni subite dalla tomba. Il lato corto occidentale era formato da un’unica lastra, quello orientale da una lastra un poco più corta e da un blocco a forma di pilastrino inserito a chiudere l’angolo nord-orientale. Il crollo di una lastra e di numerosi ciottoli appartenenti alla originaria sopracopertura, ha permesso la conservazione di parte del corredo, anche se gravemente danneggiato per lo schiacciamento subito, nella parte più occidentale della camera sepolcrale, mentre in quella orientale non si sono rinvenuti materiali. L’urna cineraria e il consueto bicchiere accessorio devono essere stati asportati insieme a una parte del corredo al momento della violazione della tomba215. Il corredo recuperato comprende ceramiche, una situla di bronzo, un tripode e una serie di oggetti pertinenti all’abbigliamento e all’ornamentazione di una donna216. La ceramica comprende una grande coppa ad alto piede svasato a tromba e con ampio orlo a tesa, quattro coppe ad alto piede con un motivo a raggiera reso a stralucido all’interno della vasca, due con orlo rientrante e due con orlo diritto; un boccale a corpo tronco-conico, collo distinto e orlo esoverso. Tutta la ceramica è in argilla ben depurata, modellata alla tournette, con superficie accuratamente lisciata, nero lucida con riflessi grafitiferi. La coppa con orlo a tesa è decorata con una fascia a stralucido che corre lungo tutta la faccia interna dell’orlo a tesa e lungo il bordo interno della vasca, un’altra fascia a stralucido corre lungo l’orlo all’interno del piede. Coppe di questo tipo sono presenti alla Ca’ Morta nella t. 173217, a Brembate Sotto nella t. 14218, a Pregassona nella t. 1219 e a Pombia nella t. 8/1993220, tutte del G. II B. Il tipo continua anche nella successiva fase cronologica G. III A 1, come dimostrano le tombe 2 di Porza221 e 7 di Brembate Sotto222. 215

E’ da escludere l’ipotesi di una scomparsa delle ossa combuste collocate all’interno di un contenitore in materiale deperibile o sparse sul fondo della tomba a causa dell’acidità del terreno, poiché si sono conservati ossicini di volatili deposti in una coppa. 216 Sulla tomba del Tripode cfr. R.C. DE MARINIS 1988, p. 211, figg. 176-181; ID. 1999; ID. 2004, p. 300 e ss., figg. 5-6 e p. 631-632. 95

Le altre quattro coppe presentano la medesima decorazione a stralucido all’interno della vasca: una fascia lungo l’orlo ed un’altra sul fondo incorniciano sette strisce verticali disposte a raggiera. Il boccale ha la superficie a stralucido nero uniforme, tranne una fascia risparmiata lungo la spalla, entro la quale corrono due linee parallele. Non ci sono confronti per queste quattro coppe, almeno tra il materiale edito della cultura di Golasecca. Le coppe erano tutte concentrate nell’angolo sud-occidentale della tomba e sono state rinvenute rovesciate a terra, tre con la bocca rivolta verso il lastrone del lato lungo meridionale, una verso il lato corto occidentale ed una verso nord-est. In origine dovevano trovarsi in posizione verticale e contenere qualche offerta alimentare. Infatti, in un caso si è conservato qualche ossicino presumibilmente di volatile. Il boccale è stato rinvenuto a metà lunghezza della tomba e a 20 cm dal lato lungo settentrionale. Il tripode e la situla di bronzo si trovavano subito a est del gruppo di ceramiche, la situla in posizione rovesciata a terra, con la bocca rivolta verso il lato lungo settentrionale e il tripode schiacciato sotto il peso del crollo e con la bocca del bacino rivolta verso l’angolo nord-occidentale della tomba. La situla appartiene al tipo con spalla cordonata, caratteristico della cultura di Golasecca per tutto il VII e VI secolo a.C. La spalla è decorata con tre cordonature parallele, il collo è distinto e l’orlo ravvolto intorno a una verga di ferro di rinforzo. Gli attacchi per il manico sono del tipo a omega con piastrine rettangolari lunghe, fissate al collo con due ribattini ciascuna, decorate con una coppia di occhi di dado tra i due ribattini e trattini orizzontali incisi al bordo esterno. Il manico termina con la caratteristica piegatura a S, che forma il motivo della testa ornitomorfa stilizzata. Il fondo è unito a incastro. La situla è decorata a punti e borchiette a sbalzo. Nella parte alta del corpo piccole fasce orizzontali e verticali di borchiette contornate da un cerchio sbalzato e delimitate da file di puntini a sbalzo creano sette riquadri metopali, al cui centro è collocata una grande borchia a sbalzo contornata da due cordonature concentriche sempre a sbalzo. Più sotto una fila orizzontale di borchiette contornate da un cerchio sbalzato e un identico motivo marginato da due file di puntini a sbalzo. Il fondo è decorato con una banda a sbalzo al cui centro si trova il motivo della grossa borchia contornata da due cerchi a sbalzo. Situle dello stesso tipo, che ho proposto di denominare tipo Cerinasca d’Arbedo, sono note ad Albate (t. XIV), alla Ca’ Morta (t. 130), a Golasecca (t. del Lazzaretto), a Cerinasca d’Arbedo (t. 39) e a Mesocco

217

F. RITTATORE VONWILLER 1966, tavv. L e LXXVI. Il corredo comprende una perla biconica di bronzo tipica del G. II B. 218 R.C. DE MARINIS 1997, p. 34 e figg. 1-3. 219 M. PRIMAS 1970, tav. 48 A. La tomba viene datata dalla Primas al Tessin C (= G. III A 1), ma sembra più probabile una datazione al G. II B per le caratteristiche della cista a cordoni. 220 S. PIROTTO in La birra e il fiume, pp. 42-43, fig. 30 221 M. PRIMAS 1970, tav. 47 A. La tomba è datata dalle fibule a drago tipo Cerinasca d’Arbedo, tipiche del G. III A 1. 222 Cfr. G. MANTOVANI 1891, pp. 57-60, tav. II, 82. La maggior parte del materiale di questa tomba non è più conservato, ma la sua datazione al G. III A 1 o 2 è assicurata dalla staffa di fibula n. 81 e dai bicchieri a risega nn. 8485. 96

(t. 1). Le sole differenze concernono la decorazione, presente sulla situla della tomba del tripode e assente in tutti gli altri esemplari, e le dimensioni, che nel caso del nostro esemplare sono minori223. La situla è stata deposta completa di attacchi e di manico. Era ripiena di terra, più chiara e più friabile nella metà superiore, più scura e compatta nella metà inferiore, senza alcuna traccia di ceneri, carboni od ossa combuste. Non era, dunque, l’urna cineraria, ma un elemento del corredo funerario. Infatti, nell’ambito culturale golasecchiano, quando le situle erano utilizzate come contenitore per le ceneri del defunto, venivano private in tutto o in parte degli attacchi e il manico non è mai presente. La differenza di colore e di consistenza del terreno infiltratosi all’interno è probabilmente in rapporto al contenuto originario della situla, forse latte, che, ricco di sostanze organiche, potrebbe essere all’origine del colore più scuro della parte inferiore del deposito. Il tripode era rimasto completamente schiacciato sotto il peso del crollo ed è stato particolarmente laborioso restaurarlo e ridargli la forma originaria. E’ costituito da un bacino in lamina bronzea a corpo leggermente carenato, fondo a calotta, parete distinta verticale, orlo a tesa, e da un supporto di sostegno, formato da tre aste di ferro fissate da una parte all’orlo e alla parete del bacino e dall’altra inserite in un peduccio di bronzo fuso a forma di gamba umana. I peducci del tripode sono stati fusi in un unico pezzo e hanno la forma di una gamba umana sormontata da un dischetto di grosso spessore in cui era inserita l’estremità inferiore delle aste di ferro, e sopra il dischetto da un vasetto miniaturizzato a corpo globoso. I tripodi nel mondo antico avevano molte valenze: utensili di uso corrente, utensili utilizzati nei sacrifici e nelle cerimonie per le libazioni, premio per i guerrieri e per gli atleti vittoriosi, oggetti votivi da consacrare a Zeus o ad Apollo nei santuari. Conosciuti già in età micenea, la loro prima diffusione in Italia avviene durante il Bronzo Finale con i tipi ciprioti della classe rod tripods224. Nelle culture laziale e villanoviana i tripodi sono deposti nelle tombe con modelli in ceramica, mentre in età orientalizzante si diffondono ampiamente tripodi con vasca in lamina bronzea e sostegni dapprima in bronzo e poi in ferro. Ben conosciuti sono i tripodi vetuloniesi con zampe ad occhiello, documentati non solo in Etruria, in particolare a Vetulonia e a Chiusi, ma anche a nord degli Appennini a Bologna, Este e a Novo Mesto in Slovenia, e inoltre quelli, sempre vetuloniesi, con zampe terminanti con peducci a forma di gamba umana sormontata da una figurina di cavaliere225: sono certamente questi i modelli all’origine del tripode di Sesto Calende. Nell’ambito della cultura di Golasecca si conoscono altre due tombe con tripode. La prima fu scoperta nel 1877 a Castelletto Ticino nella località Motto della Forca. Era formata da lastroni, raggiungeva i due metri di lunghezza e un metro e mezzo di larghezza ed aveva una sopracopertura di ciottoli. Il corredo 223

Per le situle a spalla cordonata e il tipo Cerinasca rimando all’analisi svolta nella pubblicazione della tomba del Lazzaretto di Golasecca, dove è reperibile tutta la bibliografia: R.C. DE MARINIS 1992, p. 176 e ss. 224 Per i tripodi ciprioti cfr. H.W. CATLING, 1964, pp. 154 ss., 169 ss. e 190 ss.; per i frammenti di tripodi ciprioti scoperti in Italia cfr. H. MÜLLER KARPE 1959, p. 74 fig. 5; L. PONZI BONOMI, 1970, pp. 136 ss., fig. 14 n. 7 e fig. 15; F. LO SCHIAVO, 1985, pp. 255-284, in particolare pp. 258 ss. e figg. 21-24; F. LO SCHIAVO, E. MAC NAMARA, L. VAGNETTI 1985.

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comprendeva un piccolo boccale a corpo globoso, due coppe tronco-coniche con labbro diritto e basso piede svasato a tromba, una quarantina di armille di bronzo del tipo a capi sovrapposti, 12 anellini di argento e un anello di bronzo infilati sull’ardiglione di una fibula ormai non più rintracciabili. Il tripode aveva un bacino di lamina bronzea a forma di calotta con orlo a tesa. Il sostegno a tre zampe non è più conservato, ma dalle tracce rimaste aderenti al bacino si arguisce che le aste erano di ferro226. Il tripode di Castelletto Ticino differisce da quello di Sesto Calende. Infatti, la forma del bacino è in questo caso a calotta semplice, senza una parete distinta come in quello dei Mulini Bellaria. La perdita delle aste di sostegno, non più rintracciabili nei musei civici di Novara, non consente una classificazione precisa. La tomba del Motto della Forca in base alla tipologia delle coppe e del boccale sembra contemporanea a quella di Sesto Calende, mentre rimane incerto il genere della deposizione, se cioè fosse femminile o maschile. La dimensione e la tipologia delle armille a capi sovrapposti farebbe pensare a un individuo non adulto di sesso maschile. Del tutto simile è invece il tripode di Pezzana (Vercelli), scoperto nel gennaio 1889 nel corso dei lavori di spianamento di un tumulo per livellare i campi, in località Dosso del Lupo, a 500 m. dall’abitato di Pezzana, sulla destra della Sesia. Non si hanno notizie precise sulle caratteristiche della tomba e sul suo corredo. Si sa soltanto che il tripode fu scoperto insieme a una cista a cordoni in lamina bronzea e a vari frammenti ceramici, fra cui un boccale227. Anche se conserva soltanto un’asta completa, il tripode di Pezzana, al pari della cista a cordoni, è in buono stato di conservazione e non ha subito quelle deformazioni che hanno colpito i tripodi del Motto della Forca e dei Mulini Bellaria in seguito al crollo della sopracopertura della tomba. La cista a cordoni appartiene al tipo definito dalla Stjernquist “ticinese”, caratterizzato da una decorazione a puntini molto fini nello spazio tra un cordone e l’altro e da un fondo prevalentemente di tipo PB 1b o PB 1c228. Il confronto migliore è con la cista a cordoni della tomba 294 della Ca’ Morta, databile al G. II B. Questo tipo di cista, documentato anche in tombe del La Tène A, come ad es. Kleinaspergle e Eygenbilsen, non è attestato prima della fase G. II B e quindi possiamo ritenere più che probabile il fatto che le tombe con tripode di Sesto Calende e di Pezzana fossero tra loro contemporanee229. 225

Per i tripodi scoperti in Etruria cfr. P. DUCATI, in Studi Etruschi, V, 1931, pp. 85 ss.; H. HENCKEN, 1957, pp. 1 ss; G. CAMPOREALE 1969, pp. 39, 55-56, 73-74, 81, 93. 226 Il corredo è stato pubblicato da F.M. GAMBARI in F.M. GAMBARI, L. MALNATI 1980, pp. 45 e ss., e tavv. XIV, B; XV; XVI A. F.M. Gambari ha svolto un’analisi critica delle fonti disponibili, espungendo dal corredo un’urna cineraria a corpo biconico globoso decorata a stralucido, un bicchiere a corpo globoso, collo distinto e labbro esoverso, una ciotola coperchio a basso piede e orlo introflesso, che probabilmente facevano parte di un’altra tomba. Tredici frammenti di ferro furono ritrovati sotto il bacino di bronzo e si trattava certamente delle tre aste di sostegno del tripode. Tra questi frammenti il Rusconi, in Notizie degli Scavi, 1888, p. 271, credette di poter riconoscere “una porzione di un morso di cavallo”, il che darebbe una connotazione maschile al corredo della tomba, ma c’è il forte sospetto che abbia scambiato per morso di cavallo i frammenti di ferro delle aste del tripode. 227 Cfr. C. LEONE, Di alcuni oggetti antichi scoperti a Pezzana nel Vercellese, in Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino, V, f. 4, 1890, pp. 247-254, tav. XV, 1-3. Cfr. anche Notizie degli Scavi, 1889, p. 205 e figg. A, B, e BPI, XV, 1889, pp. 193-194. 228 Abbreviazione di Punktkreisboden mit zwei oder drei rundumlaufenden getriebenen Bandern, secondo la terminologia di B. STJERNQUIST 1967, pp. 32 e ss.; per Pezzana cfr. al n. 102, non classificato dalla Stjernquist, che non conosceva le caratteristiche del fondo. 229 Sulle ciste a cordoni nella cultura di Golasecca cfr. R.C. DE MARINIS 2000, p. 369 e ss. 98

Nessuna tomba con tripode è stata scoperta nelle necropoli dei dintorni di Como o in quelle dei dintorni di Bellinzona. La deposizione di un tripode nel corredo funerario sembra, quindi, un aspetto caratteristico della facies occidentale del Golasecca. Tuttavia, da Rondineto, una delle zone del grande abitato protostorico dei dintorni di Como, proviene una gamba di bronzo fuso con ancora inserita nella parte alta l’estremità di una verga di ferro, che è certamente il peduccio di un tripode come quelli di Pezzana e di Sesto Calende230. I numerosi oggetti relativi all’abbigliamento e all’ornamentazione sono stati ritrovati per la maggior parte in uno spazio di 60 x 35 cm subito a nord-est del tripode, mentre alcune fibule e altri frammenti erano sparsi al centro della tomba, a est della situla. Un’armilla di legno fossile ha una forma perfettamente circolare, con sezione a ¾ di cerchio, un diametro di 8,5 cm e un’apertura interna di 5,5 cm. Poteva quindi essere utilizzata da un soggetto femminile di età adulta. Per quanto manchi ancora un’analisi scientifica, si tratta molto probabilmente di legno fossile, lignite o sapropelite, il cui uso era ampiamente diffuso nella cultura hallstattiana occidentale. Un’armilla identica si trova nella collezione Visconti di Somma Lombardo. Il frammento di un’armilla di legno è stato scoperto anche nell’abitato di via Isonzo (area I.A.C.P.) a Prestino, nel corso degli scavi 1980-1985. Il fermaglio rettangolare della cintura, in lamina bronzea, ha la forma classica dei fermagli del G. II B ed è stato rinvenuto vicino a un frammento della cintura in cuoio ricoperto interamente da minuscole borchiette di bronzo. Una cintura in cuoio ricoperta da minuscole borchiette di bronzo era fornita di un fermaglio del tipo a placchetta rettangolare in lamina bronzea. Su dieci fibule cinque sono del tipo a sanguisuga, fra cui una con staffa terminante a doppio globetto e due con corpo decorato da incavi circolari riempiti di corallo. Di quattro fibule ad arco composto con rivestimento di corallo, inquadrabili nel tipo Lazzaretto231, sono rimaste solo le parti in bronzo e gli elementi d’ambra infilati sull’estremità a punta della staffa. Una grande fibula ad arco composto aveva il corpo rettangolare d’ambra e le parti anteriore e posteriore dell’arco in bronzo pieno232. Recava appeso all’ardiglione un pendaglio lungo 50 cm., formato da un elementi tubolare di verghetta bronzea avvolta a spirale e ripiegato ad U rovesciata, dai capi del quale fuoriescono due coppie di sostegni che reggono trenta lunghe catenelle, ciascuna terminante con un pendaglietto di bronzo del tipo a goccia. Alcune perle d’ambra dovevano essere in origine infilate sull’ardiglione delle fibule, tranne una, di forma biconica e di grandi dimensioni (ø di 6 cm.), per la quale non è possibile proporre una connessione con le fibule. Probabilmente faceva parte di una collana insieme ad altri due pendagli in ambra di forma antropomorfa stilizzata. La grossa perla e i due pendagli di ambra sono stati rinvenuti uno accanto

230

V. BARELLI in Riv. Archeologica Como, f. 15, 1879, tav. II, v; Como fra Etruschi e Celti, Como 1986, fig. p. 71. Le dimensioni corrispondono perfettamente ai peducci dei tripodi di Sesto Calende e di Pezzana. 231 Per la definizione del tipo cfr. R.C. DE MARINIS 1992, pp. 168 e ss., fig. 6 n. 7. 232 E’ stata definita fibula ad arco composto tipo Sesto Calende: cfr. R.C. DE MARINIS 1992, pp. 168 e ss., fig. 6 n. 5. 99

all’altro e ciò conferma che dovevano far parte dello stesso ornamento.

Pendagli simili in ambra

233

facevano parte di collane rinvenute nella necropoli di Cerinasca d’Arbedo . Completano il quadro del corredo due spiedi di ferro, simili a quelli documentati in molte tombe del G. II B nella necropoli della Ca’Morta234. Tutto il corredo, dalla ceramica alla situla, dal fermaglio alle fibule e allo spiedo, costituisce un insieme cronologicamente omogeneo tipico della fase G. II B. La tomba del tripode offre un chiaro esempio della correlazione tra dimensioni e caratteristiche monumentali della struttura funeraria e corredi fuori dal comune sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. A questo proposito si deve tenere presente che la tomba era già stata violata e che di conseguenza il corredo è incompleto, come dimostra, tra l’altro, la mancanza della stessa urna cineraria. La tomba, inoltre, illustra in maniera esemplare un fenomeno caratteristico della cultura di Golasecca tra la metà del VI e gli inizi del V secolo a.C.: le tombe più ricche in questo periodo sono femminili e accanto ad oggetti d’ornamento di lusso presentano anche arredi specializzati a destinazione rituale, come è il caso del tripode o nelle coeve tombe della Ca’ Morta i cosiddetti doppieri (in qualche caso a tre bracci e tre coppe) o ad Albate l’elaborato vaso ad alto piede, tre bracci e tre gutti ornitomorfi235.

Le tombe maschili presentano coltelli con foderi di ferro, pugnali, lance, morsi di cavallo, ma, dopo il G. II A, non si trovano più spade o daghe. A San Bernardino di Briona alcune tombe hanno elmi di bronzo e lance di ferro. La tomba 11 fu scoperta e scavata nel luglio 1978 a 15 m di distanza a est della tomba del tripode. La struttura era a cassetta di lastre, di dimensioni relativamente grandi (1,3 x 0,8 m, h 0,70/0,90 m), chiusa da un’unica lastra di forma leggermente trapezoidale (1,30 x 1,00/1,30 m, spessore 12-13 cm) ed orientata Est-Ovest. La lastra meridionale era leggermente inclinata verso l’esterno e risultava più bassa della corrispondente lastra settentrionale, per cui quella di copertura appariva inclinata verso sud. Lungo i lati nord, est e sud una serie di blocchi e sfaldature litiche formavano come un’inzeppatura. Il fondo del loculo era parzialmente pavimentato da ciottoli irregolarmente disposti, specialmente lungo i lati sud ed ovest. Nello scavo della fossa per la costruzione del loculo sepolcrale venne distrutta una tomba del Golasecca I A, poiché frammenti ceramici di questo periodo, fra cui alcuni pertinenti a una ciotola-coperchio decorata a cordicella, furono rinvenuti in parte sopra la lastra di copertura e in parte a quote diverse lungo i lati nord e ovest della cassetta. All’interno il corredo era così disposto: la grande urna cineraria, chiusa dalla ciotola-coperchio, al centro lungo il lato orientale; accanto all’urna, verso nord, una lunga cuspide di lancia di ferro, al centro della tomba subito a ovest dell’urna cinque coppe.

233

Cfr. C.W. BECK, E.C. STOUT 2000, figg. 5 e 6. Cfr. ad es. quelli della tomba 122 della Ca’ Morta in R.C. DE MARINIS 2000/b, fig. 8.a,b. 235 Per queste problematiche rimando a quanto anticipato in R.C. DE MARINIS 1988, 1996 e 1997. 234

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L’urna cineraria è una grande olla a corpo ovoide con massima espansione a 2/3 d’altezza, collo a profilo concavo, distinto dalla spalla con una breve risega, orlo esoverso, fondo concavo. Il vaso è stato modellato alla tournette ed è leggermente asimmetrico. L’altezza varia da 36,4 a 37,2 cm, il ø max è di 37,6 cm. Si tratta dell’urna di maggiori dimensioni finora conosciuta nell’ambito della civiltà di Golasecca. Infatti, in genere le urne grandi hanno altezze compre tra 28 e 30 cm. L’argilla è fine, ben depurata, di colore rosso mattone chiaro, la superficie esterna è stata lucidata a stecca in maniera non uniforme e presenta un aspetto stralucido di colore bruno scuro – nero. Il fondo esterno è opaco. L’urna era chiusa da una scodella a basso piede tronco-conico, vasca a calotta con orlo arrotondato e rientrante. Anche questo pezzo è stato modellato alla tournette, il corpo ceramico è di colore rosso mattone, con inclusi litici, la superficie esterna lisciata a stecca e presenta un aspetto stralucido di colore bruno scuro, che si estende anche al lato interno dell’orlo. Mentre tutta la cassetta si era riempita di terreno infiltratosi progressivamente all’interno, la chiusura dell’urna è stata così efficace che nulla era penetrato al suo interno. A partire da 20 cm dall’imboccatura iniziavano le ossa combuste, al centro sopra le ossa combuste era collocato il consueto bicchiere, mentre tutti gli oggetti di corredo sono stati rinvenuti sparsi fra le ossa combuste fino al fondo dell’urna. Il bicchiere presenta la forma tipica del Golasecca II B: corpo globoso, collo stretto e distinto, orlo esoverso e fondo leggermente concavo. La superficie esterna del bicchiere e quella interna dell’orlo sono a stralucido nero, con tre fasce orizzontali a risparmio lungo la spalla. Quattro coppe hanno corpo tronco-conico a profilo leggermente ricurvo, labbro diritto, piede di media altezza svasato a tromba. Sono state tutte modellate alla tournette, il corpo ceramico è micaceo, di colore rossiccio, con qualche incluso bianco. Due coppe hanno un motivo cruciforme a stralucido all’interno della vasca, i cui raggi partono da una fascia sempre a stralucido che corre lungo la parte interna dell’orlo. Una terza coppa è inornata, mentre la quarta, di dimensioni minori e con un piede di maggiore altezza, presenta lo stesso motivo cruciforme all’interno della vasca, ma anche la superficie esterna è resa a stralucido pieno, con un motivo a zig-zag che corre lungo una fascia a risparmio poco sotto l’orlo. La quinta coppa ha corpo a calotta con orlo rientrante e basso piede svasato a tromba. La superficie esterna è decorata a stralucido: una fascia a stralucido pieno corre lungo l’orlo, segue un’ampia fascia a risparmio con reticolo a stralucido su fondo opaco, e quindi verso il fondo e lungo il piede una seconda fascia a stralucido pieno. Il corredo rinvenuto all’interno dell’urna comprende i resti di almeno cinque fibule ad arco serpeggiante in bronzo. Sono tutte spezzate e in parte anche contorte e deformate per effetto del calore del rogo funebre. Le fibule hanno un disco ferma-pieghe impostato obliquamente verso il capo e una staffa lunga desinente con un globetto fornito di appendice tronco-conica a vaso in quattro casi e di un’appendice a cuspide in un caso. Due fibule hanno il nastro dell’arco percorso da tre sottili nervature. Vi erano, inoltre, un elemento di corredo da toilette, in bronzo, ma privo dell’estremità distale, che poteva essere a cucchiaino (cura-orecchie) o bifida (netta-unghie), quattro anellini di bronzo a sezione biconvessa, che in

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origine dovevano essere infilati sull’ago delle fibule, una perla di vetro di colore blu chiaro e un frammento di ferro pertinente al fermaglio della cintura. Infine, la cuspide di lancia in ferro con innesto a cannone fornito di foro passante per il fissaggio all’asta e una lunga lama a foglia di salice con robusta costolatura mediana a spigolo vivo. La cuspide è stata deposta accanto all’urna, dopo essere stata tolta dall’asta di legno e senza essere stata ripiegata ritualmente, come accade frequentemente nelle tombe a cremazione. La sola lama è lunga 47 cm, mentre l’innesto è di 11 cm e con diametro piuttosto piccolo (2 cm). Questa cuspide di lancia, quella della prima tomba di guerriero di Sesto Calende236 e quella scoperta sempre a Mulini Bellaria nel 1995 (tomba 6) sono le cuspidi di maggiori dimensioni che si conoscano nell’ambito della cultura di Golasecca. La cuspide della tomba 6/1995 è la più grande in assoluto: 68 cm di lunghezza, di cui 55,5 per la sola lama237. La tomba 11 è databile al Golasecca II B (ca. 525-490/80 a.C.), molto probabilmente verso gli anni avanzati e finali di questa fase, come si può arguire dalla tipologia delle fibule e delle ceramiche. Le fibule serpeggianti con arco a fettuccia decorato da tre sottili nervature (tipo Gaiaccio) sono documentate nella tomba scavata da Abel Maitre nel 1873 ora a St. Germain-en-Laye238, nella tomba scavata da Pompeo Castelfranco nel 1876 alla cascina Oldrini di Castelletto Ticino239, nelle tombe di Sesto Calende loc. Gaiaccio e loc. Rastel Rosso240, a Mesocco nelle tombe 6 e 9241, a Minusio-Ceresol nella tomba 18242, nella tomba n. 2 di via De Pinedo a Sesto Calende243. La terminazione a globetto con appendice a cuspide in una fibula serpeggiante trova preciso riscontro a S. Bernardino di Briona, tumulo XXXII, tomba 1244. Il numero delle fibule serpeggianti nelle tombe della fase II B è variabile da 1 fino a 9. Nella maggior parte dei casi le fibule sono 1-3, un numero superiore è meno frequente. Trattandosi di tombe a cremazione, è difficile comprendere come fossero utilizzate, al di là del fatto che servivano ad allacciare le vesti. Nel caso della necropoli di Mesocco, che era a inumazione, si osserva costantemente che le fibule serpeggianti sono distribuite all’altezza del collo o della spalla, all’altezza del torace e al di sotto della vita245. Le olle ovoidi con collo distinto sono comuni nelle tombe del secondo periodo, ma quelle con breve risega tra collo e spalla sono documentate sopratutto nella fase II B, ad es. nella tomba scavata da A. Maitre. Il bicchiere con collo stretto e corpo globoso è un po’ il fossile-guida della fase II B, mentre sempre alla stessa fase si riferiscono le coppe e le ciotole con decorazione a reticolo fra due fasce a

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R.C. DE MARINIS 1975, tav. I, 3. M. RUFFA in Museo Sesto Calende, p. 77, fig. 65; Celti d’Insubria, p. 68 n. 1. 238 La tomba è inedita. 239 Per la ceramica cfr. R.C. DE MARINIS 1985, fig. 14. 240 Per Gaiaccio: M. BERTOLONE 1946; per Rastel Rosso: A. MIRA BONOMI in RassGall, 241 B. SCHMID-SIKIMIĆ 2002, p. 72, fig. 3.25.26, p. 84 fig. 3.37.70-71. 242 B. SCHMID-SIKIMIĆ 2000, p. 231, fig. 13. 243 M.A. BINAGHI 1998, pp. 42-43 e fig. a p. 41. 244 F.M. GAMBARI 1987, tav. XXV A. 245 Cfr. le planimetrie in B. SCHMID-SIKIMIĆ 2002, figg. 3.15, 3.17, 3.23, 3.32, 3.47. 237

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stralucido pieno246. Le coppe con decorazione cruciforme a stralucido all’interno della vasca sono presenti nella vicina tomba del Tripode in una variante ad alto piede, e inoltre a Castelletto Ticino, tomba di Motto della Forca del 1879247, e tomba della regione Fontanili, scoperta nell’ottobre 1879248. L’uomo le cui ceneri furono deposte nella tomba 11 era certamente un adulto maschio, come indicano le fibule serpeggianti, e il suo ruolo di guerriero è espressamente indicato dalla cuspide di lancia di ferro. Non ci sono né coltello né spada o pugnale. Non si tratta della tomba di un principe, come nel caso delle tombe a carro de La Castiona e dell’Asilo di Sesto Calende o di Castelletto Ticino loc. Crocetta. Per la fase II B non conosciamo finora una vera tomba principesca nell’area di Golasecca-Sesto CalendeCastelletto Ticino. Nell’ambito della civiltà di Golasecca si conoscono diverse tombe di guerrieri con cuspidi di lancia. Nella t. 225 della Ca’ Morta, il cui corredo comprende elementi di carro e finimenti equini, le lance sono tre e di differenti dimensioni e vi era anche un pugnale, di cui rimangono solo frammenti del fodero. Nei tumuli I e III di S. Bernardino di Briona ritroviamo tre cuspidi di lancia, ma non la spada o il pugnale, bensì l’elmo. A Sesto Calende via De Pinedo t. 2 le cuspidi di lancia erano due. Nelle tombe principesche de La Castiona e dell’Asilo vi erano l’elmo, gli schinieri, la spada e una sola cuspide di lancia. Nella t. VIII/1926 della Ca’ Morta oltre l’elmo e la spada, vi erano tre lance di differenti dimensioni. Si conoscono anche molte cuspidi di lancia scoperte nelle necropoli di Golasecca o dei dintorni di Como ormai prive di contesto. La forma è sempre la stessa, a foglia di salice, ma le dimensioni della lama sono nella maggior parte dei casi intorno ai 25 cm oppure minori. La cuspide della t. 11 è quasi il doppio, quindi una lancia da oplita. Le cuspidi di lancia della tomba 11, della prima tomba di guerriero e della t. 6/1995 non sono armi da getto, ma da scontro frontale, come avviene nella tattica oplitica. A Castelletto Ticino, in località Crocetta, nel 1986, è stata indagata una tomba, originariamente forse a tumulo, sfortunatamente già violata e depredata da tempo. E’ stato possibile, tuttavia, recuperare, i frammenti di due coppe ad alto piede decorate a stralucido, di una ciotola decorata a fasce rosse e nere, e di quattro fibule ad arco serpeggiante di bronzo, che consentono di datare la tomba alla fase G. II A-B. Ma gli elementi più interessanti sono i frammenti di un aryballos etrusco-corinzio e diversi elementi in bronzo e in ferro pertinenti certamente ai resti di un carro. Vi sono frammenti dei cerchioni in ferro ed almeno due morsetti per i gavelli della corona lignea della ruota, del tipo ripiegato a U e con le estremità bilobate. I morsetti non hanno un confronto preciso nei numerosi carri tardo hallstattiani transalpini, ma appartengono a una tipologia intermedia tra quelli della seconda tomba di guerriero di Sesto Calende e la tomba a carro della Ca’ Morta. Alcuni frammenti di nastri bronzei con sottili cordonature ai lati potevano essere parte del rivestimento dell’asse delle ruote o del braccio di trazione e del timone. E’ probabile che alcuni lunghi chiodi con grossa capocchia globosa fossero pertinenti al rivestimento bronzeo della 246

Cfr., ad es., la tomba RR di Golasecca (G.L. CARANCINI 1975, tav. XXIII B); la t. AA di Castelletto Ticino loc. Bosco del Monte (F.M. GAMBARI, L. MALNATI 1980, tav. XVIII B); la già ricordata tomba della Cascina Oldrini (cfr. nota 42); le tombe 1/1997, 4/1993, 2/1995, 10/1995 e 16/1995 di Pombia (La birra e il fiume, figg. 11, 26, 46, 66, 81); la t. 2 di Dorbiè Superiore (M. RUFFA 1998, tav. II); S. Bernardino di Briona (L. PAULI 1971, tavv. 37-40). 247 F.M. GAMBARI, L. MALNATI 1980, tav. XIV, 7. 248 Cfr R.C. DE MARINIS 1997, p. 29 figura in basso. 103

balaustra della fiancata del carro, mentre alcuni frammenti di lamina bronzea con decorazione a trafori triangolari potevano appartenere al rivestimento delle pareti laterali della cassa del carro. In considerazione della esiguità dei resti sopravvissuti non si può stabilire quali dimensioni e quale forma avesse il carro e nemmeno se fosse a due o a quattro ruote, anche se la prima ipotesi sembra più probabile. Doveva trattarsi certamente della tomba di un personaggio socialmente preminente, come dimostra la presenza di ceramica importata dall’Etruria e del carro. A 50 metri di distanza un’altra tomba già violata ha restituito qualche elemento in bronzo e in ferro anche in questo caso pertinente a un carro, ma in condizioni ancora più frammentarie che nel caso precedente. I pochi frammenti ceramici recuperati sembrano indicare un’età un po’ più recente.

Il problema etnografico della cultura di Golasecca A Golasecca grazie ai numerosi contatti con l’Etruria instaurati già nel VII secolo, avviene precocemente l’adozione della scrittura, come è dimostrato dall’iscrizione kosioiso su un bicchiere di una tomba maschile del G. II A scoperta a Castelletto Ticino, via Aronco, e da altre brevi iscrizioni o sigle su molti bicchieri soprattutto del G. II B provenienti dalle necropoli di Golasecca. Kosioiso è una cosiddetta iscrizione parlante, con il nome del possessore dell’oggetto al caso genitivo, “(io sono) di Cosios”. Il nome è largamente attestato in gallico sotto la forma Cosius, Cosoius, Cossattio, Cossutius, Cossinius, Cossillus ed anche nella toponomastica dell’Italia nord-occidentale : cfr., ad es., Cosius, il nome del lago d’Orta, Cossilla presso Ivrea. La stele di Vergiate presenta una lunga iscrizione che corre lungo i margini racchiusa entro una rotaia piegata a ferro di cavallo con trattini divergenti all’inizio e alla fine : pelkui : pruiam : teu : karite : iš os : karite : palam.. Questa iscrizione è stata tradotta : “Pelgo cellam Teo fecit, idem fecit sepulcrum”, cioè Teo ha fatto la camera funeraria (?, bruia) per Belgo, lo stesso ha fatto il monumento funebre, cioè la stele iscritta (pala). Le documentazioni epigrafiche più importanti delle fasi successive (G. III A, V secolo a.C.) si trovano, invece, a Como e nel Canton Ticino a sud del Monte Ceneri. La più importante è senza dubbio la famosa trave in arenaria di Prestino, che si legge : uvamokozis : plialeϑ u : uvitiauiopos : ariuonepos : sites : tetu.

Secondo l’interpretazione più comunemente accettata - ma tutt’altro che sicura - il senso

dell’iscrizione potrebbe essere il seguente : Upamogostis Plialethu Uvitiauibus Ariuonibus sedes dedit, cioè un dedicante (U.P.) ha costruito o consacrato un monumento, forse un “temenos”, un recinto sacro, per delle divinità o per dei membri di una magistratura religiosa, gli “Uvitiaui Ariuones”. Di grande interesse anche la stele di Mezzovico, la cui iscrizione per i caratteri paleografici deve datarsi entro l’ambito del G. III A (V e primi decenni del IV secolo) : kua š oni : pala : terialui, da interpretare : “monumento funebre (pala) per Kuason figlio di Terios”. Il diffondersi della scrittura ci consente di conoscere qualche elemento della lingua che era parlata dalle popolazioni golasecchiane del VI e V secolo a.C. e quindi di affrontare anche con argomenti linguistici il

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problema etnografico della cultura di Golasecca. E’ noto, infatti, che la lingua costituisce uno dei punti di riferimento essenziali per la definizione di un ethnos. Fin da quando negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento iniziarono le ricerche scientifiche sulla cultura di Golasecca, gli studiosi non tralasciarono di formulare ipotesi di attribuzione etnica, compito tutt’altro che semplice, poiché per quanto riguarda lo spazio geografico interessato dalla diffusione di questa cultura le fonti antiche non sono né copiose né molto chiare. Innanzitutto, non esiste una connotazione etnica generale per le popolazioni che abitarono in età preromana l’area dei laghi lombardi, l’alto Ticino, la pianura tra Sesia e Adda; conosciamo soltanto il nome di singole genti o tribù, come gli Orobi per l’area Como-Bergamo, i Leponzi per l’alta valle del Ticino e forse anche la val d’Ossola, gli Insubri per la pianura tra Ticino e Adda, i Laevi per il basso corso del Ticino. Il raccordo tra le poche e non univoche notizie delle fonti antiche (Catone, Polibio, Strabone, Livio, Plinio) e il quadro culturale che l’archeologia è in grado di ricostruire è irto di ostacoli e avviene su un terreno particolarmente difficile, anche perchè le fonti storiche antiche sono troppo frammentarie e le stesse fonti archeologiche presentano ancora ampie lacune per determinati territori o per determinati periodi. Certo, se disponessimo di opere complete, come le Origines di Catone, invece di qualche breve citazione indiretta, il compito sarebbe più agevole e il risultato più sicuro. Fin dall’Ottocento l’orientamento degli studiosi si polarizzò subito su due ipotesi schematicamente contrapposte : gli uni riconoscevano nella cultura di Golasecca popolazioni celtiche, gli altri popolazioni liguri di antica stirpe mediterranea, precedenti la grande invasione gallica del 388 a.C. Tra i sostenitori della prima tesi troviamo il glottologo B. Biondelli, A. Garovaglio, gli studiosi francesi A. Bertrand e S. Reinach, tra i paladini della seconda tesi P. Castelfranco e L. Pigorini. L’attribuzione ai Liguri fu generalmente accettata e condivisa in seguito anche da D. Randall Mc Iver, G. Patroni e P. Laviosa Zambotti. Tuttavia, i sostenitori della tesi ligure oscillarono frequentemente verso posizioni più sfumate, con motivazioni del tutto diverse tra loro che non è il caso di riprendere dettagliatamente in questa sede. Già nel 1892 il Pigorini avanzava l’ipotesi che si trattasse di popolazioni celtiche e non liguri, mentre il Castelfranco espresse l’opinione che i Golasecchiani altro non fossero che gli Insubri, popolazione celtoitalica già da tempo stanziata nel territorio del Ticino quando si verificarono le prime invasioni galliche di età storica. Anche Patroni sosterrà che entro la vasta e largamente diffusa stirpe ligure i Golasecchiani costituivano “un ethnos speciale e localizzato, con propria individualità” da identificare con gli Insubri, e la Laviosa Zambotti, che in un primo tempo aveva sostenuto l’importanza dell’ethnos ligure nella formazione della cultura di Golasecca, più tardi ammetterà di dover esaminare la possibilità della sua lenta trasformazione in ethnos celtico. Nel frattempo diventava gradualmente disponibile per una parte del territorio interessato dal fenomeno culturale Golasecca una documentazione epigrafica che, per quanto limitata, poco fruttuosa e tarda (II e I secolo a.C.), costituiva un inevitabile punto di riferimento per affrontare questo problema. Le iscrizioni cosiddette leponzie, redatte nell’alfabeto di Lugano e raccolte organicamente in un corpus da Joshua 105

Whatmough (1933), mostravano, accanto a tracce di uno strato non indoeuropeo attribuito al ligure, numerosi elementi indoeuropei, per cui sembrava di poter riconoscere una lingua in cui il processo di indoeuropeizzazione non era ancora completamente affermato e veniva quindi creata per queste popolazioni l’etichetta di Celto-Liguri, non priva di riscontri in qualche fonte antica (Strabone, IV, 6, 3). E’ noto come si debba a Giacomo Devoto la definizione di un peculiare strato indoeuropeo denominato “leponzio” o “lepontico”, che avrebbe costituito il primo processo di indoeuropeizzazione del mondo ligure e come l’archeologo tedesco Ludwig Pauli abbia proposto di ricollegare questo fenomeno alla cultura di Canegrate e a quella di Golasecca, che ne è l’ulteriore sviluppo nell’età del Ferro. Il concetto di leponzio si è successivamente correlato strettamente alla lingua delle iscrizioni redatte in alfabeto di Lugano e diffuse nel Comasco, nella Val d’Ossola e nel Canton Ticino. Michel Lejeune ha potuto stabilire in maniera definitiva l’appartenenza di questa lingua alla famiglia delle lingue celtiche, mentre quei fenomeni fonetici che costituivano la peculiarità del leponzio di G. Devoto e che sono documentati soltanto a livello onomastico e toponomastico devono essere ascritti al ligure propriamente detto, che sarebbe quindi stato anch’esso una lingua indoeuropea. Gli sviluppi assunti dalla questione leponzia in campo linguistico hanno tardato a ripercuotersi sul problema etnografico della cultura di Golasecca a causa dell’errata convinzione diffusa dalla Tibiletti Bruno che nessuna iscrizione leponzia fosse anteriore al IV secolo a.C., anzi che la stessa iscrizione di Prestino presentasse, per quanto riguarda la grafia, innovazioni recenziori rispetto al più antico alfabeto di Lugano. Se così fosse stato, niente avrebbe impedito di vedere nella gallicità delle iscrizioni leponzie un riflesso dell’avvenuto stanziamento dei Galli nella pianura padana in seguito all’invasione del 388 a.C. Ma così non era. Negli ultimi anni, attraverso la revisione dei contesti delle vecchie scoperte e grazie ai nuovi ritrovamenti nell’abitato dei dintorni di Como e a Castelletto Ticino (tomba di via Aronco), si sono accumulate prove sempre più evidenti secondo le quali le più antiche iscrizioni leponzie risalgono al VI e al V secolo a.C. Stabilito definitivamente il fatto che i Golasecchiani del VI e del V secolo a.C., vale a dire dei periodi G. II e III A, utilizzavano un dialetto di tipo celtico, ci si può interrogare sulla data di introduzione di una lingua celtica nell’Italia nord-occidentale : verso il 600 a.C. o in epoca più antica? Nel primo caso verrebbe confermata la notizia di Tito Livio (V, 34) di una prima invasione gallica Prisco Tarquinio Romae regnante. La verifica di questa ipotesi può essere fatta soltanto attraverso l’esame della documentazione archeologica. Intorno al 600 a.C. non è riscontrabile alcuna cesura che interrompa la continuità dello sviluppo culturale dal G. I al G. II, né ci sono altri elementi che possano far pensare all’arrivo di nuove popolazioni o anche soltanto di piccoli gruppi di guerrieri. L’ipotesi di una immigrazione non sembra giustificabile in questo momento. Inoltre, Livio collega la prima discesa di genti celtiche guidate da Belloveso alla fondazione di Milano. Anche in questo caso la documentazione archeologica induce a ritenere la notizia di Livio scarsamente attendibile. Infatti, i numerosi scavi che hanno raggiunto nel centro storico di Milano il terreno vergine su cui si sono insediati i primi abitanti della città (via Moneta, Biblioteca Ambrosiana, 106

cortile del Palazzo Reale), non hanno mai restituito materiali riferibili al VI secolo e la fase insediativa più antica è sempre riferibile al G. III A, vale a dire al pieno V secolo a.C. Milano è stata fondata nel corso del G. III A e non intorno al 600 a.C. Sempre Livio afferma che col favore di Belloveso (favente Belloveso) un’altra popolazione gallica, i Cenomani, guidata da Etitovio, varcate le Alpi si stanziò nelle terre dove oggi sorgono le città di Brescia e di Verona. La documentazione archeologica mostra nella maniera più chiara che nel corso del VI e V secolo quest’area faceva parte o dell’Etruria Padana o del mondo paleoveneto e che una precisa cesura si verifica soltanto poco dopo gli inizi del IV secolo, con la dissoluzione dell’Etruria Padana, l’arretramento verso est del confine del mondo paleoveneto e l’improvviso apparire di una nuova cultura archeologica di tipo La Tène, quindi introdotta da genti provenienti d’Oltralpe. Anche in questo caso le affermazioni di Livio, che vorrebbe far risalire lo stanziamento dei Cenomani all’epoca di Belloveso, quindi verso gli inizi del VI secolo a.C., sono esplicitamente contraddette dalle fonti archeologiche. Bisogna domandarsi quale sia l’attendibilità di Livio, quando scrive che i Galli avevano varcato le Alpi per la prima volta al tempo di Tarquinio Prisco, 200 anni prima della presa di Roma, anticipando agli inizi del VI secolo l’occupazione gallica della pianura padana, almeno per quanto riguarda i territori transpadani. Innanzitutto Livio è l’unico autore a tramandare due versioni sull’invasione gallica in Italia. Una è quella che ricollega la venuta dei Galli in Italia alla storia di Arrunte di Chiusi : costui, per vendicarsi del Lucumone della sua città che gli aveva sedotto la moglie, si recò Oltralpe a far conoscere ai Galli il vino e li indusse a scendere in Italia allettati da questo nuovo piacere; i Galli si impadronirono delle terre degli Etruschi nell’Italia settentrionale e poi istigati e guidati da Arrunte attaccarono Chiusi, quindi, abbandonato l’assedio di Chiusi, puntarono su Roma conquistandola. Sincronismi con il mondo greco e romano permettono di datare questi avvenimenti al 388-386 a.C. Questa versione è attestata anche in Plutarco e in Dionigi d’Alicarnasso ed era nota a Catone. Che questa sia stata la prima invasione di Transalpini in Italia è attestato da Filisto e Timeo (in Diodoro Siculo) e da Eraclide Pontico (in Plutarco). Anche il sincronismo riportato da Cornelio Nepote tra la conquista gallica dell’Etruria Padana (la caduta di Melpum) e la conquista romana di Veio conferma questo fatto. La seconda versione è riportata dal solo Livio, secondo il quale le invasioni galliche si sarebbero svolte lungo un arco di tempo molto lungo : 1. all’epoca di Tarquinio Prisco e della fondazione di Marsiglia, quindi intorno al 600 a.C., una schiera di genti diverse (Biturigi, Arverni, Senoni, Edui, Ambarri, Carnuti, Aulerci), guidate da Belloveso, varca le Alpi, scende lungo la valle della Dora, sconfigge gli Etruschi non lontano dal Ticino, e avendo appreso che si trovavano nel territorio degli Insubri, lo stesso nome di un pagus degli Edui, ritenendolo di buon augurio vi fondarono Milano. Successivamente (ma evidentemente non di molto), con l’aiuto di Belloveso, i Cenomani sotto il comando di Etitovio varcano le Alpi e occupano il territorio da Brescia a Verona. 2. Dopo di loro (ma non viene precisato dopo quanto tempo) i Libui e i Salluvi si stanziano presso i Laevi, antica popolazione ligure nei pressi del Ticino. 3. Quindi i Boi e i Lingoni, varcate le Alpi, scendono in Italia, passano il Po e cacciati Etruschi e Umbri, si stanziano

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tra il Po e l’Appennino. 4. Infine i Senoni, “ultimi degli invasori” occupano il territorio dall’Utente all’Esino e da lì attaccano Chiusi e poi Roma. Come abbiamo già detto, la documentazione archeologica è in contraddizione con questa versione di un flusso continuo di genti celtiche che sciamano in Italia lungo l’arco di ben 200 anni. Per esempio, in Emilia e a Bologna in particolare, i dati archeologici ci dicono che i Galli, in questo caso i Boi, si sono impossessati del territorio, mettendo fine all’Etruria Padana, soltanto nei primi decenni del IV secolo a.C., introducendo anche qui una nuova cultura di carattere La Tène. Poiché lo stesso fatto è dimostrabile per l’area transpadana tra Brescia e Verona, ne consegue che anche la prima schiera di Celti, guidata da Belloveso, deve essere arrivata agli inizi del IV secolo. Quindi, la cronologia di Livio è sostanzialmente errata. Tuttavia, alcune notizie possono avere un giusto fondamento. Il fatto che i Galli arrivando nell’attuale Lombardia occidentale abbiano trovato già stanziata una popolazione dal nome celtico, gli Insubri, si accorda molto bene con quanto è dimostrato dai dati epigrafici del VI e V secolo che abbiamo sopra ricordato, e cioè l’esistenza di una celticità pre-gallica nell’Italia nordoccidentale. A questo punto, l’origine di tale celticità è da ricercare ben più indietro del 600 a.C. e può essere fatta risalire all’epoca della cultura di Canegrate (XIII secolo a.C.), che presenta nella ceramica e nei manufatti di bronzo molti punti di contatto con i gruppi più occidentali della cultura dei Campi di Urne (RenoSvizzera-Francia orientale). Oppure, ipotesi forse più probabile, può risalire agli inizi del Bronzo Medio (XVI-XV secolo a.C.), quando l’Italia nord-occidentale appare strettamente legata per quanto riguarda tutta la produzione dei manufatti di bronzo, compresi gli oggetti di ornamento, ai gruppi più occidentali della cultura dei Tumuli. In conclusione la civiltà di Golasecca è l’espressione dei più antichi Celti d’Italia e comprendeva diversi gruppi che avevano il nome di Insubres, Laevi, Lepontii, Oromobii (o Orumbovii).

Il Golasecca III A (V secolo a.C.) e la fondazione di Milano A partire dal 480 a.C. circa nell’organizzazione del territorio golasecchiano si verificarono importanti cambiamenti. Innanzitutto, il grande abitato protostorico dell’area Castelletto-Golasecca-Sesto Calende subisce un improvviso quanto definitivo abbandono. A un modello incentrato sui due grandi comprensori di Golasecca e di Como subentra un’articolazione più complessa. Como diventa il maggiore centro di tutta l’area della cultura di Golasecca, ma nello stesso tempo i punti nodali delle vie percorse dai traffici con l’Etruria Padana diventano sede di abitati destinati a essere prima importanti oppida gallici e poi le principali città romane della regione : Brescia, Bergamo, Milano. Tutto il territorio golasecchiano appare in questo periodo ricco di ritrovamenti in misura di gran lunga superiore rispetto alle epoche precedenti. La zona a sud di Bergamo tra il Serio e il Brembo, il Lodigiano subito a sud di Milano, la Lomellina, il Sottoceneri, l’area dei dintorni di Bellinzona appaiono tutte densamente abitate.

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Nell’area di SC-G-CT sono state scoperte nel corso del XIX e XX secolo molte centinaia di tombe, certamente più di un migliaio. I materiali sopravvissuti e giunti fino a noi si riferiscono al periodo dalla fase cronologica I A 2 fino a quella II B. Su un totale di diverse migliaia di pezzi solo una decina si datano al Golasecca III A249. E’ chiaro, quindi, che con il passaggio dal G. II B al G. III A 1, intorno al 490/480 a.C. il grande comprensorio protourbano di SC-G-CT andò incontro a un rapido quanto improvviso declino. Recenti scoperte a Sesto Calende di un piccolo gruppo di tombe del G. III A ai Mulini Bellaria e di strutture d’abitato dello stesso periodo in via Marconi, pur essendo di notevole rilievo, non mutano sostanzialmente il quadro della situazione250. Dimostrano che non si può parlare di un abbandono totale dell’area, di una sorta di vuoto demografico, ma rimane il fatto l’abitato di tipo protourbano cessa di essere attivo e non avrà ulteriori sviluppi. I materiali dell’abitato di via Marconi comprendono un frammento di skyphos attico del tipo a civetta e un frammento di coppa attica a vernice nera. Il dato è particolarmente significativo perché indica che la via del Ticino continuava a svolgere un ruolo attivo nei traffici del V secolo a.C. Materiali del G. III A sono stati scoperti a Revislate, 7 km a ovest di Castelletto, mentre più recentemente materiali del G. III A, riferibili probabilmente a deposizioni di carattere cultuale, sono venuti alla luce alla periferia di una necropoli del G. II B a Pombia, circa 7 km a sud di Castelletto251. Gruppi importanti di tombe del G. III A sono stati scoperti lungo il Ticino, ma molto più a sud, a Romentino e soprattutto al Ponte di Cuggiono252. Quali possono essere state le cause della fine dell’abitato proto-urbano di SC-G-CT ? La fondazione di una testa di ponte dell’Etruria Padana a nord del Po al Forcello di Bagnolo S. Vito ha sicuramente aperto una nuova rotta dei traffici, che dai porti adriatici, in particolare da Adria, utilizzavano la via d’acqua del Po e del Mincio per poi proseguire con percorsi terrestri lungo la pedemontana Brescia – Bergamo – Como. Da Como il percorso continuava verso il lago di Lugano e quindi verso il Monte Ceneri, da cui si scendeva a Bellinzona e all’imbocco della Val Leventina da una parte, della Val Mesolcina dall’altra. Questo nuovo itinerario ha certamente ridimensionato l’importanza di Golasecca come punto nodale dei traffici. A questo fattore può essersi aggiunta una causa naturale, un evento alluvionale catastrofico con forte innalzamento del livello del Verbano e fenomeni di estesi alluvionamenti. Secondo alcuni autori il livello delle acque avrebbe raggiunto quota 214 m, vale a dire poco più di 20 m sopra il livello attuale253. Questo dato è in contrasto con altre evidenze. L’abitato di via Marconi a Sesto Calende è a quota 204-205 m s.l.m., ciò significa che l’evento alluvionale, da collocare intorno al 490-480 a.C., è stato un episodio di breve durata senza grandi conseguenze. La vicina necropoli dei Mulini Bellaria è a quota 212-210 m s.l.m., ma non c’è traccia di esondazioni posteriori al VI secolo a.C. Poco dopo gli inizi del V secolo importanti fenomeni di esondazione sono registrati in diversi siti, per es. al Forcello di Bagnolo S. Vito e a Pisa, ma non hanno avuto conseguenze tali da interrompere la continuità di vita. 249

Cfr. R.C. DE MARINIS 1981, pp. 140-142 e tav. 67. Cfr. infra a pp. 251 F.M. GAMBARI in La birra e il fiume, p. 81 e ss. 252 R.C. DE MARINIS 1981, pp. 143-155 e tavv. 2-9. 250

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E’ probabile che in coincidenza con la crisi dell’abitato protostorico di SC-G-CT si debba porre la fondazione di Milano, un nuovo importante abitato di grande estensione destinato a diventare il capoluogo degli Insubri e poi città romana. Ritrovamenti di tipo Golasecca III A a Milano erano già avvenuti nell’Ottocento. Nel 1888 nel cortile di S. Antonino (attuale sede del Policlinico in via Francesco Sforza), a 2,50 m di profondità, furono scoperti una ciotola fittile contenente ossa combuste e a qualche metro di distanza un gruppo di oggetti di bronzo (fibule, anelli a globetti, anelli) del G. III A 3, databile agli inizi del IV secolo. Il corpo di una grande fibula a sanguisuga del tipo detto “simulacro di fibula” perché di carattere votivo, fu rinvenuto nel 1880 in via Meravigli durante lo scavo per le fondamenta del palazzo Turati. Nell’aprile 1888, nello scavo delle fondamenta del palazzo Savonelli (attuale Cordusio, angolo tra via Broletto, Mangano e S. Prospero), a 5 m di profondità furono scoperti alcuni frammenti di bronzo, pertinenti a un’armilla e a una fibula di tipo Certosa databile alla seconda metà del V secolo. Negli ultimi anni le numerose indagini stratigrafiche nel centro storico della città hanno permesso di scoprire livelli di abitato riferibili al G. III A in via Moneta, al di sotto delle cantine della Biblioteca Ambrosiana e nel cortile di Palazzo Reale. Gli scavi effettuati nel centro storico di Milano hanno intercettato più volte livelli riferibili al G. III A e formatisi direttamente sullo sterile. I livelli di età golasecchiana sono in genere fortemente intaccati dalle costruzioni di età romana, ma comunque documentano l’esistenza di un abitato di grande estensione. La ceramica rinvenuta al Palazzo Reale, databile al G. III A 1-2, trova una corrispondenza perfetta nelle ceramiche del G. III A dell’abitato dei dintorni di Como. Anche il peso troncopiramidale forato con motivo cruciforme inciso sulla sommità è identico a quelli rinvenuti a Prestino e a Rondineto negli stessi contesti del G. III A. Da via Moneta proviene un minuscolo frammento di ceramica attica, attribuibile probabilmente a un kantharos o a uno skyphos tipo St. Valentin, con decorazione a bande verticali a tratteggio obliquo, databile verso la fine del V o gli inizi del IV secolo, mentre dalla Biblioteca Ambrosiana proviene un secondo frammento di ceramica attica, pertinente a una kylix, attribuibile al pittore di Vienna 155 per le caratteristiche del panneggio della figura superstite e quindi databile verso il 400-380 a.C. Tre coppe attribuite a questo pittore sono state scoperte a Spina ed è certamente dal porto etrusco sull’Adriatico che proviene l’esemplare venuto alla luce a Milano. Dallo scavo di via Moneta proviene anche una fibula di tipo Certosa, la seconda scoperta a Milano. Quindi, al declino di Golasecca ha corrisposto non solo l’accentuarsi dell’importanza di Como, ma anche la nascita di un nuovo grande abitato protourbano, Milano, in un sito apparentemente insignificante da un punto di vista morfologico, ma a metà strada tra Adda e Ticino e tra la regione dei laghi e il corso del Po, destinato a diventare il capoluogo degli Insubri e il crocevia delle più importanti vie di comunicazione della Transpadana. Le cause dei mutamenti intervenuti nella geografia del popolamento sono da ricercare nella formazione dell’Etruria Padana e nell’espansione degli Etruschi anche a nord del Po lungo l’asse del Mincio. Poco dopo la metà del VI secolo nuovi centri etruschi vengono fondati a Marzabotto, al Forcello di Bagnolo S. 253

A questo proposito cfr. F.M. GAMBARI, VALLE G., VERCESI P.L. 1992-1993. 110

Vito, sulla destra del Mincio pochi chilometri a sud di Mantova, e a Spina sull’Adriatico. L’emporio di Adria è da questo periodo sicuramente in mano agli Etruschi. Felsina, l’attuale Bologna, princeps Etruriae, raggiunge il suo massimo splendore. Le rotte dei traffici verso l’Europa centrale si spostano da Marsiglia e dall’Etruria tirrenica verso l’Etruria padana. Attraverso i porti adriatici e le città di Marzabotto, forse l’antica Melpum, e Bologna arrivavano al centro etrusco del Forcello i prodotti greci e dell’Etruria tirrenica e interna, che poi potevano in parte proseguire lungo il Mincio e lungo la pedemontana subalpina, toccando Brescia e Bergamo, fino a Como, una via segnalata da numerosi ritrovamenti. Gli intensi rapporti con l’Etruria Padana e i Celti d’Oltralpe determinarono un notevole incremento della ricchezza e importanti cambiamenti culturali, che sono ben documentati nell’abitato e nelle necropoli dei dintorni di Como.

L’uso della scrittura appare diffuso ampiamente sulle ceramiche, come dimostrano

oltre un centinaio di casi provenienti dall’abitato e un numero molto più ridotto di provenienza funeraria. Le ceramiche iscritte rinvenute nell’abitato sono per la maggior parte frammentarie e quindi le epigrafi gravemente mutile. Le ceramiche di regola recano un nome al nominativo, ad es. alios su un bicchiere da una tomba di Civiglio, oppure al genitivo, ad es. plioiso, che compare sul fondo di una ciotola da Rondineto e all’interno di una ciotola da S. Fermo, via Rigamonti. Si tratta di iscrizioni di possesso. A volte i nomi sono abbreviati con le semplici lettere iniziali, ad es. pe, al, oppure con la notazione delle sole consonanti, ad es. prn su una ciotola da una tomba di Brunate. Di grande interesse è il nome Plios per la sua possibile relazione con Plinios → Plinius, il ben noto gentilizio di origine comasca. Dallo scavo di via Isonzo a Prestino proviene il frammento di una ciotola con le prime tre lettere dell’alfabeto (a, e, v) tra due binari. Si ritiene che l’uso di segnare manufatti con le prime tre lettere dell’alfabeto si debba al valore magico e simbolico attribuito all’alfabeto da popolazioni in cui la scrittura era appannaggio di un gruppo molto ristretto della società e il valore magico-apotropaico veniva sottolineato dall’associazione con il numero tre. Si tratta di un uso che è ampiamente documentato presso gli Etruschi, ma che si trova in età geometrica anche ad Atene. La scrittura era utilizzata anche su stele di pietra a destinazione funeraria (Mezzovico, Davesco e Tesserete - in entrambi i casi la prima iscrizione eseguitavi -, Vira Gambarogno, Banco) o nell’ambito di strutture a carattere sacro, come è probabilmente il caso della trave iscritta di Prestino. La ceramica viene ora modellata al tornio veloce ed imita fogge tipiche del mondo etrusco, come le ciotole a profilo continuo arrotondato dipinte a campitura piena, i mortai con alto labbro ingrossato verso l’esterno a fascia oppure a mandorla, le brocche a becco rialzato. Nei corredi funerari scompare l’uso dell’ossuario situliforme e nei servizi da tavola per bere alla situla o alla cista e tazza-attingitoio si sostituisce la brocca. Compaiono servizi di lusso per il consumo del vino, costituiti da vasellame bronzeo importato dall’Etruria come situle stamnoidi, Schnabelkannen, kyathoi, colini, bacili, teglie. Tra le importazioni compare la ceramica attica. Dalle tombe provengono kylikes a figure rosse o a vernice nera e skyphoi, nell’abitato sono attestati oltre alle coppe e gli skyphoi, anche i kantharoi del tipo St. Valentin, gli skyphoi a civetta, lekanides a figure rosse. Un solo frammento, da Rondineto, è riferibile a un cratere. 111

In alcune tombe della necropoli settentrionale, a Cardano, vi erano vasetti di vetro policromo di fabbrica greca, probabilmente rodia, che dovevano contenere profumi ed unguenti. In una tomba del G. III A scoperta alla Salvadonica, nella necropoli sud-orientale del grande abitato protostorico di Como, è stato trovato sul fondo di una cista a cordoni a manici fissi, di probabile fabbrica felsinea, un grosso blocco di incenso arabico. L’aumento della ricchezza è dimostrato anche dagli oggetti in materiale prezioso come oro, argento e corallo : fibule ed anelli d’argento, anelli d’oro, fibule con arco rivestito da segmenti di corallo legati con nastri o fili d’oro, il celebre servizio da toilette in argento con fascette d’oro rinvenuto alla Ca’ Morta nel 1842. Da Como molti manufatti di importazione etrusca o greca, specialmente il vasellame bronzeo (Schnabelkannen, stamnoi e situle stamnoidi, kyathoi, bacili) erano avviati verso i passi alpini e il vasto paese dei Celti, dalla Borgogna all’Hunsruck-Eifel e alla Champagne. I Celti golasecchiani aggiungevano ai prodotti greci ed etruschi i loro manufatti, anche se indubbiamente di minor pregio, come le ciste a cordoni dette appunto di tipo ticinese o le situle cosiddette renano-ticinesi. Tracce delle vie percorse da questi traffici sono state lasciate da oggetti di fabbrica golasecchiana ma di uso personale, come fibule, pendagli ad anelli, pendagli a secchiello, anelli ad anatrelle ed anche ceramiche, rinvenuti principalmente lungo il corso del Rodano, della Saône e l’alto corso del Reno. L’ampia circolazione di manufatti golasecchiani a nord delle Alpi è in stretto rapporto con l’espandersi e l’aumento del volume dei commerci dell’Etruria Padana. Di questo commercio conosciamo soprattutto i prodotti di lusso e i beni di prestigio che pervenivano sia nell’area della cultura di Golasecca che in quella celtica transalpina, ma certamente l’estesa e complessa rete di traffici comprendeva materie prime e beni commestibili. Lo stagno della Cornovaglia e l’ambra del Baltico sono tra i principali moventi di questi commerci, ma l’Italia e in particolare l’Etruria Padana potevano fornire alla Grecia cereali e carne salata. Dal mondo mediterraneo i Celti golasecchiani e transalpini ricevevano in cambio corallo, incenso, vino e olio. Su questi aspetti le scoperte del centro etrusco del Forcello di Bagnolo S. Vito hanno cominciato a fornire dati significativi e a mostrare il ruolo molto importante svolto dal vino nei commerci tra Greci ed Etruschi della pianura padana, poiché vi sono stati rinvenuti migliaia di frammenti di anfore greche da trasporto provenienti da Corinto, Atene, Chio, Samo, Mileto, Mende nella penisola calcidica e da altri centri ancora. E’ probabile che il vino trasportato con le anfore dalla Grecia ad Adria o a Spina e da qui lungo le rotte fluviali fino al Forcello, non si arrestasse in questa località, ma che dopo essere stato travasato in contenitori più adatti al trasporto via terra, ad es. in botti di legno, proseguisse oltre, fino ai Celti golasecchiani e a quelli dell’Europa centrale. Si spiegherebbe in questo modo la diffusione anche presso queste popolazioni della ceramica attica e del vasellame bronzeo etrusco, che costituivano il servizio per la preparazione e il consumo del vino durante il banchetto. La moneta etrusca di Prestino Nel 1981 nel corso degli scavi nell’abitato protostorico della zona di Prestino (via Isonzo, area I.A.C.P.) è stata rinvenuta una moneta etrusca della zecca di Populonia. Si tratta di una dracma d’argento con il 112

Gorgoneion e il segno di valore X (= 10) sul diritto, e il rovescio completamente liscio. La moneta presenta una superficie usurata e non è ben conservata, il peso attuale è di gr. 7,3, leggermente inferiore a quello originario. Il rinvenimento è avvenuto alla base dello strato 3, nel q. B, in associazione con materiali del G. III A 2 (seconda metà del V secolo a.C.). La moneta di Prestino appartiene alla più antica serie argentea anepigrafa con Gorgoneion di Populonia, della quale si conoscono soltanto una trentina di esemplari sparsi in musei di una decina di città europee (fra cui Firenze, Roma, Milano, Londra, Oxford, Cambridge, Parigi, Berlino), ma sempre privi di un preciso contesto archeologico, trattandosi di vecchi ritrovamenti ottocenteschi o di acquisizioni dal mercato antiquario. La scoperta di Prestino riveste così un carattere eccezionale, innanzitutto perché permette di datare alla seconda metà del V secolo a.C. l’inizio della monetazione regolare di una zecca pubblica in Etruria, inizio che alcuni studiosi di numismatica, anche autorevoli, ponevano in età molto più recente. In secondo luogo per il fatto che la circolazione della moneta etrusca è limitata all’interno dell’Etruria. Quella di Prestino è l’unica moneta etrusca scoperta a nord dell’inizio delle valli appenniniche della Toscana e rappresenta il documento più concreto dell’arrivo a Como di mercanti etruschi. Le dracme con Gorgoneion e segno X hanno un peso medio oscillante tra 7,8 e 8,2 gr., con variazioni da 6,9 a 8,7. Si conoscono alcuni valori frazionari corrispondenti a ½, ¼ e 1/10 di dracma. Il sistema ponderale utilizzato sembra essere quello originario della Mesopotamia (un siclo = 8,3/8,4 gr., 60 sicli = 1 mina, ca. 498/504 gr.), diffusosi ampiamente in Grecia e nel mondo Mediterraneo. Successivamente, nel corso del IV secolo, vi fu una riforma con dimezzamento del valore, per cui sotto il mento del Gorgoneion compare il segno XX (= 20), mentre i pesi oscillano tra 7 e 9 gr., con valori medi intorno a 7,9-8,5 gr. e la dracma con segno X viene coniata con un peso di ca. 4,3 gr., corrispondente al peso della dracma attica. Di questa seconda serie della zecca di Populonia si conoscono quasi 700 esemplari, ritrovati oltre che a Populonia, Roselle, Vetulonia, lungo la costa maremmana, nell’area delle Colline Metallifere e a sud fino a Tarquinia. Le prime monete sono apparse verso il 600 a.C. nel regno di Lidia e dalla metà del VI secolo l’uso della moneta coniata d’oro e d’argento si diffuse rapidamente in gran parte del mondo greco. E’ la conclusione naturale di un processo di lunga durata, che aveva già visto l’uso monetale del metallo nelle civiltà del III e del II millennio a.C. della Mesopotamia, dell’Egitto, della Siria e Palestina. Come documentano i codici delle leggi ed altre fonti scritte, in Mesopotamia l’argento pesato era utilizzato come mezzo di pagamento di ammende, tassi di prestito, tasse, tributi e salari e come mezzo di computo del valore di differenti beni. Lo stesso fenomeno è ben documentato anche in Egitto, in cui all’argento si affiancano l’oro e soprattutto il rame. Determinate quantità di metallo erano usate come moneta per effettuare direttamente i pagamenti, ma ancora più spesso il metallo rappresentava soltanto il mezzo di computo del valore di tutta un’ampia gamma di beni nelle transazioni tra privati. Ad es. da un testo del villaggio degli operai della necropoli reale, a Deir el Medina, apprendiamo che un tale ha 113

comprato un bue valutato 50 deben di rame, ma il pagamento è stato fatto con 5 deben di olio, 10 di abiti, 30 di grasso e solo 5 deben sono stati versati effettivamente in rame (un deben corrispondeva a 91 gr, quindi il bue valeva 4,55 kg di rame). Da questo esempio appare chiaramente che il metallo esprimeva l’unità di valore senza intervenire necessariamente nelle transazioni. La comparsa della moneta coniata, con forma e peso definiti, una iconografia e una legenda che permettono di identificare l’autorità che l’ha emessa e ne garantiscono il valore, semplifica enormemente il sistema delle transazioni, come aveva già scritto Aristotele (Politica, fr. 1257-a : si passa dai pezzi di argento pesato alla moneta per evitare di compiere ogni volta l’operazione della pesatura), e risponde alle esigenze di un intensificarsi degli scambi internazionali e ancor più di quelli interni alle singole comunità (le transazioni di piccola scala per la vita quotidiana). Altri fatti, tuttavia, hanno concorso alla nascita e alla diffusione della moneta, le esigenze delle autorità cittadine o statali di pagare il soldo di truppe o di ciurme delle navi diventate sempre più numerose con conseguente necessità di un sistema più semplificato che non la pesatura dei metalli. Inoltre, l’autorità poteva imporre una sopravvalutazione del valore della moneta coniata rispetto al metallo grezzo, ad es. l’argento, di cui controllava la produzione. Nel V secolo a.C. l’economia della maggior parte delle città greche, in particolare Atene, Corinto, le città della Sicilia e della Magna Grecia, utilizza comunemente lo strumento della moneta. Solo Sparta, la città conservatrice per eccellenza, continua a usare il metallo a peso (gli spiedi di ferro in questo caso) e inizierà a battere moneta soltanto nel III sec.a.C. Nella protostoria italiana è corrente l’uso del rame o del bronzo come moneta (aes rude). Secondo Timeo (apud Plinio, N.H., 33,43) Servio Tullio per primo marchiò il bronzo. Il passo si riferisce all’ aes signatum con il ramo secco, che era la nota pecudum (cioè il marchio per il bestiame), da cui la parola pecunia (da pecus, capo di bestiame). L’introduzione della moneta coniata avvenne gradualmente sotto l’influenza delle colonie greche, prima in Etruria e quindi a Roma. Nel V secolo a.C. l’Etruria Padana e i territori delle civiltà di Golasecca e di Este non conoscevano ancora la moneta coniata. Gli scambi avvenivano per mezzo dell’ aes signatum con il simbolo del ramo secco, e dell’ aes rude, frammenti di bronzo staccati da verghe o pani di forma definita ma privi di contrassegno, il cui valore era determinato unicamente dal peso. Nell’abitato protostorico dei dintorni di Como sono stati rinvenuti numerosi frammenti di aes rude. La funzione monetaria del bronzo pesato è ricordata dalle fonti antiche ed è riconoscibile nell’etimologia della parola stipendium (stips + pendo = pesare la moneta, in origine una verga di bronzo).

L’abitato dei dintorni di Como nel G. III A Il grande abitato protostorico nei dintorni di Como, formatosi lungo le pendici del versante sudoccidentale del Monte della Croce fin dalle fasi avanzate del Bronzo Finale, raggiunse il suo massimo sviluppo nel corso del VI e del V secolo a.C., con un’estensione in direzione NW-SE di circa 1,5 km e una superficie di circa 150 ettari.

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Nel corso del VI secolo (Golasecca II) l’abitato si è ampliato notevolmente e materiali di quest’epoca sono venuti alla luce in numerosi punti e a notevole distanza tra loro, da Rondineto a Pianvalle, da via Ronchetto a Prestino. Con l’inizio del periodo Golasecca III A, verso il 480 a.C., l’abitato della Como protostorica assunse dimensioni e caratteristiche di un centro urbano, anche se privo di tipologie edilizie monumentali. L’area occupata appare notevolmente ingrandita. Resti di abitazioni del V secolo a.C. sono state scoperte in oltre 60 punti e quando abbiamo il rilievo planimetrico delle singole strutture, esse appaiono orientate sempre nello stesso modo, NE-SW. E’ il caso della Camera Grande di Rondineto, di Leno cantiere Noce, del cosiddetto recinto di Leno, di via Rigamonti (cantiere Macheda), di Brecciago, di La Pesa in via Isonzo (area IACP), dell’area con l’iscrizione di Prestino, di via Picchi, di Pianvalle settore B. Questo fatto, unitamente alla creazione di una complessa e regolare rete di canali di drenaggio e di collettori fognari, sembra presupporre un preciso disegno urbanistico. Le abitazioni erano a pianta rettangolare o quadrata, di modulo non uniforme, da 8 x 7 a 11 x 8 m, con muretti perimetrali di fondazione in pietre a secco, pavimenti in battuto di argilla con sottostante vespaio di ciottoli. L’elevato, che non si è mai conservato, doveva essere in materiale deperibile come legno e graticcio rivestito di intonaco d’argilla, mentre per il tetto bisogna pensare a una travatura lignea sostenuta da pali e con copertura straminea (fasci di paglia legati alle traverse). A volte l’uso della pietra non si limitava alle fondazioni. Nei cosiddetti recinti, la parte inferiore del muro per l’altezza di almeno un metro era costruita con grossi blocchi regolarmente squadrati, sovrapposti a secco e con accurate inzeppature. Questi ambienti avevano un corridoio di accesso largo 2 m e lungo fino a 4-5 m. E’ probabile che questi recinti fossero abitazioni seminterrate. A volte lo spazio esterno all’abitazione era sistemato ad acciottolato e tra una casa e l’altra vi era un ampio spazio aperto. In altri casi, per es. a Pianvalle, le strutture sono addossate una all’altra e divise soltanto da canali di scolo. Nei terrazzi posti a quote più elevate, tra 400 e 450 m, erano frequenti strutture a pianta rettangolare parzialmente scavate nella roccia. Con un taglio regolare si ricavavano l’intera superficie pavimentale, buona parte della parete di fondo e parte di quelle laterali. Il resto della struttura doveva essere realizzato in materiale deperibile (legno e graticcio intonacato). Strutture di questo tipo non sono un esempio isolato : ne sono state scoperte in Anatolia, ad Atene, nel sud della Francia e al S. Martino di Lecco, la loro età varia dalla protostoria fino all’epoca alto medievale. I materiali rinvenuti occasionalmente o negli scavi regolari condotti nell’area dell’insediamento preromano di Como non sono ancora stati studiati in maniera esaustiva e sono in buona parte inediti. Dagli studi attualmente in corso sembra emergere che esistevano delle differenziazioni nella destinazione d’uso delle diverse zone dell’abitato. Infatti, le testimonianze della lavorazione dei metalli (ferro e bronzo) si concentrano nella parte meridionale, in particolare a Pianvalle, La Pesa (via Isonzo, area IACP), via Ronchetto, via Isonzo 22-24. Qui sono venuti alla luce molte forme di fusione per oggetti di bronzo, ugelli del tipo a pipa per i mantici delle fornaci, crogioli, scorie di bronzo e soprattutto di ferro, 115

carichi di crogioli formati da rottami di bronzo destinati alla rifusione. In via Isonzo nel sito detto La Pesa le pareti di alcuni canali erano ricoperte da una crosta ossidata di ganga ferrosa, la cui analisi ha dimostrato la presenza di percentuali di ferro variabili dal 7 % nelle parti più chiare al 21,9 % in quelle più arrossate. La divisione funzionale delle diverse parti dell’insediamento costituisce un’ulteriore prova del suo carattere urbano. E’ possibile che i settori più settentrionali, da Rondineto a S. Fermo, fossero invece sede delle famiglie appartenenti alle classi superiori. Depone a favore di questa ipotesi il ritrovamento di pavimenti meglio costruiti e con decorazioni (via Rigamonti), di ceramica attica in maggiore quantità e più diversificata (Leno cantiere Noce, Rondineto), di un frammento di un tripode (Rondineto), di iscrizioni vascolari di possesso con il nome “Plios”, forse in connessione con il più tardo gentilizio comasco “Plinius” (via Rigamonti, Rondineto). La quasi totalità dei siti identificati nell’area dell’insediamento protostorico ha restituito materiali del periodo Golasecca III A, anzi, in moltissimi casi è questo l’unico orizzonte cronologico rappresentato, come si può stabilire in base all’analisi della ceramica e delle fibule. Non c’è dubbio che la grande fioritura dell’abitato nel V secolo a.C., testimoniata anche dalla ricchezza delle tombe di questo periodo, sia in stretta connessione con i commerci dell’Etruria Padana con il mondo celtico transalpino. Il ritrovamento che illustra nella maniera più significativa l’intensità dei rapporti commerciali di Como con il mondo etrusco proviene proprio dall’abitato e precisamente da via Isonzo località La Pesa (area IACP), la dracma d’argento della zecca di Populonia, con il Gorgoneion sul diritto e il retro completamente liscio. La moneta di Prestino rappresenta il documento più concreto dell’arrivo a Como di mercanti etruschi. Giovanni Colonna ha scritto, ancora prima della scoperta della moneta di Prestino, che Genova era l’emporio di Populonia sulla via ligure verso la Padania occidentale. La moneta di prestino conferma pienamente questa affermazione. L’analisi dei materiali di V secolo provenienti da genova - necropoli di via Giulia e oppido sul colle del Castello - e inoltre dalla Liguria marittima e dall’entroterra appenninico mostra con grande evidenza rapporti di scambio e contatti culturali tra l’area di Golasecca da un lato, il mondo ligure e l’emporio etrusco di Genova dall’altro. Basterà osservare la carta di distribuzione di alcuni tipi di fibule golasecchiane : le fibule a drago tipo cerinasca d’Arbedo, le fibule a sanguisuga di tipo tardo alpino, le fibule Certosa di tipo ticinese nelle varianti X-m e X-n secondo B. Terzan, per comprendere che nel V secolo si erano stabiliti dei saldi legami tra queste due aree. La stessa fondazione di Genova è da ricollegare all’intensificarsi dei percorsi che univano la regione dei laghi insubrici alla Liguria. “Tutti i porti sono, per natura, all’incrocio delle vie terrestri e delle vie d’acqua. Non c’è porto che non sia lo sbocco di una via di terra” (F. Braudel). I percorsi di terra che si diramavano da Genova erano due, uno occidentale dalla val Polcevera alla valle dello Scrivia, per poi deviare verso est e attraversato il Po puntare direttamente su Milano, l’altro più orientale dalla valle del Bisagno al passo della Scoffera che 116

immetteva nella valle della Trebbia e quindi al Po all’altezza della futura Piacenza. Dalla valle del Bisagno si poteva raggiungere facilmente anche quella dello Scrivia, evitando di passare attraverso la Val Polcevera. L’importanza di questi percorsi è dimostrata oltre che dalla stessa fondazione di Genova, anche dall’esistenza di un centro etrusco a Monte Dinavolo di Rivergaro254 posto a controllo della Val Trebbia. Pochi chilometri a ovest di Genova, il Bric Castellar, un dosso naturalmente protetto dai ripidi pendii e a breve distanza da Pegli e Sestri Ponente, nel V secolo a.C. era sede di un abitato ligure255 coinvolto nei traffici con gli Etruschi. Tra i materiali recuperati figurano ceramiche attiche256, frammenti di anfore etrusche, una fibula a drago tipo Cerinasca e una fibula tipo Certosa. Quindi l’imbocco della val Polcevera poteva essere controllato a distanza più o meno eguale dall’emporio di Genova a est e dal castellaro ligure di Sestri Ponente a ovest. La stessa fondazione di Milano poco dopo gli inizi del V secolo è da considerare nell’ottica dei rapporti tra Genova e i territori a nord del Po. Fin dall’inizio Milano e Genova, come sarà poi tante volte nel corso della storia , appaiono strettamente collegate. La fondazione di Genova è da ricollegare alla molteplicità delle vie che gli Etruschi attivarono per raggiungere la pianura padana e i valichi alpini e monopolizzare, sottraendolo a Marsiglia, il commercio con i Celti transalpini. L’operazione ebbe successo, come dimostra il cambiamento nella composizione del flusso delle importazioni nel mondo celtico poco dopo gli inizi del V secolo. Contemporaneamente il grande centro protourbano di Golasecca, che aveva avuto un notevole rilievo nel VII e VI secolo, declina quasi all’improvviso e si spopola. Al suo posto sorge un altro importante e vasto abitato a Milano257, le cui più antiche fasi documentate archeologicamente risalgono al G. III A258. Milano doveva essere il punto di arrivo dell’itinerario che partendo da Genova percorreva la valle del torrente Scrivia. Da Lodi Vecchio o dintorni proviene una situla stamnoide con duplice manico e anse configurate con pegasi alati, di probabile fabbrica vulcente259 ed è più che probabile che la stessa dracma di Populonia scoperta a Prestino260 abbia seguito il percorso Genova - Milano - Como piuttosto che quello ben più lungo attraverso l’Etruria Padana (Marzabotto - Bologna - Forcello - Brescia - Como) ed alla luce di questo ritrovamento trova piena conferma l’affermazione di G. Colonna che Genova fosse un emporio di Populonia sulla via ligure verso la Padana occidentale261. Le invasioni galliche del 388 a.C. provocarono la fine dell’Etruria Padana e di conseguenza anche dei traffici tra mondo mediterraneo, Etruria Padana, Como e Celti transalpini. Vennero così meno i fattori che 254

Poche notizie preliminari in Catarsi, Dall’Aglio 1987, p. 407, fig. 3; M. Catarsi in Studi Etruschi, ; Bernabò Brea 1991, p. 80. Per il castellaro cfr. Isetti 1959, p. 54 e ss., in particolare fig. 11 (fibula Certosa), fig. 5 (kylix attica); Mannoni,1972, p. 3 e ss., p. 5 (menzione di frammenti di anfore con minerali peculiari dei tufi vulcanici tosco-laziali), figg. 1 e 2 a p. 23 (kylix attica e fibula a drago); Tizzoni 1976, fig. 10 A, B (kylix attica e fibula tipo Cerinasca). 256 Una coppa a orlo concavo e spigolo interno (“concave lip inset inside and out”) : cfr. Sparkes, Talcott 1970, p. 101 e fig. 5 n. 471; un’altra coppa rientra nel gruppo delle “large cups of the delicate class”, con orlo distinto all’interno da uno spigolo e decorazione interna sovradipinta lungo l’orlo con tralcio d’edera. Forma e decorazione indirizzano verso la metà del V secolo a.C. : cfr. Sparkes, Talcott 1970, p. 102 e ss., fig. 5 nn. 483 e 484; le due coppe di Kleinaspergle ed altri esemplari da Atene e Komotini in Böhr 1988, pp. 176-183. Per la decorazione interna dell’orlo v. tav. 27. 257 Per il collegamento tra la fine di Golasecca e il sorgere di Milano cfr. De Marinis 1988-a, p. 214 e ss.; Id., 1997, p. 36 e ss. 258 Cfr. De Marinis 1984, p. 28 e ss.; Jorio 1987; Ceresa Mori 1992-a e 1992-b; Tizzoni 1992. 259 De Marinis 1981, p. 180 e ss., tavv. 60-61. 260 De Marinis 1984, p. 506 e ss., tav. LXXI b. 261 Colonna 1981, p. 449. 255

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avevano determinato la grande crescita e lo sviluppo dell’abitato di Como, che entrò in una fase di decadenza. La documentazione archeologica mostra con forte evidenza che gli inizi del IV secolo significarono per Como un drastico cambiamento. Tutte le necropoli cessano di essere utilizzate e l’insediamento subisce una notevole contrazione. Tuttavia, non viene abbandonato. A La Pesa in via Isonzo (area IACP), nel V secolo erano attive quattro case, nel IV- inizi III secolo una soltanto. Materiali del IV-III secolo a.C. provengono dagli scavi Galli e Barelli a Rondineto. E’ probabile che siano di provenienza funeraria altri materiali del IV e III secolo scoperti prima del 1872 “nei dintorni di Como”, fra cui una situla tipo Cerinasca d’Arbedo, fibule di schema antico La Tène con arco a nodi e del tipo detto a scorpione. Da Valeria di Borgo Vico proviene una Schnabelkanne bronzea di tipo ticinese, databile al IV secolo. Dalla fine del III alla metà del I secolo a.C. l’abitato protostorico, il Comum oppidum ricordato da Tito Livio (XXXIII, 36, 9) sembra aver conosciuto una nuova fase espansiva. Infatti, in molti punti che hanno restituito strutture del periodo Golasecca III A sono documentati anche strutture, per lo più gravemente decapitate, e materiali databili al II e I secolo a.C. Tuttavia, in altri punti (Pianvalle, Casate) sono state scoperte tombe della stessa epoca, fatto che dimostra che non si erano più raggiunte le dimensioni del grande abitato del V secolo a.C.

L’invasione gallica del 388 a.C. e la trasformazione della cultura di Golasecca Nel secondo quarto del V secolo a.C. importanti cambiamenti politici e culturali avvengono tra i Celti d’Oltralpe. Le residenze principesche tardohallstattiane della Germania sud-occidentale e della Francia orientale, dalla Heuneburg a Vix, vengono abbandonate una dopo l’altra, in qualche caso a seguito di eventi cruenti, come sembrano indicare gli estesi livelli di incendio (ad es. alla Heuneburg). I centri del potere e del controllo delle relazioni commerciali con il mondo mediterraneo si spostano più a nord, verso l’area medio-renana e la Champagne. Ha inizio la civiltà di La Tène, che dimostra subito una grande forza espansiva, estendendosi rapidamente a tutto il mondo celtico, e ha inizio un’arte celtica che rielabora in maniera originale e inconfondibile i motivi ornamentali dell’arte classica. La civiltà di Golasecca continua a svolgere il tradizionale ruolo di intermediazione tra Celti transalpini ed Etruschi e Greci, anzi i rapporti con il mondo celtico diventano ancora più stretti, forse perché gli stessi Celti transalpini, già avvezzi a frequentare l’Italia a causa dei commerci - come è provato inequivocabilmente dalle fibule tardohallstattiane occidentali rivenute numerose soprattutto nel centro etrusco del Forcello - dimostrano un maggiore interesse per la pianura padana, iniziando a compiere infiltrazioni con gruppi di guerrieri o anche di artigiani, che soggiornano per periodi più o meno lunghi presso gli Etruschi, i Veneti e i Golasecchiani. Queste infiltrazioni precedono di due o forse anche tre generazioni la massiccia invasione del 388 a.C. e ne hanno in un certo senso preparato il terreno. Una spia di questo fenomeno è stata vista nella comparsa nell’Italia settentrionale di manufatti connessi all’armamento del guerriero originari dell’Europa centrale, come le spade di tipo La Tène A (Gravellona 118

Toce, Cerinasca d’Arbedo, Castione d’Arbedo), un elmo La Tène A in ferro (Molinazzo d’Arbedo) e soprattutto i ganci a traforo e gli anelli con gancio mobile per la sospensione della spada alla cintura, che cominciano a diffondersi nella fase G. III A 2 (Ca’ Morta tomba 110, Brembate Sotto, tombe 6 e 10). I ganci da cintura a placca triangolare in

bronzo o in ferro, decorata a giorno, nel mondo celtico

transalpino presentano diversi modelli : con decorazione a palmetta più o meno stilizzata, a fiore di loto a calice aperto, a lira zoomorfa, più raramente a capridi o uccelli contrapposti in posizione araldica. A sud delle Alpi sono diffusi i ganci in ferro con trafori circolari, estrema schematizzazione del motivo a palmetta, e i grandi ganci in bronzo a traforo con i motivi dei dragoni contrapposti con al centro una figura umana, forse il “signore delle fiere” oppure una croce di Lorena. Un’armilla scoperta in una cava di sabbia a Melegnano nel 1928 aveva infilati, oltre a numerosi pendagli golasecchiani, un piccolo gancio La Tène a traforo del tipo a fiore di loto. Un altro identico è stato scoperto a Bologna in una tomba della necropoli Arnoaldi insieme a lance di ferro. Questo particolare è molto istruttivo, poiché gli Etruschi di Bologna non usavano deporre armi nelle loro tombe. E’ quindi pressochè certo che questa tomba fosse quella di un guerriero celtico della seconda metà del V secolo a.C. I piccoli ganci di Melegnano e di Bologna appartengono a un tipo ampiamente diffuso nella Champagne e nel Berry e non può essere messa in dubbio la loro provenienza d’Oltralpe. Qualche tempo dopo, nel corso della fase G. III A 3, agli inizi del IV secolo a.C., si è verificata la massiccia invasione gallica della pianura padana, che ha posto fine all’Etruria padana con la conquista delle città etrusche di Felsina e di Melpum, quest’ultima forse da identificare con Marzabotto. I riflessi di questi avvenimenti sono chiaramente avvertibili anche nel territorio della cultura di Golasecca. Innanzitutto, la fine dei fiorenti commerci dell’Etruria padana ha come contraccolpo immediato il declino del grande abitato dei dintorni di Como. Le fasi del IV e del III secolo, infatti, pur non mancando, hanno una consistenza nettamente inferiore rispetto all’epoca precedente. Con il declino e la contrazione dell’abitato, le grandi necropoli come quella della Ca’ Morta cessano di essere utilizzate. Nei territori di pianura, dalla Lomellina al Lodigiano, la fase G. III A 3 è scarsamente rappresentata e da questo momento si manifesta un vuoto di documentazione che corrisponde a gran parte del IV e del III secolo. Mancando complessi significativi di materiali, non conosciamo quasi nulla del quadro culturale della media e bassa pianura tra Sesia e Adda per questo periodo, ignoriamo perfino il rito funerario praticato. Le vicende che riguardano il territorio della cultura di Golasecca agli inizi del IV secolo a.C. sono complesse e difficili da ricostruire, poiché da una parte le fonti antiche sono estremamente scarse e non facili da interpretare, dall’altra la documentazione archeologica dell’area di pianura nella Lombardia occidentale per circa due secoli, il IV e III a.C., è quasi del tutto assente. La fase Golasecca III A 3, databile ai primi decenni del IV secolo, appare uniformemente diffusa su tutto l’areale della cultura di Golasecca, anche nella bassa pianura fino al corso del Po. E’ durante questa fase che si è verificata l’invasione gallica. Nell’area alpina dei Leponti, a nord del Monte Ceneri, la situazione è abbastanza chiara: non si riscontra alcuna cesura nel record archeologico, le grandi necropoli della piana di Magadino 119

e dei dintorni di Arbedo continuano a essere utilizzate e si osserva molto bene come la cultura di Golasecca si trasformi gradualmente sotto l’influsso di quella La Tène, per cui dopo il G. III A 3 per denominare i diversi orizzonti cronologici vengono utilizzate le etichette La Tène B 1, B 2, C 1 ecc., senza che questo debba implicare l’arrivo di nuove popolazioni. Nella fascia sub-alpina (Como e Golasecca) e nella pianura, come abbiamo già detto, c’è un vuoto di documentazione che interessa IV e III secolo, per cui è difficile comprendere se si siano stanziate nuove popolazioni oppure se si sia verificato un fenomeno di continuità e trasformazione graduale analogo a quello osservabile nell’area alpina dei Leponti. Quando con l’età della Romanizzazione (II e I secolo a.C.) la documentazione torna a farsi abbondante, è difficile definire i limiti territoriali delle diverse popolazioni, poiché ormai è in atto in tutta l’area transpadana un processo di koinè culturale che tende a livellare le differenze. Se prestiamo fede a Tito Livio (V, 32) una coalizione di genti galliche si insediò nel paese degli Insubri, fondando Mediolanum, l’attuale Milano. Come è stato convincentemente dimostrato, la datazione di questo evento al 600 a.C. è dovuta a un fraintendimento da parte di Livio della sua fonte262. Dalle fonti antiche sappiamo, tuttavia, che sulla sinistra del Po si stanziò una parte dei Boi, il cui principale centro divenne Laus (dopo l’89 a.C. riceverà l’appellativo di Pompeia), mentre tra la Sesia e il Ticino si insediarono i Vertamocori, che avrebbero fondato Novara. Inoltre, le fonti attestano chiaramente che il IV e il III secolo furono il periodo dell’egemonia politica degli Insubri. I segni archeologici dell’arrivo di nuove popolazioni sono difficili da rilevare o da negare, a causa della documentazione troppo lacunosa e incompleta. Tutte le popolazioni galliche che hanno invaso l’Italia agli inizi del IV secolo a.C. praticavano il rito funerario dell’inumazione: è il caso dei Cenomani, dei Boi e dei Senoni, che differivano tra loro per aspetti del costume relativo agli ornamenti e all’abbigliamento, ma non per il rito funerario. La scoperta di tombe a inumazione del III e II secolo a.C. a Dormelletto, non molto lontano da Castelletto Ticino, indica una netta discontinuità con la cultura di Golasecca e farebbe pensare alla presenza di nuove popolazioni. A ciò si aggiunge l’uso degli anelli da caviglia nelle tombe femminili, del tutto sconosciuto nella precedente cultura di Golasecca, ma ampiamente diffuso presso le popolazioni celtiche d’Oltralpe. Gli anelli da caviglia sono presenti anche nella bassa pianura della Lombardia occidentale, tra Adda e Ticino, e sembrano provenire da tombe a inumazione in considerazione del loro stato di conservazione. Da Bettola (Peschiera Borromeo) provengono due anelli da caviglia e un’armilla di filo di bronzo avvolto a spirale, che potrebbero costituire il corredo di una tomba femminile. Nella necropoli di Dormelletto alcune tombe femminili avevano due anelli da caviglia e un’armilla al braccio sinistro. L’uso di una sola armilla al braccio sinistro è caratteristico delle tombe femminili dei Boi di Bologna, mentre gli uomini portavano un’armilla o un braccialetto al braccio destro263. In conclusione, c’è qualche indizio che farebbe pensare all’arrivo di nuove popolazioni anche nella Lombardia occidentale e nel Piemonte orientale, ma se prestiamo fede al racconto di Livio, queste

262 263

A questo proposito cfr. M. SORDI 1977. Cfr. la documentazione in D. VITALI 2003. 120

popolazioni hanno adottato il nome di quella pre-esistente, cioè gli Insubri, con la quale probabilmente si è pacificamente fusa. Nell’area sub-alpina e pre-alpina la situazione è analoga a quella del Sopra Ceneri: una graduale trasformazione in senso La Tène, specialmente per quanto concerne le fibule e l’armamento offensivo e difensivo, ma con la persistenza di molti aspetti tipicamente locali, primo fra tutti il rito funerario della cremazione e inoltre determinate fogge ceramiche come i bicchieri e le ciotole a orlo ingrossato, alcuni tipi di fibule a sanguisuga, le perle in lamina bronzea da orecchino, i pendagli a cestello. Il territorio vero e proprio degli Insubri era la media-alta pianura lombarda tra Ticino e Adda con capitale Milano. Le gravi lacune della documentazione archeologica non ci consentono di capire se la civiltà degli Insubri rappresentò una diretta prosecuzione della tradizione del G. III A o se vi furono cambiamenti radicali nella direzione dello sviluppo culturale, dovuti alla commistione con le nuove popolazioni galliche. La tradizione culturale golasecchiana continuò a sopravvivere nella regione dei laghi e nelle valli alpine. La documentazione archeologica, particolarmente ricca nei dintorni di Bellinzona con le grandi necropoli di Giubiasco, Gudo, Cerinasca e Molinazzo d’Arbedo, Pianezzo, e nella Val Mesolcina con l’importante necropoli di Castaneda, mostra un graduale processo di acculturamento : con il passare del tempo vengono adottati molti elementi tipici della cultura La Tène nel campo dell’armamento, degli oggetti relativi all’abbigliamento, in particolare le fibule, e della ceramica. Le più tenaci persistenze della tradizione golasecchiana si osservano nel costume femminile, ma alla fine anche le donne adotteranno le fibule La Tène. Inizia quindi una nuova epoca che vede spezzarsi - ma non scomparire del tutto - l’antica unità del territorio golasecchiano. Così come dopo il 388 a.C. era stata più fortemente latènizzata, la pianura dopo la sconfitta degli Insubri nella guerra con Roma (222 a.C.) subirà precocemente un rapido e profondo processo di romanizzazione culturale, a differenza del mondo prealpino e alpino, che entrerà definitivamente nell’orbita romana soltanto all’epoca di Augusto. In provincia di Varese i principali ritrovamenti di IV e III secolo a.C. sono Pino Lago Maggiore, Malnate, Arsago Seprio, una località imprecisata tra Tornavento e Nosate-Turbigo (quindi sul confine con la provincia di Milano). A Pino, nell’alto Verbano, nel 1964 furono scoperte tre tombe a cremazione in cassetta litica, di cui una risalente al G. III A 3 e due al La Tène B264. Il rito della cremazione esclude un’appartenenza della zona all’areale dei Leponti, mentre è in continuità con quello caratteristico delle zone di Como e di Golasecca. Le ceramiche LT B di Pino denotano l’influenza gallica per il corpo piriforme in un caso e per la presenza di una cordonatura all’inizio della spalla nell’altro. Nello stesso tempo le altre ceramiche, in particolare la ciotola con orlo ingrossato, mostrano una continuità con la precedente tradizione golasecchiana. 264

Cfr. infra a pp. 121

Ancora più significativo è il ritrovamento di una tomba a cremazione ad Arsago Seprio, in via Roma, purtroppo solo parzialmente recuperata, in cui l’urna era un vaso biconico-piriforme con cordone liscio orizzontale all’inizio della spalla, mentre un altro cordone orizzontale si trova nel punto di distinzione tra il fondo del vaso e l’inizio del piede, che è del tipo a piedestallo. Si tratta di un vaso che trae ispirazione direttamente da modelli antico La Tène della regione della Marna e che quindi fornisce un prezioso indizio per comprendere da quale regione d’Europa provenissero alcuni dei Galli che nel 388 a.C. invasero l’Italia settentrionale265. Un vaso del tipo pre-trottola, con cordone liscio all’inizio della spalla, proviene da una località posta tra Tornavento e Nosate, ma purtroppo è ormai privo di contesto. Dalla stessa località provengono alcune spade LT e una catena porta-spada dell’avanzato III secolo a.C.266 Sempre da via Roma ad Arsago Seprio un’altra tomba a cremazione, distrutta senza che venisse effettuato uno scavo scientifico, ha restituito una spada La Tène in ferro, ripiegata più volte, di un tipo raro per le nostre regioni, ma frequente nell’altopiano elvetico tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C.267 La scoperta che più di ogni altra documenta il profondo grado di “celtizzazione” del territorio di Varese è quella avvenuta a Malnate nell’inverno 1889-1890. Qui fu casualmente rinvenuta, nel corso di lavori agricoli, una tomba a cremazione, della quale si sono conservati solo due oggetti, una spada e una catena porta-spada. Con un piccolo sondaggio effettuato nel luogo della scoperta Pompeo Castelfranco portò alla luce una seconda tomba a cremazione, comprendente diverse ceramiche e un’armilla di vetro. La spada di Malnate ha la lama di ferro e l’impugnatura di bronzo di tipo antropomorfo. Appartiene al tipo E della classificazione di Clarke e Hawkes (1956), tipo che trova confronti in Ungheria a Dinnyés, a Lhota Udrnicka in Boemia, in Svizzera dal letto della Thielle (Neuchâtel) e in Francia in una tomba di Salon (Aube). L’associazione con una catena porta-spade di un tipo peculiare dell’area insubre e leponzia consente di datare la spada verso la fine del III secolo a.C. Le spade a impugnatura antropoide oppure antropomorfa sono diffuse in tutto il mondo celtico, dal bacino carpatico fino alle isole britanniche, dal IV al I secolo a.C. La presenza di una testa umana inserita fra i due bracci dell’elsa aveva molto probabilmente un significato magico, talismanico. Il rito a cremazione documentato a Malnate e ad Arsago Seprio indica una continuità diretta con la precedente cultura di Golasecca. Nel corso del II secolo a.C. la cremazione si diffonde anche nelle zone dove era stato introdotto il rito dell’inumazione – ma non nel Sopra Ceneri – e diventerà ben presto il rito funerario esclusivo dell’età della Romanizzazione. Dopo la definitiva sconfitta degli Insubri da parte dei Romani nel 196 a.C. e la fine delle guerre galliche nel 191 a.C., inizia per la Transpadana un periodo di grande sviluppo economico, testimoniato dall’infittirsi della documentazione archeologica, che sembra il riflesso di un notevole incremento 265

Cfr. infra a pp. M. TIZZONI 1984, p. 64 e ss., tavv. LXVIII, e; LXXV, b. 267 Cfr. infra a pp. 266

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demografico, e dalla ripresa su larga scala dei traffici tra mondo mediterraneo e regioni a nord del Po e a nord delle Alpi. Il crescente influsso romano è attestato dal diffondersi della ceramica a vernice nera, dalla produzione di fogge vascolari tipiche della vernice nera, ma acrome, dalla presenza nei corredi più ricchi di vasellame bronzeo, soprattutto brocche e padelle, di produzione peninsulare, di strigili e anelli porta-strigili, che denotano l’adozione di costumi tipi del mondo mediterraneo per quanto riguarda il banchetto e la cura della persona. Il persistere delle tradizioni locali celtiche è dimostrato dalle spade, dalle lance, dagli umboni di scudo e dalle fibule di tipo La Tène, dalle cesoie, dai rasoi e dai coltelli, da alcune forme ceramiche come il vaso a trottola o le ollette con decorazione rustica, dalle iscrizioni in alfabeto leponzio e con onomastica celtica. Il concentrarsi dei ritrovamenti nell’area di Legnano (Castellana, S. Lorenzo Nervino, Legnano, Canegrate), a Gallarate, Arsago Seprio e Somma Lombardo indica chiaramente l’esistenza di un percorso che conduceva al Verbano e quindi da una parte alla val d’Ossola, dove Ornavasso è la necropoli più ricca di importazioni di vasellame bronzeo tardo repubblicano, e dall’altra verso l’alto Verbano e la piana di Magadino. La qualità e quantità delle classi di reperti che vi si rinvengono dimostrano che la Lombardia aveva ripreso quella vocazione agli scambi e ai commerci che era stata propria della cultura di Golasecca, facendosi tramite tra le civiltà del Mediterraneo e quelle dell’Europa centrale.

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