Linea guida S.I.O.T. - Il trattamento delle metastasi ossee

March 31, 2018 | Author: Anonymous | Category: Scienza, Medicina, Oncology
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Aggiornamento OTTOBRE 2008

IL TRATTAMENTO DELLE METASTASI OSSEE

Coordinatore Responsabile Coordinatore Scientifico

A. Piccioli R. Capanna

Coordinatore Responsabile Coordinatore Scientifico

A. Piccioli R. Capanna

Estensori

R. Biagini S. Boriani E. Brach del Prever D.A. Campanacci R. Capanna P.A. Daolio P. De Biase V. Denaro A. Gasbarrini G.C. Gino G. Maccauro S. Mapelli M. Mercuri A. Piccioli L. Repetto M.A. Rosa

Collaboratori

U. S. G. E. M. F. M. S. L. S. A. M. F. B. G. A.

Albertini Bandiera Beltrami Boux Cappuccio Gentilucci Lillo Marone Mirabile Paderni Piana Raffaele Rodia Rossi Scoccianti Ventura

Revisore sezione ortopedica G. Maccauro Revisore sezione oncologica L . R e p e t t o

PREFAZIONE

Lanfranco Del Sasso Presidente S.I.O.T.

La ricerca per la prevenzione, la diagnosi e la terapia in campo oncologico è da molti anni in tumultuoso sviluppo e ha raggiunto obiettivi di miglioramento veramente imprevedibili e poco immaginabili. I secondarismi ossei di quei tumori che più facilmente scelgono questo tessuto come ospite, possono modernamente essere diagnosticati e curati dando, in molti casi, lunghi periodi di sopravvivenza con un tipo di vita pressoché normale. La Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia sta predisponendo le linee guida per le patologie maggiori ed ha ultimato quelle del “Trattamento delle metastasi ossee”. Suddividendo in cinque classi i vari tipi di metastasi ossee, si è potuto per ogni classe prevedere il trattamento più idoneo. Si è usato un sistema a punteggio per poter poi identificare il trattamento più utile, sia esso chirurgico, radioterapico, farmacologico o misto. Un lavoro prezioso che può essere di grande aiuto a quei chirurghi che vogliono cimentarsi con queste patologie. Ringrazio in modo particolare Andrea Piccioli, Coordinatore Responsabile e Rodolfo Capanna, Coordinatore Scientifico, tutti gli Estensori, i Collaboratori e i Revisori. Auspico un futuro molto fattivo per altri gruppi di lavoro impegnati nella stesura di linee guida per altre patologie.

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Rodolfo Capanna Coordinatore Scientifico

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La malattia metastatica, tipica del paziente neoplastico “long survivor”, assume la fisionomia di entità a sé stante, meritevole di un approccio molteplice ed interdisciplinare. A fronte di un importante interessamento della comunità scientifica nei confronti di questo tipo di malattia, poco è stato scritto su quelle che debbano essere le Linee Guida nel caso di un paziente affetto da metastasi ossee da carcinoma, da adottarsi unanimemenente da parte delle diverse professionalità (oncologo, radioterapista, chirurgo ortopedico). E neppure sono chiare le Linee Guida sulla tipologia di intervento chirurgico per prevenire o trattare una frattura patologica alla luce dei diversi elementi prognostici e terapeutici. Lo scopo di questo nostro lavoro è quello di prospettare al paziente con metastasi ossee un trattamento adeguato e soprattutto condiviso tra le diverse specialità e discipline, frutto anche di una esperienza diffusa e omogenea sul territorio italiano, con la consapevolezza e la speranza che il paziente neoplastico possa trarre beneficio da questo migliore inquadramento. Colgo quindi l’occasione per ringraziare la S.I.O.T., che ha voluto fortemente queste Linee Guida sulle metastasi ossee, che anticiperanno quelle sui tumori primitivi dell’osso e dei tessuti molli, e tutti i Colleghi che hanno partecipato alla stesura di questa opera.

Andrea Piccioli Coordinatore Responsabile

Quando due anni fa discutemmo in Consiglio Direttivo S.I.O.T. sulla possibilità di preparare delle Linee Guida per le maggiori patologie di interesse ortopedico e traumatologico mi tornò alla mente una discussione avvenuta a New York nel 1995 con John Healey, direttore dell’Ortopedia Oncologica del Memorial Sloan-Kettering, sull’aumento esponenziale che si stava avendo e si sarebbe avuto in un futuro molto vicino di pazienti con metastasi ossee e una prospettiva di vita sempre più lunga. Se, quindi, i tumori primitivi dell’osso devono obbligatoriamente essere trattati in Centri ad alta specializzazione, grande esperienza e multidisciplinarietà culturale per proporre al paziente cure integrate in queste patologie rare, così non è per la malattia metastatica ossea la cui cura può e deve essere patrimonio di tutti gli ortopedici. Sempre più frequentemente, infatti, sono presenti nei nostri reparti pazienti affetti da metastasi ossee il cui trattamento non può esimersi da una conoscenza dei trattamenti moderni ed integrati, approvati dalla Comunità Scientifica internazionale. È stato così che, forse incoscientemente, ho accettato di coordinare per la S.I.O.T. Centri di grande esperienza sparsi in tutta Italia. Sotto la direzione scientifica di Rodolfo Capanna molti problemi si sono appianati, non è stato facile, ma ritengo che ne sia uscito un lavoro buono che possa essere utile a tanti Colleghi che, in una Sanità sempre più “povera” e “distratta”, affidata soprattutto alla buona volontà dei suoi operatori, si trovino ad affrontare nel loro lavoro quotidiano una patologia che, grazie ai grandi sviluppi delle diverse discipline che trattano il paziente oncologico, ha fatto enormi passi in avanti. Il limite principale nella realizzazione di Linee Guida rigorose nel trattamento complesso e multidisciplinare quale quello delle metastasi ossee si deve considerare la difficoltà di reperimento di casistiche ampie ed omogenee che possano costituire livelli di evidenza inoppugnabili. Molto più frequenti sono livelli statistici minori, fino all’opinione di ortopedici, italiani e esteri, comunemente considerati esperti del settore, tali da renderli“opinion leader” nei

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diversi campi in esame. La scelta dei redattori dei diversi capitoli si è basata su questo parametro, che porta a delle raccomandazioni utilissime per tutti gli Ortopedici Italiani. Sono sempre stato convinto che il gold standard del trattamento del paziente oncologico sia una multidisciplinarietà coordinata di professionisti perché la gestione di questi pazienti è stata, da sempre, frammentaria per l’assenza di percorsi organizzativo-assistenziali codificati. Come S.I.O.T. abbiamo cercato di dare il nostro contributo a questo progetto che ha come fine ultimo il garantire al paziente “long survivor” bisogni funzionali e qualità della vita sempre maggiori.

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INTRODUZIONE

Metastasi è il trasferimento di una neoplasia da un focolaio primitivo ad un’altra sede. La conoscenza dei meccanismi di sviluppo delle neoplasie, insieme con lo sviluppo di metodiche di screening oncologiche sempre più affidabili, ha permesso di progredire nella prevenzione dei tumori e di ottenere diagnosi sempre più precoci delle neoplasie, per poterle curare in fase sempre più iniziale. A questi risultati vanno aggiunti i progressi delle terapie “farmacologiche, chirurgiche e radianti”: oggi le chemioterapie, ormonoterapie, immunoterapie sono sempre più mirate verso le singole neoplasie, con effetti collaterali sempre più controllati; gli interventi chirurgici sono sempre “meno invasivi”, specie trattando la neoplasia in fase iniziale, ed hanno minori effetti collaterali come la radioterapia sempre più mirata nel colpire la sede coinvolta dalla neoplasia risparmiando i tessuti sani circostanti. Tutto questo si traduce in concrete possibilità curative dei tumori, o, quanto meno, miglioramento della sopravvivenza e della qualità della vita del paziente oncologico. Il miglioramento delle terapie integrate delle neoplasie primitive e la maggiore sopravvivenza dei pazienti oncologici induce però un sempre maggior numero di pazienti metastatici. La parola “metastasi” non è più sinonimo di condanna a breve tempo senza appello per il paziente ma, specie nelle metastasi ossee, sinonimo di malattia con dignità autonoma e problematiche terapeutiche multidisciplinari e aspettativa di vita a volte lunga. Il ruolo del trattamento multidisciplinare delle metastasi ossee deve mirare, tra l’altro, al controllo del dolore, alla prevenzione e al trattamento delle problematiche meccaniche correlate al cedimento strutturale dell’osso sostituito dalla neoplasia: in una parola, al mantenimento di una buona qualità della vita, quindi autonomia e dignità della persona malata.

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VIA DI DIFFUSIONE La neoplasia può metastatizzare all’osso attraverso diverse vie di propagazione: la più frequente è quella ematogena, in particolare venosa per le lesioni della colonna vertebrale, ed arteriosa per quelle dei cingoli dapprima prossimali (spalla e bacino) poi distali al gomito e ginocchio; meno frequenti sono quelle per contiguità, e ancor meno frequenti quelle per diffusione linfatica. Le metastasi ai cingoli prossimali sono quindi espressione di una malattia in fase più precoce di quelle distali, ed, in particolare, le acrometastasi sono considerate espressione di malattia molto avanzata. EPIDEMIOLOGIA E PREVENZIONE

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Lo scheletro rappresenta la terza sede più frequente di incidenza di metastasi da carcinoma dopo il polmone ed il fegato. I tumori primitivi che più spesso danno metastasi ossee sono, nell’ordine di incidenza: carcinoma della prostata, della mammella, del rene, del polmone e della tiroide. Secondo l’American Cancer Society (ACS) [2] ogni anno si registrano negli Stati Uniti 1,4 milioni di nuovi casi di carcinoma e, circa la metà di questi, sono neoplasie con tendenza a dare metastasi ossee; a questi devono essere aggiunte le neoplasie della serie ematologica che, pur non essendo carcinomi, danno localizzazioni ossee simili alle metastasi. La dimostrazione clinica della presenza delle metastasi ossee non è sempre possibile, ed il loro riscontro è talora solo di tipo autoptico, quindi una reale incidenza di tali lesioni in corso di neoplasie primitive non è sempre possibile. Tuttavia è dimostrato che la diagnosi di metastasi modifica profondamente la sopravvivenza del paziente affetto da carcinoma: secondo i dati dell’ACS, la sopravvivenza a 5 anni dei carcinomi non metastatici trattati dal 1996 al 2002 era del 100% nel carcinoma della prostata, del 97% nella tiroide, dell’89% nella mammella, del 66% nel rene e del 16% nel polmone. Nello stesso periodo, nei tumori metastatici all’esordio la sopravvivenza a 5 anni era del 56% nel tumore della tiroide, del 33% nel carcinoma prostatico, 26% nel carcinoma mammario, 10% nel tumore renale e 2% nel tumore polmonare [2]. Questi dati comunque dimostrano che anche il paziente metastatico può avere una sopravvivenza anche lunga nonostante la disseminazione della malattia. Non è codificata, al momento, una specifica prevenzione dell’insorgenza delle metastasi ossee da carcinoma e quindi si rimanda alle specifiche prevenzioni di ogni singola neoplasia primitiva in grado di sviluppare metastasi ossee. La conoscenza delle caratteristiche del tumore primitivo, del numero, della

sede e delle caratteristiche delle metastasi, delle condizioni cliniche del paziente, in una parola le possibilità di sopravvivenza del paziente affetto da quel tipo di tumore e di metastasi ossea costituisce l’aspetto fondamentale per la scelta del tipo di trattamento anche chirurgico da effettuare sulla metastasi stessa. Quando l’aspettativa di vita in relazione all’istotipo di carcinoma, al tipo di metastasi e alle condizioni del paziente è limitata, il trattamento può essere di tipo puramente palliativo, rivolto al controllo del dolore e alla prevenzione o trattamento delle complicanze meccaniche; quando invece l’aspettativa di sopravvivenza del paziente è buona, il trattamento della metastasi deve essere più aggressivo e soprattutto adatto a durare nel tempo. Alla luce di queste considerazioni, risulta evidente l’importanza di identificare i principali fattori prognostici in grado di indicare quali siano i pazienti metastatici che potrebbero sopravvivere più a lungo e che richiedono un trattamento chirurgico più aggressivo e complesso. FATTORI PROGNOSTICI Nel corso degli ultimi vent’anni, dalla revisione delle maggiori casistiche sono stati identificati dei fattori prognostici ed in alcuni casi sono stati proposti dei sistemi a punteggio per la stadiazione del paziente con metastasi da carcinoma vertebrali e dello scheletro degli arti. Nelle metastasi vertebrali, Tokuhashi et al. [37] consideravano come fattori prognostici le condizioni generali del paziente (“performance status” secondo Karnofsky [26]), il numero di metastasi vertebrali, la presenza ed il numero di metastasi viscerali, la sede del tumore primitivo ed i sintomi neurologici. Ad ogni parametro veniva assegnato un punteggio da 0 a 2 ed il punteggio finale definiva il valore prognostico. Un punteggio ≥9 indicava una prognosi >12 mesi, un punteggio ≤8 una prognosi 3 anni) [5]. Kataghiri et al., su una casistica di 350 pazienti, hanno identificato 5 fattori prognostici: tipo di tumore primitivo; condizioni generali del paziente (secondo la Eastern Conference Oncology Group); metastasi viscerali e/o cerebrali; lesione scheletrica solitaria o multipla; precedente chemioterapia. Sommando i coefficienti di regressione stimati per ogni singolo parametro, gli Autori hanno messo a punto un sistema a punteggio che ha dimostrato una valida correlazione statistica con la prognosi nella loro casistica. Con un punteggio ≤2 la sopravvivenza ad un anno era dell’89% mentre con un punteggio ≥6 era dell’11% [27]. Fondamentale ai fini della comprensione della prognosi nelle lesioni metastatiche dello scheletro e l’impatto che la chirurgia condotta di qualunque tipo (mininvasiva o no) può avere sulla prognosi stessa è il recente studio multicentrico dello Scandinavian Sarcoma Group: su 460 lesioni metastatiche non vertebrali trattate chirurgicamente, risultava una sopravvivenza ad un anno del 39% e a 3 anni del 18% [18]. All’analisi multivariata sono risultati fattori prognostici significativi per la sopravvivenza i seguenti parametri: tipo di tumore primitivo; frattura patologica; metastasi viscerali; valore di emoglobina preoperatorio 503 anni

Katagiri et al. [27]

Tipo di tumore primitivo Performance status (E.O.C.G.) Presenza di metastasi viscerali e/o cerebrali Lesione scheletrica isolata o multipla Precedente chemioterapia

Hansen et al. [18]

Tipo di tumore primitivo Presenza di frattura patologica Presenza di metastasi viscerali Valore di emoglobina preoperatorio ≤7g/dl Performance status (Karnofsky).

Tab. 2: Fattori prognostici nelle metastasi scheletriche da carcinoma (scheletro periferico e vertebre)

Tipo di tumore primitivo < 1 anno

> 1 < 2 anni

> 2 anni

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• Sconosciuto • Melanoma • Polmone • Pancreas • Tiroide (indifferenziato) • Stomaco • Colon • Mammella (non sensibile alle terapie) • Fegato • Utero (sensibile alle terapie) • Tiroide (differenziato) • Mieloma • Linfoma • Mammella (sensibile alle terapie) • Retto • Prostata • Rene

Tab 3: Aspettativa di sopravvivenza prevista per tipo di tumore primitivo

Tipo di tumore primitivo

Fattori prognostici:

Prostata:

N° di metastasi scheletriche N° lesioni metastatiche Intervallo di tempo diagnosi-chirurgia della metastasi Terapia ormonale preoperatoria Lesione metastatica sincrona Grado di Gleason Positività alla cromogranina A

Mammella:

Metastasi scheletrica solitaria o multipla Metastasi viscerali Presenza di recettori ormonali per estroprogestinici Intervallo libero tumore primitivo-metastasi Dimensioni del tumore primitivo Risposta alla chemioterapia

Rene:

Lesione scheletrica isolata Intervallo libero tumore primitivo-metastasi >1-2 anni Metastasi nello scheletro periferico

Tiroide:

Differenziazione del tumore primitivo Età < 45 anni Sede della metastasi Istologia papillare (prognosi migliore) Avidità di iodio della lesione metastatica

Tab. 4: Fattori prognostici per tipo di tumore primitivo

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BIBLIOGRAFIA

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IL TRATTAMENTO ORTOPEDICO DELLE METASTASI OSSEE DA CARCINOMA

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Nel corso degli ultimi vent’anni la sopravvivenza dei malati di cancro è migliorata sensibilmente grazie alle procedure di screening che permettono una diagnosi precoce ed alle moderne metodiche terapeutiche e di trattamento chirurgico [2]. Le metastasi ossee da carcinoma sono frequenti e, considerata la prolungata sopravvivenza dei pazienti, rappresentano un problema sociale e sanitario di rilievo per la collettività. Nel corso di istruzione della S.I.O.T. tenutasi a Firenze nel 2005, Mercuri ha esposto gli obiettivi principali del trattamento delle metastasi scheletriche: la prevenzione e la cura delle fratture patologiche delle ossa lunghe principali; la prevenzione e la cura della compressione midollare spinale; il controllo del dolore; garantire una qualità di vita il più possibile adeguata [65]. Il trattamento delle metastasi ossee richiede un approccio multidisciplinare da parte del chirurgo ortopedico, dell’oncologo medico e del radioterapista, ma i ruoli dei diversi specialisti dovrebbero essere coordinati allo scopo di definire quando la chirurgia deve avere la priorità rispetto alle scelte terapeutiche non chirurgiche. Occorre innanzitutto differenziare tra metastasi alla colonna vertebrale e metastasi dello scheletro degli arti e della pelvi: i principi generali sono sovrapponibili anche se le tipologie di trattamento, ovviamente differiscono. Da un punto di vista pratico, vale la pena sottolineare che le metastasi dell’arto inferiore, per le indubbie valenze meccaniche che comportano, sono suscettibili di trattamenti chirurgici più frequentemente di quelle dell’arto superiore, analogamente a ciò che accade in Traumatologia. Le limitazioni che provocano le metastasi dell’arto inferiore si accompagnano all’allettamento, con le conseguenze, spesso catastrofiche, che esso comporta. Le limitazioni funzionali che una metastasi dell’arto superiore provoca nel paziente si limitano alla difficoltà di attendere alle normali funzioni quotidiane (lavarsi, mangiare, etc). A Capanna si deve la proposta, del 2001, di un protocollo di trattamento delle metastasi ossee da carcinoma dello scheletro periferico (cingolo scapolare e pelvico e arti) [12]. Gli obiettivi del protocollo sono di offrire al paziente metastatico un trattamento individuale adeguato, evitando interventi insufficienti o eccessivamente aggressivi, di ottenere il controllo del dolore, di prevenire e trattare le fratture patologiche [36], affinché alla prolungata sopravvivenza di questi pazienti corrisponda una adeguata qualità di vita. Il protocollo proposto, ovviamente, prende in considerazione i principali fattori prognostici della malattia metastatica precedentemente esposti. Le caratteristiche biologiche sono:

l’aspettativa di sopravvivenza (tipo di tumore primitivo); l’estensione della malattia (lesione unica o multipla); le condizioni generali del paziente (“performance status”); l’intervallo libero da malattia. Le caratteristiche biomeccaniche: presenza o rischio di frattura patologica nelle ossa lunghe principali (sede e dimensioni della lesione; tipo di lesione litica o addensante); sensibilità prevista alle terapie non chirurgiche (chemioterapia, radioterapia, ormonoterapia, etc.). Quest’ultima è, in realtà, una caratteristica biologica del tumore che ha però un significato biomeccanico in quanto indica la possibilità di ristrutturazione del segmento osseo nel tempo e la conseguente stabilità meccanica. CLASSI DI PAZIENTI I pazienti con metastasi ossee da carcinoma degli arti e dei cingoli pelvico e scapolare sono assegnati ad una delle seguenti quattro classi (Tab.1): CLASSE 1- Pazienti con una metastasi scheletrica solitaria da tumore primitivo a buona prognosi (mammella, prostata, rene, tiroide) e con prolungato intervallo libero da malattia (> 3 anni) dal tumore primitivo alla metastasi. CLASSE 2- Pazienti con una frattura patologica nelle ossa lunghe principali (omero, radio, ulna, femore e tibia). CLASSE 3- Pazienti con una lesione a rischio di frattura patologica nelle ossa lunghe principali. Il femore è il segmento osseo più a rischio per frattura patologica per le notevoli sollecitazioni meccaniche in flessione e torsione. Le regioni più a rischio in tale segmento sono il collo del femore, la regione sottotrocanterica e sovracondiloidea. Nella classe 3 il rischio imminente di frattura è valutato in base ai parametri proposti in letteratura: a) lesione litica della corticale ≥ 2,5 cm; b) distruzione della corticale ≥ 50% del diametro; c) dolore persistente o progressione della lesione dopo radioterapia e/o chemioterapia [31]. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il sistema a punteggio per la valutazione del rischio di frattura patologica è stato proposto da Mirels considerando quattro parametri: il dolore, l’aspetto radiografico della lesione, la sede e le dimensioni [66]. Studi recenti tuttavia, hanno dimostrato che le dimensioni critiche per una lesione a rischio di frattura sono risultate essere > 30 mm di coinvolgimento corticale assiale e > 50% di estensione corticale circonferenziale [87]. Le prospettive future indicano nella TAC quantitativa e nella TAC basata su

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elementi finiti le tecnologie più promettenti nell’identificare il rischio effettivo di frattura patologica nelle lesioni osteolitiche metastatiche [45]. CLASSE 4- È la classe più numerosa e comprende tutti i pazienti con: • Lesioni metastatiche osteoblastiche; • lesioni osteolitiche o miste in ossa non sottoposte a carico (ulna distale, coste, perone, clavicola); • lesioni non a rischio di frattura nelle principali ossa lunghe; • lesioni per le quali l’unico intervento possibile sarebbe l’amputazione dell’arto; • lesioni nell’ala iliaca, arco pelvico anteriore e scapola (eccetto i pazienti inclusi nella classe 1). Quando operare

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I pazienti delle CLASSI 1, 2 e 3 devono essere inviati in prima istanza al chirurgo ortopedico per il trattamento chirurgico ed in seguito all’oncologo medico e/o al radioterapista per le terapie adiuvanti. I pazienti della CLASSE 4 devono essere trattati in prima istanza con terapie non chirurgiche (chemioterapia, radioterapia, terapia ormonale, etc.) ed in caso di fallimento meccanico (frattura patologica o progressione di malattia con lesione a rischio di frattura) o di dolore persistente dopo le terapie, rientrano nelle classi 2 e 3 e vengono trattati chirurgicamente (Tab. 2). In alcuni pazienti della classe 4 possono essere adottate tecniche mini invasive. Come operare Il tipo di trattamento chirurgico e di ricostruzione viene deciso considerando diversi parametri biologici e biomeccanici e, nelle lesioni diafisarie, un sistema a punteggio permette di identificare la ricostruzione più appropriata per ogni singolo paziente. L’aspettativa di sopravvivenza, il tipo di tumore primitivo, il numero di metastasi scheletriche, la presenza di metastasi viscerali, l’intervallo libero da malattia e le condizioni generali del paziente sono i parametri biologici considerati. La sede e le dimensioni della lesione, l’aspetto radiografico e la prevista sensibilità alle terapie non chirurgiche sono i parametri biomeccanici considerati. La classificazione dei mezzi di sintesi e delle protesi utilizzate è riportata nella tabella 3.

Classe 1: In questa classe vengono inclusi i pazienti con una metastasi solitaria scheletrica da tumore primitivo a buona prognosi con un lungo intervallo libero da malattia. I pazienti di questo gruppo selezionato possono sopravvivere a lungo ed il trattamento chirurgico in questi casi deve comprendere l’asportazione della lesione metastatica (possibilmente con margini ampi) e la ricostruzione con metodiche adatte a durare nel tempo. In questi pazienti, la metastasi viene trattata come un tumore primitivo e l’intervento è mirato ad un risultato oncologico e meccanico stabile a lungo termine. Una resezione articolare o intercalare in questi casi viene ricostruita con sistemi protesici modulari cementati e spaziatori intercalari. Le lesioni metastatiche solitarie delle ossa spendibili (perone, coste, clavicola, ulna distale) possono essere facilmente resecate senza alcun residuo funzionale. Nelle lesioni di classe 1 della scapola è indicato eseguire una scapulectomia totale che determina la perdita della funzione in abduzione ed elevazione della spalla. La resezione dell’ala iliaca e dell’arco pelvico anteriore può essere eseguita senza importanti deficit funzionali residui. In questi casi, la ricostruzione scheletrica di solito non è necessaria e una rete sintetica può essere utilizzata per evitare ernie viscerali. Al contrario, la resezione di lesioni che coinvolgono l’acetabolo richiede ricostruzioni complesse che possono essere eseguite con protesi a sella o con anelli acetabolari cementati e barre o chiodi di rinforzo cementati. Classi 2 e 3: Metaepifisi: il trattamento chirurgico indicato in queste sedi è descritto nella Tab. 4 dove l’area 1 (epifisi) e l’area 2 (metafisi) sono considerate separatamente. A livello dell’omero e del femore prossimale il rischio di frattura patologica e di cedimento meccanico è elevato a causa delle importanti forze in torsione all’omero e flessione sotto carico al femore. Per questo motivo, in queste sedi è indicato un trattamento chirurgico più aggressivo che comprende la resezione e la ricostruzione con protesi modulari cementate al fine di ottenere un recupero funzionale precoce e di evitare il fallimento meccanico dell’impianto nel tempo causato dall’eventuale progressione di malattia. In caso di margini chirurgici ampi, la radioterapia postoperatoria può essere evitata, mentre rimane indicata dopo resezione marginale o intralesionale della lesione o quando è presente una frattura patologica. Quando eseguita, la radioterapia deve essere a dosi piene di almeno 30Gy e non a scopo palliativo di controllo del dolore. Nelle lesioni epifisarie, la ricostruzione può essere eseguita con protesi convenzionali a stelo lungo cementato, men-

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tre nelle resezioni metafisarie devono essere usati sistemi protesici modulari. Il rischio di fallimento meccanico è minore a livello del gomito, del ginocchio e della tibiotarsica. In queste sedi, quando meno della metà della metaepifisi è coinvolta dalla lesione, è indicato eseguire un asportazione intralesionale del tumore (curettage), riempire la cavità con cemento acrilico ed eseguire un’osteosintesi di rinforzo con placca. Durante il curettage della lesione è consigliabile utilizzare tecniche adiuvanti locali come la crioterapia o l’impiego di fenolo, che vedremo meglio successivamente, per migliorare il controllo locale. In questi casi, la radioterapia postoperatoria è sempre indicata. L’estensione tumorale a più della metà della metaepifisi o il coinvolgimento articolare richiede la resezione intra-articolare del segmento interessato e la ricostruzione con sistemi protesici modulari cementati dell’omero distale, del femore distale e della tibia prossimale o l’artrodesi della tibiotarsica.

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Diafisi: per le metastasi diafisarie nei pazienti in classe 2 e 3 è stato proposto un sistema a punteggio (Tab 5) tenendo conto di 4 diversi parametri: l’aspettativa di vita (Tab 6); la sede della lesione; le dimensioni della lesione; la risposta prevista alle terapie adiuvanti non chirurgiche (Tab 7). Come risposta prevista alle terapie adiuvanti viene considerata la potenzialità della lesione a riparare e a ossificare dopo trattamento locale (radioterapia, chemioterapia, terapia ormonale, immunoterapia etc.). Il punteggio è variabile da 3 a 15 punti per ogni paziente. Un’osteosintesi semplice (chiodo endomidollare bloccato o placca e cemento) è indicata nei pazienti con un punteggio basso (≤ 5 punti); un’osteosintesi rinforzata (chiodo endomidollare e cemento) è indicata nei pazienti con un punteggio intermedio (da 6 a 10 punti); la resezione della lesione e la ricostruzione con sistemi protesici modulari cementati è indicata nei pazienti con punteggio elevato (da 11 a 15 punti). Il punteggio viene corretto considerando le condizioni generali del paziente secondo Karnovsky [42]. Un punteggio del “performance status” inferiore a 50 punti determina il declassamento della ricostruzione consigliata da osteosintesi rinforzata a osteosintesi semplice, mentre un punteggio maggiore di 50 permette di mantenere l’indicazione all’intervento assegnato. Regione periacetabolare: nella regione periacetabolare, un trattamento conservativo non chirurgico è indicato nelle lesioni osteoblastiche e miste dove è prevista una buona risposta alle terapie adiuvanti. Durante la radioterapia è consigliabile evitare il carico sull’arto interessato. Il trattamento chirurgico, comunque gravato di elevata incidenza di complicanze maggiori per il paziente, è indicato nei pazienti della classe 1, come descritto in precedenza,

nei pazienti della classe 2 con una protrusione acetabolare e nelle lesioni osteolitiche con una scarsa risposta prevista alle terapie adiuvanti (classe 3). L’angiografia preoperatoria con embolizzazione selettiva è consigliata nelle lesioni molto vascolarizzate come il carcinoma renale a cellule chiare ed il carcinoma tiroideo. Quando l’osso subcondrale dell’acetabolo rimane integro, può essere eseguita l’asportazione intralesionale (curettage) della lesione con riempimento della cavità con cemento acrilico mantenendo integra la funzione articolare dell’anca. Questa procedura può essere eseguita anche in maniera percutanea secondo la tecnica dell’acetabuloplastica [53], anche se con questa metodica il curettage può essere solo parziale con conseguente residuo macroscopico di malattia tumorale in sede; tale metodica, che verrà discussa più in dettaglio successivamente, trova in realtà specifica indicazione nelle lesioni acetabolari in pazienti con metastasi multiple ossee e/o viscerali, e con aspettativa di vita solitamente non superiore all’anno. Per rinforzare la ricostruzione del tetto acetabolare, fili o barre metalliche possono essere inseriti nell’osso sano ed immersi nel cemento secondo la metodica descritta da Harrington et al. [32]. La distruzione dell’osso subcondrale e la protrusione acetabolare rendono necessaria la sostituzione protesica che deve essere eseguita utilizzando speciali componenti di rinforzo (fili o barre metallici; anelli avvitati e cementati; componenti acetabolari cementati a ritenzione totale o a doppia motilità) o protesi modulari a sella.

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CLASSE 1

• Metastasi solitarie • Tumore primitivo a buona prognosi (mammella, prostata, rene, tiroide diff.) • Intervallo libero da malattia >3 anni

CLASSE 2

• Frattura patologica nelle ossa lunghe

CLASSE 3

• Rischio imminente di frattura patologica in ossa principali sotto carico

CLASSE 4

• Lesioni addensanti • Lesioni litiche o miste in ossa non portanti (perone, coste, sterno, clavicola) • Lesioni osteolitiche nelle ossa lunghe non a rischio imminente di frattura • Lesioni dell’ala iliaca, dell’arco pelvico anteriore o della scapola (eccetto classe 1) • Pazienti in cui l’estensione della lesione richiederebbe l’amputazione dell’arto

Tab.1. I pazienti con metastasi ossee sono inseriti in una delle 4 classi

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Classe 1

Fallimenti:

Classe 2

Meccanici (frattura patologica)

Classe 3

Dolore persistente Progressione locale

Chirurgo ortopedico - Radioterapia Chirurgia

- Oncologia medica CT; HT; IT; BP)

Classe 4 Tab.2. Indicazioni al trattamento chirurgico e conservativo secondo la classe di chemioterapia; HT: ormonoterapia; IT: immunoterapia; BP: bifosfonati)

appartenenza (CT:

A: OSTEOSINTESI A1: semplice

• Chiodo endomidollare bloccato (con viti di bloccaggio ancorate su osso non patologico). Placca e cemento

A2: rinforzata

• Chiodo endomidollare bloccato e cemento; Placca doppia e cemento. B: PROTESI

B0

• Protesi convenzionale a stelo lungo endomidollare

B1

• Protesi da resezione modulare

B2

• Spaziatore intercalare modulare

Tab.3. Tipi di ricostruzione nelle ossa lunghe

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Area 1: B0 (protesi convenzionale a stelo lungo) Area 2 or 1+2: B1 (megaprotesi cementata)

Area 1 or 2 (estensione < _): A1 (curettage + placca e cemento) Area 1 or 2 (estensione > _): B1 (megaprotesi cementata o artrodesi di tibiotarsica) Area 1 + 2: B1 (megaprotesi cementata o artrodesi di tibiotarsica) Tab.4. Trattamento consigliato per le lesioni metaepifisarie nei pz in classe 2 e 3

Sopravivenza < 1 anno

Sede della lesione 1

Dimensioni della lesione

Sensibilità alle terapie adiuvanti

Tibia

1

Piccola (1/3)

1 Yes

0

Da 1 a 2 anni 3

Femore, omero

2 Grande (1/2)

2 No

3

> 2 anni

Sottotrocanterica e sovracondiloidea 3

6

Fino a 5 punti Da 6 a 10 punti Da 11 a 15 punti

Completa o Frattura patologica 3

Osteosintesi semplice: chiodo endomidollare bloccato o placca e cemento (A1) Osteosintesi rinforzata: chiodo endomidollare e cemento o doppia placca e cemento (A2) Megaprotesi o spaziatore intercalare modulare (B1; B2)

Tab. 5. Sistema a punteggio per la definizione del trattamento chirurgico delle lesioni diafisarie nei pz in classe 2 e 3. In neretto il punteggio assegnato

Sopravvivenza 38

< 1 anno 1 punto

Da 1 a 2 anni 3 punti

> 2 anni 6 punti

Sede del tumore primitivo • • • • • •

Sconosciuto Melanoma Polmone Pancreas Tiroide (indifferenziato) Stomaco

• • • •

Colon Mammella (non sensibile agli adiuvanti) Fegato Utero (sensibile agli adiuvanti)

• • • • • • •

Tiroide (differenziato) Mieloma Linfoma Mammella (sensibile agli adiuvanti) Retto Prostata Rene

Tab. 6. Sopravvivenza stimata per tipo di tumore primitivo e relativo punteggio

Sensibili 0 punti

• • • • •

Mammella Tiroide Mieloma Linfoma Prostata

Non sensibili 3 punti

• • • • •

Rene Gastrointestinale Polmone Utero Pancreas

Tab. 7. Sensibilità prevista alle terapie adiuvanti dei diversi tipi di tumore primitivo e relativo punteggio

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IL TRATTAMENTO MEDIANTE OSTEOSINTESI SEMPLICE O RINFORZATA ASSOCIATA A CURETTAGE E USO DI ADIUVANTI LOCALI NELLA CHIRURGIA DELLE METASTASI DELLO SCHELETRO APPENDICOLARE

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Il trattamento della metastasi ossea richiede un approccio multidisciplinare, nonostante la schematizzazione in classi di pazienti proposta da Capanna. Di fronte ad un malato affetto da metastasi ossee, il Chirurgo ortopedico ha quindi il dovere e la necessità di confrontarsi con l’Oncologo medico, il Radioterapista, l’Ematologo, per valutare la prognosi complessiva del paziente e la minore o maggiore sensibilità dello specifico tumore alle terapie adiuvanti. La scelta del tipo di trattamento non può quindi prescindere dai criteri multidisciplinari. I capisaldi del trattamento chirurgico di una lesione metastatica sono stati esaurientemente indicati in quattro punti da Sherry et al. nel 1982 [82]: – la prima procedura è quella che ha la migliore prognosi. Bisogna quindi cercare di fare ‘di più’ piuttosto che ‘di meno’ e tentare di eliminare la possibilità della necessità di un secondo intervento; – si deve ricostituire quanto più è possibile del difetto osseo; la sostituzione protesica è spesso un’opzione migliore della riduzione e sintesi; – si deve cercare di rendere più breve possibile l’ospedalizzazione, tenendo sempre in mente la ridotta aspettativa di vita del paziente; – si deve mirare al più rapido ritorno ad uno stato funzionale, eliminando lunghi periodi di immobilizzazione. Basandosi su queste indicazioni, di fatto l’unico trattamento possibile per il paziente metastatico dovrebbe essere la resezione ampia e la ricostruzione con protesi: ovviamente così non è, perché i pazienti spesso sono plurimetastici, e quindi l’asportazione ampia di una sola metastasi ossea non risolve certo il problema oncologico, e spesso il paziente non è in condizione di affrontare un intervento aggressivo. Nonostante questo, l’osteosintesi continua anche oggi ad essere il trattamento principe per molti pazienti metastatici, in particolare se associata ad altri trattamenti locali (curettage, cementoplastica) e a terapie adiuvanti locali o sistemiche (radioterapia, chemioterapia, ormonoterapia, immunoterapia, ecc.). Esistono diversi elementi a sostegno dell’osteosintesi [44]: una ridotta aspettativa di vita, la presenza di metastasi multiple, un istotipo di tumore responsivo alla radioterapia o ad altre terapie adiuvanti, la presenza di sufficiente bone stock prossimale e distale, la sede diafisaria della lesione. In ogni caso la decisione deve essere presa sulla base di un esame complessivo, specifico e multidisciplinare del singolo paziente.

Fratture patologiche e osteosintesi: una guarigione è possibile? La finalità del trattamento delle fratture non patologiche è la consolidazione ossea. Nelle fratture su metastasi, pur essendo possibile in alcuni casi ottenere una consolidazione, la finalità del trattamento non è la guarigione della frattura, ma convertire un difetto osseo a ‘segmento aperto’ in un difetto a ‘segmento chiuso’, ristabilire la resistenza del segmento sia in flessione che in torsione, permettere immediatamente il carico [35]. Una consolidazione di una frattura patologica è tuttavia possibile. I dati a questo riguardo sono in realtà limitati, dal momento che nella maggior parte degli studi casistici pubblicati vengono presentati i risultati come sopravvivenza del paziente e sopravvivenza dell’impianto (sintesi o sostituzione protesica) piuttosto che come consolidazione della frattura. Poitout et al. [75] indicano per le fratture patologiche una percentuale di guarigione complessiva compresa fra il 5 e il 20% dei casi, senza riportare una specifica casistica. Gainor e Buchert [24] in uno studio su 129 fratture patologiche hanno rilevato una guarigione media delle fratture del 35%. Livello Evidenza V A. Tale percentuale di guarigione nella loro esperienza variava considerevolmente da tumore a tumore, arrivando fino al 67% per il mieloma, al 37% per il carcinoma mammario, ma riducendosi allo 0% per il tumore polmonare. Un’importante variabile rispetto alla percentuale di guarigione risultava, accanto all’istotipo, il tempo di sopravvivenza del paziente. Altri Autori hanno riportato, in modo similare, percentuali complessive di consolidazione nelle fratture patologiche, non divise per tipo tumorale, comprese fra 15% [47] e 35% [38]. In accordo con Gainor e Buchert [24], anche Sim [83] indica in mammella, mieloma e tumore renale gli istotipi con maggiore possibilità di consolidazione di una frattura patologica. La bassa percentuale di guarigione delle fratture metastatiche nonostante le terapie adiuvanti mette in evidenza l’importanza di eseguire una sintesi stabile e resistente nel tempo e, laddove si ipotizzi una lunga sopravvivenza del paziente, scegliere se possibile la resezione e ricostruzione protesica per evitare il cedimento a distanza dei mezzi di sintesi. Primo elemento nella valutazione preoperatoria di un paziente metastatico (o supposto tale) è la verifica della natura secondaria della lesione osteolitica che si deve trattare. Una completa visualizzazione del segmento è infatti fondamentale per evidenziare eventuali lesioni associate ed evitare quindi di effettuare una sintesi insufficiente con la necessità di successivi reinterventi con crescente complessità chirurgica e ulteriori aggravi terapeutici per il paziente. L’obiettivo deve essere sempre quello di cercare di trattare un segmento osseo metastatico una volta sola. Questo vale quando già concomita-

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no altre lesioni nello stesso osso, ma anche in casi di lesione unica a fini preventivi nei confronti di una possibile successiva diffusione ulteriore della malattia. La conoscenza della sede anatomica della lesione costituisce il primo criterio per la scelta del trattamento [64]: ovviamente le lesioni pure epifisarie non si giovano di solito dell’osteosintesi, ma piuttosto della chirurgia protesica, mentre alla osteosintesi, quando indicata, sono riservate solo, come illustrato dallo studio di Capanna e Campanacci [12], le lesioni metafisarie, e, soprattutto, le diafisarie delle ossa lunghe. L’osteosintesi poi, anche nelle lesioni diafisarie, deve essere sempre la più lunga possibile, con l’obiettivo di stabilizzare e rinforzare la maggiore estensione possibile del segmento. A tal fine risulta particolarmente utile l’utilizzo dei chiodi endomidollari. Sempre per questa ragione, nei casi di lesione diafisaria del femore è sempre indicato utilizzare non chiodi diafisari semplici, ma chiodi con vite cervico-cefalica in modo da ‘armare’ in modo preventivo il collo femorale, tanto più che la sede cervicale e intertrocanterica è la zona del femore a maggior incidenza di lesioni metastatiche [54]. Livello Evidenza V A. L’osteosintesi endomidollare non deve essere semplice, ma comunque bloccata, al fine di dominare le rotazioni all’interno della diafisi. 42

Osteosintesi semplice o osteosintesi + curettage e cemento L’escissione del tessuto tumorale nel trattamento delle metastasi può in molti casi portare un significativo miglioramento della prognosi locale. A differenza che nel caso delle neoplasie primitive dell’osso, tale escissione può spesso essere eseguita in modo intralesionale con un curettage e l’utilizzo di adiuvanti locali. Particolarmente utile è l’utilizzo del polimetilmetacrilato per riempire il difetto post-curettage e ristabilire una continuità meccanica del segmento osseo, come introdotto fin dagli anni ’60 – ’70 [70, 81, 33]. L’osteosintesi semplice, senza curettage e cementoplastica, dovrebbe essere limitata ai casi in cui la sola osteosintesi associata ad adiuvanti esterni (radioterapia, chemioterapia, ormonoterapia) può consentire le guarigione locale (per esempio nel mieloma multiplo e nel carcinoma mammario responsivo alle terapie mediche) oppure nei casi in cui la prognosi del paziente faccia ritenere che il tempo di durata dell’osteosintesi semplice sia sufficiente a coprirne la breve aspettativa di vita [35]. Alcuni Autori hanno indicato come elementi di indicazione per il curettage e borraggio con cemento la presenza di una significativa massa nei tessuti molli, una distruzione di più del 50% del diametro dell’osso, difetti a

segmento aperto con scarso contatto dei monconi di frattura [41]. L’esecuzione di un curettage e borraggio ha una duplice funzione, meccanica e oncologica. ADIUVANTI LOCALI Gli adiuvanti locali più diffusamente utilizzati a completamento del curettage meccanico sono il fenolo, l’azoto liquido, il laser. I primi adiuvanti locali usati nella chirurgia ortopedica oncologica sono stati, all’inizio degli anni Settanta, la crioterapia con azoto liquido, sviluppata da Marcove [59] al Memorial Sloan-Kettering di New York e la cementazione con PMMA descritta per la prima volta da Persson e Wouters [72]. A queste esperienze si sono aggiunti con il tempo altri adiuvanti locali, chimici come il fenolo, l’etanolo e H2O2, e fisici come la termocoagulazione con elettrobisturi, soprattutto ad Argon e la crioterapia con Cryoprobes. È importante, come sottolineato da Piccioli [74], il fatto che qualsiasi agente fisico o chimico usato come adiuvante non può correggere o risolvere un curettage mal eseguito. Esso infatti deve essere aggressivo, utilizzando frese motorizzate ed eliminando accuratamente i residui della fresatura. Tutto ciò è cruciale per il successo oncologico della procedura chirurgica. 43

AZOTO LIQUIDO La crioterapia è l’uso del freddo per indurre la necrosi tissutale con intenti ablativi. La moderna crioterapia nasce nel 1963 nel trattamento del Morbo di Parkinson [17]. Nel 1966 Cage et al. [9] dimostrarono l’azione della crioterapia sull’osso in modelli canini. L’utilizzo di azoto liquido a -197° nel trattamento delle lesioni ossee è stato introdotto da Marcove nel 1973 [59]. Livello Evidenza VI A. I vantaggi di questa metodica sono rappresentati da un alto tasso di efficacia, dalla conservazione e preservazione delle articolazioni adiacenti, dalla possibilità di evitare ricostruzioni eccessive con sostituzioni protesiche o trapianti. I rischi sono rappresentati dalla possibile necrosi dei tessuti molli circostanti, da neuroaprassia delle strutture nervose vicine e dal rischio di frattura (5-25%) [55, 61]. Il razionale della metodica risiede negli eventi che colpiscono una cellula a temperature così basse: shock termico, disidratazione e squilibrio elettrico tossico intracellulare, formazione di cristalli di ghiaccio (che avvengono a velocità elevate di raffreddamento e che sono responsabili della morte cellulare diretta) ed a rottura delle membrane cellulari e alterazioni micro-vascolari (che avvengono a velocità di raffreddamento lente e che sono responsabili della morte cellulare secondaria e progressiva). Anche il disgelo che

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segue l’applicazione del freddo determina la coalescenza dei cristalli e la rottura meccanica della membrana cellulare, causandone la morte. Le temperature necessarie per raggiungere la necrosi cellulare variano da 21° a -60°, oltre le quali non si ottiene nessun incremento della percentuale di necrosi. Non tutti i tessuti rispondono in modo uniforme alla crioterapia: essa infatti è in funzione della tipologia cellulare, della densità, della vascolarità tissutale e della presenza di molecole crio-protettive, dal numero di cicli gelo-disgelo, dalla sua percentuale, dalla temperatura assoluta ottenuta e dalla durata del congelamento [7]. Da un punto di vista tecnico, le regole auree del sistema descritto da Marcove sono: ampia retrazione e protezione dei tessuti molli e delle strutture vascolo-nervose, tourniquet, curettage aggressivo motorizzato del tumore con creazione di un’ampia finestra ossea, impiego del raffreddante con imbuto (dopo il curettage viene utilizzato un imbuto, sigillato alla base con Gelfoam, per dirigere il flusso di azoto liquido nella cavità. Il primo flusso deve durare solo 2 minuti per consentire il congelamento del Gelfoam e l’ulteriore sigillamento del sistema); monitoraggio con termocoppia della temperatura dei tessuti molli; cicli di gelo-disgelo (congelare il tessuto fino a -40° per 5 minuti, aspettare che la temperatura torni a 0° e ripetere, questo perché è stato dimostrato che dopo il primo ciclo aumenta la conduttività del freddo). In caso di fisi ancora aperte, è indicato un solo ciclo; irrigazione della ferita con soluzione salina; monitoraggio intrarticolare con termocoppie; ricostruzione dei tessuti molli; ricostruzione con PMMA e sintesi interna (per permettere una stabilità immediata, un supporto strutturale e una riabilitazione precoce delle articolazioni circostanti); antibiotico terapia postoperatoria, proscrizione dal carico per sei settimane. L’efficienza citotossica della crioterapia ha un raggio di azione di 7-12 mm senza effetti sulla cartilagine articolare. Tra le complicanze più comuni di questa metodica c’è la frattura del sito criotrattato nel 5-25% dei casi [55, 61]. Questa esperienza si verifica per necrosi trabecolare con interruzione della matrice osteoide e necrosi midollare massiva con minima infiammazione, successiva colliquazione e progressiva fibrosi. Il tessuto osseo crionecrotizzato tende a ri-ossificarsi lentamente e si comporta come un innesto acellulare. Pertanto, la criochirurgia può essere definita come una resezione intracompartimentale biologica, permettendo un’ampia escissione in situ senza la morbidità di una resezione massiva o di una disarticolazione. Una evoluzione della crioterapia sono le criosonde, o cryoprobes. In questo sistema, il freddo viene portato per conduzione locale, e non per instillazione, tramite dei sistemi a base di Argon a -190° come mezzo refrigerante ed Elio a 35° come disgelante. Alcuni sistemi utilizzano il solo Argon, a cui

mediante regolarizzazione della pressione, si riesce a determinare la temperatura del gas, sfruttando l’effetto di Joule-Thompson con l’aiuto di sistemi computerizzati. I vantaggi di questa metodica sono quelli di raggiungere una temperatura di congelamento in minor tempo rispetto al sistema con azoto liquido e di avere un sistema di controllo più efficace della temperatura raggiunta. Questo sistema, tuttavia, ha dei limiti nel numero, nel diametro e nel costo di ogni criosonda, nel volume di gas argon compresso e nel tempo necessario per eseguire cicli ripetuti di congelamento-scongelamento, tutto ciò porta a trattare più velocemente e più economicamente le cavità ossee maggiori con l’azoto liquido secondo la tecnica di Marcove [60], lasciando alle criosonde le lesioni più piccole. In questi casi, non dovendo più isolare l’imbuto, si utilizza la soluzione fisiologica sia come termoconduttore per condurre il freddo all’interno della lesione fino all’orlo della lesione ma non oltre per evitare il contatto con i tessuti circostanti sia che come termomodellante, per irrigare e proteggere i tessuti circostanti facendo sciogliere eventuali eccessi di congelamento della stessa soluzione fisiologica. In alternativa alla fisiologica, si può utilizzare un gel viscoso utilizzato in urologia e ginecologia (Surgilube) [6]. I passi successivi a quelli delle cryoprobes sono identici a quelli descritti per la crioterapia tradizionale [39]. 45

CEMENTO ACRILICO (PMMA) Una temperatura tra 42° e 47° è sufficiente a distruggere differenti tipi di cellule, comprese quelle gonadiche, embrionali, sanguigne, cartilaginee e neoplastiche. Charnley aveva dimostrato il raggiungimento di 90° di una massa di cemento acrilico delle dimensioni di una palla da golf [14] e successivamente Persson e Wouters nel 1976 [72] introdussero l’uso del cemento a base di PMMA nel trattamento delle lesioni ossee. Il razionale dell’utilizzo di questa metodica sta nella preservazione del segmento scheletrico, nell’efficacia del controllo locale, nella precoce ripresa del carico, nella facilità di riconoscere una recidiva locale e nella possibilità di avere ancora altre opportunità terapeutiche [54]. E’ stato ipotizzato che l’azione del PMMA avvenga per necrosi tissutale perilesionale da calore derivante dalla polimerizzazione esotermica del composto e da un possibile effetto tossico del monomero stesso. Studi sperimentali, tuttavia, hanno dimostrato che la necrosi termica dell’osso avviene in modo variabile e tempo dipendente tra 48° e 60°, mentre la temperatura massima all’interfaccia osso/cemento raggiunta in un modello sperimentale è stata di 46° in una condizione, però, massa e forma dipendente [50], tanto che la temperatura del nucleo di massa di cemento aumenta in funzione della

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grandezza della massa stessa. Inoltre, la velocità di dissipazione del calore è dipendente dalla vascolarizzazione dell’osso per cui l’effetto è maggiore se il flusso ematico viene interrotto dall’applicazione del tourniquet. Non esiste, infine, un evidente effetto tossico cellulare del monomero di metilmetacriclato [57]. Il raggio di azione del cemento è di 1,5-2 mm per l’osso spongioso e di 0,5 mm nell’osso corticale [67]. Una nota a parte merita l’utilizzo del cemento oltre che come riempitivo anche come composto per rinforzare una sintesi endomidollare come un chiodo bloccato. In questi casi è utile scegliere il chiodo del maggior calibro possibile, alesare almeno 2 mm oltre il diametro scelto e provare la riduzione prima dell’introduzione del cemento. Il cemento scelto tra quelli disponibili in commercio deve avere una bassa viscosità, deve essere raffreddato per rallentare la velocità di polimerizzazione e quindi inserito all’interno di tutta la diafisi in caso di lesioni permeanti l’osso. Dopo la cementazione del canale, si inserisce il mezzo di sintesi endomidollare che va bloccato sia prossimalmente che distalmente in posizione statica. Nelle lesioni localizzate il cemento deve invece riempire lo spazio lasciato dal curettage e su di esso vanno fissati i mezzi di osteosintesi [11]. Nel caso dell’osteosintesi con placca, sono state descritte procedure diverse. La cementazione può precedere la sintesi (con strumento a pistola e quindi completamento manuale) e quindi eseguire la sintesi sul cemento già consolidato, come proposto anche da altri Autori [5]. Ciò è facilmente effettuabile in particolare nel caso di lesioni ancora senza frattura ma è eseguibile anche nei casi di frattura, previa iniziale stabilizzazione della frattura stessa tramite le viti più prossimali e distali della placca. Tale tecnica permette di ottenere un riempimento ottimale del difetto e del canale midollare. Quando si applicano le viti sul cemento già solido, un accorgimento utile è quello di perforare entrambe le corticali ossee e il cemento facendo entrare e uscire la punta del trapano senza mai arrestarne la rotazione per evitare che la punta rimanga intrappolata nel cemento stesso e possa giungere a rottura da stress. La cementazione può invece seguire la sintesi con strumento a pistola in modo da riempire gli spazi residui endocanalari e il difetto [84]. Qualora si usi questa metodica, è necessario utilizzare un cemento a bassa viscosità per poter ottenere un corretto riempimento degli spazi. Se il posizionamento della placca impedisce l’accesso alla cavità canalare tramite il difetto, i su citati Autori suggeriscono di eseguire in modo preliminare i fori nelle corticali per le viti, applicare il cemento e inserire quindi le viti su cemento ancora non consolidato.

CEMENTO ADDIZIONATO AD ANTIBIOTICI ED ANTIBLASTICI Questa metodica prevede di miscelare farmaci anti-tumorali insieme al PMMA e di sfruttare un effetto di lento rilasciamento dal cemento [37]. Il razionale dell’impiego di antibiotici addizionati al cemento si basa sull’elevato rischio infettivo di pazienti solitamente immunodepressi per le prolungate chemio e radioterapie che spesso hanno sostenuto prima dell’intervento, e per l’aggressività chirurgica con conseguente necrosi ossea, cui il curettage eventualmente rinforzato con frese ad alta velocità, azoto liquido, etc, sottopone l’osso. Le preparazioni con gentamicina, tobramicina, etc, già utilizzate in chirurgia protesica e nella confezione di spaziatori nel trattamento delle protesi infette sono i più utilizzati. Diverso è il discorso sugli antiblastici: teoricamente l’aggiunta di specifici antiblastici efficaci su ogni specifico istotipo, dimessi dal cemento costituirebbe una grande opportunità terapeutica in linea teorica.I farmaci più comunemente utilizzati sono il metotrexate, in via aspecifica, il cisplatino per i tumori polmonari e la doxorubicina per il tumore della mammella [40]. In un recente studio italiano, Rosa et al. [78] hanno dimostrato che con questa tecnica i farmaci antitumorali vengono rilasciati nel tempo in forma attiva dal cemento, tendono a formare granuli e che ciascun farmaco conserva le proprie specificità citotossiche con un effetto differente sulla vitalità della coltura cellulare di riferimento. Pur non riuscendo a chiarire se il rilascio del farmaco dal cemento sia una vera eluizione cronica o, più probabilmente una dismissione rapida dal cemento, una volta posto in soluzione, lo stesso studio ha confermato i dati presenti in letteratura indicanti che, il calore generato dalla polimerizzazione non influisce sulla farmacodinamica di questi farmaci [30]. Più recentemente sempre il gruppo italiano di Maccauro e di Rosa [52] ha dimostrato che l’aggiunta di metotrexate non modifica le proprietà meccaniche in compressione del cemento, anche se tale studio non chiarisce il ruolo delle proprietà a fatica del cemento che, in vivo, hanno un’importanza superiore a quelle in compressione. Il problema tuttavia è la biodisponibilità nel tempo degli antiblastici; la doxorubicina che è il farmaco chiave nel tumore mammario, ha un’emivita di meno di 24 ore ed è cardiotossico; il metotrexate che è l’antiblastico più stabile nel tempo non è specifico ed è gravemente nefrotossico e tossico sulla crasi ematica, e, spesso, i pazienti anziani non possono tollerare rapide dismissioni di elevate concentrazione di questo farmaco nonostante l’idratazione delle urine nelle 24 ore precedenti il trattamento e l’utilizzo rapido di inibitori competitivo (acido folico).

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FENOLO

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Il fenolo, o acido fenolico, è un composto batteriostatico in concentrazione dello 0,1-1%, battericida al di sopra dell’1%, citotossico non selettivo a concentrazioni superiori al 3% e anestetico locale per concentrazioni maggiori del 5% [77]. Esso agisce tramite denaturazione delle proteine cellulari che determinano la permeabilità cellulare, fino alla distruzione delle cellule e può distruggere circa 1-1,5 mm di tessuto tumorale tramite un processo di necrosi coagulativa. Il fenolo è anche fisiologicamente prodotto dalla distruzione naturale di aminoacidi aromatici nell’intestino e viene normalmente escreto dal rene con metaboliti acquosi. La concentrazione normale di fenolo nell’organismo è di 0,1 mg/l, e la concentrazione urinaria massima consentita in ambiente lavorativi è di 300mg/l urine. Possiede effetti nocivi a carico del cuore, dei polmoni, del rene e del sistema nervoso. Il suo impiego è selettivamente indicato nei tumori cartilagine ad una concentrazione del 5% a temperatura ambiente e viene direttamente versato nella cavità o applicato sulla superficie della cavità con un tampone. E’ importante un lavaggio precedente alla instillazione del fenolo per rimuovere detriti tissutali e coaguli e bisogna prestare attenzione a non danneggiare e/o irrigare i tessuti molli perischeletrici. La procedura deve essere ripetuta tre volte, irrigando i coaguli murali ed evitando effetti di diluizione marginale da parte del sangue in arrivo, puntando ad una copertura omogenea della parete cavitaria. La necessaria quantità di fenolo deve essere lasciata in situ per 60 sec., poi rimossa con un lavaggio di soluzione fisiologica. Altri Autori, tuttavia, utilizzano concentrazioni di fenolo al 90% che viene tenuto in situ per 5 minuti e poi lavato con soluzione salina [49]. La fisiologica ha sostituito sia l’irrigazione con alcool al 70%, perché questo possiede effetti tossici e perché il fenolo è facilmente solubile in acqua a concentrazioni del 5%, sia quella con carbonato di idrogeno [76]. Il fenolo è utilizzato in associazione con PMMA. Trieb et al. [85] riportano che le recidive non sono legate all’utilizzo di fenolo o meno, quanto piuttosto alla bontà del curettage, ma Capanna et al. [13] descrivono un tasso di recidiva del 41% nei casi trattati senza fenolo contro i 7% di quelli trattati con fenolo in una popolazione di 165 tumori benigni differenti con potenzialità di recidivare. CORRENTE ELETTRICA La cauterizzazione mediante elettrobisturi ha un effetto aspecifico citotossico con una penetranza di circa 1 mm. In questo caso, viene applicata una corrente elettrica a radiofrequenza direttamente al tessuto per cauterizzare e controllare il sanguinamento. L’efficacia di questa metodica è aumentata se

viene eseguita con un raggio di Argon. Tale tecnica, nata in ambiente laparoscopico, prevede l’utilizzo di un fascio di gas, l’Argon, che conduce l’energia elettrica al tessuto sottoforma di un fascio di gas Argon ionizzato, che ha un potere ionizzante inferiore all’ossigeno e che può anche aiutare rimuovendo fisicamente il sangue ed altri tessuti dalla lesione, migliorando quindi la visibilità del campo operatorio. La profondità di azione media decritta in studi sperimentali è di 2,4 mm, mentre il tempo di applicazione è di 10 secondi per ogni porzione ossea da trattare con potenza regolata a 100 W [21, 51]. L’azione della coagulazione con Argon crea, a livello tissutale, vaporizzazione, carbonizzazione e necrosi coagulativa, con ampiezza, potenza e tempo dipendenti. L’azione di essicazione tissutale crea la carbonizzazione dei tessuti, e la cavità assume un aspetto "colorato di nero" caratteristico. I dati in letteratura la indicano come una metodica più semplice da utilizzare rispetto alle altre anche per la sua manegevolezza. Un adiuvante locale può essere considerata anche l’embolizzazione selettiva preoperatoria, particolarmente indicata in tumori ad alta vascolarizzazione (come il tumore renale a cellule chiare e il carcinoma tiroideo). CHIODO O PLACCA? Nella maggior parte delle sedi, in particolare per quanto riguarda l’arto inferiore, i mezzi di sintesi endomidollari sono oggi la prima scelta. I principali vantaggi offerti dal chiodo endomidollare sono: • una sintesi più lunga e comprensiva della quasi totalità del segmento osseo. Ciò permette una migliore distribuzione degli stress e inoltre assicura una minore incidenza di ulteriori fratture patologiche distalmente o prossimalmente alla sintesi effettuata [23]; • una situazione biomeccanica più favorevole per la trasmissione del carico, elemento di particolare importanza in una frattura patologica destinata spesso a non guarire e quindi a determinare uno stress cronico sul mezzo di sintesi. Tale caratteristica è fondamentale per assicurare una maggior durata meccanica della sintesi. L’utilizzo di placche nell’arto inferiore trova invece le seguenti indicazioni: • nelle lesioni metafisarie, dove non vi sia sufficiente spazio per la fissazione del chiodo endomidollare; • in casi selezionati di lesioni epifisarie laddove siano conservati una superficie articolare intatta, un sufficiente bone stock residuo per permettere una fissazione stabile tale da permettere un carico immediato, un adeguato e indolore range di movimento funzionale [41];

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• in caso di presenza di preesistenti mezzi di sintesi o protesi che impediscano l’utilizzo di un chiodo endomidollare.

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Per quanto riguarda l’arto superiore, considerata la minore importanza delle sollecitazioni di carico, l’osteosintesi con placca ricopre ancora un ruolo prevalente. Questa considerazione, anche se non confermata universalmente dalla Letteratura, riguarda non solo l’avambraccio e la mano (sedi peraltro rare di metastatizzazione), ma anche l’omero, nel quale l’osteosintesi endomidollare trova a nostro avviso come unica indicazione le stabilizzazioni semplici senza curettage in patologie responsive agli adiuvanti (come il mieloma). Nei casi invece in cui si debba eseguire un curettage e borraggio a cielo aperto, un’osteosintesi con placca risulta meno invasiva per il paziente, evita un ulteriore accesso per il chiodo, diminuisce i tempi operatori e l’esposizione alle radiazioni ionizzanti ed evita il possibile danno iatrogeno dei chiodi omerali anterogradi, pur consentendo una pari efficacia nei risultati come confermato in uno studio comparativo da Dijkstra nel 1996 [22]. Al di là del segmento interessato, se si decide per la fissazione con placca, essa va associata in tutti i casi a curettage e cementoplastica. L’uso del cemento non solo dà sostegno e continuità meccanica al segmento osseo, ma aumenta la tenuta delle viti e migliora la rigidità della sintesi. Le attuali placche a stabilità angolare risultano pertanto particolarmente indicate nel trattamento delle lesioni metastatiche in quanto aumentano la stabilità del sistema. Nei casi in cui si ritenga particolarmente a rischio la stabilità della ricostruzione, si possono anche utilizzare due placche, poste parallele una a 90° rispetto all’altra sulla circonferenza della diafisi. E’ stato dimostrato che un simile sistema presenta la massima stabilità ed in particolare è più stabile dello stesso chiodo endomidollare. Il concetto di massima stabilità va sempre ricercato anche nell’osteosintesi con chiodo endomidollare. Ovviamente i chiodi devono essere sempre bloccati con montaggio di tipo statico e ciò va fatto utilizzando il maggior numero di viti consentito dal mezzo di sintesi. Qualora nel follow-up del paziente si riscontri la rottura delle viti di bloccaggio, queste dovrebbero essere sostituite con riposizionamento di nuove viti. Come detto, l’osteosintesi, in particolare quella endomidollare, deve essere la più lunga possibile per rinforzare l’intera estensione del segmento e, nel caso del femore, deve interessare anche il segmento cervico-cefalico. Per questo si devono sempre utilizzare chiodi con vite o viti cervicocefaliche e non semplici chiodi diafisari. Livello Evidenza V A. L’avvento in Traumatologia di chiodi di nuova generazione ha tuttavia un po’ modificato alcuni "concetti storici": il materiale è il titanio, che è mate-

riale paramagnetico a bassa aderenza batterica, e calibro variabile. L’inchiodamento o comunque l’osteosintesi corticale con materiale in titanio trova particolare indicazione nelle lesioni ematologiche, perché permette un adeguato follow up della malattia con RMN, e perché riduce il rischio infettivo, particolarmente elevato in questi pazienti. Inoltre, i chiodi endomidollari di ultima generazione, a calibro variabile, permettono un adeguato riempimento del canale, sia al livello tibiale, sia al livello femorale; nell’osteosintesi endomidollare bloccata del femore è necessario utilizzare chiodi con calibro prossimale di 17 mm, in grado di riempire la regione sottotrocanterica dei pazienti (solitamente di sesso femminile), calibro diafisario di almeno 10 mm nelle donne e 12 nell’uomo, per garantire un impianto veramente stabile, oltre al bloccaggio statico con vite cefalica prossimale, o 2 viti prossimali, e sempre 2 viti statiche distali. Con questi calibri, spesso la cementazione si rende inutile o, talora non praticabile, per il riempimento del canale, che il chiodo riesce ad ottenere. Al livello tibiale la situazione è sovrapponibile, perché un calibro di 9 nelle donne, e 10 mm negli uomini è spesso sufficiente a riempire il canale diafisario [54]. È fondamentale, però, se non si esegue la cementazione eseguire un corretto bloccaggio statico del chiodo e far eseguire sempre la radioterapia nel postoperatorio. I chiodi femorali retrogradi, che stanno diffondendosi in traumatologia, sono generalmente controindicati nei casi di fratture patologiche, proprio perché non permettono di rinforzare anche il collo femorale e la regione intertrocanterica con viti cervico-cefaliche. Inoltre, l’inserimento dall’interno dell’articolazione del ginocchio determina una possibile contaminazione tumorale di quest’ultima, richiedendo un trattamento radioterapico non solo del segmento osseo femorale ma dell’intera articolazione del ginocchio [41]. L’alesaggio del canale è la procedura di indicazione nelle lesioni metastatiche, sia nelle osteosintesi semplici che in quelle associate a curettage e cemento. Nel primo caso, infatti, la tecnica con fresatura del canale permette un miglior fit del chiodo nel segmento osseo con una più controllata scelta della sua misura ed una conseguente maggiore stabilità del sistema; un montaggio non alesato invece, in particolare in un osso patologico, può portare spesso a sottodimensionare prudenzialmente il chiodo. Nelle osteosintesi semplici inoltre, l’alesaggio permette anche di eseguire un esame istologico dai residui della fresatura del canale, che può essere utile per una conferma istologica ed eventualmente per la ricerca di specifici marker utili per la scelta delle terapie mediche oncologiche. Nei casi di osteosintesi associata a curettage e cementazione, l’alesaggio del canale permette l’adeguata penetrazione del cemento in profondità nel canale stesso e assicura inoltre che non vi siano difficoltà nell’inserimento finale del chiodo, difficoltà che devo-

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no essere assolutamente evitate nel momento in cui inseriamo un chiodo sul cemento in fase di consolidazione. Numerosi studi, condotti anche da colleghi italiani, hanno dimostrato che il montaggio recon previene le possibili fratture patologiche del collo femorale sul chiodo, che si possono verificare anche per la possibile migrazione prossimale della metastasi nel tempo. A tal proposito è importante lo studio italiano su RMN nelle metastasi femorali che ha dimostrato che già alla diagnosi di metastasi diafisaria vi possono essere spot metastatici nel collo e in metastasi sottotrocanteriche vi possono essere spot diafisari. Tale studio sembra avvalorare la considerazione che il femore sia comunque da armare in toto riducendo moltissimo, almeno in questo segmento scheletrico, l’utilizzo di osteosintesi corticale con placca. Per quanto riguarda invece la fissazione esterna, essa è sempre e assolutamente da evitare nelle fratture patologiche. La fissazione esterna infatti è una metodica di stabilizzazione temporanea mentre nel caso delle lesioni patologiche vi è necessità di un mezzo di sintesi che possa svolgere un ruolo a lungo termine, considerando che nella maggior parte dei casi la frattura non arriverà a guarigione. Il fissatore esterno inoltre non assicura una sufficiente rigidità alla sintesi, espone ad alto rischio di infezioni il paziente che spesso è (o potrà diventare) immunodepresso per le condizioni generali e le terapie sostenute, e limita le possibilità di eseguire terapie adiuvanti post-operatorie, influendo quindi negativamente anche sulle opzioni di trattamento complessivo della patologia neoplastica del paziente. Osteosintesi e rischi di disseminazione locale e a distanza del tumore Il teorico rischio di disseminazione tumorale è stato oggetto nel passato di molte discussioni, e riguarda le problematiche dell’inchiodamento endomidollare e dell’alesaggio. In realtà l’attuale pluridecennale esperienza nel trattamento delle metastasi con questo tipo di sintesi non sembra confermare un significativo rischio in questo senso [8,10], anche se si tratta di un evento possibile. Dobbiamo ricordare alcuni concetti di base: la metastasi è già disseminazione della malattia alla diagnosi; la radioterapia postoperatoria deve coinvolgere tutto il segmento scheletrico, e, quindi, nell’osteosintesi l’obbiettivo principale è ottenere un’adeguata stabilità meccanica. Nella scelta dell’osteosintesi endomidollare bisogna cercare di utilizzare il calibro maggiore possibile anche a costo di alesare il canale, con montaggio di tipo statico del chiodo. Oltre alla disseminazione meccanica lungo il canale, un possibile meccani-

smo di diffusione del tumore all’atto dell’inchiodamento endomidollare può essere quello della embolizzazione a distanza tramite il circolo ematico, favorita dalle alte pressioni endocanalari determinate dall’inserimento del chiodo, in particolare durante la fresatura preliminare. Ciò è stato riportato per l’embolizzazione adiposa nelle fratture non patologiche con riscontri anche ecocardiografici [88,15], ma nelle fratture metastatiche può applicarsi anche alla entrata in circolo di emboli tumorali. In questo caso, fattori ulteriormente favorenti questo evento potrebbero essere la mantenuta continuità del segmento osseo nel caso di lesioni non ancora fratturate [73] e l’aumentata vascolarizzazione determinata dalla lesione tumorale [3]. Il rischio di complicanze polmonari all’atto dell’inchiodamento midollare è stato studiato soprattutto nelle fratture non patologiche, confermando la significatività del problema e portando a una controindicazione di tale metodica nei pazienti con problematiche polmonari in corso e alla proposta di procedure aggiuntive per ridurre la pressione endocanalare come il ‘venting’ del femore, cioè la creazione di un foro distale o prossimale di decompressione [86,62]. La problematica è ancora più evidente nel paziente metastatico che spesso presenta un quadro complessivo generale e specifico polmonare a rischio e nel quale il rischio è non solo l’embolizzazione adiposa ma anche l’embolizzazione tumorale. L’incidenza e l’importanza delle complicanze cardiopolmonari nell’inchiodamento di segmenti ossei metastatici è stata sottolineata da diversi Autori [73, 3, 48, 4]. Il problema non sembra risolto dall’utilizzo di chiodi non alesati rispetto ai chiodi alesati [16], perché i chiodi non alesati creerebbero una maggiore pressione endocanalare al loro ingresso. Si potrebbe quindi ritenere che le fratture metastatiche e in particolare le lesioni metastatiche ancora non fratturate presentino una indicazione elettiva al ‘venting’ del canale [20]. Un interessante studio sperimentale su femori di cadavere con ricreati difetti metastatici [79] ha però dimostrato che tale metodica riduce significativamente le pressioni endocanalari all’atto della fresatura e dell’inserimento del chiodo ma non riesce a portarla al di sotto della soglia di pressione che permette l’entrata in circolo degli emboli. Nello stesso tempo il ‘venting’ risulterebbe facilitare la migrazione locale del tessuto tumorale lungo il canale e anche nei tessuti perischeletrici, attraverso il foro corticale eseguito. Interessanti innovazioni per ridurre i rischi di embolizzazione in corso di inchiodamento potrebbero derivare da specifiche modifiche della geometria delle frese e dalla possibilità di abbinarvi sistemi di suzione [69, 73, 68]. Complessivamente, si deve considerare che la disseminazione metastatica, locale e a distanza, può essere una conseguenza del nostro atto chirurgico, ma tale problema acquisisce scarsa rilevanza pratica, rispetto alle necessità

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funzionali del paziente, che, comunque ha già una malattia sistemica di per sé; tale rischio può essere comunque ridotto dall’utilizzo di metodiche quali il preliminare curettage della lesione e, soprattutto, la radioterapia e chemioterapia postoperatoria. Sulla base dei dati ad oggi in nostro possesso, laddove vi sia un’indicazione chirurgica, i vantaggi dell’intervento di osteosintesi superano ampiamente i rischi di diffusione del tumore [83]. IMPIANTI PROTESICI E RESEZIONI NELLE METASTASI OSSEE

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L’indicazione alla chirurgia di resezione e sostituzione con protesi sia essa a stelo lungo cementata o megaprotesi tumorale modulare si avvalgono dei criteri proposti da Capanna e Campanacci [12], e si riassumono nelle lesioni epifisarie e metaepifisarie dell’omero prossimale e distale, del femore, della tibia prossimale e, molto più raramente, del bacino. La valutazione preoperatoria dei malati candidati ad una di queste procedure deve essere attenta. Questo tipo di intervento è da considerare tra le tecniche di chirurgia maggiore (specie in caso di lesioni a carico del bacino). L’oncologo di riferimento deve, per quanto possibile, precisare la prognosi di vita del malato. È considerato in genere appropriato un intervento di osteosintesi per pazienti con prognosi di almeno 2 mesi di vita e di almeno 6 mesi per gli interventi di ricostruzione protesica maggiore. Gli esami di laboratorio devono escludere anemia e neutrofilia importante, deficit della coagulazione, ipercalcemia. Un basso “performance status” può aumentare il rischio infezioni e di ritardata guarigione della ferita. La presenza di eventuali metastasi del rachide cervicale va indagata e discussa con l’anestesista. Infine le lesioni da carcinoma renale e tiroidea che sono in genere supportate da un ampia vascolarizzazione anomala, vanno studiate con esami strumentali adeguati a valutarne l’estensione ed eventualmente sottoposte ad embolizzazione preventiva. È bene acquisire una immagine dell’intero segmento da operare per escludere la presenza di malattia a livello distale la resezione. La Risonanza Magnetica Nucleare appare oggi come l’esame di elezione a questo scopo, come dimostrato anche da studi italiani [54], perché permette di valutare la presenza di spot distali alla supposta area di resezione. Un’accurata pianificazione preoperatoria eviterà di impiantare lo stelo protesico all’interno dell’area affetta dalla metastasi, perché in caso di progressione locale ciò comporterebbe una rapida mobilizzazione dell’impianto. L’indicazione alla chirurgia protesica si fonda sulla necessità di ottenere un buon risultato funzionale: da un punto di vista chirurgico questo si traduce, soprattutto negli impianti dell’omero e del femore prossimale, nella necessi-

tà di ancorare stabilmente all’impianto i tessuti molli nel caso in cui si esegua una resezione e si applichi una protesi modulare oncologica. L’ancoraggio alla protesi può essere diretto all’impianto protesico o alla protesi composita, o indiretto attraverso l’impiego della maglia tubolare di polietiletereftalato (Trevira) [29]. La chirurgia di resezione e ricostruzione con megaprotesi è da considerarsi una procedura di “chirurgia maggiore”. E’ l’indicazione elettiva nel trattamento dei tumori primitivi dello scheletro . Nei pazienti affetti da metastasi va invece riservata a casi selezionati, dopo una valutazione collegiale che coinvolga l’oncologo e l’anestesista che parteciperà all’intervento. I rischi di infezione sono in genere aumentati perché i tempi chirurgici sono mediamente più lunghi che negli interventi di protesi ordinarie, perché i pazienti sono spesso immunodepressi, e perché spesso si tratta di interventi di salvataggio dopo uno o più interventi. I ritardi di guarigione delle ferite sono frequenti specie se la sede di intervento è già stata sottoposta a radioterapia. I sanguinamenti intra- e postoperatori sono frequenti. Questi rischi vanno considerati perché scopo del nostro lavoro è rendere rapidamente autonomo il paziente e liberarlo dal dolore. Una complicazione chirurgica importante si traduce in una degenza prolungata, in terapie mediche o riprese chirurgiche che ritardano le terapie per il tumore primitivo e che peggiorano la qualità della vita. Esattamente l’opposto di quanto il chirurgo voleva ottenere. Ma quando sia posta una corretta indicazione, le protesi oncologiche rappresentano l’unica opportunità per rimuovere in modo ampio la metastasi, quindi di ridurre il rischio di recidiva o di progressione locale in modo da considerare il trattamento definitivo per quel segmento. Il miglioramento dei disegni e dei materiali e l’affinamento delle tecniche chirurgiche hanno inoltre consentito nel corso degli anni di migliorare il risultato funzionale con una rapida ripresa della autonomia da parte del paziente. LE TECNICHE MINI-INVASIVE Indicazioni ed Applicazioni cliniche La chirurgia delle metastasi ossee non trova sempre indicazione come nei pazienti plurimetastatici con ridotta aspettativa di vita ( di 3aa • Scarsa o nulla sensibilità a terapie adiuvanti: radio / chemio-ormonoterapia Le tecniche di chirurgia ricostruttiva della pelvi sono complesse dal punto di vista tecnico e non scevre da complicanze anche gravi in tutte le casistiche, pertanto l’accurata selezione costituisce la vera chiave di volta nel successo di queste metodiche che si propongono finalità curative. Si raccomanda l’esecuzione di queste metodiche non solo in mani esperte, chirurghi con training specifico per la pelvi, ma anche in centri dotati di terapia intensiva post operatoria per un monitoraggio accurato nel perioperatorio del paziente. LE TECNICHE DEMOLITIVE 62

Nella chirurgia delle metastasi ossee, in linea di massima, raramente si fa ricorso a interventi demolitivi. Tali tecniche sono raccomandate per lo più nei tumori primitivi, quando non ci sia spazio per una ricostruzione biologica o protesica dopo resezione, con la finalità comunque di salvataggio della vita del paziente. Se un paziente è metastatico, e quindi ha una malattia sistemica, l’amputazione, la disarticolazione, l’amputazione interscapolotoracica, l’emipelvectomia non dovrebbero essere eseguite, fatta eccezione di casi veramente selezionati, quali gravi complicanze infettive o ulcerazioni di neoplasie non responsive a trattamenti adiuvanti, coinvolgimenti del fascio vascolo-nervoso degli arti con danni ischemici o neurologici. Tuttavia la conoscenza di queste tecniche chirurgiche deve essere, comunque, bagaglio del chirurgo ortopedico che esegua interventi di oncologia scheletrica, perché la complicanza che possa imporre una tecnica del genere, è sempre da tenere in considerazione.

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IL TRATTAMENTO DELLE METASTASI VERTEBRALI

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L’incidenza di metastasi scheletriche in corso di malattia neoplastica viscerale è inferiore solo alla localizzazione polmonare ed epatica [4]. In particolare, il segmento scheletrico interessato con maggiore frequenza è il rachide: si ritiene, infatti, che oltre il 10% dei pazienti affetti da neoplasia sviluppi una metastasi vertebrale sintomatica [3,9]. I corpi vertebrali vengono raggiunti prevalentemente per via ematogena, e la sostituzione neoplastica del tessuto osseo causa un progressivo sovvertimento strutturale che comporta la perdita di stabilità nel segmento interessato e la compressione delle strutture nervose intracanalari. L’affinarsi dei protocolli terapeutici per i pazienti neoplastici ha determinato un progressivo miglioramento della prognosi per molti istotipi tumorali, in termini di aumento della sopravvivenza media dal momento della diagnosi; parallelamente si è assistito all’aumento dell’incidenza di metastasi vertebrali sintomatiche, e dell’importanza che esse assumono nel deterioramento della qualità della vita del paziente [6]. La scelta del trattamento più idoneo assume importanza cruciale per il paziente, che può essere gravemente inabilitato dalla presenza di una metastasi vertebrale non trattata. Le metastasi vertebrali possono non solo determinare un deterioramento della qualità di vita, ma anche direttamente o indirettamente causare il decesso di questi pazienti. D’altra parte, pur esistendo un accordo diffuso in letteratura circa la necessità di curare la metastasi sintomatica, non è altrettanto chiaro quale sia il miglior protocollo di trattamento [5]. Trattandosi della manifestazione di una malattia sistemica, le metastasi scheletriche, e quelle vertebrali in particolare, necessitano di un trattamento multidisciplinare, in cui radioterapia, chemioterapia e chirurgia, devono integrarsi al fine di ottenere il miglior controllo locale possibile della lesione [2,7]. Le indicazioni a trattare chirurgicamente una metastasi vertebrale, sono il dolore intrattabile, la comparsa di deficit neurologici (causati dalla compressione delle strutture mielo-radicolari da parte della massa neoplastica oppure dalla frattura patologica della vertebra) e l’instabilità del tratto spinale interessato che causa un dolore meccanico ingravescente e/o un deficit neurologico [3,15]. Il disturbo più importante e precoce dei pazienti affetti da neoplasia vertebrale è, infatti, il dolore, sintomo estremamente comune, non specifico e facilmente sottovalutato. Molti tumori della colonna possono rimanere asintomatici per lungo tempo, ma quando il dolore si manifesta può dipendere da diversi motivi:

– la massa tumorale, che occupa il corpo vertebrale, espandendosi può rompere la corticale con stiramento del periostio, che stimola i nocicettori, ed invadere i tessuti paravertebrali; – il tessuto tumorale può comprimere ed invadere il midollo e/o le radici nervose, determinando sintomi di tipo mielo-radicolare; – l’osteolisi vertebrale può indebolire la vertebra fino alla frattura patologica che determina sintomi dolorosi acuti, del tutto simili a quelli provocati da una frattura traumatica. La conseguente alterazione strutturale, può determinare un’instabilità vertebrale e/o una compressione midollare. Le metastasi si comportano diversamente in rapporto alla grande variabilità degli istotipi del tumore primitivo, possono avere un accrescimento rapido e richiedono un approccio multidisciplinare che prevede una stretta collaborazione tra oncologi, radioterapisti e chirurghi. L’evoluzione delle tecniche anestesiologiche consente, oggi, l’esecuzione di interventi chirurgici ritenuti in passato proibitivi. Controversie esistono su quale possa essere il trattamento più appropriato in pazienti con metastasi vertebrali [10,12]. Il problema è individuare il trattamento più appropriato attraverso un processo sequenziale che tenga conto delle condizioni generali del paziente e dei vari parametri della malattia metastatica [1]. Il numero delle opzioni terapeutiche possibili è in forte crescita, e questo fa sì che il trattamento delle metastasi vertebrali debba essere multidisciplinare. Gli scopi della chirurgia sono la remissione della sintomatologia dolorosa, il miglioramento delle funzioni neurologiche e la stabilizzazione della colonna. La riduzione della massa tumorale (debulking) è un altro importante scopo della chirurgia, finalizzato al controllo locale della malattia, soprattutto in associazione ad altri trattamenti [8]. Le tecniche chirurgiche impiegate nel trattamento delle metastasi vertebrali possono essere classificate come segue: decompressione e stabilizzazione, escissione intralesionale (curettage, debulking) o resezione in blocco, seguite da varie procedure ricostruttive. Queste tecniche chirurgiche possono essere eseguite con accesso anteriore, posteriore o combinato [4,3,11,14]. Decompressione e stabilizzazione E’ la più breve e meno aggressiva e non include necessariamente un approccio diretto al tumore; si propone di decomprimere circonferenzialmente il midollo spinale e stabilizzare la colonna vertebrale; è indicata nei pazienti a prognosi infausta a breve termine, nei casi di danno neurologico subentran-

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te per frattura patologica in atto, ma anche in condizioni di radiosensibilità o responsività alla chemioterapia e/o alla terapia ormonale. Una embolizzazione preoperatoria delle afferenze vascolari alla lesione, rende la procedura più semplice e più sicura. E’ la procedura chirurgica di scelta nei casi che devono essere operati in urgenza. Escissione intralesionale “debulking” La massa tumorale è aggredita direttamente ed escissa nella misura maggiore possibile al fine di eseguire una decompressione circonferenziale del midollo spinale e una riduzione della massa tumorale; questa procedura è inclusa in un approccio multidisciplinare di trattamento della malattia metastatica, ed è preceduta da una adeguata pianificazione chirurgica, che include l’embolizzazione arteriosa selettiva preoperatoria. Questo intervento è indicato in presenza di metastasi radioresistenti con frattura patologica e/o segni di compressione midollare, oppure quando la riduzione della massa tumorale è richiesta per potere eseguire le terapie adiuvanti. L’accesso chirurgico può essere posteriore, anteriore o combinato anteriore e posteriore. 72

Resezione in blocco Questa procedura è maggiormente indicata in caso di tumori primitivi, ma può essere una soluzione corretta in presenza di metastasi vertebrale solitaria di tumori radioresistenti con buona aspettativa di vita a medio - lungo termine. Può essere eseguita attraverso un approccio solo posteriore o un doppio approccio. La resezione in blocco è associata ad una bassa percentuale di recidiva locale, ma la morbidità dell’intervento è elevata per questi interventi di lunga durata (dalle 8 alle 16 ore). Altro punto da considerare è la minore morbidità della resezione in blocco nei confronti dell’escissione intralesionale in tumori estremamente vascolarizzati. Nel trattamento chirurgico delle metastasi vertebrali, il controllo locale è l’obiettivo da perseguire. La resezione in blocco è la metodica che garantisce la minor percentuale di recidiva locale, quindi è indicata nei pazienti con buona prognosi a medio-lungo termine. Approccio al paziente con metastasi vertebrali Prima di intraprendere qualsiasi forma di trattamento, è necessario essere certi della diagnosi. Escludendo talune lesioni facilmente diagnosticabili con esami strumentali e tecnico-laboratoristici, la maggior parte delle neoformazioni necessitano di una valutazione anatomo-patologica.

A livello del rachide la procedura ideale è l’agobiopsia sotto controllo TC, che viene effettuata con un passaggio transpeduncolare, fino al corpo vertebrale, senza invadere lo spazio epidurale. E’ la soluzione migliore per ridurre la disseminazione di cellule tumorali. Per quanto riguarda il trattamento delle metastasi ossee, soprattutto vertebrali, non vi sono linee guida universalmente accettate. Esistono protocolli standardizzati di chemioterapia, terapia ormonale, immunoterapia e radioterapia che stanno progressivamente aumentando la sopravvivenza nella maggior parte dei tumori solidi ed ematologici. Tuttavia, una frattura patologica vertebrale, soprattutto se provoca una compressione midollare, è fonte di dolore e grave limitazione funzionale non controllabile farmacologicamente. Nonostante queste comprovate acquisizioni, l’erronea convinzione di alcuni medici, di considerare come terminale, quindi non di interesse ortopedico, un paziente con localizzazioni scheletriche secondarie, rende spesso indispensabile, se la valutazione anestesiologica lo consente, un intervento chirurgico in urgenza, con ovvii disagi per il paziente, i familiari e i sanitari. Lo sviluppo di tecniche chirurgiche aggressive, consentite dai progressi nel campo anestesiologico, e l’impiego di materiali sempre più evoluti, consente di eseguire decompressioni complete e stabilizzazioni adeguate ad ogni livello del rachide. Inoltre, è possibile realizzare interventi di “curettage”, “debulking”, o di resezioni in blocco con risultati significativi sul controllo locale della neoplasia. La tecnica chirurgica più adeguata, deve essere scelta tenendo conto di molti fattori: le condizioni generali del paziente, l’istotipo del tumore primitivo e la sua responsività alle terapie adiuvanti, la disseminazione della malattia, il quadro neurologico in atto [4, 13]. Schematicamente, si può dire che un paziente con malattia neoplastica disseminata, condizioni generali compromesse ed incipiente deficit neurologico, verrà trattato con un intervento palliativo di decompressione e stabilizzazione, seguito da radioterapia, che potrà consentire un miglioramento sensibile della sua qualità di vita; all’opposto, in un paziente in buone condizioni generali, affetto da una neoplasia primitiva a prognosi relativamente buona, che presenta una metastasi vertebrale isolata sintomatica, sarà giustificato un trattamento più aggressivo analogo a quello di un tumore primitivo [9]. Sioutos et al. [8] hanno analizzato statisticamente i fattori che influiscono sull’incidenza di complicazioni e sulla durata della sopravvivenza dopo il trattamento chirurgico della metastasi vertebrale, ed hanno dimostrato che questa è influenzata dallo stato neurologico preoperatorio, dall’istotipo del tumore primitivo e dal numero di vertebre coinvolte, ma non dal grado di disseminazione della malattia e dal-

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l’età del paziente; gli Autori raccomandano, sulla base di queste osservazioni, una attenta selezione dei pazienti. Sono stati proposti in letteratura, vari sistemi di punteggio preoperatorio allo scopo di classificare i pazienti creando dei protocolli di trattamento ripetibili [3,12,13]. Tali sistemi sono caratterizzati dal fatto, che ad ogni parametro viene dato un punteggio e la somma degli stessi orienta verso l’appropriato trattamento: viene quindi data eguale importanza ai diversi parametri che di volta in volta vengono presi in considerazione. Ad esempio l’istotipo del tumore primitivo e le condizioni generali del paziente, influenzano nella medesima misura il punteggio finale e quindi la scelta del tipo di trattamento. Alla scuola italiana del dr. Boriani si deve la creazione di un algoritmo terapeutico delle metastasi vertebrali, nel quale i parametri presi in considerazione assumono una diversa rilevanza in base al momento in cui vengono considerati. Ogni paziente segue un “proprio” iter sequenziale che non necessariamente prende in considerazione di volta in volta tutti i parametri, alcuni dei quali possono risultare irrilevanti ai fini ultimi della scelta del tipo di trattamento. I parametri esaminati sono le condizioni generali del paziente misurati come “ASA score”, la sensibilità dell’istotipo ai trattamenti adiuvanti e l’entità del danno neurologico. Un paziente con ASA elevato non è candidato al trattamento chirurgico, indipendentemente dall’istotipo del tumore primitivo o dal numero delle localizzazioni secondarie, ed è avviato alle terapie adiuvanti. Un paziente con un danno midollare acuto e ingravescente sarà operato in urgenza con un intervento di decompressione e stabilizzazione; un paziente giovane, in buone condizioni generali, senza danno neurologico e con lesione ossea unica e istotipo non sensibile alla chemio e/o alla radioterapia e buona aspettativa di sopravvivenza (rene, tiroide) è candidato alla resezione in blocco della metastasi. ALGORITMO PER IL TRATTAMENTO MULTIDISCIPLINARE DELLE METASTASI VERTEBRALI Senza considerare tutti gli esami clinici e strumentali cui il paziente è sottoposto all’arrivo in reparto, che fanno parte della stadiazione preoperatoria, il nostro algoritmo terapeutico parte dalla diagnosi di metastasi vertebrale. La prima valutazione che deve essere fatta è ad opera dell’anestesista che deve poter dire se il paziente è operabile. Se il paziente non è operabile, per un ASA score elevato, si prenderanno in considerazione le opzioni non chirurgiche. Si considera quindi la sensibilità dell’istotipo tumorale alle terapie c.d. adiuvanti (Cht, Rxt, terapia ormonale …). Nel caso il tumore non risponda ad alcuna terapia, per il paziente non rimane altro che la terapia del dolore.

Se il paziente è operabile si valuta il grado di compressione midollare e di danno neurologico. Se vi è un deficit neurologico o una paralisi, si valuta, in base al tempo di ischemia e alla modalità di comparsa del danno, se vi è possibilità di recupero. Infatti, se si decide che il paziente non può recuperare dal punto di vista neurologico, si ritorna a valutare la sensibilità alle terapie adiuvanti. Se invece il paziente ha un danno midollare acuto ed ingravescente, viene operato in urgenza. Se non ci sono deficit o se il danno è recuperabile e stabile, si valuta la sensibilità alle terapie adiuvanti; se l’istotipo tumorale non è sensibile e la metastasi è solitaria si decide per un escissione della lesione. Se invece le metastasi sono plurime e trattabili si opta per una decompressione e stabilizzazione, mentre se non sono trattabili si farà solo la terapia del dolore. Nel caso in cui non vi sia deficit o il danno, recuperabile, non è ingravescente, e il tumore è sensibile a qualche terapia adiuvante, si valuta se vi è il rischio di una frattura patologica (o se questa è gia presente). Questo ultimo parametro, infatti, è dirimente per la scelta di un trattamento chirurgico di decompressione e stabilizzazione o per un trattamento solo adiuvante. L’escissione della neoplasia può essere effettuata sia in blocco, con margine ampio, che attraverso un debulking; in linea di massima l’asportazione “en bloc” viene riservata ai tumori ipervascolarizzati, alle metastasi da carcinoma del rene e da sarcoma, ed ai casi in cui questo tipo di intervento sia facilmente eseguibile. In sintesi, si può concludere che il trattamento chirurgico delle metastasi vertebrali, e dei tumori ossei in generale, è entrato a far parte di un corretto approccio a questi pazienti. L’evoluzione delle tecniche anestesiologiche, consente oggi un adeguato trattamento delle metastasi vertebrali, con un favorevole rapporto rischio/beneficio. In tal modo si riesce ad ottenere un prolungamento dell’aspettativa di vita, riducendo le usuali complicazioni che, direttamente o indirettamente, possono risultare fatali e determinanti nel condizionare la qualità di vita. Nella maggior parte dei casi è possibile ristabilire o mantenere il movimento, la sensibilità, la dignità e la speranza, controllare il dolore riducendo l’uso di terapie analgesiche. L’indicazione chirurgica delle metastasi vertebrali deve considerare: – l’aspettativa di vita del paziente; – la capacità di poter ristabilire la funzione e limitare il dolore; – la possibilità di ottenere un controllo locale e di associare un trattamento adiuvante per cercare di ridurre la morbilità.

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TERAPIA MEDICA DELLE METASTASI OSSEE Introduzione Le metastasi sono le forme più frequenti di tumore dell'osso. L’osso rappresenta la terza sede più comune di metastasi, dopo le localizzazioni polmonari ed epatiche. L’80% delle metastasi ossee sono da attribuirsi al tumore della mammella, della prostata, del polmone, del rene e della tiroide. Ciò è dovuto sostanzialmente all’ elevato tropismo di questi tumori per il tessuto osseo, alla loro elevata incidenza e alla lunga sopravvivenza dei pazienti. Nei pazienti affetti da mieloma, le localizzazioni ossee sono presenti nel 7095% dei casi. L’incidenza di metastasi ossee, in Italia, è di circa 35.000 nuovi casi/anno [47]. Circa il 25% dei pazienti con metastasi ossee è asintomatico e la diagnosi viene effettuata durante la stadiazione della neoplasia primitiva o per esami eseguiti per altri motivi. Nel 75% dei casi le localizzazioni ossee sono responsabili di una serie di complicanze, quali la frattura patologica, la compressione midollare, l’ipercalcemia, la soppressione midollare (Eventi Scheletrici Correlati, SRE)[13, 14]. Il sintomo più frequente è il dolore. La frequenza degli SRE dipende dalla natura, osteolitica od osteoaddensante, dalla sede, dal numero delle lesioni e dal trattamento. Gli SRE sono causa frequente di ospedalizzazione, con le relative implicazioni socio-economiche [48,51]. Diventa pertanto prioritario prevenire tali complicanze e ridurre la morbilità per SRE. Il trattamento delle metastasi ossee si avvale della terapia tumore-specifica (chemio, ormono, target therapy) della radioterapia, della chirurgia ortopedica. Oltre a dette terapie ed indipendentemente dal tipo di neoplasia, trova indicazione la terapia con bifosfonati, che inibiscono il riassorbimento osseo, riducono e ritardano l’occorrenza degli SRE [12], controllano la sintomatologia dolorosa [22, 25]. Il trattamento del paziente oncologico con localizzazioni ossee è multidisciplinare. La terapia medica viene utilizzata essenzialmente per 2 scopi: il controllo della progressione tumorale mediante agenti antiblastici e la prevenzione degli SRE mediante bifosfonati. In questo articolo vengono delineate linee guida per l’utilizzo dei bifosfonati nel trattamento delle metastasi ossee. Obiettivo della terapia medica Le metastasi ossee sono associate ad una importante morbilità scheletrica: dolore osseo severo, fratture patologiche, compressione del midollo spinale

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o delle radici nervose e ipercalcemia maligna. Eventi che compromettono notevolmente la qualità di vita dei pazienti. La strategia terapeutica prevede un approccio multidisciplinare, che vede coinvolte diverse figure: il radiologo, l’oncologo, il radioterapista, il chirurgo ortopedico, il palliativista ed il riabilitatore. Il principale obiettivo della terapia medica delle metastasi ossee è la prevenzione degli eventi scheletrici correlati (SREs): fratture, ipercalcemia maligna, compressione del midollo spinale, necessità di radioterapia antalgica e chirurgia ossea decompressiva [12]. Scopo di uguale rilevanza è il controllo del dolore. I bifosfonati sono risultati efficaci nel controllo del dolore nei tumori solidi e nel mieloma. Il controllo del dolore e del turnover osseo sono correlati, ed i soggetti che normalizzano il turnover hanno un significativo miglioramento della sintomatologia dolorosa [14]. Inoltre, la terapia con bifosfonati, riducendo gli SREs e il dolore, potrebbero comportare un aumento della sopravvivenza dei pazienti con malattia ossea metastatica. Il controllo del dolore è in questi pazienti un obiettivo primario e la qualità di vita rappresenta l’end-point di efficacia del trattamento delle metastasi ossee. Livello di evidenza IA. La valutazione clinica del dolore è importante al fine di decidere l’approccio diagnostico volto a comprenderne le cause ed a definire la strategia terapeutica. Nella pratica clinica è utile valutare la severità del dolore con strumenti validati quali: scale di intensità analogiche visive (VAS), numeriche (NRS) e verbali (VRS); o valutazioni multidimensionali: McGill Pain Questionnaire, Brief Pain Inventory e Memorial Pain Assessment Card. LA TERAPIA CON BIFOSFONATI Il Carcinoma della mammella Numerosi studi clinici randomizzati e metanalisi hanno documentato l’efficacia dei bisfosfonati nel trattamento delle metastasi scheletriche in donne affette da carcinoma della mammella [31]. Gli end-point primari e gli indici di efficacia utilizzati nei vari studi sono molto eterogenei e questo limita la possibilità di confronto fra i vari bifosfonati. [10,8, 25, 48, 9,36]. Tra gli end-point secondari vengono variamente riportati negli studi il tempo di comparsa della prima complicanza scheletrica (CS), l’incidenza media delle CS, la multiple event analysis secondo Anderson-Gill, il dolore (utilizzando diverse scale), la sopravvivenza e la qualità di vita (QoL). Nella metanalisi di Pavlakis et al i dati di efficacia sono stati resi omogenei e

paragonati esprimendoli come Rischio Relativo [RR] di sviluppare un evento scheletrico in corso di terapia con bifosfonati [BP] rispetto al placebo [31]. Nelle pazienti con metastasi ossee da neoplasia mammaria è dimostrata l’efficacia della terapia nella riduzione del rischio di sviluppare complicanze scheletriche e nel ritardare la comparsa delle complicanze. Un‘ampia metanalisi [37] ha documentato che, confrontati con il placebo, i bisfosfonati riducono il rischio di fratture non vertebrali [OR 0.80; 95% CI :0.64-0.99], di tutte le fratture [OR 0.75; 95%CI 0.61-0.93], di necessità di radioterapia (OR 0.65; 95% CI 0.54-0.79), di interventi di ortopedia (OR 0.59; 95% CI 0.43-0.83), e di ipercalcemia (OR 0.43; 95% CI 0.29-0.63). In nove studi, comprendenti 2.189 pazienti con carcinoma della mammella con metastasi scheletriche, il trattamento con BP ha indotto un riduzione del 21% (RR 0.79%; 95% CI 0.74-0.86) del rischio di incorrere in una complicanza scheletrica. Se si esclude l’ipercalcemia dal raggruppamento delle complicanze scheletriche, la riduzione del rischio è del 15% (RR 0.85%; 95% CI 0.79-0.91) [37]. La frequenza degli eventi scheletrici (Skeletal Event Rate) è riportata in maniera eterogenea tra gli studi. Per clodronato, ibandronato ev e os, pamidronato e zoledronato vi è stata una significativa riduzione media della frequenza di eventi del 28% (tra 14% ed il 48%). Nello studio comparativo tra zoledronato 4 mg e pamidronato 90 mg, analizzando il numero di eventi per anno (esclusa l’ipercalcemia) non vi era una differenza significativa (0.9 per zoledronato e 1,49 per pamidronato; p 0.125) ma analizzando la Multiple Event Analysis con il metodo Anderson-Gill, lo zoledronato riduce del 20% rispetto al pamidronato il rischio di eventi scheletrici (RR 0.80,95% CI 0.66-0.99 p 0.025). Il tempo di comparsa di una complicanza scheletrica rappresenta un endpoint secondario degli studi, ma un importante parametro di efficacia nella clinica. Negli studi con clodronato orale, pamidronato, ibandronato endovenoso e zoledronato verso placebo vi era una significativo ritardo di comparsa del primo evento scheletrico rispetto al gruppo placebo (rapporto BP/PL tra 1.34 e 2.02) [31]. Nello studio compartivo tra zoledronato e pamidronato [6] non vi erano differenze significative nel tempo di comparsa dell’evento scheletrico, ma nel sottogruppo con solo metastasi litiche e nel sottogruppo di pazienti trattate con terapia ormonale lo zoledronato aumentava significativamente il tempo di comparsa della prima complicanze scheletrica (136 giorni e 45 giorni rispettivamente) [31,25]. I bifosfonati si sono dimostrati efficaci dopo almeno 6 mesi di trattamento per le complicanze scheletriche e dopo 12 mesi per quanto riguarda gli interventi ortopedici [37]. Livello di evidenza IA. Grado di Raccomandazione A.

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L’efficacia della terapia con bifosfonati sul dolore da metastasi ossee nel carcinoma della mammella è stato dimostrato, in numerosi studi clinici, con i diversi bifosfonati. [31,10,22]. Un significativo effetto sul dolore e sulla riduzione dell’uso di analgesici è stato documentato con il pamidronato [24]. In tre studi clinici randomizzati l’ibandronato sia in formulazione orale che endovenosa, ha dimostrato di ridurre il dolore [6]. In un piccolo studio pilota , dosi intensive di ibandronato (4 mg ev per 4 giorni consecutivi) riducevano in 7 giorni il dolore in soggetti non responsivi alla morfina [6]. Per lo zoledronato non vi era una significativa differenza rispetto al gruppo trattato con pamidronato. [46]. La qualità della vita (QoL) è stata posta come end-point secondario nella valutazione di efficacia dei BP nel trattamento delle metastasi ossee da tumore della mammella. Il mantenimento della mobilità, dell’autosufficicenza, il controllo del dolore sono componenti fondamentali della QoL e sono correlate alla riduzione delle complicanze scheletriche [48]. L’ibadronato, si è dimostrato significativamente migliore rispetto al gruppo placebo. Un trend verso la significatività (p 0.08) si documentava per il pamidronato. Non sono state osservate differenze tra zoledronato e pamidronato nello studio di confronto (Cochrane Data Base) [31]. I dati nel complesso sono indicativi di un significativo effetto sul dolore, che permette di ridurre la terapia analgesica. I dati sulla QoL indicano nel complesso un importante impatto positivo sulla QoL. Tuttavia si deve evidenziare che non è disponibile uno strumento specifico per la valutazione della QoL nella paziente con metastasi ossee [13]. Livello di evidenza IA. Grado di Raccomandazione A. Studi randomizzati hanno dimostrato la superiorità del pamidronato (90 mg) rispetto al clodronato sul controllo del dolore [24]. Nello studio tra zoledronato e pamidronato con analisi post hoc, lo zoledronato è risultato superiore al pamidronato in una sottopolazione con metastasi litica, (tempo a comparsa di CS: 310 vs 174 giorni, p= 0.013) e nel gruppo di donne in terapia ormonale (310 vs 174 giorni, p 0.013) [31, 46]. Un possibile vantaggio dello zoledronato rispetto al pamidronato è stato evidenziato mediante Multiple Events Analysis (Anderson-Gill), con una riduzione maggiore del 20% del rischio di CS [31, 34]. Lo zoledronato ed il pamidronato sono gli unici amino-bisfosfonati che hanno documentata efficacia su tutti gli end-point. [8,25,9]. L’efficacia dell’ibandronato per via endovenosa sembra superiore a quella della formulazione orale [31].

Nella Tabella 3 sono riportati i relativi benefici sul rischio di complicanze scheletriche, espressi con RR (95% IC) e riduzione del rischio (%, RRR), e l’incremento percentuale del tempo di comparsa della complicanza rispetto al placebo [31]. Le linee guida ASCO aggiornate al 2003 [23] consigliano l’uso di aminobisfosfonati come pamidronato e zoledronato. Le linee guida Cancer Care Ontario aggiornate al 2004 [47] suggeriscono di iniziare con pamidronato e clodronato per passare, in caso di inadeguata risposta, a zoledronato. La SIOG (International Society of Geriatric Oncology) consiglia nel paziente anziano con dolore ed impossibilità di muoversi, di iniziare con le fomulazioni orali di ibandronato o clodronato per passare a quelle endovenosa di pamidronato o zoledronato qualora migliorasse la mobilità o ci fossero problemi di compliance o di rispetto delle regole di assunzione [7]. Nella pratica clinica la scelta del bisfosfonato deve tenere conto delle evidenze della letteratura e delle condizioni (mobilità, trasportabilità) e preferenze del paziente che ne condizionano la compliance. Sono considerati di prima scelta gli amino-bisfosfonati (pamidronato, ibandronato e zoledronato). È considerata preferibile la somministrazione endovenosa rispetto a quella orale, tranne in particolari condizioni di trasportabilità o mobilità del paziente. Livello di evidenza IA. Grado di Raccomandazione A. Lo zoledronato è attualmente il farmaco più utilizzato. Conclusioni Nel trattamento delle metastasi ossee da carcinoma della mammella i bifosfonati: • riducono il rischio di SRE e ne ritardano significativamente il tempo a comparsa; • riducono il dolore e migliorano la qualità della vita; • sono consigliabili nell’utilizzo per via endovenosa. Livello di evidenza IA. Grado di Raccomandazione A. Il Carcinoma della prostata Il carcinoma della prostata metastatizza frequentemente a livello scheletrico. Più dell’80% dei pazienti con malattia metastatica presenta lesioni secondarie scheletriche. Le lesioni ossee da carcinoma prostatico sono osteo-addensanti e presentano al loro interno una componente litica e sono pertanto a rischio di complicanze scheletriche in misura paragonabile a quella di

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pazienti con metastasi osteolitiche. Circa il 40% dei pazienti con localizzazione ossea da carcinoma prostatico presenta fratture patologiche, compressione midollare e, più raramente, ipercalcemia. Tali eventi, rari nella malattia ormono-responsiva, divengono frequenti in presenza di malattia ormonorefrattaria. Nei pazienti affetti da tumore prostatico gli effetti dell’osteolisi dovuta alla progressione ossea di malattia si sommano all’osteoporosi dovuta alla terapia ormonale anti-androgenica [29]. Una recente metanalisi ha valutato dieci studi randomizzati con bisfosfonati verso controllo [49]. Tali studi [43,2, 18, 27, 44, 28, 39, 19, 15, 42,] hanno utilizzato diversi bifosfonati, diverse vie di somministrazione, diversi obiettivi primari, diversi stadi di malattia (ormono sensibile, ormono refrattaria). I risultati della metanalisi sono i seguenti: 1. La proporzione di eventi scheletrici avversi è stata 37.8% nei pazienti trattati con bisfosfonati e 43.0% nel gruppo di controllo, con una differenza in termini di rischio assoluto del 5.2%. Gli odd ratio (OR) di tali studi presi singolarmente andavano da 0.71 a 0.98 con un test di eterogeneità non significativo (p=0.55) a sottolineare la non difformità dei risultati raggiunti. L’OR globale è stato 0.79 (95% Intervallo di confidenza (IC): 0.62-1, p=0.05). 2. La riduzione del dolore osseo è stata 27.9% nel gruppo trattato con bisfosfonati e 21.1% nel gruppo di controllo con una differenza in termini di rischio assoluto del 6.8%. L’OR individuale variava tra 1.32 e 2.13 mentre l’OR globale a favore del trattamento con bisfosfonati era 1.54 (95% CI 0.97-2.44, p=0.07). Non è stata riscontrata differenza in termini di riduzione del consumo dei farmaci antidolorifici fra i gruppi di trattamento. 3. Le scale di valutazione del dolore erano differenti nei vari studi, ciò ne limita il confronto. In uno studio di fase II [31] si è ottenuto un notevole effetto analgesico in pazienti con dolore osseo da carcinoma prostatico ormonorefrattario con l’uso di ibandronato per via endovenosa per 5 giorni consecutivi. Questi dati supportano l’ipotesi che l’effetto analgesico possa dipendere dalla schedula di somministrazione. Ma devono essere confermati in uno studio randomizzato. 4. La progressione di malattia, valutata solo in due studi, è stata favorevole al gruppo trattato rispetto ai controlli (OR individuali 0.85 e 0.66, rispettivamente). L’OR globale è stato 0.76 (95% IC: 0.53-1.08, p=0.12) 5. La sopravvivenza globale, valutata in cinque studi non è significativamente aumentata nel gruppo trattato rispetto ai controlli. Gli OR individuali andavano da 0.69 a 1.83 con un OR globale di 0.82 (95% IC: 0.611.11, p=0.21)

Conclusioni I bisfosfonati sono efficaci nel ridurre le complicanze scheletriche di pazienti con metastasi ossee da carcinoma prostatico ormonorefrattario. Livello di evidenza IA. Grado di Raccomandazione A. I dati disponibili non consentono di raccomandare fortemente l’uso dei bisfosfonati nel paziente con metastasi ossee da carcinoma prostatico ormonosensibile. Per questi pazienti il trattamento deve essere valutato a giudizio clinico. I bisfosfonati possono essere efficaci nel controllo del dolore osseo, ma il loro utilizzo non conduce ad una riduzione significativa del consumo di farmaci analgesici. La terapia con bisfosfonati non rallenta la progressione ossea di malattia e non migliora la sopravvivenza globale. Il Carcinoma del polmone Il carcinoma del polmone non a piccole cellule da frequentemente metastasi ossee, con il 27-41% dei pazienti che presentano localizzazioni ossee di malattia alla diagnosi. Nell’80% dei casi le lesioni sono osteolitiche [45]. La malattia ossea ha prognosi infausta, con una mediana di sopravvivenza di 67 mesi. Non vi sono studi randomizzati sull’efficacia dei bisfosfonati nei pazienti con metastasi ossee da tumore del polmone. L’unico dato disponibile deriva da uno studio di efficacia dell’acido zoledronico in pazienti a diversa istologia primitiva, compresi pazienti con carcinoma non a piccole cellule del polmone [35]. Nei 280 pazienti con metastasi ossee da carcinoma polmonare, randomizzati a ricevere acido zoledronico 4 mg o placebo, la somministrazione di acido zoledronico ha comportato una riduzione non significativa di complicanze scheletriche rispetto al gruppo placebo (45% vs 42%, differenza assoluta 3%, p=0.55). Alla "multi event analysis", secondo Andersen e Gill, la riduzione del rischio di complicanze scheletriche è stata del 30% circa (Hazard Ratio 0.706, p=0.036). Questo studio non ha dimostrato vantaggi nella riduzione del dolore e nel miglioramento della qualità di vita. Conclusioni I bifosfonati possono essere utilizzati nel trattamento di pazienti con metastasi ossee da carcinoma del polmone con l’obiettivo di ridurre le complicanze scheletriche. Il farmaco che ha fornito evidenza di efficacia è stato l’acido zoledronico. Considerata la cattiva prognosi di questi pazienti il costobeneficio dell’impiego dei bifosfonati deve essere valutato caso per caso.

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Il Carcinoma del rene Il 30% dei pazienti con carcinoma renale presenta metastasi alla diagnosi, il 20% delle quali interessa l’osso [50]. Trattasi prevalentemente di lesioni osteolitiche, con rischio elevato di complicanze scheletriche come fratture patologiche e compressione midollare. Il tumore renale produce l’ormone simil paratiroideo (PTHrP) [3], il paziente frequentemente manifesta ipercalcemia. Non vi sono studi randomizzati che abbiano indagato specificamente l’utilizzo dei bisfosfonati nei pazienti con carcinoma renale. Uno studio prospettico randomizzato ha valutato l’efficacia dell’ acido zoledronico versus placebo in pazienti con metastasi ossee da neoplasie diverse, fra cui quella renale [35]. L’analisi del sottogruppo di pazienti con carcinoma renale (74 pz in totale), ha evidenziato una riduzione delle complicanze scheletriche (74% vs 37%, p=0.015), con una riduzione assoluta del 37%. Il tempo mediano alla comparsa del primo evento scheletrico avverso è stato di 424 giorni nei pazienti trattati con acido zoledronico versus 72 giorni dei pazienti randomizzati a placebo (P=0.007).

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Conclusioni L’evidenza di efficacia dei bisfosfonati nel trattamento delle metastasi ossee da carcinoma renale è limitata ad una analisi per sottogruppi nell’ambito di un unico studio clinico randomizzato. L’acido zoledronico può essere impiegato per prevenire l’insorgenza di complicanze scheletriche nei pazienti con metastasi ossee da carcinoma renale. Metastasi ossee da altre neoplasie I tumori epiteliali possono dar luogo a localizzazione ossea di malattia. Tuttavia, per neoplasie diverse dai tumori del polmone, della prostata, della mammella e del rene non vi sono studi controllati sull’utilizzo dei bisfosfonati. Un unico studio prospettico randomizzato ha valutato l’efficacia della somministrazione di acido zoledronico versus placebo nella malattia metastatica ossea da diversi istotipi [35]. L’acido zoledronico ha dimostrato una riduzione degli eventi scheletrici nel tumore della tiroide (6 pz), nel carcinoma della vescica (26 pz), e altri 16 istotipi di neoplasie solide (143 pz). Nel sottogruppo definito come "altri tumori", i pazienti sono stati randomizzati a ricevere acido zoledronico versus placebo. In questo gruppo eteroge-

neo l’acido zoledronico si è mostrato efficace nel ridurre le complicanze scheletriche (33% vs 43%, p=0.11) rispetto al placebo con una riduzione del rischio assoluto pari al 10%. L’acido zoledronico ha inoltre dimostrato di aumentare il tempo alla comparsa del primo evento scheletrico avverso rispetto al placebo (mediana 314 giorni versus 168 giorni, rispettivamente, p=0.051). Conclusioni Le evidenze circa l’efficacia dei bisfosfonati nei pazienti con metastasi ossee da neoplasie diverse dal tumore della mammella, del renale, del polmone e della prostata, sono limitate. Tuttavia, l’acido zoledronico può essere considerato nel prevenire l’insorgenza di complicanze scheletriche nei pazienti con metastasi ossee da tumori solidi, diversi dal carcinoma, mammario, polmonare, prostatico e renale. Il Mieloma Multiplo Il Mieloma Multiplo è un tumore delle plasmacellule caratterizzato dall’accumulo di plasma cellule maligne nel midollo osseo che provoca alterazione dell’ematopoiesi e malattia ossea, come lesioni osteolitiche, fratture patologiche, ipercalcemia e osteoporosi. Negli ultimi anni sono stati identificati nuovi bersagli terapeutici molecolari che hanno migliorato la prognosi dei pazienti. I bifosfonati hanno mostrato di ridurre la morbidità scheletrica nel mieloma multiplo, così come in diversi tumori solidi che interessano l’osso. I bifosfonati, inibendo il riassorbimento osseo mediato dagli osteoclasti, vengono utilizzati ampiamente per il trattamento dell’ipercalcemia e per la prevenzione degli eventi scheletrici nei pazienti affetti da mieloma multiplo. Alcuni studi in vitro hanno dimostrato un’attività antitumorale di pamidronato e acido zoledronico. Tali risultati tuttavia necessitano di conferma in studi clinici. Uno studio su 94 pazienti non pretrattati ha dimostrato una significativa riduzione degli eventi scheletrici e delle fratture patologiche nei pazienti trattati con Acido zoledronico in aggiunta al trattamento chemioterapico rispetto al gruppo di controllo trattato con la sola chemioterapia. Inoltre si è evidenziato un più alto tasso di risposte complete e parziali nei pazienti trattati con bifosfonati. Tali dati vanno confermati in studi multicentrici con adeguata numerosità campionaria che consentano così di definire il ruolo dei bifosfonati quali agenti anitumorali nel trattamento del mieloma multiplo [3].

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Conclusioni I bifosfonati possono essere utilizzati nel trattamento dei pazienti con mieloma multiplo quale terapia di supporto. Pazienti con insufficienza renale lieve-moderata (valori di CrCl da 30 a 60 mL/min) devono ricevere una riduzione di dosaggio dell’acido zoledronico. Il trattamento è precluso ai pazienti con insufficienza renale grave. Il trattamento deve essere proseguito per 2 anni, al termine dei quali può essere interrotto. E’ stato ipotizzato un ruolo antitumorale dell’acido zoledronico che deve essere investigato in studi clinici randomizzati [26,30,4]. Quando iniziare la terapia con bifosfonati Si raccomanda di iniziare la terapia con bifosfonati al momento dell’evidenza radiologica di malattia metastatica ossea, anche se asintomatica [1,32]. Schedule raccomandate

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I dosaggi sono da adeguare alle condizioni del paziente. • Pamidronato: 90 mg in 1-2 ore di infusione ogni 28 giorni • Zoledronato: 4 mg in 15 minuti di infusione ogni 28 giorni • Ibandronato: – 6 mg in infusione endovenosa in 1 ora ogni 28 giorni – 50 mg al giorno per os. Le compresse devono essere assunte dopo un digiuno notturno (di almeno 6 ore) e prima dell’assunzione di cibi e bevande al mattino (almeno 30 minuti). Via di somministrazione raccomandata – La somministrazione orale [20,46]: • richiede misure precauzionali, per favorire l’assorbimento e ridurne gli effetti collaterali (digiuno e posizione eretta); • richiede aderenza al trattamento; • richiede una buona funzionalità gastroenterica; • comporta effetti collaterali gastro intestinali. – La somministrazione endovenosa [46]: • richiede l’accesso del paziente alla struttura ospedaliera e controllo da parte del personale sanitario; • può essere somministrata in concomitanza alla chemioterapia; • comporta maggior frequenza di sindrome similinfluenzale;

Durata della terapia La durata ottimale del trattamento con bifosfonati è stata ben codificata, il beneficio dello Zoledronato e dell’Ibandronato evidenziato dagli studi clinici è per un periodo di 2 anni [40,34]. Dopo la comparsa di un evento scheletrico, il proseguimento della terapia con acido Zoledronico ha portato ad una riduzione significativa nella comparsa di successivi eventi [1]. La durata consigliata della terapia con bifosfonati è di almeno 2 anni. Il proseguimento del trattamento è consigliato tenendo conto dei rischi di sviluppo di eventi scheletrici, della tollerabilità e delle condizioni generali del paziente [1]. L’utilizzo in seconda linea di terapia con acido zoledronico o acido ibandronico, dopo progressione ossea di malattia, già in terapia di prima linea con bisfosfonato orale o pamidronato potrebbe migliorare il controllo del dolore [11]. SUPPLEMENTAZIONE DI CALCIO E VITAMINA D Nel paziente oncologico è frequente l’ipovitaminosi di tipo D. Un’analisi condotta in pazienti con carcinoma della mammella ha evidenziato che il 70-80 % dei casi presentava livelli sub-ottimali circolanti di vitamina D [21]. L’ipovitaminosi D ha come conseguenze un ridotto assorbimento intestinale di calcio ed un aumentato turnover osseo. Si raccomanda, durante la terapia con bifosfonati, una supplementazione di calcio e vitamina D. Le dosi raccomandate sono 500 mg di calcio e 400 UI di vitamina D [46]. Tale dosaggio è stato stabilito sulla base del fabbisogno giornaliero di una persona adulta di età superiore a 60 anni. Tuttavia, si ritiene che tale dosaggio sia insufficiente e si consigliano dosi giornaliere doppie (800 UI di vitamina D e 1000-1200 mg di calcio) allo scopo di prevenire l’ipovitaminosi D [41] . Il paziente in terapia con bifosfonati, con ipovitaminosi D, può andare incontro a ipocalcemia e quindi ad iperparatiroidismo secondario. Il paratormone induce l’attività osteoclastica, inficiando l’attività dei bisfosfonati nella prevenzione delle complicanze scheletriche. Negli studi clinici in cui sono stati impiegati i bisfosfonati non sono stati effettuati dosaggi della vitamina D. Lo studio registrativo dell’acido zoledronico aveva previsto il dosaggio trimestrale di calcemia e paratormone [5]. Livelli elevati di paratormone, durante terapia con acido zoledronico, sono direttamente correlati con la probabilità di andare incontro a progressione ossea di malattia, a complicanze scheletriche e morte, particolarmente nel sottogruppo di pazienti con carcinoma prostatico. Tali dati si riferiscono ad una analisi per sottogruppi, e

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devono essere considerati con cautela. Poiché l’iperparatiroidismo, conseguente alla terapia con acido zoledronico, è verosimilmente da attribuirsi ad una relativa carenza di vitamina D, una adeguata supplementazione di vitamina D può migliorare l’efficacia dei bisfosfonati nel trattamento di pazienti con metastasi ossee. Conclusioni Durante la terapia con bifosfonati si raccomanda una supplementazione di calcio e vitamina D. Le dosi giornaliere raccomandate di 400 UI di vitamina D e 500 mg di calcio, possono non essere adeguate. Il dosaggio giornaliero consigliato in un soggetto di età superiore a 60 anni per la prevenzione dell’ipovitaminosi prevede dosi di 800 UI di vitamina D e 1000-1200 mg di calcio. Inoltre, si consiglia il monitoraggio della calcemia ionizzata o corretta per albumina. EVENTI AVVERSI DELLA TERAPIA CON BIFOSFONATI

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Le tossicità più frequenti osservate con acido zoledronico sono: sindrome simil-influenzale (9%), accompagnata da febbre (7.2%), dolore osseo (9.1%), astenia (4.1%) e rigidità (2.9%). Una ridotta escrezione renale di calcio, con conseguenti ridotti livelli ematici di fosfati, si manifesta in modo asintomatico nel 20% dei pazienti e non richiede trattamenti specifici. Inoltre, il 3% dei pazienti presenta ipocalcemia asintomatica. Possono manifestarsi nausea (5.6%) e vomito (2.8%). Nel 2.3 % dei casi può instaurarsi un’insufficienza renale ed anemia (5.2% vs 4.2% nei bracci placebo). Nella terapia con pamidronato le reazioni più comuni sono l’ipocalcemia sintomatica e febbre generalmente entro 48 ore dall’infusione, che si accompagna a sintomi simil-influenzali. Frequenti ipocalcemia, ipofosfatemia e occasionalmente ipomagnesemia. Per quanto riguarda l’ibandronato i più frequenti eventi avversi comuni sono cefalea, vertigini, diarrea, dispepsia, vomito, dolori gastrointestinali, faringodinia, mialgia, astenia, sindromi simil-influenzale per lo più nei primi 3 giorni dall’infusione. Gli studi con acido zoledronico 4 mg e.v. ed ibandronato e.v. o p.o. confermano un buon profilo tollerabilità per le terapie di due anni. Pochi i dati circa i trattamenti a lungo termine, ossia oltre i 2 anni [22]. Conclusioni • Gli effetti dei bifosfonati sulla funzionalità renale dipendono dalla dose e

dalla velocità di infusione. Alle dosi raccomandate, non vi sono aumenti significativi dei livelli di creatinina. Tuttavia, è consigliato monitorare la funzionalità renale durante il trattamento con bifosfonati per via endovenosa. • Nei pazienti con insufficienza renale lieve-moderata si consiglia di iniziare il trattamento con adeguate riduzioni del dosaggio, calcolate in modo da garantire un’esposizione al farmaco pari a quella dei pazienti con CrCl pari a 75 mg/l. Nel caso sia necessario interrompere il trattamento a causa di insufficienza renale severa il trattamento può essere ripreso quando i livelli di creatininemia rientrano entro una variazione di non più del 10% dei valori normali. • Si consiglia di monitorare i pazienti per segni e sintomi di sbilancio elettrolitico, quali ipocalcemia (< 70 mg/l) e ipomagnesemia (< 0.9 mEq/l). • Per quanto riguarda l’ibandronato, negli studi di fase III, non sono state evidenziate differenze in termini di tossicità renale nei confronti del placebo. Pertanto, la dose consigliata non necessita riduzione in caso di funzionalità renale ridotta [5]. Tuttavia, si raccomanda di monitorizzare la funzionalità renale, i livelli serici di calcio, fosfato e magnesio nei pazienti trattati con ibandronato e.v.. L’ibandronato orale non necessita di aggiustamenti del dosaggio nel caso di insufficienza renale lieve o moderata (clearance creatinina >30 ml/min). Nel caso di valori di creatinina inferiori, la dose raccomandata è di 50 mg una volta a settimana. L’OSTEONECROSI DELLA MANDIBOLA (ONJ): PREVENZIONE E TRATTAMENTO L’osteonecrosi della mandibola (ONJ) è una complicanza rara, ma potenzialmente seria della terapia con bifosfonati e.v. Uno studio retrospettivo su circa 4000 pazienti, trattati con bifosfonati e.v., ha evidenziato una frequenza complessiva di ONJ dello 0.83% [22]. Della popolazione in studio, le pazienti con neoplasia della mammella avevano frequenza stimata del 1.2% e nei pazienti con mieloma multiplo del 2.4%. Non sono stati registrati casi di ONJ in pazienti con tumori del polmone, del rene o della prostata. Tra i fattori di rischio individuati si annoverano: il trattamento radiante dei tumori testa-collo [osteoradionecrosi], la malattia periodontale, chirurgie dell’osso mascellare, la presenza di edentulia e di protesi, specie se traumatizzanti, il trattamento prolungato con bifosfonati [16]. Le patologie del cavo orale rappresentano i principali fattori di rischio. La chirurgia dentoalveolare aumenta il rischio di ONJ di sette volte, così come i processi

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infiammatori del cavo orale. Inoltre, ne aumentano il rischio la concomitanza del trattamento chemioterapico e le terapie corticosteroidee [38]. Vi è un aumentato rischio in rapporto all’istotipo del tumore: il mieloma multiplo è più spesso associato ad ONJ. [17]. Un aumento del rischio è stato anche correlato all’età: con un incremento del 9% ad ogni decade di età. Altre cause di aumentato rischio sono: diabete, disturbi vascolari, abuso di alcol, tabagismo, malnutrizione ed obesità [38]. La diagnosi di ONJ viene posta in base all’evidenza clinica, ossia dell’osso esposto nell’area maxillofacciale, che si presenta spontaneamente o in seguito ad interventi chirurgici del cavo orale, senza evidenza di riparo della mucosa ed in assenza di metastasi alla mandibola o di osteoradionecrosi. L’ONJ può rimanere asintomatica ed essere identificata per la comparsa di osso esposto nel cavo orale. Le lesioni diventano sintomatiche in presenza di infezioni secondarie o di trauma ai tessuti molli dovuto alla superficie irregolare dell’osso esposto. Segni e sintomi dell’ONJ sono gonfiore e infiammazione dei tessuti molli, perdita di elementi dentari stabili, presenza pus ed osso esposto nel sito di precedenti interventi di chirurgia orale. Inoltre, dolore localizzato e difficoltà a nutrirsi e a parlare. La progressione dell’ONJ comporta esposizioni estese dell’osso, sequestro dell’osso, osteomielite acuta e fratture patologiche. Nel caso di sospetta diagnosi di ONJ, occorre effettuare esami ortopantotomografici per escludere altre cause (cisti, denti inclusi o lesioni metastatiche). Segni radiologici caratteristici sono lesioni osteolitiche. E’ consigliabile effettuare delle colture microbiche per identificare i patogeni che sono potenziali cause di infezioni secondarie [38]. Due i sistemi di stadiazione dell’ONJ: uno che considera la severità dei sintomi e l’altro le dimensioni delle lesioni [Tab.1 e Tab.2 rispettivamente]. Terapia L’approccio terapeutico vede coinvolti il chirurgo maxillofacciale, l’oncologo e il dentista. Fondamentale è la terapia di supporto, per il controllo del dolore. Importante il controllo delle infezioni concomitanti con terapia antibiotica, possibilmente dopo isolamento dei germi patogeni. Consigliati la penicillina e l’azitromicina, in combinazione con il metronidazolo nei casi con infezioni refrattarie. Non sono al momento disponibili dati prospettici che indichino se la sospensione della terapia con bifosfonati al momento della diagnosi di ONJ conclamata sia di beneficio.

Prevenzione Uno studio ha confrontato i casi di ONJ, osservati retrospettivamente, in un gruppo di 812 pazienti in terapia con bifosfonati dal 1999 al 2007, senza aver adottato particolari cure preventive in termini di esame e bonifica del cavo orale, ed i casi di ONJ evidenziati in uno studio prospettico, in 154 pazienti, arruolati dal 2005 e sottoposti a cure odontoiatriche preventive [33]. L’incidenza di ONJ osservata nel gruppo che sottoposto a misure preventive era di 27/812 casi (3,3%). Nel gruppo di pazienti in cui sono state adottate adeguate misure preventive, l’incidenza era di 1/154 (0.6%), con una riduzione del rischio di sviluppare ONJ del 75%. Conclusioni • Tutti i pazienti prima della terapia con bifosfonati dovrebbero eseguire visita odontoiatrica. • Nel caso vi sia necessità di procedure dentoalveolari, queste devono essere effettuate prima di iniziare la terapia. • Le protesi dentarie vanno esaminate per il potenziale lesivo sui tessuti molli. • E’ indicata pulizia del cavo orale. • Tutti gli interventi sul cavo orale devono essere accompagnati da antibiotico terapia.

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Grado

Severità sintomi

1

Asintomatico

2

Lieve

3

Moderato

4

Severo

Tabella 1

Grado

94

Tabella 2

Dimensioni [diametro]

1A

Singola lesione < 0.5 cm

1B

Lesioni multiple, la maggiore < 0.5 cm

2A

Singola lesione 0.5-0.99 cm

2B

Multiple lesioni , la maggiore 0.5-0.99 cm

3A

Singola lesione 1-2 cm

3B

Multiple lesioni, la maggiore 1-2 cm

4A

Singola lesione > 2 cm

4B

Multiple lesioni, la maggiore > 2cm

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Ringraziamenti Il Coordinamento Scientifico di Rodolfo Capanna e della Sua Scuola è stato l’asse portante di questo lavoro; alla Sua esperienza e alle Sue intuizioni queste Linee Guida devono molto, come molto si deve a tutti i Colleghi Estensori e Collaboratori che in maniera puntuale ed attenta hanno risposto a richieste spesso estremamente ristrette nei tempi. Grazie a Lazzaro Repetto e a Giulio Maccauro che hanno sopportato la mia ben nota "maniacalità", la loro paziente ad attenta opera di Revisori è una garanzia per tutti. Un sentito ringraziamento al Prof. Lanfranco Del Sasso, Presidente S.I.O.T., e a tutto il Consiglio Direttivo che ha voluto fortemente queste Linee Guida per offrire ai Soci una opportunità scientifica e culturale che ritengo importante. Grazie al Prof. Francesco Manetta. Grazie al Prof. Paolo Palombi e ai Colleghi del C.T.O. Senza l’aiuto di Elena Cristofari e della Segreteria S.I.O.T. con Daniela e Riccardo questo lavoro avrebbe avuto molte difficoltà in più. Un ultimo grazie al mio amico e maestro John H. Healey che, con poche parole e molta benevolenza, mi ha consigliato nei momenti difficili. Thank you, John.

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INDICE PREFAZIONE ................................................................................. Pag. 5 INTRODUZIONE ........................................................................... Via di diffusione ................................................................................ Epidemiologia e prevenzione ............................................................ Fattori prognostici ............................................................................. Tipo di tumori primitivi..................................................................... Proteine della matrice ossea .............................................................. Marker del riassorbimento osseo....................................................... Diagnostica ........................................................................................ Rischio di frattura in un osso metastatico ......................................... Bibliografia........................................................................................

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9 10 10 11 13 17 18 19 20 26

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IL TRATTAMENTO DELLE METASTASI VERTEBRALI ..... » Algoritmo per il trattamento multidisciplinare delle metastasi vertebrali............................................................................................ » Bibliografia........................................................................................ »

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IL TRATTAMENTO ORTOPEDICO DELLE METASTASI OSSEE DA CARCINOMA............................................................. Classi di pazienti ............................................................................... Il trattamento mediante osteosintesi semplice o rinforzata associata a curettage e uso di adiuvanti locali nella chirurgia delle metastasi dello scheletro appendicolare ............................................................ Adiuvanti locali ................................................................................. Azoto liquido ..................................................................................... Cemento acrilico (PMMA)................................................................ Cemento addizionato ad antibiotici ed antiblastici ........................... Fenolo ................................................................................................ Corrente elettrica ............................................................................... Chiodo o placca? ............................................................................... Impianti protesici e resezioni nelle metastasi ossee.......................... Le tecniche mininvasive .................................................................... Localizzazioni metastatiche al bacino: limiti e indicazioni al trattamento chirurgico........................................................................ Le tecniche demolitive ...................................................................... Bibliografia........................................................................................

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TERAPIA MEDICA DELLE METASTASI OSSEE ................... La terapia con bifosfonati.................................................................. Carcinoma della mammella............................................................... Carcinoma della prostata ................................................................... Carcinoma polmonare ....................................................................... Carcinoma del rene............................................................................ Metastasi ossee da altre neoplasie..................................................... Mieloma multiplo .............................................................................. Supplementazione di calcio e vitamina D......................................... Eventi avversi alla terapia con bifosfonati ........................................ L’osteonecrosi della mandibola (ONJ): prevenzione e trattamento .. Bibliografia........................................................................................

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RINGRAZIAMENTI ...................................................................... » 101

Finito di stampare nel mese di ottobre 2008 dalla ROSSI srl - Nola - Napoli

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