Uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare Cinque parole per

March 20, 2018 | Author: Anonymous | Category: N/A
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Uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare Cinque parole per Firenze 2015 La Chiesa fiorentina si prepara al Convegno Ecclesiale Nazionale Martedì 3 febbraio 2015 ‐ Spazio Reale‐San Donnino Introduzione di Dom Bernardo Gianni Priore di San Miniato al Monte alla presenza di Sua Eminenza il Cardinale Giuseppe Betori

Ringrazio Sua Eminenza per le sue sempre care e cordiali parole, per la sua immeritata stima, assieme a quella del caro Don Andrea, posso definirlo anche tra l'altro mio collega nel lavoro della giunta per la preparazione al convegno e vi ringrazio perché per me, al di là della fatica, è una grande gioia poter condividere il cammino di preparazione verso il convegno che già l'Invito nel 2013 qualificava, consegnando alle varie realtà della Chiesa italiana una preparazione, una interazione in vista del convegno stesso, come un autentico evento ecclesiale, comunitario e comunionale. Sono tre bellissimi e importantissimi aggettivi che corrispondono anche a quello che noi stiamo vivendo stasera, quindi se insieme, soprattutto noi di Firenze sappiamo prepararci, con momenti forti come questo, ecclesiali, comunitari e comunionali, certamente il convegno del prossimo novembre non smentirà quelle attese già espresse nell'Invito. Io prendo le mosse stasera dalla chiusura del Concilio Vaticano II, credo che sia importante riflettere insieme su cosa abbia significato per i Padri conciliari l'espressione umanesimo, in che termini essa sia apparsa in quell'altissimo e autorevolissimo magistero, come di fatto si sia creata una visione cristiana dell'umanesimo dopo il Concilio e cogliere in che misura il percorso che noi stiamo facendo adesso, e che vorremmo continuare a fare, non sia altro che un riverbero di quelle riflessioni. In questo senso suona secondo me di grandissima, oltre che bellezza, pregnanza teologica, antropologica, ma direi davvero storica e culturale un passaggio della allocuzione di Papa Paolo VI nell'ultima sessione ecumenica del Concilio Vaticano II ‐ Martedı̀, 7 dicembre 1965 : «La Chiesa del Concilio, sı̀, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé , l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà . Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze; si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé , che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è , che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa il filius accrescens (Gen. 49, 22); e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà , per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo laudator temporis acti e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e cosı̀ via. L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella

terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è ) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». Vengono personalmente i brividi ogni volta che si rileggono parole così belle, anche da un punto di vista retorico e letterario e soprattutto colpisce questa espressione nuovo umanesimo, e sorprende forse un pò che tanto nell'invito quanto nella traccia manchi alcun riferimento a questo splendido discorso in chiusura del Concilio dove il Papa, oggettivamente, parla di un nostro nuovo umanesimo e io credo che il convegno di Firenze prenda di fatto le mosse da questa antica intuizione, da questa antica, vorrei dire, rivendicazione di Papa Paolo VI contro ogni umanesimo che come tale ritiene insulsa ogni trascendenza, addirittura esclude, come di fatto impropria alla ricerca della ragione, la questione di Dio. Ecco che qui si afferma che solo un umanesimo che si apre alla dignità e alla trascendenza è veramente cultore dell'uomo. Guardate da queste affermazioni partono linee che ci riportano, per esempio, al bellissimo discorso di Papa Benedetto a Parigi al collegio dei Bernardini, dove si afferma come l'esercizio della ragione, anche attraverso il metodo della filologia cioè della cura della parola, del suo rigore scientifico, esegetico, è il metodo che non mortifica, ma al contrario qualifica l'uomo, anche se questa parola la si studia come possibile rivelazione del Signore. In altre parole un umanesimo davvero a tutto campo che per sua definizione, avendo a cura l'integrale dell'uomo, non può certo prescindere e stralciare come inutile e vana questione il fatto di Dio. E ancora di trascendenza e di dignità della persona ha parlato Papa Francesco al Parlamento Europeo molto recentemente; anche lì Papa Francesco ha detto che se l'Europa ci tiene tantissimo al suo umanesimo, non potrà certo rinunciare alla dimensione di trascendenza che ha tanto caratterizzato espressioni altissime della sua cultura, della sua storia, del suo pensiero. Dunque, come vedete, da un Papa all'altro, per non parlare di discorsi analoghi in contesti non dissimili di Papa Giovanni Paolo II, il tema dell'umanesimo appartiene alla coscienza del magistero della Chiesa, appartiene alla predicazione dei nostri Papi, appartiene alla tradizione della Chiesa, che vuole di fatto proporre una visione dell'uomo davvero integrale. In questo senso il Concilio al numero 7 di Gaudium et Spes non è ignaro che esiste appunto una sempre più pervasiva diffusione dell'umanesimo che si ritiene tale proprio perché allontana la questione di Dio dalla sua coscienza, dalla sua ricerca, dal suo statuto intellettuale: «..moltitudini crescenti praticamente si staccano dalla religione. A differenza dei tempi passati, negare Dio o la religione o farne praticamente a meno, non è più un fatto insolito e individuale. Oggi infatti non raramente un tale comportamento viene presentato come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di umanesimo. Tutto questo in molti paesi non si manifesta solo a livello filosofico, ma invade in misura notevolissima il campo

delle lettere, delle arti, dell' interpretazione delle scienze umane e della storia, anzi la stessa legislazione: di qui il disorientamento di molti». Di questo tipo di umanesimo che potremmo qualificare come autoreferenziale possono bastare due soli esempi. Ho incontrato l'altro giorno per caso un passaggio dell'epistolario di Lacan dove egli cita una frase che lui aveva incontrato nelle lettere di Pablo Picasso, una affermazione dove si coglie tutta questa pretesa dell'uomo di trovare da solo, attraverso la scorciatoia di una ragione che si ritiene capace di tutto, soluzioni ad ogni mistero: «Io non cerco, io trovo»

che è tutto il contrario della prospettiva di quell'umanesimo decantato da Papa Benedetto a Parigi che ha al suo cuore la attitudine, perdonatemi, tipicamente monastica, del quaerere Deum, si tratta proprio della intelligenza che si mette alla ricerca di Dio, che non esclude da se stessa la necessità quanto meno di mettersi alla ricerca di Dio. E ancora, è interessante notare questa diagnosi drammatica che Claude Levi Strauss dà dell'uomo e della storia, in cui in realtà, come accadrà per gli esiti più estremi dello strutturalismo francese, anche la parola umanesimo appare una forma di forzatura idolatrica di un concetto che in realtà scomparirà, come scomparirà l'uomo stesso inghiottito da una natura che nessun significato ha oltre il suo immediato esserci: «il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui, abbiamo sı̀ l’illusione di poter difendere col potere e la tecnologia quanto le nostre culture hanno elaborato cercando di disarmare progressivamente la natura, ma quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine» Come vedete tutto il mistero dell'uomo è qui ridotto niente di meno a un mero fenomeno senza qualità alcuna che lo trascenda, un fenomeno che, come accade in natura, al più potrà lasciare un fossile di se stesso, ma niente altro, senza alcun fine, senza alcuna causa senza alcuna origine, questa è la prospettiva di quell'umanesimo di cui il Concilio Vaticano II in Gaudium et Spes al numero 7 ha lucidamente preso atto e invece, questa espressione così bella, nuovo umanesimo, che noi vogliamo sia l'arrendersi a una visione integrale dell'uomo che includa la sete di Dio, la ritroviamo in un altro passaggio di Gaudium et Spes 55‐56 dove troveremo formulato il quesito dei quesiti, che credo sia importante porci ancora oggi per individuare un più adeguato fondamento ‐perché no?‐ anche dottrinale per questa celebrazione del convegno, per arginare il rischio di un eccessivo appiattimento ad una superficiale pastorale che finisca per trascurare la nostra consapevolezza teologica di essere figli nel Figlio.

Gaudium et Spes 55. L'uomo artefice della cultura «Cresce sempre più il numero degli uomini e delle donne di ogni gruppo o nazione che prendono coscienza di essere artefici e promotori della cultura della propria comunità . In tutto il mondo si sviluppa sempre più il senso dell'autonomia e della responsabilità , cosa che è di somma importanza per la maturità spirituale e morale dell'umanità . Ciò appare ancor più chiaramente se teniamo presente l'unificazione del mondo e il compito che ci si impone di costruire un mondo migliore nella verità e nella giustizia. In tal modo siamo testimoni della

nascita d'un nuovo umanesimo, in cui l'uomo si definisce anzitutto per la sua responsabilità verso i suoi fratelli e verso la storia» E questa è una espressione molto bella in cui dell'umanesimo si coglie un aspetto che tornerà come particolarmente caro anche al magistero di Papa Francesco, un umanesimo appunto che sia al servizio del mondo e che dunque sia, come dire, sposato o meglio assimilato dalla Chiesa nella sua instancabile e insonne attitudine di servire l'uomo, di servire l'umano, per accorciare la distanza tra Dio e l'uomo e allora ecco la decisiva domanda che il Concilio si poneva: 56 «Come, infine, riconoscere come legittima l'autonomia che la cultura rivendica a se stessa, senza giungere a un umanesimo puramente terrestre, anzi avverso alla religione?» Come vedete intorno a questa parola si annoda dunque una tensione non semplice e che qua e là, devo anche dirvi, ha fatto alzare qualche nota critica sull'aver scelto questa parola che ha una storia così complessa nella storia del pensiero e della mentalità della nostra cultura occidentale; in fondo anche la stessa Firenze, e l'Invito coglierà questo aspetto come vedremo fra breve, è certamente il luogo dove, come tutti noi sappiamo, è nato l'umanesimo fiorentino, ma purtroppo ancora oggi una vulgata ancora diffusa fa ritenere l'umanesimo fiorentino come l'inizio di una stagione nuova, di totale autoreferenzialità dell'uomo rispetto a Dio, dove di fatto si inizia a celebrare un uomo affrancato e dalla Chiesa e da tutto un tipo di sapere che la Chiesa trasmetteva, veicolava e con una visione della centralità di Dio che si ritiene semplicemente di un'epoca passata, il secolo buio del medioevo. Alcune interpretazioni storiografiche purtroppo ancora segnano il magistero anche in molte nostre scuole e purtroppo non colgono il segno, il dato essenziale che noi fiorentini non abbiamo bisogno di ricordarci, la Traccia lo fa appena appena, l'Invito anche, ma basta fare una piccola passeggiata nel centro della nostra città per capire cosa si costruisse nell'umanesimo, con che prospettiva venissero edificate chiese e altri luoghi da artisti, che certo recuperavano la tradizione della classicità, ma sentendosene in qualche modo figli e senza mai per questo volerla ridimensionare rispetto al portato della tradizione cristiana. Credo che questo sia importantissimo dirlo e sarebbe molto interessante, forse addirittura fare anche un piccolo viaggio nel Canzoniere, per esempio di Francesco Petrarca o di Lorenzo il Magnifico che sono due canzonieri costruiti al modo della Divina Commedia dove si racconta tutta la dimensione dell'ordo amoris capovolto, dove l'uomo cioè si perde amando più la creatura del creatore, salvo poi alla fine del canzoniere, riconoscere un evento di conversione nella propria vita per cui, tanto Petrarca tanto Lorenzo, finalmente aderiscono alla prospettiva per cui prima si ama il creatore e poi la creatura. Queste sono cose che non sentirete mai, la vulgata vuole Francesco Petrarca avventurarsi nei boschetti alla ricerca di Laura e Lorenzo il Magnifico mezzo ubriaco sui carri allegorici intonando “Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuole esser lieto, sia, di doman non c'è certezza”, sono dati di una parzialità estrema. E infatti l'invito dice: “Proprio nella città di Firenze l’incontro tra umanesimo classico e visione cristiana dell’uomo ha raggiunto il suo vertice storico tra il XIV e il XVI secolo. Un tempo gli storici presumevano che l’umanesimo rinascimentale, facendo da apripista alla modernità e alle sue “rivoluzioni” culturali, a cominciare da quella copernicana, rappresentasse un’interruzione della concezione dell’uomo pensato come creatura di Dio. In realtà , come hanno spiegato pensatori

cristiani del primo Novecento quali Berdjaev, Gogarten, Guardini, l’umanesimo rinascimentale fu un crocevia delicato, in cui divenne evidente l’intima connessione tra la dipendenza dell’uomo da Dio e la sua capacità creativa, entrambe riflesso di quella somiglianza con Dio di cui parla la Genesi”. Io insisto su questo perché noi siamo fiorentini, celebriamo il convegno a Firenze, certo meritereste ben altro docente a dirvi queste cose, ma non vi sfugga mai, io ripeto, questa prospettiva forte, complessa, ma nello stesso tempo limpida ed evidente della tradizione umanistica fiorentina, la prospettiva forte della somiglianza con cui Dio ha fatto l'uomo, come ci racconta Genesi, con cui Dio ha reso, per meglio dire, l'uomo creatura a Lui prediletta, da Lui prediletta in un vincolo di predilezione e di somiglianza che fonda quella dignità dell'uomo che l'umanesimo ha semmai scoperto e qualificato. Ancora l’Invito: “Da quel crocevia, nondimeno, ha preso le mosse un processo di differenziazione interna all’umanesimo che ha separato ciò che in realtà è unito, contrapponendo artificialmente creaturalità e creatività , e teorizzando la libertà della seconda nella negazione della prima”. Gli esiti dell'umanesimo purtroppo sono andati incontro a questa sorta di divorzio, a questa sorta di polarizzazione i cui danni appunto, come vedete, il Concilio Vaticano II in Gaudium et Spes non manca di notare e l'invito al convegno per darci uno sguardo un po' più allargato su cosa significhi oggi l'umanesimo al di fuori dei confini ecclesiali ci dice con un sguardo quasi disincantato: “Oggi l’umanesimo cristiano sembra essere soltanto una variante minoritaria tra i numerosi e differenti umanesimi che preferiscono non richiamarsi ad alcuna ispirazione evangelica: “umanisti secolari” si sono autodefiniti alcuni dei loro rappresentanti nell’incontro del “Cortile dei Gentili” tenutosi a Stoccolma nel settembre 2012. Secondo taluni pensatori saremmo entrati nell’epoca post‐moderna, definita anche come epoca post‐secolare. Il processo di secolarizzazione, iniziato con la messa in discussione del cristianesimo quale principio sintetico dell’umanesimo, dopo vari tentativi di cercarvi alternative sembra ormai giunto al suo esaurimento. Oggi non esiste più un principio sintetico che possa costituire il fulcro di un nuovo umanesimo.” Questo è un dato importante perché ci fa capire, come si accennava già prima commentando il brano, un po' agghiacciante direi di Levi Strauss, che laddove viene meno il riferimento alla trascendenza dell'uomo è chiaro che risulta sempre più difficile parlare di umanesimo, per cui l'uomo perde, come dire, una consistenza, un fulcro tale per cui si possa ancora parlare genericamente di umanesimo. Allora voi capite perché sia importante parlare insieme per prepararci a un convegno che saluta un nuovo umanesimo, abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, perché abbiamo bisogno di una rinnovata visione dell'uomo e abbiamo bisogno di una rinnovata visione dell'uomo perché abbiamo perso quel fulcro determinante, connesso alla trascendenza dell'uomo in Cristo Gesù e questa è la nostra proposta, naturalmente è una proposta di fede, ma che ci appassiona e che vogliamo offrire alla riflessione della società italiana. Era sempre l’Invito a scrivere: “Per questo, pur nella consapevolezza della natura plurale dell’odierna società , uno degli scopi del Convegno è quello di proporre alla libertà dell’uomo contemporaneo la persona di Gesù Cristo e l’esperienza cristiana quali fattori decisivi di un nuovo umanesimo”.

Del resto molte correnti di pensiero, nel passato e nel presente ‐come ci insegnava Giovanni Paolo II in Dives in misericordia 1‐ “sono state propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo,‐ecco questo riferimento fortissimo, “In Cristo Gesù, il nuovo umanesimo”, credo che così risulti un poco più chiaro‐ cerca di congiungerli in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio”. Il Papa Giovanni Paolo alludeva qui senz’altro a molti fondamentali passaggi, fra l’altro, di Gaudium et Spes, fra cui quello, celebre e celebrato, del numero 22 che merita anche qui di essere riportato ai fini del nostro argomentare: “Gaudium et Spes 22. Cristo, l'uomo nuovo. In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (28) (Rm5,14) e cioè di Cristo Signore”. E ancora: “Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione”. Vedete la cosa straordinaria è che Cristo di fatto rivelandoci il Padre svela anche l'uomo a se stesso, allora cogliete come per noi parlare di umanesimo non possa prescindere dal riferimento a Gesù Cristo e nello stesso tempo verifichiamo come ormai la contemporaneità abbandoni questa idea dell'umanesimo, ma intanto tutti ritrovandoci almeno intorno alla questione “uomo” ecco che noi osiamo , certo con umiltà, proporre questa prospettiva: è il senso, uno dei sensi forti anche del nostro convegno. “Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è «l'immagine dell'invisibile Iddio » (Col1,15) (29) è l'uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata (30) per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime”. E l'ultima espressione che vi riferisco: “Chiunque segue Cristo l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo” Allora noi, in Cristo, stiamo cercando di trovare la radice a un discorso forte sull'uomo essendo, come ha detto Paolo VI, cultori dell'uomo. Arriveremo cinque verbi della traccia però, perdonatemi, io credo che sia importante anche dedicare qualche minuto, come ho già detto, a questa piccola premessa, certo malconcia, ma che tenta di riportare alla coscienza del cuore e del pensiero i grossi problemi che sono connessi ad una visione dell'uomo senza l'apporto della Rivelazione, e come noi non possiamo prescindere assolutamente da essa se non vogliamo ridurre il nostro umanesimo a una proposta squisitamente etica, perché ridurre la Chiesa a etica, perdonatemi, impoverisce tutta la portata autenticamente salvifica del Signore Gesù. Voglio prima però di questo aprirvi un altro piccolo sguardo, tutto nostro cittadino, perché credo che ci sia un altro appuntamento che dobbiamo avere nel cuore, nella memoria di noi Chiesa fiorentina perché tornerà a trovarci un Papa e perché quello che ci era venuto a trovare la volta precedente, Giovanni Paolo II, proprio di umanesimo inevitabilmente, nei suoi discorsi, aveva parlato. Egli infatti con grande lucidità, nella sua visita dell'ottobre dell'86 a Firenze non evitò la complessa e problematica connessa alla questione dell’umanesimo. Egli rivolgendosi al mondo della cultura nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio disse:

“Ecco perciò un primo compito della cultura: quello di ricostruire incessantemente la memoria dell’uomo in funzione dei compiti sempre nuovi che lo attendono. Poco fa è stato autorevolmente ricordato, sotto le sue varie valenze, l’umanesimo fiorentino, da cui trasse identità l’Europa moderna. Esso è stato ed è un messaggio per sempre e per tutti, non solo per gli specialisti di ricerca storico‐ letteraria. Il ritorno ai greci e ai romani non fu una fuga dal presente nel passato, ma, dentro la continuità della tradizione e professione cristiana, il recupero di una ricchezza autenticamente umana per un suo più alto avvaloramento nell’orizzonte della fede”. Con questo spirito Coluccio Salutati, morto nel 1406, leggeva e interpretava allegoricamente le fatiche di Ercole interpretandolo come alter Christus nell'idea, egli diceva, che se io trovo qualcosa di bello e di buono nella tradizione classica, ciò non può non essere stato ispirato in qualche misura, pur nella penombra della mancata rivelazione, dalla sapienza di Dio: questa è l'attitudine esegetica con cui la cultura umanistica fiorentina lavora sulle fonti classiche. Aggiungeva poi papa Giovanni Paolo II: “L’umanesimo fiorentino fu perciò un evento profetico, aperto sul futuro. Vi si coniugavano la santità di Antonino ‐predecessore del nostro Arcivescovo‐ , la spiritualità dell’Angelico, la veemenza del Savonarola, la pluricultura di Leonardo e di Michelangelo”. ‐ma potremmo aggiungere tanti altri umanisti –da Pico a Giannozzo Manetti‐ che scrivono trattati sulla dignità dell'uomo, talvolta non senza il confronto col mondo monastico che interrogato perché si cercano nei monasteri, e non altrove, le fonti di una nuova cultura che ponendo al centro l'educazione dell'uomo, rifiutando la tarda Scolastica ormai ridotta a pura logica formale, propiziasse, con l'ausilio dei Padri, una rifondazione del cuore dell'uomo. Siamo, come intuite, a scuola pertanto di Agostino e basterà per questo ricordare Santo Spirito e il suo fecondo cenacolo animato da Luigi Marsili. Carissime e carissimi, questo è una cornice storica appena abbozzata ma è quella ove noi ci prepariamo ad ospitare il convegno, una storia con questa sensibilità e questi accenti da tenere con cura nel nostro cuore perché l’umanesimo non sia mera memoria accademica ma esperienza e profezia di un umano diverso, un umano trasfigurato da Cristo. «Se il Rinascimento fu una delle epoche più luminose della storia fiorentina, quell’esperienza singolare non può rimanere senza un messaggio anche per voi, Fiorentini del 1986. – è ancora Giovanni Paolo a parlare in Piazza della Signoria ai fiorentini nell'86‐ Oltre all’invito a saper apprezzare e coltivare i nobili valori dello spirito, incarnati nelle lettere e nelle arti, essa vi richiama alla necessità di una continua rinascita spirituale e morale, secondo la celebre espressione di san Paolo agli abitanti di Efeso: “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente” (Ef 4, 23)». Come udite ritorna questa parola chiave novità col suo aggettivo nuovo e tutto l'umanesimo è stato segnato, come ci ha insegnato il grande maestro di studi rinascimentali, Erminio Cesare Vasoli, di recente scomparso, dall'attesa di una età nuova fondata anche, certamente, su di una etica con cui si costruisse una città dell'uomo meno indegna della città di Dio, come dimostrano fra l’altro i trattati di Matteo Palmieri e di tanti altri umanisti. E ancora: «Illustri e cari signori. Nella notte natalizia del 1966, Paolo VI, pellegrino a Firenze ancora dolorante per le ferite dell’inondazione, lasciò ai fiorentini questa consegna: ‐e la condivido con voi‐“La vostra vocazione è nello spirito; la vostra missione è nel diffonderlo”». Vedete come questo tema dell'estroversione, dell'uscita in realtà ha già una sua tradizione, e dunque non ci arriva come qualcosa di completamente inedito, esso anzi riguarda anche l'umanesimo finalmente interpretato non primariamente come una questione accademica, ‐

questo davvero stasera non vorrei che pensaste: a tutto quello che stiamo organizzando a Roma come un evento accademico ed elitario‐, ma come una esperienza dello Spirito che ci apre strade per il futuro, strade in cui condividere con altri una prospettiva che vuole essere la costruzione ‐diceva ancora Giovanni Paolo con una espressione bellissima‐ di quell'«umanesimo plenario» che deve proporsi financo sulle conquiste della tecnica come autentico e affidabile fondamento della civiltà in questo scorcio di secolo. «Umanesimo plenario»: con questa qualificazione avversa a ogni frammentazione dell’umano torniamo così da dove eravamo partiti, cioè da una visione dell'uomo completo, integrale, adempiuto, dove nulla è escluso, così come evoca con forza persuasiva Gaudium et spes: «L'uomo, infatti, avrà sempre desiderio di sapere, almeno confusamente, quale sia il significato della sua vita, della sua attività e della sua morte. E la Chiesa, con la sua sola presenza nel mondo, gli richiama alla mente questi problemi. Ma soltanto Dio, che ha creato l'uomo a sua immagine e che lo ha redento dal peccato, può offrire a tali problemi una risposta pienamente adeguata; cose che egli fa per mezzo della rivelazione compiuta nel Cristo, Figlio suo, che si è fatto uomo. Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo».

“L'uomo, si imparò qui a Firenze a dire questa parola con particolare intenzione, come

intendendo un prodigio in cui la creazione si fosse identificata con il Creatore o come di un mistero di cui fosse impossibile delineare i contorni, ma simultaneamente la scienza e l'esperienza, cresciute insieme con la storia drammatica, persuadevano ad abbassare il tono di quella enfasi mistica. Sotto il nome di uomo è indicata troppo spesso una entità che sembra così poco umana, con questo nome siamo indotti continuamente a constatare che il designato è un apparato vivente, per istinto o per degenerazione, così bieco e ferino che è arduo ai credenti pensarlo glorificato anche lui dall'incarnazione e redento dal sacrificio. E' quasi superiore alle nostre forze ammettere che certi esemplari della abiezione e certi disastri della disumanizzazione rientrino anch'essi nel patto e nella alleanza, ma ecco, dove non può giungere l'umanesimo può giungere l'amore nella sua specie più alta e gratuita di carità, che forse dell'umanesimo stesso è la cima svettante. Firenze, questo va sempre saputo, nei recessi più profondi del suo intelletto e del suo cuore che sembrano così fieri e secchi, la sua storia e la sua cultura sono tutte costellate di astri della pietà”. Queste splendide parole che son prosa ma in realtà poesia, lo avete capito, sono di Mario Luzi e sono le espressioni mirabili con cui il poeta, pochi istanti prima aveva salutato Giovanni Paolo II in quella grande sala del Palazzo dei Signori. Sono parole che ci ricordano, con grande discrezione, che non possiamo certo cullare una visione come dire idilliaca dell'umanesimo, un uomo che non possiamo idealizzare prescindendo da quella sua dimensione anche aberrante, anche disumanizzante ed ecco allora ‐dice Luzi‐ che dove non è arrivato l'umanesimo, arrivi almeno la carità. Ecco a me piace concludere e al contempo iniziare con queste parole di Luzi, davvero geniali, perché pure in esse si coglie il fatto che sta pure al cuore del nostro convegno, soprattutto da quando esso è stato segnato, nella gestazione del magistero, delle parole di Papa Francesco, che ispiravano una certa mitigazione dottrinale a tutto favore di una sua dimensione un poco più pastorale e popolare. Dunque è interessante notare come Luzi, salutando il Papa, cogliesse che in fondo l'umanesimo fiorentino non ha preservato né questa città né altre geografie dalla disumanizzazione e dall'aberrazione, da quel tempo lontano sono tuttavia rimaste delle stelle fortissime piene di amore a rendere viva e per molti versi imitabile la storia dell'umanesimo

anche nella nostra città: la storia dell'amore fatto pietà e in una parola fatto santità per la gloria di Dio e per il servizio del prossimo, in un clima anche civile di grande amore per la bellezza, la sapienza, l’armonia, in una parola sola la “misura”. Come ci aveva già fatto intuire Giovanni Paolo II, non è possibile pensare l'umanesimo fiorentino senza la santità di alcuni suoi grandi campioni e allora in questa prospettiva in cui la parola umanesimo adesso è fortemente appaiata alla parola amore, come ragione del nostro essere Chiesa, come ragione di missione del nostro essere Chiesa nelle vie del mondo e della storia, possiamo molto molto rapidamente passare al mio personale contributo alle cinque vie. Proprio perché il nucleo essenziale e persistente dell’umanesimo è l’amore, come Mario Luzi ci ha fatto intuire, adesso siamo incoraggiati nell’assumere il tema del convegno io spero con maggiore fiducia, nella consapevolezza ferma e chiara che la Chiesa italiana non vuole celebrare un convegno accademico per pochi specialisti di questioni umanistiche, storiografiche, filologiche, la Chiesa italiana, proponendo “le cinque vie verso una umanità nuova” come fa nella Traccia verso il Convegno ‐e so che non dovrei però vi chiedo di fare un piccolo applauso perché è qui in sala Mariangela Montanari che è l'autrice delle bellissime foto della Traccia stessa‐ essa si mostra memore e consapevole di quello che ancora una volta il genio ecclesiale di Giovanni Paolo II aveva perfettamente intuito quando egli spiegava come l'uomo fosse la prima via che la Chiesa ha da percorrere nel compimento della sua missione. “L'uomo è la prima via che la Chiesa percorre”, dove si coglie come debba essere viva e dinamica questa dimensione propulsiva e itinerante della Chiesa nel suo inesausto pellegrinaggio verso la pienezza del Regno lungo un sentiero che si inerpica nell'uomo, attraverso l'uomo, per l'uomo e con l'uomo in vista di un uomo appunto rinnovato, come chiedeva Giovanni Paolo in piazza della Signoria citando Efesini, un uomo rinnovato in tutto, nel suo Spirito, in una testimonianza qualificata di quella ritrovata somiglianza col suo Creatore che l'umanesimo ha celebrato come esperienza di bellezza, di misura e di armonia, tre parole chiave –lo ripeto‐ dell'estetica umanistica inscritta nelle pietre e negli spazi della nostra città. Nella nostra immediatezza è prima conseguenza di questa rinnovata sensibilità di una Chiesa sempre più al servizio dell’umano, la percezione di quanto sia necessario che le ragioni dell'uomo e la prassi ecclesiale –come peraltro raccomanda la Traccia‐ possano e debbano incontrarsi. In questa impegnativa prospettiva stasera ci mettiamo in cammino lungo le cinque vie proposte dalla Chiesa italiana in preparazione al Convegno di Firenze. Nel concreto io affiderei a una rilettura nell'ambito dei vostri gruppi di lavoro quelle che sono le mie povere indicazioni, in vista di una vostra più profonda interpretazione del senso dei cinque verbi. Per ciascuno di essi ho proposto un piccolo riferimento biblico, perché ancora una volta si colga come esista una consistenza, un consistenza che viene da lontano, dalla stessa Scrittura oltre s un piccolo raffronto prevalentemente col magistero di papa Francesco. Con la proposta di queste cinque vie ravvisiamo un felice tentativo di necessaria sintesi abbastanza esaustivo e anche funzionale alla celebrazione del Convegno che si articolerà nel suo sviluppo essenziale proprio attorno a ciascuna di queste cinque vie che finalmente leggiamo nel testo della Traccia cercando poi di commentarle il più utilmente possibile.

Le cinque vie

Uscire Dalla Traccia: Il rischio di un’inerzia strutturale, della semplice ripetizione di ciò cui siamo abituati è sempre in agguato. Gli obiettivi per le azioni delle nostre comunità non possono essere predeterminati o delegati alle tante istituzioni create al servizio della pastorale. Piuttosto, devono essere il frutto di un discernimento dei desideri dell’uomo operato dalle medesime comunità e dell’impegno per farli germinare. Liberare le nostre strutture dal peso di un futuro che abbiamo già scritto, per aprirle all’ascolto delle parole dei contemporanei, che risuonano anche nei nostri cuori: questo è l’esercizio che vorremmo compiere al Convegno di Firenze. ‐dove notate che in realtà il tema dell'uscita nella traccia è molto connesso al tema dell'ascolto e in fondo, se non si ascolta non si esce mai ‐ Vocazione di Abram Genesi 12 [1]Il Signore disse ad Abram: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. [2]Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. [3]Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». ‐Non c'è in realtà uscita e soprattutto vorrei dire, non può esserci uscita se non è premessa l'esperienza dell'ascolto della parola che dà forma e direzione alla nostra esistenza, al nostro cuore, al nostro agire. Anamorphè, dice un detto dei Padri, è senza forma il monaco che non fa lectio divina. E ancora: Giovanni 20 19]La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». [20]Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. [21]Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi». [22]Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; [23]a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Dove c'è ancora una volta la tentazione del rinchiudersi per paura, per poca fede, l'irrompere del Signore Gesù apre tutto e ci rende tutti, e soprattutto ovviamente chi è chiamato a rimettere i peccati, strumento della misericordia del Padre e della sua gioia e della gioia che essa dona ai nostri cuori. Ancora dalla Traccia: Il tema del Convegno è stato percepito come cruciale e insieme problematico. Per evitare il rischio di teorie prescrittive e astratte, la raccomandazione condivisa è di partire dall’ascolto del vissuto: una via, questa, capace di riconoscere la bellezza dell’umano “in atto”, pur senza ignorarne i limiti. Un umanesimo, perciò , consapevole sia dell’inadeguatezza delle forze («abbiamo solo cinque pani», come si legge nei vangeli) sia del “di più ” di umanità che si sprigiona dalla fede e dalla condivisione. «In ascolto» non vuol dire, infatti, appiattito sul dato di fatto, in apparenza liberante ma in realtà foriero di nuove e più cogenti schiavitù . Esemplari suonano le parole della poetessa e filosofa Maria Zambrano: «L’umanesimo di oggi normalmente è l’esaltazione di una certa idea dell’uomo, che neanche si presenta come idea, bensı̀ come semplice realtà : la realtà dell’uomo, senza che rinunci più alla sua limitazione; l’accettazione di sé come schietta realtà psicologico‐biologica; il suo rafforzamento in una cosa che ha alcuni bisogni determinati, giustificati e giustificabili. Di nuovo l’uomo si è incatenato alla necessità , e adesso per di più per decisione propria e in nome della libertà » (Frammento sull’amore). Ascoltare l’umano significa, dunque, vedere la

bellezza di ciò che c’è , nella speranza di ciò che ancora può venire, consapevoli che si può solo ricevere.

Annunciare Annunciare è un verbo decisivo dell'esperienza cristiana, non si comunica la fede se non annunciamo, quello che noi abbiamo già a nostra volta ascoltato e creduto. Traccia: La gente ha bisogno di parole e gesti che, partendo da noi, indirizzino lo sguardo e i desideri a Dio. La fede genera una testimonianza annunciata non meno di una testimonianza vissuta. Con il suo personale tratto papa Francesco mostra la forza e l’agilità di questa forma e di questo stile testimoniali: quante immagini e metafore provenienti dal Vangelo egli riesce a comunicare, soddisfacendo la ricerca di senso, accendendo la riflessione e l’autocritica che apre alla conversione, animando una denuncia che non produce violenza ma permette di comprendere la verità delle cose.Le nostre Chiese sono impegnate da decenni in un processo di riforma dei percorsi di iniziazione e di educazione alla fede cristiana. Il Convegno di Firenze è il luogo in cui verificare quanto abbiamo rinnovato l’annuncio – con forme di nuova evangelizzazione e di primo annuncio; come abbiamo articolato la proposta della fede in un contesto pluriculturale e plurireligioso come l’attuale. Occorrono intuizioni e idee per prendere la parola in una cultura mediatica e digitale che spesso diviene tanto autoreferenziale da svuotare di senso anche le parole più dense di significato, come lo stesso termine “Dio”. Il primo capitolo di Giovanni è di evidente e definitiva chiarezza e fondatezza: Giovanni 1 ‐ Capitolo 1 [1]Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita [2](poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), [3]quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. [4]Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta. E' bellissimo no tutto questo? Se non c'è comunicazione, trasmissione di questa esperienza che la comunità apostolica assicura attraverso la successione apostolica, attraverso tutta la Chiesa, anche a noi, anche attraverso l'annuncio, soprattutto attraverso l'annuncio e questo annuncio se non ci rende anche noi aperti agli altri segnala mancanza di comunione, non esiste Chiesa, che è un dono che il Signore ci fa e di fatto non esiste gioia. Quindi l'annuncio è davvero questa esperienza contagiosa per cui dobbiamo rendere a parte tutti della buona notizia che ci ha tolto dalla disperazione. Ancora dalla Traccia: Il tenore interrogativo con cui questa traccia si conclude non è casuale: in vista del Convegno ecclesiale nazionale vogliamo stimolare, infatti, una comune presa di coscienza riguardo al senso dell’umano. Il Vangelo si diffonde se gli annunciatori si convertono. Perciò mettiamoci in questione in prima persona: verifichiamo la nostra capacità di lasciarci interpellare dall’esser‐uomo di Cristo Gesù , facciamo i conti con la nostra distanza da lui, apriamo gli occhi

sulle nostre lentezze nel prenderci cura di tutti e in particolare dei «più piccoli» di cui parla il Vangelo (cf. Mt 25,40.45), ridestiamoci dal torpore spirituale che allenta il ritmo del nostro dialogo col Padre, precludendoci cosı̀ una fondamentale esperienza filiale che sola ci abilita a vivere una nuova fraternità con gli uomini e le donne d’ogni angolo della terra e ad annunciare la bellezza del vangelo. Evangelii Gaudium 30. Ogni Chiesa particolare, porzione della Chiesa Cattolica sotto la guida del suo Vescovo, è anch’essa chiamata alla conversione missionaria. La sua gioia di comunicare Gesù Cristo si esprime tanto nella sua preoccupazione di annunciarlo in altri luoghi più bisognosi, quanto in una costante uscita verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio‐culturali.[32] Si impegna a stare sempre lı̀ dove maggiormente mancano la luce e la vita del Risorto.[33] Affinché questo impulso missionario sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto anche ciascuna Chiesa particolare ad entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma.

Abitare Ho scelto un brano evangelico che abbiamo ascoltato anche di recente nella liturgia dal Vangelo di Giovanni: 1 [35]Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli [36]e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». [37]E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. [38]Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Rabbì (che significa maestro), dove abiti?». [39]Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. In realtà la Traccia ci porterebbe ad una interpretazione se si vuole un poco più sociologica, essa saluta, come tutti noi salutiamo, la grazia di una Chiesa in Italia che davvero dimora nelle nostre strade, tra la nostra gente ancora con una capillarità per fortuna abbastanza ricca e intensa, nonostante ci sia ovviamente penuria di ministri però ecco, questo è un dato essenziale e nell'abitare si saluta e si sottolinea appunto questa dimensione di contiguità, di prossimità con tutta quella strada abitata dalle nuove grandi povertà. In fondo di tutte le cinque vie abitare è quello più segnato dal magistero di Papa Francesco sulla povertà. Io ho voluto, non provocatoriamente ovviamente, ma in modo semmai un poco complementare mettere questo verbo abitare che ha una radice invece molto più, come dire, teologica e misteriosa, l'abitare di Gesù è in fondo, io credo lo stare davanti al Padre, verso il Padre dove ha inizio e sorgente tutto, ma d'altra parte le due cose ovviamente non si separano mai per quella tensione unitiva, magari ellittica, non una circonferenza, una ellissi con due fuochi di cui si parlava prima. Evangelii Gaudium 71. La nuova Gerusalemme, la Città santa (cfr Ap 21,2‐4), è la meta verso cui è incamminata l’intera umanità. È interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città. Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la

solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso. EG 72. Molto bello il tutto: qui si rovescia un po' la questione, è Dio che abita la città, non si nasconde in essa, ma noi lo dobbiamo ugualmente cercare, in una prospettiva che voi capite è molto cara a chi, come me, ha la fortuna di contemplare tanto il Cristo Pantokrator nel mosaico, quanto la città, giù ai suoi piedi. San Basilio voleva i suoi monasteri vicino alla città perché diceva, solo lì si vede il Cristo sofferente che mette in gioco il comandamento dell'amore. Altrimenti amo Dio, ma il prossimo? Nella città, l’aspetto religioso è mediato da diversi stili di vita, da costumi associati a un senso del tempo, del territorio e delle relazioni che differisce dallo stile delle popolazioni rurali. Nella vita di ogni giorno i cittadini molte volte lottano per sopravvivere e, in questa lotta, si cela un senso profondo dell’esistenza che di solito implica anche un profondo senso religioso. Dobbiamo contemplarlo per ottenere un dialogo come quello che il Signore realizzò con la Samaritana, presso il pozzo, dove lei cercava di saziare la sua sete (cfr Gv 4,7‐26). Dalla Traccia: Occorre allora un tenace impegno per continuare a essere una Chiesa di popolo nelle trasformazioni demografiche, sociali e culturali che il Paese attraversa (con la fatica a generare e a educare i figli; con un’immigrazione massiva che produce importanti metamorfosi al tessuto sociale; con una trasformazione degli stili di vita che ci allontana dalla condivisione con i poveri e indebolisce i legami sociali). L’impegno, dunque, non consiste principalmente nel moltiplicare azioni o programmi di promozione e assistenza; lo Spirito non accende un eccesso di attivismo, ma un’attenzione rivolta al fratello, «considerandolo come un’unica cosa con se stesso». Non aggiungendo qualche gesto di attenzione, ma ripensando insieme, se occorre, i nostri stessi modelli dell’abitare, del trascorrere il tempo libero, del festeggiare, del condividere. Quando è amato, il povero «è considerato di grande valore»; questo differenzia l’opzione per i poveri da qualunque strumentalizzazione personale o politica, così come da un’attenzione sporadica e marginale, per tacitare la coscienza. «Se non lo hai toccato, non lo hai incontrato», ha detto del povero Papa Francesco. Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, «l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone» (Evangelii gaudium 199). In questo quadro, l’invito a essere una Chiesa povera e per i poveri assurge al ruolo d’indicazione programmatica.

Educare Dalla Traccia Il primato della relazione, il recupero del ruolo fondamentale della coscienza e dell’interiorità nella costruzione dell’identità della persona umana, ‐vedete, mi piace dirlo, con che consapevolezza anche di scienze umane la Chiesa sa parlare, proponendo una visione alta dell'uomo in tutte le sue sfaccettature‐ la necessità di ripensare i percorsi pedagogici come pure la formazione degli adulti, divengono oggi priorità ineludibili. È vero che le tradizionali agenzie educative (famiglia e scuola), si

sentono indebolite e in profonda trasformazione. Ma è anche vero che esse non sono solo un problema ma una risorsa, e che già si vedono iniziative capaci di realizzare nuove alleanze educative: famiglie che sostengono famiglie più fragili,‐qui ci sono gli amici della associazione “cinque pani e due pesci” che ho conosciuto e che fanno una esperienza bellissima in questo senso‐ famiglie che attivamente sostengono la scuola offrendo tempo ed energie a sostegno degli insegnanti per trasformare la scuola in un luogo di incontro; ambiti della pastorale che ridefiniscono e rendono meno rigidi i propri confini e così via. Il nuovo scenario chiede la ricostruzione delle grammatiche educative, ma anche la capacità di immaginare nuove ‘sintassi’,nuove forme di alleanza che superino una frammentazione ormai insostenibile e consentano di unire le forze, per educare all’unità della persona e della famiglia umana. In questo senso l’educazione occupa uno spazio centrale nella nostra riflessione sull’umano e sul nuovo umanesimo. Il prossimo Convegno ci impegna non soltanto nella comprensione attenta delle ricadute di queste trasformazioni sulla nostra identità personale ed ecclesiale (la nozione di vita umana, la configurazione della famiglia e il senso del generare, il rapporto tra le generazioni e il senso della tradizione, il rapporto con l’ambiente e l’utilizzo delle risorse d’ogni tipo, il bene comune, l’economia e la finanza, il lavoro e la produzione, la politica e il diritto), ma anche sulle loro interconnessioni. Educare è un’arte: occorre che ognuno di noi, immerso in questo contesto in trasformazione, l’apprenda nuovamente, ricercando la sapienza che ci consente di vivere in quella pace tra noi e con il creato che non è solo assenza di conflitti, ma tessitura di relazioni profonde e libere. Vi ricordo ancora una volta che tutto l'umanesimo nasce e si gioca come questione educativa. La lettera di San Paolo a Tito ci ricorda chi sia il nostro educatore, non è altro che il Signore Gesù: San Paolo a Tito 2 [11]E' apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, [12]che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, [13]nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; [14]il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone. Vi ho riportato anche la trattazione sull'educazione fortemente debitrice dei discorsi di Papa Benedetto all'assemblea della CEI che, come tutti sapete, aveva intravisto nell'educazione il tema dei suoi orientamenti pastorali per il presente decennio, e anche le riflessioni della stessa CEI, “Educare alla vita buona del Vangelo”, dove vi è tutta una attenzione fortissima alla emergenza educativa come falsa autonomia dell'io, una visione ancora una volta deleteria dell'umanesimo dove Dio si ritiene dispensato e dispensabile dalla educazione, perché in fondo l’uomo il suo sapere se lo guadagna da solo. Questa è una prospettiva che significa rottura delle relazioni, cattiva qualità dello stare insieme, del passaggio generazionale dove invece tutto è in gioco in rapporto al fatto di scoprirci io, tu, noi. Se non c'è questa prospettiva, sostenuta dalla speranza, non possiamo pensare di educare nessuno. Invito al Convegno La modernità – con i suoi proclami sulla morte di Dio, le sue antropologie pervase da volontà di potenza, le sue conquiste e le sue sfide – ci consegna un mondo provato da un individualismo che produce solitudine e abbandono, nuove povertà e disuguaglianze, uno sfruttamento cieco del creato che mette a repentaglio i

suoi equilibri. È tempo di affrontare tale crisi antropologica con la proposta di un umanesimo profondamente radicato nell’orizzonte di una visione cristiana dell’uomo – della sua origine creaturale e della sua destinazione finale – ricavata dal messaggio biblico e dalla tradizione ecclesiale, e per questo capace di dialogare col mondo. Tale relazione non può prescindere dai linguaggi dell’oggi, compreso quello della tecnica e della comunicazione sociale, ma li integra con quelli dell’arte, della bellezza e della liturgia. Perché questo dialogo col mondo sia possibile dobbiamo affrontare insieme quella che gli Orientamenti pastorali definiscono una vera e propria «emergenza educativa», «il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e con il “noi”» (Educare alla vita buona del Vangelo 9). Il tu e il noi – gli altri – nell’epoca in cui viviamo sono spesso avvertiti come una minaccia per l’integrità dell’io. La difficoltà di vivere l’alterità emerge dalla frammentazione della persona, dalla perdita di tanti riferimenti comuni e da una crescente incomunicabilità.

Trasfigurare Infine il verbo Trasfigurare dove appunto, a conclusione delle cinque vie molto opportunamente, come fosse una sorta di culmen, ma anche di altrettanta fons l'esperienza della trasfigurazione annessa alla vita sacramentale liturgica conferisce al nostro incamminarci verso l'uomo nuovo tutta quella dimensione non esclusivamente soprannaturale, ma direi quella capacità che ci ricorda il primato dell'agire di Cristo che con la forza dello Spirito Santo è davvero soggetto che sta in ogni nostro percorso, in ogni nostra azione, in ogni nostro celebrare, di Chiesa. Nella prospettiva appunto in cui non siamo a tenere viva, come dice la traccia, la memoria di un eroe, ma al contrario lo Spirito Santo ci ispira nel presente e in questo senso la celebrazione liturgica di tutti i Sacramenti rende concreta questa esperienza davvero trasfigurante. È la vita sacramentale e di preghiera che ci permette di esprimere quel semper maior di Dio nell’uomo descritto sopra. La via dell’umano inaugurata e scoperta in Cristo Gesù intende non soltanto imitare le sue gesta e celebrare la sua vittoria, quasi a mantenere la memoria di un eroe, pur sempre relegato in un’epoca, ormai lontana. La via della pienezza umana mantiene in lui il compimento, perché prosegue la sua stessa opera, nella convinzione che lo Spirito che lo guidò è in azione ancora nella nostra storia, per aiutarci a essere già qui uomini e donne come il Padre ci ha immaginato e voluto nella creazione... Questo è, per esempio, il senso della festa e della Domenica, che sono spazi di vera umanità, perché in esse si celebra la persona con le sue relazioni familiari e sociali, che ritrova se stessa attingendo a una memoria più grande, quella della storia della salvezza. Lo spirito delle Beatitudini si comprende dentro questa cornice: la potenza dei sacramenti assume la nostra condizione umana e la presenta come offerta gradita a Dio, restituendocela trasfigurata e capace di condivisione e di solidarietà. La proposta biblica è il Vangelo di Marco, appunto i cinque pani e i due pesci: Marco 6 [35]Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: «Questo luogo è solitario ed è ormai tardi; [36]congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare». [37]Ma egli rispose: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di

pane e dare loro da mangiare?». [38]Ma egli replicò loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». E accertatisi, riferirono: «Cinque pani e due pesci». [39]Allora ordinò loro di farli mettere tutti a sedere, a gruppi, sull'erba verde. [40]E sedettero tutti a gruppi e gruppetti di cento e di cinquanta. [41]Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li distribuissero; e divise i due pesci fra tutti. [42]Tutti mangiarono e si sfamarono, [43]e portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci. [44]Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. Questo il commento bellissimo con cui si concludeva anche l'invito che ha una stesura più teologica e dottrinale , risente di un altro momento se si vuole della Chiesa italiana, io vi consiglio di non disperdere quel primo librettino dell'invito perché insieme, credo, siano molti utili per avviarci al convegno di Firenze, come dire, a due polmoni. Dall’Invito al Convegno: Il nostro Invito ha delineato un percorso di idee e passi da compiere per la preparazione al Convegno. Ricordiamoci che quello che maggiormente vale è mettere al centro dell’umanesimo cristiano l’Eucaristia, fonte e principio ispiratore di novità di vita in GesùCristo. ‐tra l'altro, tra parentesi, il 400 è pieno di miracoli eucaristici, pensiamoci!‐ «Che cos’è questo per tanta gente?»: viene da chiederselo ancora, enfatizzando di nuovo l’evidenza oggettiva con cui ci scontriamo allorché registriamo – come già gli apostoli (cf. Gv 6,1‐ 13) – le nostre insufficienze ecclesiali, l’esiguità delle nostre risorse ed energie pastorali, persino la patina ossidata che intacca la nostra speranza, mentre scenari difficili si squadernano con ritmi incalzanti davanti a noi. Sì, in questo facciamo veramente la medesima esperienza di inadeguatezza con cui i primi discepoli dovettero fare i conti quando si sentirono provocati da Gesù a farsi carico della fame, delle attese, delle rivendicazioni della folla: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne unpezzo». Tale affermazione esprime una buona dose di realismo, una immediata attitudine alla disamina e al calcolo, una consapevolezza lucidamente critica e coerente con la situazione; ma dichiara anche l’impotenza a intervenire. Dall’immobilismo rinunciatario, tuttavia, Gesù si smarca con serena risolutezza, insegnando ai suoi a fare altrettanto, grazie a un gesto nuovo, d’impronta eucaristica: prende i cinque pani e i due pesci di cui essi dispongono e, rendendo grazie al Padre, li distribuisce a tutta quella gente. E, così, inanella dimensioni prima non prese in considerazione: la relazione con l’Altro, cui ricondursi e consegnarsi con la propria povertà, e il rapporto con gli altri, cui volgersi e dedicarsi senza titubanze e senza riserve. Per i discepoli si aprono strade che sino a quel momento non avevano osato percorrere: verticalmente verso Dio e, orizzontalmente, incontro a coloro di cui si avvertono e condividono i bisogni, per toccarli e lasciarsi toccare da loro, per prendersene cura e accogliere tutti in solidale e fraterna custodia (cf. Lc 9,11; Mt 14,16; Mc 6,36‐37). Così – scrive san Paolo – i discepoli inaugurano una novità destinata a trasfigurare l’umanità: nella comunione con e in Gesù Cristo, superano ogni discriminazione tra giudeo e greco, tra schiavo e libero, tra uomo e donna (cf. Gal 3,28), incontrano tutti – «coloro che sono sotto la legge», «coloro che non hanno legge», «coloro che sono deboli» – e, per «essere partecipi del Vangelo insieme con loro», si sottopongono alla legge, vanno oltre la legge, si fanno piccoli e si mettono al servizio (cf. 1Cor 9,19‐23), sapendo di doversi sobbarcare la debolezza di chi non ce la fa (cf. Rm 15,1). E quindi ancora una volta è in questo di più che cogliamo, anche noi che vogliamo metterci in obbedienza di parole e di gesti, l'agire del Signore Gesù, vero modello e compendio delle

cinque vie proposte dalla traccia, e anche noi speriamo di poter moltiplicare ogni bene a vantaggio di tutti coloro che incontriamo nelle nostre strade. Grazie di cuore.  

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