Storia di Caraffa, - Sciumbata Antonio fu Francesco

April 24, 2018 | Author: Anonymous | Category: N/A
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Unione Nazionale Lotta Analfabetismo Centro Cultura Popolare U.N .L.A. Via Piave, 2 Caraffa

Storia di Caraffa Sciumbata Antonio Fu Francesco (1892 - 1974)

Panorama di Caraffa anni 40 Il Centro di Cultura Popolare - D.N.L.A. nell'ambito del suo compito istituzionale, teso a valorizzare, tutelare e tramandare il patrimonio storico-culturale della comunità ha creduto opportuno avviare un' opera di divulgazione del materiale manoscritto elaborato da vari autori locali. Manoscritti che assumono una certa rilevanza culturale, da cui si possono evincere notizie inedite sulla storia del nostro paese. È questo il caso della "Storia di Caraffa" scritta da Antonio Sciumbata che viene riproposta integralmente senza procedere a correzioni, aggiunzioni o modifiche. Antonio Sciumbata è stato dal 1912 al 1948 sagrestano della Chiesa e bidello nelle scuole elementari ed ha avuto la possibilità di consultare il diario manoscritto di Don Gennaro Sciumbata. La seconda parte dell'opera riguarda la storia di Giorgio Castriota Skanderberg che sarà divulgata a parte in seguito. Nella consapevolezza di avere fatto opera gradita - e con l'impegno di continuare - il Centro D.N.L.A. porge un saluto ai cittadini di Caraffa e agli emigrati. Caraffa, settembre 2005

A cura del Centro Cultura Popolare Il Dirigrnte

Giulio Peta

STORIA DI CARAFFA SCIUMBATA ANTONIO (CORRETTA DAL INS. SCIUMBATA RICCARDO)

“Al mio primo genito”

In questa Contrada esistevano tre colonie Albanesi; Usito o Marasia, Scaricatore e Casale Nuovo, quest'ultima trovasi alle pendici del Carrà. Gli storici di cose Albanesi parlano del solo Casale-Caraffa che vogliono sia stato fondato dai superstiti della squadra di Demetrio Reres. Costoro vennero in Italia con Demetrio e i suoi figli Giorgio e Basilio per aiutare i Re Aragonesi (1399-1409). Finito essi il servizio militare, altri paesi della Provincia di Catanzaro fondarono e popolarono. Furono appunto questi a fondare Casale Nuovo e che poi diedero origine a Caraffa come diremo in seguito. Quanto tempo stettero in quel sito non si può stabilire; certo poco tempo vi dimorarono. Della forma del paese non resta nulla, solo il nome, Il locale è tutto sprofondato. Ne possiamo dire della vita civile degli abitanti e come si amministravano. Quanto tempo durò la religione Greca che loro professavano, non lo sappiamo, certo non è potuto durare molto, essendo impossibile allora la venuta dei Sacerdoti Greci dall’Oriente. La causa per cui dovettero sloggiare fu che gli abitanti incominciarono a disboscare, di guisa che le rupi si avvicinarono all'abitato e inghiottirono il paese. Detto terreno poi passò in cultura, ed anni fa c'erano vecchi che zappavano quelle terre, raccontavano che in certi ruderi zappando trovavano ossa umane, di diversa grandezza: Certo in quel sito doveva essere la Chiesa dove venivano seppelliti i morti. Durante i lavori di bonifica (1929-1931), pochi frammenti si sono trovati in quelle parti. I terreni che si trovano da quelle parti, ancora ricordano nomi e persone: Costandini, Carrà, Palombi, Giuanni ecc. Sloggiati da Casale Nuovo, quegli abitanti se ne vennero nel luogo detto allora "Serra Mazza", a fianco dell’Arenoso, oggi (“Rahj i Croit”). Detto terreno apparteneva allora alla Duchessa di Nocera della famiglia “Caraffa”. Questa, dando loro il terreno con altri privilegi, volle dare alla detta colonia il nome del suo casato “CARAFFA”. La parrocchia fu fondata sotto il titolo di S. Domenica V.M. e S. Caterina V. e M. Il culto a S. Domenica fu certamente portato dall’Albania dove la devozione a questa Santa era molto estesa, sin dai primi tempi della Chiesa Greca. Pare che il paese si sia costituito in Comune autonomo fin dalla sua fondazione. Di ricordi di questo Casale-Caraffa ci rimangono i libri parrocchiali, la campana grande della Chiesa dove sta scritto: PRO' TEMPLO S. DOMENICA E PAOLUS SCIUMBATA SINDACUS A.D. 1660. La campana piccola la quale fu poi adibita per l'orologio, dove sta scritto: UNIVERSITA' DI CARAFFA 1660. Di detto paese ancora si vedono i ruderi. I vecchi ci ricordavano la fossa della chiesa dove si seppellivano i morti; detta fossa veniva chiamata “GROPA”. La parola che si aggiungeva “CASALE” voleva significare “Colonia”. Nel 1688 in seguito alle piogge torrenziali, che d'inverno dissodavano l'abitato e per altri loro motivi e calamità, deliberarono di alloggiare in detto luogo "Serra Mazza" ossia Caraffa e di trasferire il paese all'attuale sito detto allora "Serra Gulla" e Piana dei FIori, territorio feudale del Principe di Tiriolo D.G. Battista Cigala come risulta dallo istrumento erogato dal Notaio G.Battista Stiri ti di Marcellinara (3 agosto 1692). Da una parte il suddetto Principe, dall'altra il popolo di Caraffa, col quale istrumento il principe cedeva 40 tomolate circa di terreno pari ad Ha. 120 dove sono descritti regolarmente i limiti per suolo edificatorio. Il Comune si impegnava di pagare al detto principe, un censo annuo di ducati 6 e centesimi 3. Detto censo, l'Amministrazione di Caraffa, con

deliberazione del 24 gennaio 1897 deliberava di affrancare dando mandato al Sindaco G. Battista Critelli di venire a trattative col Conte D. Carlo Cigala da Tiriolo. Il detto Conte munito di procura di tutti gli eredi, accettava la somma di 1.665 e centesimi 45 quale annullamento del censo o canone, convenuta fra lui e il Sindaco, erogato con istrumento del notaio Giovanni Sinclitico da Tiriolo (17-10-1897). Famiglie esistenti a Casale-Caraffa (1648-1679) COLISTRA, BOCA, GRANDE, SCIUMBATA, SULLA, FRUCCI, PETA, COMITA', PETRUZZA, FIMIANO, BUBBA, DORA, SCERBO, STATI, CALIGIURI, BRUNDO, LUPO, COLLA.

USITO Usito, oppure Marasia era situato tra la casa del SIg. Maiorana e la Chiesa oggi detta della Grazia. E' pacifico che detta colonia fu fondata da qualche altra emigrazione Albanese posteriore a Casale Nuovo. Dall'ampiezza della Chiesa, si può dedurre una popolazione media di 300 abitanti. E' questo un argomento probativo degli abitanti, in quanto, gli Albanese, molto attaccati alla religione, prima di ogni altra loro manifestazione pensavano a fabbricare la Chiesa. E il loro attaccamento alla religione arrivò a tale punto da abbandonare averi e patria pur di non sottomettersi al Maomettismo. Usito ed Arenoso riconoscevano per loro capitale la Rocca Falluca, dalla quale dipendevano amministrativamente. Era questo un paese situato sopra il Corace. Si vedono ancora dei ruderi ed esiste la Chiesa, la quale porta ancora il nome Madonna della Rocca. Detto paese venne completamente distrutto da un terribile terremoto e fu completamente abbandonato dalla popolazione superstite; per cui il territorio rimase libero alla popolazione delle due colonie "Usito e Arenoso". La loro vita civile certamente veniva regolata secondo le disposizioni che ricevevano dalla loro capitale "La Rocca" dalla quale dipendevano. In quanto alla loro religione professata, ci risulta che il rito greco fu sostituito presto col rito latino; certamente era impossibile la venuta di sacerdoti greci dall'Albania. Venne costituita una parrocchia sotto il titolo di San Giovanni Battista; venivano spesso celebrati matrimoni tra gli abitanti di Usito e quelli di Caraffa. Nel 1624 il paese si doveva trovare nella sua piena efficienza; in quanto il 9 maggio di detto anno Monsignor Sgombrino Carlo, vescovo di Catanzaro procedeva alla Santa visita pastorale. Parroco era in quel tempo Don Domenico Bubba. Il nome più comune nel paese era Giovanni, forse per la devozione che portavano al loro protettore. Esiste tutt'ora la chiesa; la quale oggi è stata riparata e ben tenuta dall'attuale D. Giovanni Maiorana. Si vede ancora la casa di un certo Andrea Comi, che, come raccontano i pronipoti, fu l'ultimo a sloggiare. Ci risulta la lotta sostenuta da questi in quei tempi, con D. Cesare Maiorana. Detti abitanti sloggiarono a poco a poco sia per la malaria, sia per le angherie che loro facevano ai baroni Maiorana di Catanzaro, dai quali venivano considerati per coloni forestieri e come tali maltrattati. A poco a poco sloggiarono dunque e, parte di loro, andò a Vena, gli altri a poco a poco salivano a Caraffa. A questo fatto dipende la comunanza dei cognomi che esiste tra Caraffa e Vena. Nel popolo rimase tale devozione e chiunque, passando dal monte Arenoso (oggi Caruso), in vista della Chiesa di Usito, si toglie il cappello; tanto che quel luogo ancora oggi comunemente viene detto "Te cu nziern capeglin" (dove si toglie il cappello). Sino al 1750 venivano traslocati cadaveri dalla terra Usito alla Chiesa di Caraffa, come si rileva dai libri parrocchiali, e si celebravano matrimoni tra le due colonie. Le famiglie esistenti ad Usito nel 1624 erano le seguenti: MUSCIALLA, BUBBA, SULLA, COMI, SCIALLES, MUSCIACCA, ELIGIMI, ROBECCA, MAURA, DE SANTO, MILANESE, COLISTRA, MORELLO, DAMICO, BRESCIA, TAFANO, SANTO, BRATISUTE, MASEGA, NIGRO, MANDILLA.

Di queste famiglie rimangono solo le seguenti: BUBBA, SULLA, COMI, DE SANTO, SANTO, mentre le altre si sono estinte. Il luogo dove venivano seppelliti i morti ad Usito, era dalla parte di sotto dall' attuale casa di campagna del signor Maiorana.

ARENOSO Arenoso situato sotto il monte Arenoso oggi Caruso, fu fondato da un'altra emigrazione albanese, e certamente da una delle ultime, prova ne sia il fatto che essa portò i ricordi, le gesta, tutta la gloria, nonché canti del grande condottiero Giorgio Castriota, mentre è chiaro che non lo potevano conoscere coloro i quali emigrarono prima che egli fosse esistito. Noi sappiano per tradizione che ad Arenoso si onorava come protettrice la Madonna delle Rupi: la cui devozione esiste tutt'ora nel popolo di Caraffa. Nei panegirici che si sono tramandati sino a noi è che in occasione della festa dell'otto settembre, si raccontano i miracoli e la protezione che la Madonna accordava al Castriota. Questi, terrore dei Turchi, capitanava nelle guerre contro i Turchi un esercito per numero e per mezzi molto inferiore. Un giorno, durante la guerra, dall'alto di una montagna vide avvicinarsi il grande esercito turco forte di centomila uomini, mentre, egli ne aveva appena dodicimila. Sbigottito a tale vista e avvilito e non avendo altra risorsa che la fede per la quale combatteva, si rivolse al cielo implorando il suo potente aiuto, assorto nella fervida preghiera, pose il suo sguardo sopra una rupe e vide una Signora con un bambino in braccio, la quale lo chiamò dicendogli: "Giorgio non temere: combatti, che io sono teco" e la Signora scomparve. Iniziatosi il combattimento, l'esercito Turco fu vinto e disfatto. Un'altra volta trovandosi nelle stesse condizioni, dopo avere implorato l'aiuto celeste, vide la Madonna in una cava di pietra la quale gli ripeté la stessa promessa; e Giorgio vinceva e sterminava il nemico. Questo è nelle sue linee generali il panegirico che la Chiesa tramanda di anno in anno ai fedeli di questo popolo. Tale devozione certamente si fuse con l'abbinazione delle sue colonie (Caraffa Arenoso). La festa della Madonna delle Rupi veniva celebrata, per vecchia tradizione, l'ultima domenica di agosto; ma in occasione del terremoto dell'8 settembre 1905 si volle abbinare anche quella data per ricordare che in quel terremoto il popolo di Caraffa rimase immune dal flagello. Da questo fatto certamente possiamo arguire che Arenoso, il quale, aveva tali ricordi era colonia Albanese venuta dopo la morte del grande condottiero (17 gennaio 1467). Di questa colonia non rimane che il nome al terreno. I vecchi ricordano ancora dei ruderi, il terreno s'è sprofondato. Non possiamo dire del numero degli abitanti; certo, non dovevano essere numerosi. Come risulta dai libri parrocchiali, venivano celebrati matrimoni (1620-1630) fra gli abitanti di Caraffa e di Arenoso. I cadaveri venivano seppelliti nella Chiesa di Caraffa. Come abbiamo detto per Usito, riguardo il suo modo di governare, altrettanto diciamo per Arenoso. La Causa per cui detti abitanti furono costretti a sloggiare e unirsi a Caraffa, fu che dietro lo sboscamento del Monte Arenoso, ogni soffio di vento riempiva le case di sabbia. Così che gli abitanti, costretti a sloggiare, si riunirono a poco a poco a Caraffa con le loro devozioni, con i loro rimorsi e con quanto possedevano. Di queste coloni Albanesi non abbiamo i dati precisi circa la loro immigrazione. La lingua pare sia la stessa che si parla nell'Albania meridionale. Né possiamo dire con quali mezzi e dove sbarcarono. Sbarcati in questa terra cercarono i luoghi più alpestri credendo di avere dietro il Turco invasore. Ignoriamo pure quello che abbiano potuto portare; è certo però che le donne, in occasione dei matrimoni, facevano molto sfarzo di orecchini, anelli, ciondoli e collane: queste ultime erano formate da palloncini d'oro della grossezza di una nocciola. Forse li portarono dall' Albania. Stabiliti si in questa nuova sede, i Caraffoti non potevano trovare di meglio. Più vicini alla vecchia residenza; di là tutto trasportavano, financo le pietre. Qui ebbero la comodità di espandersi a loro

piacimento. Acquistarono il territorio dalla parte della montagna e vi trovarono la maggiore agiatezza. L'acqua pura e fresca di "Croarello" (Kroj) e di "Costantino", l'aria salubre e legname in abbondanza che allora questa Contrada era coperta da vergini foltissimi boschi. Bellissime, inoltre, le passeggiate verso la "Facciata dei Preti" e verso il Campo Santo. Incantevole il monte "Telegrafo", dove si spazi a un ampio orizzonte che abbraccia i due mari e si estende sino alla Sila e alla montagna della Serra. Su questo monte certamente i nostri padri si saranno spesso recati e volentieri ci rechiamo anche noi specie per mirare di là la levata ed il tramonto del sole. Quando la natura canta il suo inno mattutino, l'alba che imbianca l'orizzonte e poi l'aurora che lo tinge di rosso, le nubi che si scolarono in oriente come frange d'oro spiovente, il mare che freme lontano facendo scintillare le onde come scaglie d'argento, i fiori dei campi che sorridono con tanta grazia imperlati d'argentea rugiada, l'uccello che saltella cinguettando di ramo in ramo, lo zeffiro che ci accarezza mollemente in onde di affluvi profumati, e poi il sole, il gigantesco sole sorge come globo infuocato, rischiaratore e vivificatore dell'Universo. Questo spettacolo ci commuove e noi esclamiamo: "Com'è bello! Ma tosto soggiungiamo: Mio Dio quanto sei grande! La sera discende lentamente sulla terra: il sole, dopo avere dato l'ultimo bacio luminoso sulla terra, s'è nascosto dietro alle disuguali linee dei monti, il cielo occidentale che passa attraverso la scala di tutti i colori, apparisce da prima sommerso in un mare di porpora e d'oro e poi a poco a poco si scolora, si fa bianco, bigio, bruno e l'ombra discende gigantesca sulla terra. L'aria tiepida e dolce che si respira, l'Ave Maria che squillando in malinconica cadenza, sembra il giorno pianger che si more e noi dal monte "Telegrafo" osserviamo il lontano Stromboli in eruzione una pace, un silenzio dal cielo, una specie di atmosfera religiosa che ci circonda e come un raccoglimento di tutta la natura, che somiglia ad una preghiera universale. I nostri occhi si levano istintivamente verso l'oscuro volto del firmamento. Spuntano le prime stelle che sono forse dei mondi in cui vivono altri esseri intelligenti: ed il nostro pensiero vola, vola lontano, il cuore si commuove ed esclamiamo: Com'è bello! Ma tosto soggiungiamo: Mio Dio quanto sei grande!... Caratteristico infine il monte "Arenoso" o monte "Caruso".

CARAFFA Di Albanese a Caraffa rimane la lingua, sebbene imbastardita con l'Italiano. Le donne continuano a caricare sulla schiena, è difficile una coppia di puro sangue, perché qui tutte le famiglie hanno avuto l'incrocio: oggi la metà della popolazione è di origine forestiera. Il vero costume delle donne è completamente scomparso. Si ricordano ancora certe vecchie canzoni che adesso solo a carnevale si cantano. Si conserva l'uso di accendere nella notte di Natale un gran fuoco in Piazza detto "Focagina", proprio come facevano gli antichi pagani. Fino a poco tempo fa, in occasioni solenni di matrimoni, le donne solevano fare un gran cerchio detto "Ngoca" (Ballo Tondo), girando, cantavano canzoni adatte e danzavano. Gli albanese in ogni tempo trovarono rifugio in Italia e pare che il destino abbia riunito questi due popoli. Non son poche le popolazioni Albanesi venute in Italia. Come arrivarono cercavano i luoghi più alpestri, per loro residenza credendo sempre di avere alle spalle il turco assassino il quale sempre li perseguitava come in Asia così in Europa; pertanto nella montagna trovavano la loro difesa. Quale sia stato il punto d'imbarco e il punto di sbarco noi lo ignoriamo; quali mezzi abbiano avuto e cosa abbiano potuto portare parimenti ignoriamo. Venuti in questi luoghi, cercarono di affermarsi col lavoro, senza essere di danno ad alcuno. Diventati Italiani, tali si dimostrarono in ogni tempo; diventando ferventi patrioti e nobili cittadini. Si unirono in un sol Comune formando l'unico villaggio di Caraffa, malgrado le diverse razze, dove vissero liberi. Certo i primi ad unirsi a Caraffa furono quelli di Arenoso.

Venuti gli Albanesi in questo luogo, a tutto hanno dovuto pensare. Prima che fosse edificata, oggi riedificata, esisteva una chiesa sul luogo dov'è in atto la casa di Peta Francesco e Peta Giuseppe di fronte a Piazza Comità. Di detta Chiesa fino a tempo fa si ricordavano i ruderi. Ignoriamo se essa fu costruita dagli Albanesi, secondo il loro modo di pensare, prima che ad altro alla -Chiesa. Ignoriamo se preesistesse alla loro venuta: è anche ciò possibile che si pensa che là vicino e precisamente dove oggi c'è la casa del signor Comi Antonio, esisteva una casa del Principe di Tiriolo, il quale avrebbe potuto benissimo aver fatto costruire una cappella per propria devozione. Con la libertà nell'antica Caraffa cominciò a svilupparsi l'intelligenza e non mancarono i preti paesani, e non mancarono i medici; né mancarono coloro i quali presero parte ai moti politici così Don Francesco Comità ai moti rivoluzionari del 1848 fu condannato a morte dal governo Borbonico con la confisca dei beni. Non furono pochi coloro che seguirono Garibaldi, ricordiamo a proposito Don Antonio Miceli, nonché il Maggiore Luigi Comi, lo stesso dicasi della famiglia Pallaria, di Donato Alfonso, di Grande Luigi, di Barbuto Antonio, di Miceli Raimondo Manuele, di Notaro Tommaso che prese il grado di sergente, etc... Fervente patriota fu pure il D. Michele Pucci fino al punto di fare arrestare nella sua qualità di Sindaco, il parroco Felicetta il quale dall'altare parlava contro il governo Nazionale. Nel 1806 gli abitanti di Caraffa erano 671.

GRANDE LUIGI Grande Luigi fu Nicola, semplice figlio del popolo aveva 18 anni appena, quando fuggì dalla casa paterna per seguire Garibaldi venuto in Calabria, lo raggiunse a Nicastro e fu dallo stesso arruolato nel corpo Calabrese dell'Esercito meridionale (11 settembre 1860). Prese parte da una battaglia presso Napoli; fatto prigioniero dai Borboni saltò dal secondo piano di un palazzo e per questo meritò la medaglia d'argento al valore 1'8 novembre 1860, ed il 4 marzo 1865 ebbe per D.R. una medaglia commemorativa, fu congedato a Matera il 10 agosto 1865, morì a 77 anni.

IL MAGGIORE LUIGI COMI Nacque da famiglie di lavoratori nell'anno 1839, seminarista, fuggì dal seminario di Catanzaro nel 1860 al passaggio di Garibaldi. Con gli insorti raggiunse Maida, fu ospitato a casa del Barone Farat dove fu presentato a Garibaldi. Prese parte al combattimento di Mentana, Volturno, Caserta Vecchia, Monte Rotondo e alla presa di Roma. Nel 1868 passò nell'esercito regolare rivestendo il grado di furiere Maggiore. Promosso tenente, gli venne affidato l'incarico di segretario particolare dal tenente generale Eugenio Carava. Promosso capitano fece l'istruttore degli allievi ufficiali. Furiere maggiore, gli venne affidato dal comando l'incarico di portare un plico a Garibaldi il quale era accampato nei pressi di Monte Rotondo, e, benché nessun obbligo avesse, anzi contrariamente agli ordini avuti da parte del suo comando di rientrare in sede dopo la consegna del plico, prese parte al combattimento da volontario, ricevendo l'encomio del Generale e degli altri Ufficiali per il comportamento tenuto durante il combattimento. Conseguì le seguenti decorazioni: Due medaglie d'argento, due di bronzo, la croce di cavaliere della corona d'Italia. Venne congedato il 1890. Morì il 16 settembre 1916.

SCIUMBATA GENNARO SACERDOTE Detto anche "Colajione", nacque il 1753 da Antonio e da Maria Ferraina. Studiò nel seminario di Catanzaro dimorandovi 13 anni. Si ritirò in paese in seguito al terremoto del 23 febbraio 1783. Suo grande merito è quello di avere fatto costruire la chiesa parrocchiale tanto cara al popolo del tempo,

di avere lasciato il suo manoscritto di ricordi. Fu nominato parroco di questa parrocchia con grande giubilo del popolo il 1799. Morì il 15 febbraio 1849. Uomo di carità esemplare, padre e consigliere del popolo; ricordato da tutti buono e affettuoso, appassionato ai bambini, ritenuto Santo dal popolo di Caraffa.

IL TENENTE GIROLAMO COMI Girolamo Comi nacque a Caraffa il 6 settembre 1856 da Andrea e da Teresa Felicetta. Il suo primo educatore fu lo zio D. Antonio Comi, parroco in una Chiesa di Catanzaro. Conseguita la licenza tecnica, si portò a Napoli, con lo scopo di continuare gli studi e di conseguire la laurea in ingegneria. Chiamato alle armi, per soddisfare gli obblighi di leva, decise di fare carriera militare. A Maddaloni fu promosso sergente. Nel gennaio del 1882, alla scuola di Modena, ebbe il grado di sottotenente: nell'ottobre del 1884 fu promosso tenente. Girolamo Comi fu uno dei più colti ufficiali, competente di topografia, conosceva molto bene il francese e l'inglese. A La Spezia il Comi riuscì a studiare l'Arabo; in breve tempo acquisto una profonda conoscenza di questa difficile lingua. Il comando superiore, per tale ragione, lo nominò istruttore di Basci. In quel tempo si fece la prima spedizione in Africa. Da grande proletario si mosse per la conquista e la civilizzazione del continente nero. Girolamo Comi desiderava ardentemente partire, ma il suo desiderio non fu ascoltato. Quando il Ministero diede l'ordine che gli ufficiali, partiti con la prima spedizione, dovevano essere sostituiti, il Comi raggiunse lo scopo. Prima d'imbarcarsi da Napoli, diresse al maggiore del 5° Fanteria Luigi Comi, suo cugino, una lettera vibrante di amor patrio "Volere e potere" fu il suo motto. Pochi minuti prima dell'imbarco, il tenente Comi lesse alla sua compagnia schierata nel quartiere, l'ordine del giorno. Il colonnello, nell'ordine del giorno, diede un affettuoso addio ai soldati e Girolamo Comi aggiunse: "Noi partiremo insieme. Raggiungeremo l'Africa dove i nostri fratelli combattono. Divideremo le gioie e i dolori; ed insieme sapremo vivere e morire per la grandezza della patria. Io sono sicuro che, come sempre, compirete il vostro dovere". In Africa fu prima istruttore e poi comandante di compagnia in uno dei posti più avanzati. Soffrì molto quando gli fu riferito che doveva rimpatriare con il personale dipendente. Ma non si scoraggiò. Decise di non partire perché il suo unico desiderio era di battersi con gli Abissini. L'amore verso la patria spesso volte negli uomini votati all'eroismo è superiore agli affetti domestici. Girolamo Comi fu uno di questi. Con lo sguardo fisso al nemico, con la fronte circondata di eroismo, attese. La madre lontana leggeva le lettere affettuose di suo figlio e, forse, viveva tranquilla di una pia illusione. Un giorno il colonnello De Cristofaris, comandante della colonna Dogali, lo chiamò telegraficamente; egli corse e gli fu affidato il comando della ESTREMA GUARDIA composta tutta da Basci. Pur non essendo in servizio, la notte del 25 gennaio prese parte ad una spedizione. Là, lasciò il forte di Otumba, ed insieme ad altri soldati si portò su un terreno sconosciuto, pieno di agguati e difficoltà. Lo scontro col nemico fu terribile... La schiera del tenente Comi era molto inferiore alle orde Etiopiche. Erano inferiori per numero, ma non per coraggio. Il tenente Comi, spronato dal suo indomito valore, si lasciò contro il nemico, compì veramente atti di eroismo e poi cadde; bagnando con il proprio sangue l'aridità delle zolle Africane, riportando numerose ferite. Una palla conficcatasi nella parte destra del petto usciva dalla schiema; un'altra palla, fratturatogli l'osso della gamba, asportava parte del polpaccio; una terza lo colpiva all'inguine mentre giaceva a terra e gli produceva una larga cavità nella regione bassa del ventre...

Ma il suo eroismo non si arrese: incitò ancora i suoi alla lotta, mentre corpo straziato finiva. Anche gli altri soldati, dietro il nobile esempio di lui si sacrificarono. Insieme partirono. Insieme combatterono. Insieme caddero. E tutti uniti, avviluppati in un alone di sacrificio, accesero al cielo della Patria.: così scrisse il Dott. Vonanni medico della Regia Marina al fratello di Girolamo Comi, D. Francesco Comi Parroco di Catanzaro. Reverendo Signore: Adempio ad un generoso incarico con l'anima rattristata dal più vivo cordoglio. Io faccio forza a me stesso per inviare oggi a lei l'ultimo scritto dell'infelice suo fratello, spirato nelle mie braccia nel momento in cu pensando ai suoi cari lontani, vergava con la mano tremante poche righe per Lei. Il giorno 29 venne portato a bordo in barella; lo ricevetti io che ero di guardia e con me tutti i medici della "Garibaldi". Da tre giorni era digiuno e nudo; era stato sulla sabbia più di due giorni e due notti sotto la sferza del sole, il freddo e la pioggia, senza acqua e senza cibo. Aveva tre gravi ferite... L'ultima, la più grave, gli era stata tirata da un Abissino per finirlo e per poterlo spogliare completamente da abiti e da armi. Le ferite avevano tutti la forma di entrata dei proiettili d'avanti; il che dimostra che suo fratello combatté da eroe, facendo onore alla divisa, alla famiglia ed alla Patria. Se la sventura volle colpirlo così crudelmente, Reverendo, si conforti col pensare che Girolamo Comi rimane scritto a lettere di oro nel libro degli eroi e dei martiri dell'onore nazionale". Dev.mo Dott. Bonanni Medico della Regia Marina da bordo della “Garibaldi” (Massaua 19 febbraio 1887). Si disse in quel tempo che l'eroica fine del Tenente Comi e dei suoi soldati era degna di essere messa accanto a quella dei trecento di Leonida che, alla Termopoli, caddero per la difesa della loro Patria. Il mondo intero si commesse e Ras Alula, dopo Dogali, disse al Maggiore Viano: I soldati Italiani sono forse conficcati nel suolo? O si legano prima del combattimento? Il Capitano Tanturi, parlando del morti di Dogali, disse: “Giacevano tutti in ordine al suolo come se fossero allineati”. Il Generale Inglese Bronom, dopo aver fatto grandi lodi, affermò: “Il soldato Italiano si batte, muore, ma non si arrende. Così un governo può dire che la bandiera nazionale dov'è innalzata, più non si abbassa”. Ora in quelle terre regna lo squallore. Il sole Africano ha fatto evaporare tutto il sangue versato. Ma il nome di Girolamo Comi resterà imperituro fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane. Ecco le ultime lettere che il Tenente Comi indirizzava a suo fratello. Nassaua 29-1-1887 Amatissimo fratello. L'altro giorno si ebbe qui uno scontro con gli Abissini, a me toccò una leggera ferita, ma ciò non toglie che sto bene lo stesso. Bacio la mano agli zii e tu abbi un avaraccio dal tuo affezionatissimo Girolamo. Massaua 3 febbraio 1887 da bordo della nave ospedale “Garibaldi”. Amatissimo fratello. Nell'altra mia ti partecipavo di aver ricevuto una leggera ferita in uno scontro con gli Abissini; ora ti confesso che le ferite sono tre, ma che esse però non sono gravi. San Severino ne parlerà a suo fratello. Della loro gravità te ne parlerà anche l'ottimo Dott. Bonanni. Affezionatissimo Girolamo. Ecco quanto scrisse il Capitano della sua compagnia: Tumulu 5 febbraio 1887 Stimatissimo sig. Parroco Comi. Compio il doloroso ufficio di annunziarne a V.S. il decesso dell'amato suo fratello, e mio carissimo amico Ten. Comi Girolamo, avvenuto il giorno tre febbraio 1887 alle ore 5, 2/2 p.m. in seguito a

gravi ferite da lui riportate nel combattimento di Dogali (presso Santi) avuto luogo il 26 gennaio 1887 fra le nostre truppe e numerose orde Abissine. Possa il dolore dei suoi cari essere lenito in parte dal pensiero che Egli cadde da prode sul campo di battaglia per l'onore della Bandiera Italiana, In altra mia le invierò la nota di quanto ha lasciato in valori ed altri oggetti presso la sua compagnia che io ho l'onore di comandare. Accolga i miei ossequi e mi creda suo devotissimo Turitto Domenico Capitano 38° Fanteria 3ª Compagnia del 3° Battaglione Africa Tumulu (Africa) Ordine del giorno del suo Reggimento Ordine permanente Pisa 9 febbraio 1887 Benché compresso da dolore, pur vado superbo di annunciare al Reggimento che il Ten. Girolamo Comi ha avuto l'alto onore di perdere la vita sul campo di battaglia, nel combattimento del giorno 26 gennaio in Africa a difesa dei diritti del Re e dell’Italia. Nato in Caraffa di Catanzaro nell'anno 1856 e venuto sotto le armi con la sua classe, si distinse ben tosto per zelo ed intelligenza nel servizio; per condotta esemplare. In meno di due anni, fu nominato sergente, compiuto appena il tempo prescritto dai regolamenti fu nominato al corso speciale presso la scuola militare, donde uscì nel gennaio 1882, con la promozione a sottotenente e venne destinato al reggimento. Le ottime sue qualità militari, la bontà del suo carattere nel 37° come già prima nel 16° Reggimento, gli accattivarono tosto la stima e l'affetto di tutti. E tutti noi pieni di ammirazione, nel modo eroico col quale coronò la sua onorata carriera, terremo cara quanto avrem vita la di lui memoria, mentre il suo nome a caratteri indelebili, scolpiti nei fasti del Reggimento giungerà glorioso alle generazioni future. Il Colonnello comandante del 27° Reggimento Fanteria F.to Buffa di Persero Il Cappellano Militare D. Crispino Lancetta v. direttore del seminario di Cremona, aderendo al secondo anniversario dell’eccidio di Dogali, scrivendo al Comandante del 37° Fanteria, ricordava ancora l'eroica morte del Tenente Comi.

Famiglie oriunde affermatesi a Caraffa: COGNOMI -ALOISIO -CRITELLI -CALIÒ -DONATO -FELICETTA -FALBO -GUZZI -IOZZI -LOMBARDO -MICELI -MONTELEONE -SCICCHITANO -TRAPASSO -FARINA -SQUILLACE

PROVENIENZA POLIA TIRIOLO BORGIA MARCELLINARA SETTINGIANO CORTALE MIGLIERINA SAN PIETRO A MAIDA CANECATTÌ BAGNI (SIRACUSA) MIGLIERINA POLIA GIRIFALCO GAGLIANO FRANCAVILLA ANGITOLA SQUILLACE.

I seguenti episodi riguardanti la popolazione di Caraffa, sono stati estratti dal giornale redatto dal Parroco Gennaro Sciumbata: 1772 Il 12 aprile giorno delle Palme fu ucciso il medico D. Giuseppe Comità con un colpo di schioppo tirato da D. Cesare Maiorana, il quale fu condannato a 19 anni di reclusione. 1780 Il 3 ottobre fu ucciso Geronimo Virgillo da Settingiano con colpi di pistola e di schioppo dai fratelli Pietro e Giovanni Boca.

IL DOTT. PETA ANTONIO Pur non avendo la sufficiente capacità di farlo, è mio desiderio ricordare le qualità di un nostro eletto concittadino, il Dott. Antonio Peta, medico condotto di questo Comune. Il Dott. Peta nacque il 1864 da Agostino e da Anna Comi, piccoli coltivatori del paese. I genitori, in seguito alle affettuose e pressanti insistenze dello zio materno Magg. Luigi Comi che aveva intravisto nel ragazzo oltre una spiccata intelligenza, anche una particolare disposizione allo studio, decise di avviarlo al Seminario Arcivescovile di Catanzaro, allora molto in auge, come centro di studi, perché diretto da Mons. De Riso, Prelato di illuminata cultura e del quale il giovane Antonio Peta divenne presto il beniamino, tanto da essere autorizzato a impartire lezioni private per integrare il pagamento della retta. Dopo gli studi classici, seguendo la sua inclinazione alla medicina, frequentò l'Università di Napoli, laureandosi con il massimo dei voti nel 1898. Per la morte improvvisa del locale medico, Dr. Rosario Monteleone, il Dr.Peta ebbe subito la condotta del Comune, che preferì a quella offertagli, con maggiori emolumenti, da altri Comuni, per il suo attaccamento al paese natio. La sua professione, per circa 50 anni fu un vero apostolato. Non si rifiutò mai a nessuno e pur essendo uomo di lotta, seppe mantenere inalterata la stima di amici e di avversari politici. Di notte e di giorno, con qualsiasi tempo, superava difficoltà enormi, prodigandosi ovunque, non soltanto per i suoi concittadini, ma anche a quanti, dalle lontane campagne e dei paesi vicini, ma tutti privi di viabilità, richiedevano la sua opera appassionata. Rimasto vedovo, in giovane età, per la perdita della consorte, Nobil Donna Italia Bevacqua, si dedicò alle cure della famiglia, riuscendo con notevole sacrificio, ad educare e sistemare degnamente i 6 figli, 4 femmine 2 maschi: Annina, Maria, Italia, Gioconda, Maggiorino, Scanderberg. Educato, seppe in tempi difficili e in un ambiente retrogrado, infondere, con abilità e garbo, le norme di igiene per la famiglia con consigli sempre apprezzabili, mentre come medico fu maestro impegnato nell' alleviare le sofferenze degli infermi con la parola suadente più che con le risorse terapeutiche allora molto limitate. Rispettoso, ma autorevole e dignitoso, seppe conciliare molte controversie, sicché ben voluto e stimato da tutti, venne chiamato dopo il suo congedo alla carica di Podestà che tenne con elevato senso di giustizia ed equanimità. Morì fra il generale compianto all'età di 85 anni, il 17 settembre 1951. 1783 Il 23 febbraio ci fu un fortissimo terremoto: pochi danni subirono i Caraffoti in quanto cadde la sola casa di Francesco Comità. Ma i danni si riscontrarono dopo le scosse telluriche del 5 marzo. Era di notte e rovinò tutto il paese dalle fondamenta; le mura caddero, da ogni parte, rimasero in piedi le mura del magazzino del Principe. Morirono in quella notte donne ed uomini, padri, bambini, sei bimbe ed altre otto persone le quali furono trovate sotto le macerie dopo tanti giorni. Le scosse si ripeterono contemporaneamente ogni quarto d'ora, quando più e quando meno; le mura si vedevano piegare a guisa di carta e poi ritornare alla stessa posizione. Per tre anni si ripetette il terribile

terremoto e si era costretti a dormire vestiti. Non vi era più protezione né grado, né sesso, tutti insieme si dormiva e fortunato chi poteva avere una pagliaia dove dormire con i suoi. Avreste veduto una grande quantità di pidocchi camminare quasi in processione sulle vesti della gente povera e della gente ricca. Il Parroco Gennaro Sciumbata afferma di non aver perduto nessuno dei suoi, ma ciò per vero miracolo, in quanto padre, infatti la sera del 5 marzo era degente per febbre nella pagliaia e quindi tutti i familiari si trovavano presso l'ammalato. Lo stesso dicasi per il di lui fratello Onofrio; mentre si mangiava a casa sua videro una scintilla uscire dal muro vicino al fuoco e andare serpeggiando per la casa. Intimorito Onofrio, uscì fuori e quindi fu salvo. Si viveva da tutti in continua afflizione, anche perché correvano molte voci secondo le quali tutti sarebbero dovuti morire e il mare di Santa Eufemia doveva unirsi con quello di Catanzaro Marina. Il Cappellano trovò ricovero con la propria famiglia nella località Colelle e poi a Corace. D. Nicola Comità trovò ricovero con i suoi in località Fallaco; altri a Ciaramella; ma la maggior parte rimase al proprio posto. Venuta la bella stagione il Cappellano si portò in località Crucoli, vicino la Chiesa della Rocca e vi andò pure il D. Nicola Comità, il Sig. G. Battista Masci ed altre due famiglie i quali avrebbero voluto ivi collocare il paese. Il Sacerdote Sciumbata non era di questo parere perché a S. Giovanni località alquanto buona, mancava di tutto l'occorrente. Dovette peraltro fingere di essere d'accordo con loro mandando colà 4 travi. Accortisi essi che lui fingeva, fu accusato a Mons. Spinelli di trattenere la gente imponendo loro il trasferimento. Identica cosa fu fatta presso Pignatelli a D. Carmine Stati. Promotori della ricostruzione del paese erano il Cappellano e D. Nicola i quali avevano dalla loro parte il Vescovo ed il Caicco del sig. Agostino Masci; questi, vestito con lusso, andava a importunare continuamente il sig. Pignatelli, venuto per provvedere adeguatamente a questa Provincia distrutta dal terremoto. Senonchè costui, in un primo momento mandò biscotti, farina, cacio di Sicilia e venne distribuito un piattello di farina, due o tre biscotti per famiglia. Molto fece, specie per il nostro paese ma in un secondo momento, spedì i sicari e si pigliò tutte le piccole rendite di queste miserabili cappelle; come fece del resto in tutti gli altri paesi e città della Provincia. Soppresse tutti i convenuti e i padri da possidenti divennero mendicanti; altrettanto avrebbe voluto fare della Provincia di Cosenza, ma non gli riuscì perché gli interessati si fecero forti. Da veri sacrileghi, i sicàri osarono togliere le particole dalle pissidi per posarle sotto i letti dei loro signori e degli altri ufficiali. Si vedevano portare via pissidi, calici, sfere, statue e corone. Terrorizzati da questi avvenimenti, non si parlava che di loro. Si sparse un giorno la notizia dello sbarco dei Turchi. Ed ecco cosa avvenne al nostro paese: alcuni a tale notizia piangevano; altri con scure, bastoni, spade; altri corsero alle campane; alcuni col crocifisso in mano, ed io, dice lo Sciumbata, armato di scure correvo con gli altri alla volta della Ficarazza. (attuale Via I° Maggio) Chi gridava, chi imprecava, chi dava coraggio. Che cosa c'era di vero in quella notizia? Vennero, non già i Turchi, ma il Pignatelli e i suoi ufficiali, i quali commisero cose talmente nefande che mai gli stessi Turchi avrebbero commesso. Il 18 ottobre del 1792 si iniziò a legnamare la nostra Chiesa, le cui fondamenta erano già state gettate dai maestri Giuseppe Barilaro da Serra e Giuseppe Maiosato da Maida. lo stesso, afferma sempre lo Sciumbata, dando una mano ai falegnami, mi feci male ad un dito talmente che mi cadde poi l'unghia e col sangue che abbondante usciva dalla ferita unsi tutta la trave della porta grande. Vennero in seguito i muratori: mastro Gennaro Cantaffi capo mastro e mastro Gregorio Berta, uomo presuntuosissimo, il quale fu più volte da me richiamato perché adoperava per dispetto la calce in misura sproporzionata. Il popolo si prestava al trasporto della pietra. Lo stesso D. Gennaro arrivava sino a zappare e a trasportare pietra per tutti i giorni. Nell'agosto del 1798 la popolazione, attaccatissima alla religione, si adoperava con sacrifici a prestare il suo aiuto nella costruzione della erigenda Chiesa. E avremmo visto povere donne, recarsi a Catanzaro cariche di legna dalla cui vendita ricavavano un tozzo di pane nel ritornarsene dalla città, prendendo,

benché stanche, dei grossi massi di piena destinati alla fornace per la calce; la quale fornace ardeva a Malocane. Lo stesso dicasi dei massari e dei braccianti. In forze di tanto entusiasmo, la fabbrica si coprì subito di tegole e così il 18 settembre 1798 si benedisse la Chiesa e solenne fu la festa; processione di tutti i Santi e del SS. Spari numerosi. Poiché i lavori di copertura però non erano stati completati, vi entrava l'acqua e il vento; la neve copriva l'Altare maggiore nonché la navata maggiore; si dovette quindi spesso trasportare il SS. All’Altare dell’Immacolata ed una persona ebbe a dire: "ma in questa maniera voi portate a passeggio il Signore". Il 9 ottobre del 1792 alle ore venti di notte fu ucciso il sig. Giuseppe Grande con un colpo di schioppo; boccheggiante, gridò:"Immacolata mia, aiutami". Immediatamente gli fu data l'assoluzione da Gervasio Sciumbata, fratello di Don Gennaro. L'anno millesettecentonovantatre fu un anno di massima carestia non solo per gli uomini, ma anche per gli animali, non essendoci un filo d'erba. Il 26 febbraio molti animali sono morti per la fame. La povera gente soffriva tutta, senza eccezioni. Financo al Cappellano Antonio Comità mancava il vitto. Era impossibile a ingrassare i maiali, tanto è vero che quando furono macellati, due maiali pesavano complessivamente cinquanta rotole. Il grasso vendevasi al prezzo di 32 carlini; il grano-turco a 25; la fagiuola a 4 ducati; ma nessuno ne poteva acquistare perché mancava il denaro; nemmeno i ricchi ne avevano perché non introitavano dai venditori, sia perché veniva meno la produzione; né disponevano quindi delle sementi. Si dovette ricorrere al Re Ferdinando IV, il quale si rivolse alle Marche, ben sapendo che in quasi tutta l'Europa si sentiva la fame. Fu dunque importato un certo quantitativo di grano e a Caraffa toccarono 100 tomola, venendo a costare 28 carlini al tomolo. Iperbolico era pure il prezzo dell’olio, che in piccola quantità trovatasi solo a Catanzaro. Miseria, dunque, incominciata da oltre 4 anni. Aggiungasi a tanta afflizione il timore della guerra che si prevedeva fra noi ed i Francesi di cui si ritenere imminente qualche invasione; tanto più che essi andavano costeggiando i nostri mari. Paurose notizie che causavano terrore ovunque si spargevano. Si seppe infatti che il Re di Francia fu condannato a morte e dopo essere stato decapitato pubblicamente nella Piazza di Parigi, la di lui testa fu data alla figlia, la quale cadde svenuta. Cose non più intese nei passati secoli. Grazia dunque egli aveva chiesto prima di morire; l'assistenza di un prete Cattolico e tre giorni di tempo; la prima grazia gli venne concessa, la seconda negata. Il Re morì da vero Cattolico; nel suo testamento lasciò scritto che se mai un suo figlio o qualche suo discendente fosse stato Re di Francia, a nessuno dei nemici avrebbe dovuto far male. I Francesi volevano Roma, ma le preghiere del Santo Padre, Pio VI ottennero che il Re d'Inghilterra mandasse due flotte in difesa di Roma; una flotta varcò la Francia e l'altra lungo la costiera di Spagna. 1795 Il 27 febbraio ore 13 fu ucciso il medico chirurgo Don Carmine Statti di grandissima fama di questi dintorni. La sua morte si piangeva da tutti. Giunta la notizia della grande perdita, si scorge nei volti di ognuno l'estrema notizia "uomo caritatevole, affezionato con gli ammalati, buono con tutti". Fu ucciso lungo la discesa di Cerzeto, mentre si recava in campagna per visitare la vigna. Perpetrato si del delitto furono Sciumbata Antonio di G. Battista e Nicola Grande di Pietro: visse tre giorni. Trovatasi in campagna all'atto dell' omicidio, Domenico Caruso, il quale lo difese strenuamente, sparando contro gli uomini; la risposta fu con le pallottole che gli passarono per le orecchie. 1796 I Francesi sono entrati in Italia e sono a Milano e si teme del nostro Regno. Il Re chiede volontari, anche Caraffa ne offre, nelle persone di: Domenico Ferragina, Filippo Bubba, Benedetto Bubba, Pietro Comi e Vincenzo Grande di Giorgio, i quali partirono nel mese di giugno. Il Re domandò inoltre soccorsi in genere ed in denaro; le popolazioni si trovarono pronte. Domenico Ferraia moriva sul campo per l'epidemia.

L'11 gennaio si bandì il concorso per la nostra parrocchia I concorrenti furono il Sacerdote Gennaro Sciumbata e un altro Sacerdote da Catanzaro. Fu dichiarato vincitore lo Sciumbata il quale prese possesso della chiesa il 14 giugno con gli applausi di tutto il popolo. In questo stesso mese il Re Ferdinando IV andò a Roma con circa ventimila uomini dove fu ricevuto con carri trionfali; ma poi, per tradimento degli Ufficiali, dovette fuggire e gran parte dei suoi soldati furono fatti prigionieri da soli ottomila francesi. Dicesi per tradimento in quanto un soldato dei nostri valeva 100 soldati francesi ed inoltre il solo pensare ai volontari calabresi significava terrore per i nemici. Il Re, quindi, da Roma se ne venne a Napoli e qui vi trovò sotto il palazzo otto barili di polvere; per cui pensò bene mettersi in mare con tutta la famiglia, per raggiungere Palermo. Durante il viaggio gli moriva un figlio. Delle prime truppe fuggite da Roma, parte restarono a Gaeta, parte a Capua. A Gaeta vennero poche centinaia di Borboni e subito consegnarono le chiavi della città ai Francesi. A Capua il Comandante Generale Macca, sotto finta di armistizio, fece entrare i Giacobini dei quali poi vennero a Napoli circa ottomila. Il Lazzarismo fece fuoco su di loro, ma questi risposero al fuoco e, uccidendone molti, riuscirono ad entrare nella città. Il comandante dei francesi scrisse una lettera ai tribunali perché si desse la libertà ai delinquenti di Stato; e tutte le città e i paesi nei quali c'erano i Giacobini, innalzarono l'albero della libertà. Ciò si verificò anche a Catanzaro, dove si raccoglievano da tutta la provincia. Un tizio di Squillace, trovandosi a Catanzaro, dove venne a conoscenza di tutto, ritornò in paese gridando:"Viva La Libertà". Si infuriò il popolo di Squillace, e, non avendo potuto avere lui nelle mani, diede fuoco al suo palazzo, trattandosi infatti di un signore, e del palazzo non rimasero che le mura esterne. Nello stesso tempo correva a Gasperina un barbiere, parlando a quel popolo di libertà con la coccarda, ma gli si tagliò la testa. 1797 Frattanto si vede venire da queste parti il Cardinale Don Fabrizio Ruffo il quale veniva nel nome del Re. La sua venuta infuse coraggio al popolo contro i fautori della libertà tanto è vero che a Borgia furono bruciati altri due palazzi: quello di Don Giovanni Zaccone e quello di Don Larina. All'avvicinarsi del Cardinale, i francesi Monteleonesi, non potendo resistere alla forza del Cardinale, se ne fuggirono a Catanzaro e alcuni si fermarono a Caraffa. I Caraffoti avrebbero voluto bruciarli durante la notte. Se non lo fecero, fu tutto merito di Don Gennaro Sciumbata, il quale fece opera di persuasione presso i capi del paese sia principalmente per carità Cristiana, sia inoltre, perché non li riteneva settari. Da Caraffa non poteva passare persona se non con la croce ed anche a quelli che portavano il segno, poco si credeva. I Catanzaresi avevano fabbricato tutte le mura e piazzato otto cannoni e stavano serrati gridando:"Viva la libertà, muoia il tiranno, muoia il Cardinale e l'empio Fiore, consigliere del Cardinale da Sambiase". Il Cardinale scrisse più lettere alla città, affinché si arrendesse: senonchè le lettere venivano in mano dei Giacobini e la parola del Cardinale non raggiungeva lo scopo. Frattanto il Cardinale venne a Maida con una certa grandezza e altri seguaci e tagliò gli alberi. Rimasero uccisi tre di quelli che accorsero alle grida. Nello stesso tempo il popolo Catanzarese si portò presso la casa di Salzano dove si trovavano molti Giacobini, i quali fuggirono precipitandosi dalle mura. Nel contempo Don Francesco Giglio da Sorbo venne nelle vicinanze di Catanzaro con moltissima gente. Il Popolo Catanzarese, che già era insorso contro i Giacobini, diede fuoco al palazzo di Salzano e vi entrò rompendo i recipienti d'olio. Devastò il palazzo del Decano mettendo fuori uso finanche i catenacci delle porte. Quando il popolo seppe che il Cardinale aveva spedito l'artiglieria che stava

per avvicinarsi, fece entrare Don Francesco Giglio il quale rimase a Catanzaro nella qualifica di Commissario Delegato dal Cardinale. Senonchè il signor Giglio proditoriamente venne chiamato a San Leonardo, nei pressi Catanzaro, dove con 34 colpi di coltello fu scannato e tutta Catanzaro ne pianse la morte. Pare che gli uccisori siano stati i Giacobbini Catanzaresi, In sua vece fu nominato Commissario D. Rocco Raimondo, il giorno 26 maggio. Venuto il Cardinale a Borgia, il 10 febbraio vennero da lui i deputati da Catanzaro; per la nobiltà venne D. Domenico Marincola e D. Antonio Parascinali, per il clero il canonico La Rotta, per i civili Lobianco, per la maestranza Massitone; trattarano questi la pace e il Cardinale chiese 100 mila ducati e 24 persone in ostaggio. Si decisero di dargli 60 mila ducati parte in generi e parte in denaro ed in ostaggio 10 persone tra cui D. Vitaliano Riso, Don Salsano, il Decano Nobile e Don Vitaliano Pitrio. Anche Caraffa mandò i suoi rappresentanti a Borgia dal Cardinale, nelle persone di Don Gennaro Sciumbata e Don Tommaso Comità, i quali dovevano inoltre ottenere l'uso del bosco; non potendo però avvicinare il Cardinale per la folla immensa, gli scrissero un memoriale a cui Sua Eminenza rispose con un re scritto dove ringraziava la popolazione di Caraffa tanto attaccata alla religione e al Re. Innumerevole folla seguiva il Cardinale. Lo seguivano da Caraffa di paese in paese fino a Crotone più di 25 persone tra le quali Nicola Grande Galante, il quale si era messo sul petto l'insegna reale. Per tale ragione ricevette dai Crotone si vari colpi di arma da fuoco; diversi dei suoi morirono ed altri volevano fuggire perché dal castello di Crotone tuonavano i cannoni. Il Galante diede animo, minacciò i capi della sua comitiva e così rimasero. I Crotonesi uscirono dalla porta della Città da tre parti con spari reciproci, ed il capo, con la spada sguainata e a cavallo, era il figlio del Barone Lucifero. Arriva intanto l'artiglieria borbonica e incominciano a piovere le granate dietro Crotone. Atterrita dal fragore delle granate e delle schioppettate, la popolazione aprì le porte della città ed il primo ad entrare fu Tommaso Galante, fratello di Don Nicola. Si incominciò a sparare contro il castello che venne saccheggiato. È inutile descrivere la crudeltà barbara con cui si procedeva. Ai seguaci del Cardinale, si unirono moltissimi Crotonesi, i quali tutti, tra l'altro, spararono contro le botti per fare uscire il vino, tiravano alla gente gli orecchini e le fibbie delle scarpe, Il più crudo e disumano tra i paesani fu Cosmo Mauro. A Cosenza si procedette al saccheggio di due soli palazzi e di una chiesa. Nel contempo le stesse scene si verificavano a Paola ed in altri paesi. In ossequio al potere è impossibile descrivere tutta la verità dei fatti esecrabili compiuti. 1798 Durante i moti rivoluzionari di quei tempi, per aiutare il Borbone Ferdinando IV°, venne da queste parti il Cardinale D. Fabrizio Ruffo, il quale, veniva a nome del Re. La sua venuta infuse coraggio ai sostenitori dei Borboni tanto è vero che a Borgia furono bruciati i palazzi di Giovanni Zaccone e di Donna Laura. All'avvicinarsi del cardinale, i seguaci dei francesi monteleonesi non potendo resistere fuggirono a Catanzaro ed altri a Caraffa. I Caraffoti li volevano bruciare durante la notte, se non lo fecero fu per l'intervento del parroco Gennaro Sciumbata. Intanto Catanzaro si fortificava per l'avvicinarsi del Cardinale. Il Cardinale scrisse più lettere alla Città perché si arrendesse, ma le lettere andavano in mano degli avversari. Dopo aver riposato presso la casa di Nicola Galante, scesero a Marcellinara che saccheggiarono. La mattina seguente, mentre stavano per ritirarsi, furono assaliti da Lanzineto con la sua comitiva di 12 persone le quali 12 contro 200 li costrinsero alla fuga a colpi di schioppettate. A Caraffa intanto non si fa altro che bastonate tra paesani. Addio galline; poveri orti, Teresa Sciumbata fu colpita di notte. A Caterina Bolognese venne atterrata di notte la porta con attentano al suo onore e venne ferita alla mano. Alcuni, entrati in Chiesa, ruppero il banco di Rosa Fruci e del signor Domenico Antonio Grande, per il fatto che non avevano con sollecitudine dato la loro opera al trasporto della pietra della Chiesa. Passarono per il paese i soldati del Capitano Costanzo i quali,

non avendo fatto atto di sottomissione, furono disarmati e feriti. Risposero col fuoco e furono feriti due cavalli ed un garzone di D. Domenico Ippolito da Nicastro il quale trovatasi col Costanzo. Avvenne il conflitto nel luogo dove si gioca il formaggio; (Località Carrera) e dei forestieri, chi fuggì a destra e chi a sinistra, lasciando i cavalli e l'equipaggiamento. I cavalli, poi, fuori uso e con le gambe rotte, furono rimandati a D. Domenico Ippolito. 1801 Il 20 dicembre fu ucciso il vescovo di Catanzaro Mons. Giov. Battista Marchese dei Marchesi di Camerata. Morì pregando che non si facesse alcun male all'uccisore al quale lasciò denaro. Egli andava a dormire dai Cappuccini; era notte inoltrata. Vescovo Santo, compianto da tutti. Pare che l'uccisore sia stato Donagio Salaridi, fratello del cappellano Don Gennaro; spinto al delitto per il fatto che il Vescovo aveva imposto al proprio fratello di mandar via la comare da casa sua. 1802 13 Ottobre: piove continuamente. A causa della pioggia non si è potuto seminare neppure il lino. Si rivolgono pubbliche preghiere alla protettrice perché si possa seminare almeno il grano. Fortuna volle che quell'anno Carrà è stato carico di ghianda di cariglio, dalla cui vendita si è avuto un incasso per Caraffa, di oltre 600 ducati; vendevasi la ghianda a 7 carlini il tomolo poiché in nessun posto vi è stata produzione. Corrono da tutte le parti per l'acquisto e così il paese si salvò dalla fame. 1803 Grande miseria nel paese. Solo sei o sette famiglie hanno il pane. Si legge nei volti di tutti la carestia e tutti per la fame sono ridotti tali da sembrare convalescenti di una lunga malattia. Manca tutto: olio, grasso e pane. La mancanza del grasso si spiega benissimo, se si pensa che i maiali si macellavano a grani 32 il rotolo, le capre a 16; e negli ultimi giorni di carnevale non ci fu proprio macellazione. Non foglie quest'anno, neppure selvatiche, non legumi, non latticini; il grano vendere a 5 ducati, il granturco a 4, negli altri paesi. A Caraffa non se ne trova un chicco e siamo al primo di marzo. Si aggiunge a tanta afflizione la siccità che ebbe inizio dal mese di febbraio e continua ancora. Siamo al primo giugno e va registrata una sola piccola pioggia, la quale penetrò mezzo palmo appena, di guisa che poco granturco venne seminato, non potendosi la terra lavorare si spera l'acqua; ma purtroppo c'è soltanto vento, vento e nebbia. Pochissime fave vennero seminate, pochissimi ceci per mancanza di generi. Il granoturco costa a 5 ducati e mezzo il tomolo a Cortale e Girifalco; la cicerchia a 4 ducati e… fortunato che ne ha! La gente, per vivere, ogni giorno va carica di legna a Catanzaro e soltanto così può comprare tre o quattro pani. Secondo la forza delle donne che avevano le piaghe nel dorso per il troppo carico. Vi era nel popolo spinto dalla fame, chi tentava il furto e anche lo perpetrava; ma vi è il terribile timore della giustizia. Il colpevole corre dall'avvocato per la difesa, ma nessuno accetta l'incarico. Il preside D. Costantino Filippi, Colonnello dei fucilieri, il quale ha tra gli altri ordini terribili, quello di non accettare mediatori. Fu emanato un bando di 31 capitoli secondo i quali sono proibiti i furti, danni di qualsiasi specie, bestemmie e ingiurie. Erano imposte altresì nel banco, l'osservanza delle feste, il rispetto alla chiesa e ai suoi sacerdoti e la pace con il prossimo; proibiti erano inoltre gli adulteri e il concubinato. Relazione dettagliata veniva fatta dal governatore, dal Sindaco e dal parroco intorno a ciascuna famiglia, venendo indicato il numero, il mestiere, la rendita, il comportamento di ciascuna. Secondo il bando ogni paese doveva dividersi in quattro quartieri e per ogni quartiere venivano nominati 6 deputati, i quali avevano l'obbligo di vigilare su ogni minuzia e riferire. Le armi corte dovevano essere tutte consegnate da parte di ciascun individuo; l'obbligo di non usarli mai più nell'avvenire. Il Filippi venne il 3 aprile 1803 portando seco più di 300 persone tra Albanesi fucilieri e soldati a cavallo forniti di grossi cannoni. Giunsero a Caraffa 24 fucilieri che vi dimorarono 20 giorni e

recarono grandissimi danni rubando galline, agnelli e montoni. In questo frattempo furono tradotti in carcere Domenico Caruso, Benedetto Bubba, Filippo Dara ed Antonio Mauro. Si presentarono ai fucilieri Giuseppe Ferraina Caino; Il Grande diede loro 15 ducati ed il Caino 4, senonchè in un secondo momento vennero legati come cani e portati di paese in paese, indicati con grandissimo vituperio come ladri e delinquenti. Fu arrestato Tommaso Galante, mentre trovatasi con la scorreria in Maida. Del Caruso, del Caino e di Grande, si considera difficile la scarcerazione, si prevede invece molto facile la scarcerazione per gli altri. Tutto dipende dalle informazioni. Dopo 8 mesi furono liberati dal carcere, con molte spese, Antonio Mauro e Filippo Dara. Grandissima colpa in verità aveva il Dara il quale ha meritato la galera. 1804 Ricco raccolto. Il grano si vende all'aia a 31 carlini. Il granoturco, in aprile allo stesso prezzo. Vi fu tale abbondanza che con esso si ingrassarono i maiali. 1805 Non si vede un filo d'erba per i continui freddi e per la neve abbondante, per cui, nel mese di aprile, la vigna ed i fichi si presentarono in uno stato miserando. Notevolissima e grande è la moria degli animali, vaccini, pecorini e dei maiali. Il prezzo dell'olio è di 3 carlini la libra; quello del grano 6; a Catanzaro di 4 ducati e mezzo; intanto è venuto a mancare il pane in piazza. Il Sindaco Luigi Sciumbata, unitamente ai deputati di Maida, Iacurso, Cortale, San Floro e Borgia riuscirono a trovare in Miglierina e a Amato soltanto 4 tomoli, per il prezzo di 4 ducati cadauno. Il granoturco si vende nei paesi viciniori a 32 carlini ed il pane in Catanzaro costa 13 grana, mentre a Caraffa costa 14. Siamo alla metà di giugno e già fin da ora molti, da Sersale, Propani, Pentone nonché da Marcedusa non si stancano di correre a Cortale per l'acquisto di granoturco, pagandolo a 38 e 40 carlini. A tutti manca il pane e la povera gente si dà da fare per trovare orzo, quantunque verde, per panificarlo. Si legge nei volti di tutti la carestia. Possiamo chiamare fortunata Caraffa per avere vicino Cortale, ricca di granoturco. E così i poveri Caraffoti trasportavano colà legna ogni giorno, che scambiavano chi con un pane, chi con due, chi con un piattello di farina o di granturco. E così miseramente vive la povera gente; debitrice della vita a Cortale, senza la cui ricchezza sarebbe certamente morta di fame. Siamo al 15 agosto e la siccità in questa Contrada è assoluta; per cui il granturco è secco e senza spiga; esigua quantità di fave si è prodotta; quasi niente grano. Le olive cadono; la vigna viene distrutta dagli insetti e l'uva viene bruciata dal forte calore. In effetti, poi però in generale, la carestia non fu tale quale si prevedeva; ma intanto, purtroppo, il grano del marchesato, non si è potuto trasportare ed il granoturco di Catanzaro è insufficiente per questi paesi. 1806 25 febbraio. I Francesi entrarono a Napoli senza ostacolo alcuno, perché il Re Ferdinando se ne era fuggito in Sicilia, dopo aver spogliato il palazzo reale e disarmato i castelli. Il Principe ereditario Francesco I° col fratello D. Leopoldo, presi gli altri cannoni col resto della truppa lasciata a Napoli dal padre, fece l'accampamento in Morano nei pressi di Cosenza e formò una fortezza ad Eboli ed un'altra presso il ponte Capistrino; quivi si verificarono due attacchi e perirono molti francesi. In Morano, campo generale, quasi non si sparò un colpo e si fecero prigionieri quei soldati che non fuggirono. I soldati di Francesco I° stettero sulla neve quattro giorni; il quinto giorno dell'attacco la neve cadeva a larghe falde e la nebbia era fitta cosicché si videro tutto ad un tratto addosso le truppe Francesi, per cui quelli scapparono. Il Principe ereditario era partito dal campo con suo fratello due giorni prima poiché non vedeva arrivare i rinforzi, come gli aveva assicurato Pane di Grano e qualche altro ufficiale; ed anche

perché aveva saputo che i Francesi avevano oltrepassato il Campestrino, se ne andò in Sicilia, passando da Nicastro, Monteleone e Mileto. Alle popolazioni dei paesi per i quali egli passava, così rispondeva impassibile: “Ignoravamo noi tanta forza in tali imposizioni. Raccomandatevi al Signore e sperate in Dio”. Passavano scompigliate le sue truppe, dirigendosi alla volta della Sicilia, inermi. Intanto tre giorni dopo, incominciarono ad arrivare le truppe Francesi. Un corpo di ottomila uomini arrivò a Nicastro e un distaccamento si fermò a Maida passando poi a Monteleone, a Pizzo, fino a Reggio. Dovunque l'esercito Francese si accampava, tagliava ulivi ed altri alberi per il fuoco. Conseguentemente ogni tre o quattro giorni passavano colonne di 25, 40 e 100 uomini. La popolazione di Soveria Mannelli, unitamente a quella di altri paesi, formò un corpo di circa 1800 uomini. Questi ammazzavano tutti i francesi che di là passavano; ne uccisero più di 100, spogliandoli. Sennonché, alla fine, non potendo resistere alla forza sempre più crescente dei Francesi, suonarono le campane ed i tamburi e fuggirono. I francesi, penetrati a Soveria Mannelli che trovarono deserta, cedettero opportuno bruciarla. Il Principe Giuseppe Bonaparte venne la metà di aprile passando per Soneria, non trovò che donne, le quali, genuflesse, gli chiesero perdono, ed egli perdonando tutte promise che quanto prima avrebbe provveduto alla riparazione dei danni subiti. Fu ricevuto a Nicastro, quindi andò a Reggio per sistemare le truppe e dopo 9 giorni passò a Catanzaro Marina, dove fu ricevuto con archi. Quivi andò ad abitare nel palazzo del Decano De Nobili, addobbato tutto di drappi di differenti colori e tutto illuminato. La mattina volle vedere Catanzaro città e la villa. Tre giorni dopo andò a Crotone; quindi si avviò verso le Puglie. Le sue truppe dovevano essere provviste di tutto il necessario rifornendosi dai paesi dai quali passavano. Caraffa, che dipendeva da Nicastro, fu tassata per 10 animali vaccini e per 40 tomoli di grano. Il popolo consegnò inoltre 4 carichi di fieno. Nel mese di giugno, il comandante della piazza di Nicastro, ordinò ai Sindaci di obbligarsi a garantire per ogni mese 150 libre di carne, 150 pani, fieno ed orzo. Giorno 29 dello stesso mese fu dato ordine che tutti i Sindaci, Parroci, Sacerdoti, Economi, Diaconi, Chierici, Vescovi e Monaci si recassero a prestare giuramento di fedeltà a Giuseppe Napoleone: Augusto Sovrano. I preti pronunziarono la formula del giuramento davanti il loro vescovo e i secolari avanti il preside. La sera del 13 ottobre i Caraffoti dormirono in campagna per paura dei briganti, dopo avere ciascuno trasportato nella misura possibile il necessario. La mattina seguente si vedevano girovagare chi da Serra di Spina, chi da Serra d'Amboli, chi da una parte e chi dall' altra e così per 15 giorni. La mattina del 16 ottobre una colonna Francese di circa 212 uomini venne attraverso il Fallaco da Settingiano, ma fu respinta dai rivoluzionari di Settingiano, Tiriolo, Marcellinara e San Pietro a Maida riunitisi tutti, Subito dopo i francesi fecero ritorno in numero maggiore, e, dopo un combattimento di 15 ore, andarono a Settingiano; quivi vennero loro incontro l'Arciprete Brundulillo ed altri con vino e con denaro; forse 200 ducati e così li persuasero a partirsene. Arrivò intanto a Marina di Catanzaro una nave inglese da guerra, seguita da altre 12. Queste diedero fuoco al casino del Decano Nobili e poi gli inglesi saccheggiarono tutti gli altri casi impadronendosi di 1400 botti di olio. Da tutti i paesi si venne per il prelevamento del fabbisogno. Tutti i Caraffoti si portarono a Catanzaro Marina, ottenendo dagli inglesi 10 botti di olio. Gli inglesi dopo aver dato la preferenza ai Caraffoti nel prelevamento concessero piena libertà a tutti; dopo saccheggiarono olio e legname, caricandone le navi. Una colonna di Francesi si portò non molto dopo a Tiriolo da dove la gente dovette fuggire. Gli stessi riuscirono a penetrare soltanto nella Chiesa di S. Domenico, impadronendosi di calici e pissidi. Il saccheggio di tutto il paese fu improvvisamente impedito dallo arrivo del Maggiore Pane di Grano e dalle sue truppe. Gli attacchi più forti ebbero luogo a Marcellinara; morirono 40 francesi. Pane di Grano pose il suo accampamento presso la Rocca, mentre i francesi si accamparono nei pressi di "Grascio". Il Maggiore Pane di Grano mandò parte delle sue truppe a demolire il mulino di Corace ed altri ancora.

Sconfisse i francesi che si ritirarono dalle loro postazioni. Essi la notte del 23 luglio partirono unitamente ai Giacobini e per dove passavano devastavano e perpetravano furti di ogni genere, fino a che non arrivarono nei pressi di Crotone e finalmente si fermarono a Cassano. Durante la permanenza dei Francesi nelle vicinanze di Catanzaro i cittadini furono afflitti da numerose tasse. D. Antonio Grimaldi fu tratto in arresto perché cercò di dilazionare il pagamento. Mangiavano tutti crusca impastata essendo stati i mulini guasti dalle truppe rivoluzionarie. Il 6 agosto truppe paesane unitesi a 2000 soldati mandati dal Re Ferdinando, partirono per Cassano. Restò a Catanzaro un Comandante Inglese. Anche Crotone è in mano degli Inglesi i quali costavano. Il Preside D. Costantino Filippi tornò preside a Catanzaro, ma se ne partì due giorni dopo a causa della sconfitta riportata a Cassano dalle truppe regie. I Francesi coi Giacobini entrarono a Cosenza. Il 10 settembre passarono da Caraffa 46 francesi con il loro comandante Franceschi e uccisero delle galline. Tirarono dal collo la catena a Maria Angotti. Nello scendere a Cravaro uccisero Antonio Comità sotto il passo di località Malocane. Attraversato quindi il fiume Corace il comandante fece bruciare tutte le cose rapinate. 1807 19 febbraio. Fu portato nelle carceri di Maida dal Generale Ralnier, Antonio Miceli, per il fatto che, secondo lo stesso generale, furono tirati due colpi di schioppo da Giuseppe Antonio Sciumbata e da Antonio Sarchia. Passò egli con la cavalleria davanti alla casa di D. Gennaro Sciumbata, il quale così a proposito si espresse:"Mi chiamarono e sono uscito col "sciumbreino come mi trovavo, senza cappello; ed il Generale mi domandò chi avesse tirato i colpi. Naturalmente risposi che lo ignoravo. Mi sembrò di averlo persuaso. Sennonché, arrivato avanti la Chiesa, con minaccia di uccidermi, mi intimò di dargli i nomi dei briganti del paese. lo strinsi le spalle, perché, nella mia qualità di padre spirituale, non potevo accusare i miei figli. Le persone che avrei dovuto segnalare erano: Giuseppe Fruci, Filippo Dara, Antonio Sarchia, Giuseppe Mannarino, Giuseppe e Antonio Sciumbata, Giuseppe Sulla (Sara), i quali tutti costituivano la delinquenza del paese. 18 giugno. Giuseppe Mannarino con la sua comitiva di 25 persone, formata da paesani e da forestieri, dopo avere ottenuto con la violenza dalla popolazione 90 pani e 70 sopressate, la notte scassò 10 porte. La casa di Maria Galante, la casa di Santo Francesco allo scopo di impadronirsi della moglie, che però non trovarono. La casa di Agnese Scicchitano, per possederne la figlia e ferirono la madre; la casa di Maria Angela Mazza da S. Pietro che presero e poi liberarono; la casa di Lucia Dara che fortunatamente non c'era; la casa di Concetta Grande (Giorni), la quale neppure era in casa; la casa di Elisabetta Ferraia dove non trovarono la figlia Eugenia ma bensì la madre e la sorella; la casa di Rosa Santo che era fuggita fin dalla sera; finalmente la casa della signora Serafina Scerbo da Tiriolo alla quale portarono via lenzuola e fazzoletti. La comitiva del Mannarino veniva ogni giorno nel paese in cerca di pane e di vino e quando il pane non piaceva a loro, cercavano grano il quale veniva consegnato alla moglie del brigante. Altrettanto facevano Giuseppe Antonio Sciumbata, Filippo Dara e Gregorio Sulla (Scerra), i quali avevano la loro dimora tra Santa Caterina e Ciaramella. 1808 9 febbraio. La Guardia Civica, nelle persone di Nicola Galante, Giuseppe Fruci e Nicola Grande, sparò contro Giuseppe Antonio Sciumbata di Natale, per ordine del Comandante D. Tommaso Comità dietro abuso di porto d'armi. Fu quindi ferito al braccio ed alla coscia. Il Comandante la Guardia Civica fece una relazione al Comandante Francese residente a Tiriolo, il quale ordinò che il ferito venisse trasportato a Tiriolo, ed ivi venne subito fucilato e la di lui testa, mattina del 13 venne esposta nella piazza di Caraffa, ad esempio per gli altri. Il 18 ottobre tutti i parroci, arcipreti, vescovi, nonché tutte le autorità civili dovettero recarsi a Miglierina per prestare giuramento di fedeltà al Sovrano Gioacchino Napoleone.

L'intendente De Iomasis fece una breve dissertazione prima del giuramento; quindi fu chiamato il vescovo di Catanzaro D. D'Alessandria, in mitra e cappa. Il giuramento era il seguente: “Io giuro e prometto fedeltà ed ubbidienza a Gioacchino Napoleone, Re di Napoli e delle due Sicilie, nostro augusto Re”. Durante il viaggio il Parroco Sciumbata soffrì molto. Racconta egli stesso che, arrivati a Pizzo, entrò con l'asino in una stalla dove ricevette tanti calci della giumenta di Agostino Miceli e ne riportò lievi ferite. Stando poi nella chiesa di Monteleone, presso l'altare maggiore, gli cadde un grosso candeliere a triangolo sulla fronte causandogli sangue. Al ritorno, si curvò mentre era a cavallo per uccidere un aspide in mezzo alla via. L'asino, abbassato il collo, lo fece cadere vicino al serpente che, però, riuscì ad uccidere. 1809 Il 26 aprile cadde in mano dei briganti Andrea Mauro con la moglie, nel bosco di Carrà mentre ritornavano da Cortale. Fu legato e ferito col coltello; e la moglie, la quale resisteva, fu talmente bastonata da rimanere a letto per parecchi giorni; venne derubata della catena e dell'anello. Nel mese di maggio fu arrestato un brigante, il quale, a Monteleone, fu appeso in alto con delle corde e molti bambini lo facevano morire a colpi di pietra; per ordine del Comandante Francese, in faccia al Generale. Altri briganti, però, riusciti ad entrare in Monteleone due giorni dopo, afferrarono uno dei loro nemici e lo impiccarono. Il 20 giugno entrò a Tiriolo il capo brigante Bartolo Scozzafava con 130 briganti e disarmò tutti quelli che non fuggirono, uccidendo un nemico. Giorno 25 scese a Settingiano e ordinò alla Guardia Civica di consegnare le armi. Ritornato a Tiriolo, dopo avere ucciso il signor Alessandro Iuliano ed il figlio del Sindaco Fiorentino, fece tagliare la testa ad una donna da lui prima amata. Il 6 luglio con la sua comitiva e con molti di Settingiano, si impadronirono a Piterà di diversi animali. Dopo avere preso delle giumente ai Caraffoti; il tutto lo portarono a Tiriolo. Giorno 8 dei Francesi e San Pietresi arrivarono da Catanzaro e cominciarono a sparare contro i briganti, che fuggirono lasciando tutto: stoffe, formaggio, sopressate, buoi, vacche, cavalli. Partiti i Francesi tornarono a Tiriolo. Il capo Bartolo Scozzafava, chiese ed ottenne dal nostro Comune 200 razioni di pane e cacio; ne rimase contento tanto da esclamare: “Viva i Greci i quali non dubitano”. Tenne invece sotto torchio i Settengianesi. Bruciò la casa di Giuseppe Ferro, il palazzo del signor Ignazio Caruso ed il palazzo del Capitano della Guardia Civica D. Bernardo Caruso. Il 26 luglio fu ucciso il celebre brigante Giuseppe Mannarino, come pure il brigante Antonio Guzzo. Degna di nota è la morte dell'uno e dell'altro. Andò il Mannarino nel salone di maestro Nicola Monteleone per radersi. Quando la barba fu rasa tirò fuori il coltello e cercò di colpire il Monteleone sostenendo che non lo aveva tosato bene. I signori Luigi Grande e Francesco Comi che erano presenti, scongiurarono il brigante gridando: "Per carità Giuseppe" e cercarono di mantenergli il coltello. Il barbiere, forte dell'aiuto dei due amici, riuscì ad impadronirsi dello schioppo del Mannarino contro cui sparò, freddandolo. Antonio Guzzo, inteso il colpo dello schioppo, corse avanti la porta del signor Nicola Grande, padre di Luigi col coltello e con lo schioppo in mano, tentò di entrare, ma il signor Nicola, con una spinta lo buttò a terra e aveva incominciato la controffensiva col coltello, quando, arrivato improvvisamente il figlio, il Guzzo finì di vivere. È superfluo dire che il paese gioì per la fine dei due malfattori. La mattina del 28 luglio Caraffa fu improvvisamente assediata da tutte le parti. Era l'alba. I briganti incominciarono a sparare dalla Ficarazza, quindi dai pagliai di Zanella e poi dalla Carcarella: erano 200, I primi colpi furono sparati per terrorizzare. I Caraffoti incominciarono a reagire contro i briganti che già erano entrati e ne uccisero tre, oltre i feriti. Questi si incrudelirono uccidendo 22 paesani: Franco Trippa il capo, fece bussare al magazzino di D. Gennaro Sciumbata; egli aprì subito e fece consegnare le armi dal fratello Luigi. Tra i briganti, venuti sotto la finestra del parroco vi era Filippo Dara che li aveva

guidati nonostante poco tempo prima fosse stato liberato e ricondotto al paese dallo stesso Luigi, dopo la morte di Mannarino e Guzzo. Lungo le strade del paese, dalla Chiesa in su, i cadaveri venivano mangiati dai maiali. I morti furono: Margherita Petruzza, Giuseppe Sciumbata, Cesare Sciumbata, D. Francesco Sciumbata, mastro Luigi Sciumbata, D. Francesco Saverio Sciumbata, monaco Antonio Bubba, Agnese Dara, Maria Angela Trapasso, G. Battista Matafone, Sindaco mastro Domenico Matafone, D. Tommaso Comità, medico capitano della civica G. Battista Angotto, Donna Marianna e Donna Francesca Comità, sorelle del medico; Giuseppe Fruci, Maria Loprese, Francesco Mila sacrestano, Maria Galante, Eleonora Fimiano, Giuseppe Miceli e Antonio Comi. La notte del 29 uccisero pure Tommaso Rizzato perché era armato di schioppo. Quindi se ne andarono nella zona montagna, dove D. Gennaro Sciumbata dovette loro mandare un barile di vino e del pane. La mattina del 30 arrivò la comitiva di Giuseppe Rotella, il boia della montagna. Si recarono tutti in casa del parroco D. Gennaro prendendo 6 ducati. Ciò non bastando, lo trascinarono seco chiedendogli altri 100 ducati, Poiché per detta somma mancavano altri Il ducati, vennero avanti la sua casa i due capi briganti, Pulito e Pinturito. Questi, crudele quanto mai, scassò la porta del magazzino per mettervi fuoco: si commosse per i pianti di tutti e desistette dal nuovo reato. D. Gennaro gli consegnò la somma e così rimase libero. Il 4 agosto, il Pulito con la sua comitiva, aveva preso 6 carri di grano che erano destinati ai figli di D. Tommaso Comità i quali si rifugiavano a Girifalco. Sopravvenne però la comitiva del Rotella che più forte di quella del Pulito, si impadronì del grano, portando lo a Settingiano. Poveri figli del Comità, rimasti orfani, Fra tante altre malefatte, il Rotella rapì la figlia di Giovanni Antonio Galante, né volle lasciarla per lacrime e per promesse. G. Battista Caliò, capo di una comitiva, si impadronì dei buoi e delle vacche di Tommaso Peta e di Domenico Fimiano. Venne sino al mulino dove prese i maiali di Giuseppe Filippis e le vacche di Lubello. Poiché, inoltre, Cesare Maiorana, abitante in Borgia, non volle acconsentire alle sue richieste, diede fuoco al tappeto e al casino di Usito. Intanto giunse il Rotella con i suoi, raggiunse il Caliò in località Pellerano, nel casino dei Cotronei. Accostatosi, inveì contro il Caliò perché aveva disarmato due suoi compagni. Da una parola all'altra si arrivò alle mani, fino a che uno dei compagni del Caliò sparò contro il Rotella che, vedendosi ferito, ordinò il fuoco. Morirono in cinque con lo stesso Caliò. Facevano parte di questa comitiva i paesani: Felice Fimiano, Nicola Petruzza, Antonio Morello, Saverio Comità, Tommaso Fruci, Filippo Bubba, Rocco Ferraina, Antonio Miceli, Agostino Miceli, Filippo Dara, Pietro Mauro e Giuseppe Delgrazia. Il paese è ormai desolato. Coloro i quali sono rimasti vivi, sono scappati chi di qua chi di là, La famiglia del signor Nicola Grande si rifugiò a Borgia; La famiglia Fruci, Girolamo Comi, Antonio Miceli e Francesco Comi in Maida. La famiglia Bubba in Girifalco. La famiglia di Giuseppe Donato, mastro Francesco Grande ed altre a San Floro. La rimanenza del popolo dormiva in campagna. Si piangeva continuatamene, si viveva in una.. angoscia mortale, si desiderava la morte. Le strade erano inzuppate di sangue. Gli uccisi si portavano in Chiesa, subito si seppellivano. Eppure questo paese poteva chiamarsi signore sopra tutti gli altri paesi. I Caraffoti erano rispettati dai briganti e dai Francesi; potevano andare ovunque liberamente e ovunque andavano, erano temuti e stimati. Eravamo invidiati da tutti gli altri Comuni. Caraffa veniva chiamata la "Cittadella di Messina". Eravamo quattro sacerdoti, due minoristi, tre novizi ed altri studenti, e sono rimasto solo senza sacrestano. Poi si ritornò da Cortale D. Giuseppe Sciumbata e ci servivamo la Messa l'uno con l'altro. lo sono stato richiesto da Catanzaro, da Cortale e da altri paesi, ma non ho avuto l'animo di abbandonare le mie pecorelle, pur trovandomi in mezzo ai dispiaceri. - Così scriveva D. Gennaro Sciumbata. 1905

8 settembre. Alle 2 di notte si avvertì una fortissima scossa di terremoto. La popolazione venne presa dal panico; nessuno dormiva a casa. Tutti, uomini e donne, recitavano il Rosario nelle capanne dove si radunavano e si riparavano dalla paura d'una probabile replica. Tutte le case furono danneggiate, maggiormente il Municipio. La Chiesa del tempo fu pure lesionata, non tanto però da non potersi riparare; si pensò tuttavia di distruggerla, nella speranza di costruirne una più grande. Venne in seguito un comitato di beneficenza da Bergamo con tutta la buona volontà di fare molto bene nella nostra Caraffa, ma quasi nulla fu fatto per l'incomprensione e l'incuria degli Amministratori. 1915 Offrirono la loro vita alla Patria durante la guerra mondiale 1915-1918 i seguenti Caraffori: l) Arcuri Domenico di Pietro Caporale 2) Farina Pietro di Giuseppe Caporale 3) Fruci Gennaro fu Antonio 4) Comi Alfredo di Antonio Finanziere 5) Guzzi Giuseppe di Tommaso 6) Grande Giuseppe di Luigi 7) Grande Ottavio di Giovanni 8) Fimiano Antonio di Giuseppe 9) Notaro Domenico di Giacomo 10) Peta Francesco Luciano di Luigi 11) Sulla Leonardo di Francesco 12) Bubba Giuseppe di Luigi MORTI PER FERITE 1) Sinatora Giuseppe di Pietro 2) Vinci Giuseppe di Antonio 3) Guzzi Antonio di Luigi

Finanziere

MORTI PER MALATTIA A CASA 1) Donato G. Battista di Antonio Sottotenente 2) Bubba Luigi fu Antonio 3) Pallaria Antonio fu Luigi 4) Comità Serafino 5) Mascaro Giuseppe di Raffaele 6) Ferraina Francesco Luigi fu Luigi 7) Aloisio Giuseppe di Francesco. DISPERSI l) Fimiano Domenico di Luigi 2) Donato Francesco di Alfonso. AD ETERNA MEMORIA DEL TEN. GIROLANO COMI, CADUTO A DOGALI E DI TUTTI I CADUTI DELLA GUERRA 1915/1918, I CARAFFOTI, DEVOTI, INNALZANO UNA LAPIDE. Ed innanzi a noi bianca sta la marmorea lapide; ma da essa si staccano, fulgide del loro eroismo, le anime dei valorosi, esempio d'amore, esempio di fede, esempio di dovere. Un brivido percorre le nostre membra e gli occhi nostri si velano per l'intensa commozione per voi che, modesti e sorridenti, correste a morte nel fiore della vita. Tutti foste sublimi. Tutti siete internati nel marmo e le generazioni future, guardando Voi, che col sangue rendeste più forti e più sacri i confini della Patria, fremeranno di giusto e sacro orgoglio. Innalzando noi Caraffoti questa lapide, compiamo un solenne rito, rito d'amore, rito di ammirazione, di gratitudine, di solenne riverenza, col quale

intendemmo incidere, non solo nel freddo marmo, ma più profondamente negli ardenti cuori, il nome ormai sacro dei concittadini nostri che in vita si sacrificarono per la nostra salvezza. E affinché più di tutti possano i giovani che non videro e non sentirono i tormenti, le inquietudini, le ansie e infine la delirante gioia, ben comprendere ciò che noi anziani vedemmo e sentimmo, mi sia concessa una breve rievocazione nel fatto che ogni Italiano, confortato nel cuore, rivede con indicibile emozione. Ricordiamo o gioventù Caraffota. Un giorno infinitamente triste partirono questi giovani baldi, fieri della propria giovinezza, della propria forza, della propria insegna. Partirono si con le lacrime sul ciglio e con lo strazio nel cuore. Che il popolo italiano preferisca alle armi della guerra le armi del lavoro, ma partirono pieni di coraggio e di fede come si addice a cuori latini. Essi partirono fieri di compiere il loro dovere con la speranza di coronare tutti di lauro immortale. "Parea che a danza e non a morte andasse ciascun dei vostri o a splendido convito" avrebbe gridato Leopardi. Partirono questi nostri concittadini, chiamati dal dovere, obbedirono alle leggi della Patria, sperarono, lottarono e caddero da Eroi. Sperarono in una Patria più grande, lottarono per i destini della loro terra, caddero invocando il nome Italia. Lottarono con l'entusiasmo, con la forza e con la fede di coloro che vogliono e sanno vincere. Partirono e noi nascondemmo le lacrime più dolorose, più cocenti e li baciammo in silenzio col bacio più caldo, più profondo, fatto maggiormente Santo. Offrirono il petto al nemico incalzante, già ebbro di vittoria; il sangue puro fu donato in sacrificio alla Patria e la Patria fu salva. o nostri gloriosi concittadini per la Patria caduti! Ricordo e rifletto. In pieno combattimento alcuni di voi pensavano a sera, a piccole braccia tenere che si stendevano quaggiù nella casa lontana; alcuni di voi pensavano a dolci e tenere braccia che si tendevano con amoroso richiamo di sposa; alcuni di voi pensavano a mani tremuli benedicenti, a capi cannuti che si chinavano stanchi nell' attitudine della preghiera… A tutti, a tutti giungeva un soave ricorso familiare, ma al di sopra di ogni tenerezza fu l'amore della Patria e per la Patria moriste... Gloria, Gloria a voi nei secoli venturi, a voi cui oggi ci inchiniamo riverenti. Non v'ha al mondo espressione che possa dire ciò che nel cuore nostro è per voi. Vi sono sentimenti così profondi, così intensi, così meravigliosamente forti che tradurli a parola sarebbe sciuparli, così come talvolta le gemme preziose perdono parte del loro splendore se incastonate e sia pure la rilegatura opera di artista. Infinita è la nostra riconoscenza per voi o martiri; ed ogni onesto cittadino Italiano o Caraffoto vi ricorda tutti conosciuti od ignoti di qualsiasi fede politica, in qualsiasi fronte voi abbiate combattuto, sotto qualsiasi comando. Tutti avete offerto la vita per la Patria, Tutti avete inteso difenderla e salvarla. Infinita è la gratitudine del popolo Italiano per voi o eroi e valga il vostro olocausto a porre termine alle lotte che inasprirono fino ad ora la terra; dica il vostro sacrificio a questi poveri uomini che quaggiù siamo tutti fratelli, con aspirazioni uguali, con uguali diritti e con uguali destini.

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