3.3.2. La specializzazione delle esportazioni del settore

March 21, 2018 | Author: Anonymous | Category: Impresa, Scienze economiche, Macroeconomia
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COMMISSIONE EUROPEA

Bruxelles, 10.4.2013 SWD(2013) 118 final

DOCUMENTO DI LAVORO DEI SERVIZI DELLA COMMISSIONE Esame approfondito per l'ITALIA a norma dell'articolo 5 del regolamento (UE) n. 1176/2011 sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici

che accompagna il documento COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE AL PARLAMENTO EUROPEO E AL CONSIGLIO E AL EUROGRUPPO Risultati degli esami approfonditi a norma del regolamento (UE) n. 1176/2011 sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici {COM(2013) 199 final} {SWD(2013) 113 final} {SWD(2013) 114 final} {SWD(2013) 115 final} {SWD(2013) 116 final} {SWD(2013) 117 final} {SWD(2013) 119 final} {SWD(2013) 120 final} {SWD(2013) 121 final} {SWD(2013) 122 final} {SWD(2013) 123 final} {SWD(2013) 124 final} {SWD(2013) 125 final}

IT

IT

Indice 1.

INTRODUZIONE .............................................................................................................. 6

2.

SITUAZIONE MACROECONOMICA E SQUILIBRI POTENZIALI ............................................. 7

2.1.

CONTESTO MACROECONOMICO ...................................................................................... 7

2.2.

SOSTENIBILITÀ DELLE POSIZIONI SULL’ESTERO ............................................................. 8

2.3.

L’INDEBITAMENTO DEL SETTORE PRIVATO E DEL SETTORE PUBBLICO ......................... 16

2.4.

SVILUPPI SUL MERCATO IMMOBILIARE ......................................................................... 20

3.

ANALISI APPROFONDITA: COMPETITIVITÀ .................................................................... 21

3.1.

ANDAMENTO DELLA COMPETITIVITÀ ITALIANA ........................................................... 21

3.2.

CRESCITA SALARIALE, CAPACITÀ DI ADEGUAMENTO DEL MERCATO DEL LAVORO E IMPOSIZIONE ................................................................................................................ 27

3.3.

ESAME PIÙ DETTAGLIATO DI ALCUNI FATTORI ALL’ORIGINE DEL RALLENTAMENTO DELLA PRODUTTIVITÀ ............................................................................................................. 34

3.3.1.

IL CONTESTO IMPRENDITORIALE E LE CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE IMPRESE .... 34

3.3.2.

LA SPECIALIZZAZIONE DELLE ESPORTAZIONI DEL SETTORE MANIFATTURIERO .................. 39

4.

SFIDE POLITICHE .......................................................................................................... 43

BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................................... 46

2

SINTESI E CONCLUSIONI Nel maggio 2012 la Commissione concludeva che l’Italia si trovava in situazione di grave squilibrio macroeconomico, in particolare a causa dell’elevato debito pubblico e della bassa competitività esterna. Nella relazione sul meccanismo di allerta pubblicata il 28 novembre 2012 la Commissione ha ritenuto che fosse utile, anche tenendo conto delle predette conclusioni, esaminare ulteriormente, in una seconda analisi approfondita, i rischi connessi alla situazione di squilibrio e i progressi nell’aggiustamento. A tal fine, il presente esame approfondito passa in rassegna l’economia italiana, nel quadro della sorveglianza prevista dalla procedura per gli squilibri macroeconomici. L’elevato debito pubblico dell’Italia, la perdita di competitività esterna e la sottostante debolezza della produttività continuano a costituire i principali squilibri macroeconomici individuati. Nonostante nell’ultimo anno siano state adottate importanti misure per superare questi squilibri, la loro piena attuazione rimane problematica e in molti settori vi è spazio per ulteriori interventi. Nel frattempo il protrarsi della crisi ha indebolito la capacità del settore bancario italiano di sostenere il necessario aggiustamento economico. Le principali osservazioni e conclusioni dell’esame approfondito sono le seguenti: 

carenze strutturali di lunga data hanno ridotto la capacità dell’Italia di resistere agli shock economici e di assorbirli. Diversamente da altri paesi della zona euro, allo scoppio della crisi mondiale l’Italia registrava una posizione finanziaria del settore privato relativamente forte e un settore bancario solido. La crisi ha però evidenziato le carenze strutturali di lunga data del paese. Il PIL reale si è ridotto di oltre il 7% dall’inizio della crisi, scoppiata a metà del 2008. Secondo le previsioni d’inverno 2013 dei servizi della Commissione, la prolungata recessione dovrebbe concludersi a metà del 2013, nell’ipotesi di una stabilizzazione dei mercati finanziari e del ripristino della fiducia degli investitori. Tuttavia, le condizioni finanziarie rimangono fragili e le prospettive di crescita a medio termine restano modeste.



L’elevato debito pubblico continua a pesare notevolmente sull’economia italiana, specialmente a fronte della persistente lentezza della crescita, ed è una fonte importante di vulnerabilità. Nel corso degli ultimi due anni il circolo vizioso tra debito elevato e crescita modesta ha accresciuto le preoccupazioni degli investitori sulla sostenibilità dell’elevato debito dell’Italia. Infatti, il netto aumento del premio di rischio sul debito sovrano nel periodo 2011-2012, che ha accresciuto la pressione generata dalle carenze strutturali, si è tradotto in un aumento del costo del denaro per il settore privato, che ha ostacolato gli investimenti produttivi. Inoltre, a causa dell’elevata esposizione delle banche al debito pubblico e della forte frammentazione del mercato finanziario della zona euro lungo le frontiere nazionali, si sono aggravati i problemi di finanziamento del settore bancario. Di conseguenza, il governo ha intrapreso un notevole sforzo di risanamento, che ha comportato notevoli costi economici a breve termine, dato l’aumento della pressione fiscale e la compressione della spesa. Le misure adottate hanno chiaramente contribuito a ridurre i costi di finanziamento della pubblica amministrazione a partire dalla seconda metà del 2012. 3

Tuttavia, l’Italia rimane vulnerabile agli improvvisi cambiamenti del sentimento del mercato, il che evidenzia la necessità di proseguire il risanamento di bilancio in termini strutturali affinché il rapporto debito/PIL si avvii su un percorso di riduzione continua. Elevate rimangono le potenziali conseguenze economiche e finanziarie per il resto della zona euro, nel caso in cui dovessero nuovamente intensificarsi le turbolenze sui mercati finanziari connesse al debito sovrano dell’Italia. 

La perdita di competitività esterna dell’economia italiana evidenzia il problema dell’Italia in relazione alla crescita della produttività. Il persistere di una crescita lenta della produttività, in particolare della produttività totale dei fattori, rappresenta da molti anni uno degli ostacoli principali alla crescita economica complessiva. Il ristagno della crescita della produttività non ha trovato pienamente riscontro nella dinamica salariale: la competitività di costo dell’Italia è peggiorata, come testimonia l’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) rispetto ad altri paesi. In questa evoluzione ha giocato anche l’apprezzamento del tasso di cambio effettivo nominale dell’Italia tra il 2003 e il 2009. Il saldo delle partite correnti, costantemente deterioratosi dopo l’adozione dell’euro, è migliorato in modo significativo nel 2012, quando le importazioni sono crollate e la crescita delle esportazioni è stata sostenuta dalla domanda dei partner commerciali extra-UE. Per quanto riguarda il risparmio e gli investimenti, il recente miglioramento delle partite correnti è dovuto principalmente al calo degli investimenti, mentre il tasso di risparmio nazionale si è stabilizzato ai livelli bassi raggiunti nel 2009. La ripresa degli investimenti comporterebbe un nuovo peggioramento del saldo delle partite correnti, se non accompagnata da un corrispondente aumento del risparmio nazionale.



Per quanto riguarda le esportazioni, l’Italia risente di un modello sfavorevole di specializzazione merceologica e delle limitate capacità di crescita delle imprese italiane. Il modello di specializzazione dell’Italia è molto simile a quello dei mercati emergenti, come la Cina: il valore aggiunto viene per lo più generato in settori tradizionali a contenuto tecnologico relativamente basso, principalmente a causa delle limitate capacità di innovazione delle imprese italiane. La predominanza delle microimprese e delle piccole imprese è all’origine delle difficoltà delle imprese italiane di crescere e operare a livello internazionale, a causa di ostacoli istituzionali e normativi, delle caratteristiche strutturali e di un contesto sfavorevole alle imprese. Questi fattori limitano anche l’afflusso di investimenti diretti esteri (IDE), il che impedisce all’Italia di sfruttare i benefici diretti e indiretti degli afflussi di IDE: il trasferimento di capitali e di conoscenze, la maggiore partecipazione al commercio mondiale e l’impulso alla creazione di un contesto imprenditoriale di maggiore competitività e di moderna gestione d’impresa.



La resilienza del settore bancario italiano è diminuita notevolmente a partire dalla metà del 2011, compromettendo la capacità delle banche di sostenere l’attività economica e l’aggiustamento. La perdita dell’accesso delle banche italiane alla raccolta all’ingrosso a livello internazionale, a seguito del propagarsi all’Italia della crisi del debito sovrano della zona euro, ha fatto crescere in misura significativa la dipendenza del settore dal rifinanziamento dell’Eurosistema. A causa della recessione a doppia v che ha accresciuto il rischio di credito nel settore privato, le banche italiane si sono ritrovate con un ingente stock 4

di crediti in sofferenza, principalmente nei confronti delle imprese private. In combinazione con la debolezza della domanda di credito, questa situazione ha portato ad una protratta contrazione del credito, mentre il costo medio dei nuovi crediti rimane elevato, nonostante la politica monetaria accomodante nella zona euro. Il basso livello dei margini netti di interesse, gli accantonamenti crescenti a copertura dei crediti in sofferenza e la bassa efficienza di costo costituiscono fattori di freno della redditività delle banche italiane. 

L’Italia è quindi alle prese con gravi problemi di aggiustamento. Il miglioramento delle partite correnti non modifica la necessità dell’Italia di dover far fronte ai gravi problemi di produttività e di competitività che il paese si trova ad affrontare. Tuttavia, il necessario aggiustamento è limitato da un contesto particolarmente sfavorevole, caratterizzato da un elevato costo del capitale, dalla mancanza di sostegno da parte del settore finanziario, dalla politica fiscale e dalle ridotte possibilità di attirare investimenti senza accrescere la dipendenza dell’economia dai finanziamenti esteri. In questo contesto, accrescere l’efficienza allocativa dell’economia italiana diventa essenziale per incanalare le risorse disponibili nel settore pubblico e in quello privato verso gli usi di maggior stimolo per la crescita.



Negli ultimi mesi sono state adottate importanti misure finanziarie e riforme strutturali per affrontare le principali sfide dell’economia italiana, ma tali misure devono essere pienamente attuate per dare frutti. L’Italia ha avviato una vasta strategia per ripristinare la sostenibilità finanziaria e migliorare la crescita a lungo termine. Assieme all’azione risoluta a livello della zona euro, questi provvedimenti hanno contribuito a ripristinare una certa fiducia nei mercati. Per consolidare questi benefici e rafforzare la resilienza dell’Italia nei confronti di nuove tensioni sui mercati finanziari, è necessario porre il rapporto debito pubblico/PIL dell’Italia su un percorso di riduzione continua. A sostegno del risanamento del bilancio e per realizzare il potenziale di crescita del paese, occorre assicurare la piena attuazione delle riforme strutturali e mantenerne lo slancio per garantire che apportino i benefici previsti.

L’esame approfondito analizza anche le sfide in termini di politiche derivanti dai predetti sviluppi e le possibili risposte. Pur riconoscendo gli sforzi già intrapresi dalla fine del 2011, l’esame approfondito evidenzia una serie di settori in cui i responsabili politici potrebbero intervenire per rafforzare ulteriormente la capacità di aggiustamento dell’economia italiana. Tra questi figurano il rafforzamento della concorrenza in alcuni mercati dei prodotti e dei servizi, lo sviluppo di un sistema fiscale più favorevole alla crescita, l’ulteriore decentramento della contrattazione salariale, la modernizzazione dell’istruzione e il deciso miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione e del contesto imprenditoriale. L’esame approfondito sottolinea anche la necessità di migliorare la capacità del settore bancario italiano di sostenere l’aggiustamento dell’economia italiana. Infine, per quanto riguarda il debito pubblico, l’esame approfondito conferma la necessità di continuare a generare consistenti avanzi primari in modo da porre l’elevato rapporto debito pubblico lordo/PIL su un percorso discendente, nel pieno rispetto degli impegni di bilancio assunti dall’Italia e del patto di stabilità e crescita rafforzato.

5

1.

INTRODUZIONE

Il 28 novembre 2012 la Commissione europea ha presentato la seconda relazione sul meccanismo di allerta, redatta conformemente all’articolo 3 del regolamento (UE) n. 1176/2011 sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici. La relazione sul meccanismo di allerta funge da primo filtro, in quanto contribuisce a individuare gli Stati membri da sottoporre ad un’analisi approfondita per accertare la presenza di squilibri o di eventuali rischi in tal senso. A norma dell’articolo 5 del regolamento n. 1176/2011 gli “esami approfonditi” esaminano la natura, l’origine e la gravità degli sviluppi macroeconomici nello Stato membro in questione che comportano o rischiano di comportare squilibri. Sulla base di questo esame, la Commissione determina l’eventuale presenza di squilibri e le modalità per porvi rimedio da raccomandare al Consiglio. Questo è il secondo esame approfondito per l’Italia. Sulla base del primo, pubblicato il 30 maggio 2012, la Commissione europea aveva concluso che l’Italia si trovava in una situazione di grave squilibrio, in particolare per quanto riguarda gli sviluppi relativi ai risultati delle esportazioni, alla competitività e all’elevato debito pubblico. Nella relazione sul meccanismo di allerta la Commissione ha ritenuto nel complesso utile, anche tenendo conto dei gravi squilibri constatati in maggio, esaminare in un’analisi approfondita i rischi legati all’aggiustamento degli squilibri e i progressi nel suo conseguimento. A tal fine, il presente esame approfondito passa in rassegna l’economia italiana nel quadro della sorveglianza della procedura per gli squilibri macroeconomici.

6

2.

SITUAZIONE MACROECONOMICA E SQUILIBRI POTENZIALI

2.1.

CONTESTO MACROECONOMICO

Nel decennio che ha preceduto la crisi in corso debolezze strutturali di lunga data hanno significativamente limitato il potenziale di crescita dell’Italia. Tra l’adozione dell’euro e l’anno precedente la crisi finanziaria mondiale, la crescita del PIL reale dell’Italia è stata in media dell’1,5%, ossia circa 0,75 punti percentuali al di sotto della media della zona euro. La ragione principale di questo dato va cercata nella debole crescita della produttività; in particolare non è cresciuta la produttività totale dei fattori (cfr. sezione 3.1), sintomo questo dello scarso assorbimento delle nuove tecnologie, della limitata capacità di innovazione delle imprese italiane, di un contesto imprenditoriale sfavorevole e dell’insufficiente accumulazione di capitale umano. Limitata è stata pertanto la capacità dell’economia italiana di resistere agli shock economici negativi dovuti alla crisi. Il PIL reale dell’Italia si è ridotto fortemente nel corso della crisi economica e finanziaria del 2008-2009. La ripresa che è seguita è stata modesta e di breve durata: la crescita economica ha iniziato nuovamente a contrarsi nella seconda metà del 2011, quando la crisi del debito sovrano della zona euro si è allargata all’Italia. Secondo le stime, per il 2012 nel suo insieme il PIL reale ha subito una contrazione del 2,4%, a causa del forte calo della domanda interna. Nonostante le significative misure adottate a livello nazionale e a livello UE nel biennio 2011-2012 per affrontare la crisi economica e ripristinare la fiducia, l’incertezza sui mercati finanziari è rimasta elevata fino agli ultimi mesi del 2012, incidendo sulla fiducia delle famiglie e delle imprese. D’altra parte, le esportazioni nette hanno contribuito positivamente alla crescita del PIL reale dell’Italia, soprattutto grazie alla riduzione delle importazioni, ma anche grazie ad un certo dinamismo delle esportazioni, consentendo un forte miglioramento della bilancia commerciale dell’Italia a partire dalla metà del 2011. Gli indicatori disponibili indicano un’ulteriore contrazione dell’attività economica nel primo trimestre del 2013, mentre nel secondo semestre dell’anno la crescita dovrebbe riprendere progressivamente, grazie alla domanda dei partner commerciali extra-UE, che sostiene le esportazioni, e grazie alla riduzione dei rendimenti presunti dei titoli di Stato italiani, che progressivamente dovrebbe tradursi in un miglioramento delle condizioni di finanziamento e del clima di fiducia. Tuttavia, secondo le proiezioni, il riporto negativo del 2012 implica che per il 2013 nel suo insieme il PIL reale dovrebbe ancora scendere dell’1,0% (grafico 1).

7

Grafico 1: scomposizione della crescita del PIL dell’Italia %, pp 6 4 2 0 -2 -4 -6 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 Investimenti (scorte) Investimenti (investimenti fissi lordi) Consumi Esportazioni nette Crescita reale del PIL

Nota: i dati per il biennio 2013-2014 sono basati sulle previsioni di inverno 2013 dei servizi della Commissione. Fonte: servizi della Commissione.

2.2.

SOSTENIBILITÀ DELLE POSIZIONI SULL’ESTERO

Il saldo delle partite correnti dell’Italia si è costantemente deteriorato dopo l’adozione dell’euro e fino a metà del 2011. Da un avanzo dell’1,8% del PIL nel 1998, il saldo delle partite correnti è diventato leggermente negativo nel periodo 2002-2005 e si è deteriorato in modo significativo dopo la crisi finanziaria del 2008, raggiungendo un deficit superiore al 3% del PIL nel 2010-2011 (grafico 2). La diminuzione del saldo delle partite correnti è dovuta in parte al peggioramento delle ragioni di scambio, dato che l’aumento del prezzo delle importazioni di petrolio, dalle quali l’economia italiana è strutturalmente dipendente, ha influito negativamente sul saldo delle merci (grafico 3). A partire dal 2007 la situazione è peggiorata a causa del saldo negativo dei servizi. Infine, sin dalla fine degli anni ‘90 sia il saldo dei redditi che il saldo dei trasferimenti hanno registrato un deficit. Nel 2008-2009 la netta diminuzione del reddito dall’estero (per lo più partecipazioni azionarie) a seguito della crisi finanziaria ha portato in negativo il saldo dei redditi. Il deficit del saldo dei trasferimenti è gradualmente aumentato nel corso del decennio, raggiungendo quasi l’1% del PIL nel 2011, soprattutto a causa del contributo netto dell’Italia al bilancio dell’UE (superiore a 0,3% del PIL) e delle rimesse dei lavoratori stranieri, aumentate a circa lo 0,5% del PIL.

8

Grafico 3: saldo della bilancia commerciale merci dell’Italia, per categorie di merci

Grafico 2: scomposizione dei conti con l’estero dell’Italia 4

Merci totali

3 2

Prodotti intermedi

% del PIL

1 0

Combustibili

-1 -2

Prodotti di consumo

-3 -4

Beni di investimento

98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12* Conto capitale Trasferimenti correnti Saldo dei redditi Saldo bilancia commerciale - servizi Saldo bilancia commerciale - merci Saldo bilancia commerciale

-4

-2

0

2

4

Saldo bilancia commerciale merci, % del PIL 2010-2011 2000-2001

Nota: i dati del 2012 sono stime basate sui dati trimestrali.

Fonte: servizi della Commissione.

Fonte: servizi della Commissione.

A partire dalla metà del 2011 il saldo delle partite correnti è migliorato in misura significativa. Nel 2012 il deficit è sceso allo 0,6% del PIL. Il calo del deficit è attribuibile al miglioramento della bilancia commerciale, reso possibile a sua volta dal calo delle importazioni determinato dalla debolezza della domanda interna, ma anche ad una certa ripresa delle esportazioni. Mentre la domanda dagli altri paesi dell’UE resta debole, le esportazioni verso partner commerciali extra-UE sono migliorate nel biennio 2011-2012, anche grazie al deprezzamento dell’euro, che ha consentito all’Italia di recuperare una parte della competitività di prezzo e di costo rispetto ai partner commerciali extra-UE. Per quanto riguarda il risparmio e gli investimenti, il recente miglioramento delle partite correnti è dovuto principalmente al calo degli investimenti, mentre il tasso di risparmio nazionale è rimasto sostanzialmente stabile ai livelli bassi raggiunti nel 2009. La stabilità del tasso nazionale di risparmio è merito dell’aumento del tasso di risparmio delle amministrazioni pubbliche, a seguito del risanamento del bilancio in corso, cui si contrappone una diminuzione del tasso di risparmio del settore privato (grafico 4). La ripresa degli investimenti con il miglioramento delle prospettive economiche determinerebbe un nuovo peggioramento del saldo delle partite correnti se non accompagnata da un corrispondente aumento del tasso di risparmio nazionale.

9

Grafico 4: risparmio, investimenti e partite correnti dell’Italia 25 20

% del PIL

15 10 5 0 -5 98

99

00

01

02

03

04

Saldo delle partite correnti Risparmio lordo; settore privato Risparmio nazionale lordo

05

06

07

08

09

10

11

12

Risparmio lordo; amministrazioni pubbliche Investimenti lordi; totale economia

Fonte: servizi della Commissione.

Le passività finanziarie nette sull’estero dell’Italia sono aumentate tra il 1999 e il 2012, ma il loro livello resta modesto. La posizione patrimoniale netta sull’estero dell’Italia è peggiorata dall’adozione dell’euro: era pari a -9% del PIL alla fine del 1998, ma è scesa a -22,5% alla fine del terzo trimestre del 2012 (grafico 5), valori questi da mettere a confronto con la posizione patrimoniale netta sull’estero della Spagna, pari a circa -92% del PIL, e del Portogallo, pari a -105% del PIL. L’accumulo dei deficit delle partite correnti dal 2006 spiega solo in parte il deterioramento della posizione patrimoniale netta sull’estero dell’Italia. I principali fattori determinanti sono gli effetti di valutazione negativi legati all’apprezzamento dell’euro tra il 2003 e il 2009 (che ha ridotto il valore degli attivi detenuti in valuta estera, principalmente in dollari statunitensi) e i tassi d’interesse più bassi fino al 2011 (che hanno determinato un aumento del valore di mercato delle passività detenute in forma di titoli di debito). L’effetto di valutazione negativo è stato in parte invertito a partire dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2008, quando il dollaro statunitense si è apprezzato e il valore di mercato dei titoli azionari italiani ha registrato un forte calo (grafico 6). Esaminando la composizione della posizione patrimoniale netta sull’estero, il segno negativo della posizione netta in investimenti di portafoglio è dovuto all’aumento dell’indebitamento complessivo dell’economia italiana: alla fine del terzo trimestre del 2012 gli investitori esteri detenevano titoli di debito italiani per un valore pari a circa il 62% del PIL, contro uno stock di titoli di debito esteri detenuti dai residenti in Italia pari al 28% del PIL. Ciò è in parte compensato dalla maggiore quota di azioni ed altre partecipazioni detenuta dai residenti in Italia (pari a circa il 23% del PIL rispetto all’8,5%). Per contro, gli IDE degli investitori italiani all’estero sono sempre stati più elevati degli IDE degli investitori esteri in Italia (rispettivamente circa 27% e 17% del PIL alla fine del terzo trimestre del 2012). Infine, l’aumento delle altre passività da investimenti nel biennio 2011-2012 è principalmente legato all’aumento delle passività delle banche italiane nei confronti dell’Eurosistema. 10

Grafico 5: scomposizione della posizione patrimoniale netta sull’estero dell’Italia 150 100

% del PIL

50 0 -50 -100 -150 -200 98

99

00

01

02

03

04

05

06

Attività - Investimenti diretti Attività - Investimenti di portafoglio (titoli di debito) Attività - Altri investimenti Passività - Investimenti diretti Passività - Investimenti di portafoglio (titoli di debito) Passività - Altri investimenti

07

08

09

10

11

12

Attività - Investimenti di portafoglio (titoli azionari) Attività - Derivati Attività - Riserve ufficiali Passività - Investimenti di portafoglio (titoli azionari) Passività - Derivati Posizione patrimoniale netta sull'estero

Nota: i dati relativi al 2012 arrivano solo fino al terzo trimestre. Fonte: Banca d’Italia.

Contributi alla variazione della NIIP (%)

Grafico 6: scomposizione delle variazioni della posizione patrimoniale netta sull’estero (NIIP) dell’Italia 10 8 6 4 2 0 -2 -4 -6 -8

-10 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 Variazioni dei prezzi Effetto netto transazioni (residuo saldo conto finanziario) Effetto reddito da investimenti Effetto crescita nominale Variazione della NIIP (tasso di crescita annuale (%))

Nota: i dati relativi al 2012 arrivano solo fino al terzo trimestre. Fonte: servizi della Commissione.

In un contesto di maggiore avversione al rischio nei confronti delle economie vulnerabili della zona euro, la posizione patrimoniale netta sull’estero negativa è diventata una fonte 11

di vulnerabilità per l’economia italiana. I flussi di capitale verso l’Italia si sono esauriti con la crisi finanziaria mondiale del 2008-2009. Nel 2010 gli istituti monetari e finanziari italiani hanno avuto in parte nuovamente accesso ai mercati finanziari internazionali, e l’afflusso netto di capitali esteri verso l’Italia, misurato dal conto finanziario della bilancia dei pagamenti dell’Italia, ha fatto segnare una certa ripresa (grafico 7). Tuttavia, a partire dalla metà del 2011 il flusso netto di crediti privati esteri ha iniziato a diminuire velocemente a seguito del peggioramento delle aspettative degli investitori nei confronti dell’Italia, e la crisi del debito sovrano ha colpito il paese. Si è registrato di conseguenza un brusco cambiamento della composizione del finanziamento estero nella posizione patrimoniale netta sull’estero dell’Italia. In primo luogo, gli investitori privati esteri si sono disfatti drasticamente dei titoli di debito emessi da emittenti sovrani italiani e, in misura minore, dagli istituti monetari e finanziari del paese. Il conseguente forte calo degli investimenti netti di portafoglio in Italia è stato in certa misura compensato dagli acquisti di titoli di Stato italiani da parte dell’Eurosistema nell’ambito del programma per il mercato dei titoli finanziari tra agosto 2011 e marzo 2012 (circa 100 miliardi di euro). In secondo luogo, anche i depositi e prestiti esteri agli istituti monetari e finanziari italiani sono diminuiti in misura considerevole, a causa del forte legame tra debito sovrano italiano (in calo) e le banche (cfr. riquadro 1). In terzo luogo, il netto deflusso di finanziamenti privati esteri è stato compensato da un aumento molto forte delle passività estere detenute dalla Banca d’Italia, che per conto delle banche italiane ha assunto ampia liquidità dall’Eurosistema nel quadro di due operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Longterm Refinancing Operations – LTRO) a tre anni. Dopo il crollo dell’attività del mercato interbancario tra i paesi in avanzo e i paesi periferici della zona euro nel corso del 2011 1 le passività TARGET 2 dell’Italia nei confronti dell’Eurosistema sono aumentate2, attestandosi a fine febbraio 2013 a 256 miliardi di euro (ossia il 16% del PIL dell’Italia). Dato che i finanziamenti privati esteri nella posizione patrimoniale netta sull’estero dell’Italia sono stati sostituiti in misura significativa da finanziamenti del settore ufficiale nel biennio 2011-2012, l’esposizione totale degli investitori esteri verso l’Italia è rimasta sostanzialmente stabile. L’avanzo delle partite correnti previsto per il 2013 nelle previsioni di inverno 2013 dei servizi della Commissione contribuirà a migliorare in futuro la posizione patrimoniale netta sull’estero.

1 2

Cfr.ad esempio De Grauwe, P. e Y. Ji (2012) Cfr. ad esempio Cecioni, M. e G. Ferrero (2012).

12

Grafico 7: finanziamento estero delle partite correnti dell’Italia in termini di flusso

Grafico 8: passività estere del governo e degli istituti monetari e finanziari italiani e saldo TARGET 2:

gennaio 2000-ottobre 2012

variazioni cumulative dal 1° trimestre 2011

250 200 150 100 50 0 -50 -100 -150 -200 -250

50

Gen 00 Ott 00 Lug 01 Apr 02 Gen 03 Ott 03 Lug 04 Apr 05 Gen 06 Ott 06 Lug 07 Apr 08 Gen 09 Ott 09 Lug 10 Apr 11 Gen 12 Ott 12

miliardi di EUR

miliardi di EUR

0 -50 -100 -150 -200 -250

-300 11Q1

11Q2

11Q3

11Q4

12Q1

12Q2

12Q3

Prestiti e depositi esteri agli istituti monetari e finanziari italiani Investimenti di portafoglio esteri in titoli di debito italiani

Passività estere degli istituti monetari e finanziari italiani (cumulative) Passività estere del governo italiano (cumulative)

Prestiti esteri alla Banca d'Italia (Eurosistema)

Saldo TARGET 2 dell'Italia

Fonte: Banca d’Italia, servizi della Commissione.

Nota: il grafico indica una selezione di flussi mensili di finanziamenti esterni delle partite correnti dell’Italia Fonte: Banca d’Italia, servizi della Commissione.

Riquadro 1: DELL’ITALIA

IL RUOLO DEL SETTORE FINANZIARIO ITALIANO NELL’AGGIUSTAMENTO

La più lunga recessione del dopoguerra ha significativamente compromesso la capacità del settore finanziario italiano di sostenere la ripresa economica e di favorire il necessario aggiustamento verso attività più produttive. Diversamente da quanto avvenuto in altri Stati membri della zona euro, il settore finanziario italiano si è dimostrato relativamente resiliente durante la crisi finanziaria mondiale del 2008-2009, e il sostegno pubblico richiesto è stato marginale. Tra i fattori che hanno contribuito a questa situazione vanno annoverati il modello imprenditoriale tradizionalmente basato prevalentemente sull’intermediazione, un solido regime regolamentare e di vigilanza, la mancanza di una bolla immobiliare nel paese e il basso livello dell’indebitamento delle famiglie. Dal 2011, tuttavia, la vulnerabilità delle banche italiane è aumentata in misura significativa, a causa del circolo vizioso tra le preoccupazioni sulla sostenibilità del bilancio, l’esposizione delle banche al debito pubblico italiano e l’indebolimento dell’attività dell’economia reale, con la conseguente perdita di accesso ai mercati internazionali della raccolta all’ingrosso. Il rischio di una crisi di liquidità in Italia e in altri paesi vulnerabili della zona euro ha spinto l’Eurosistema a concedere consistenti finanziamenti a lungo termine mediante due operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Longterm Refinancing Operations – LTRO) a tre anni: nel dicembre 2011 e nel febbraio 2012. La partecipazione delle banche italiane a queste operazioni ha corrisposto ad un aumento netto del 13

finanziamento dell’Eurosistema pari a 117 miliardi di euro tra novembre 2011 e marzo 2012, fino ad un totale di circa 270 miliardi di euro. Tuttavia, l’effettiva utilizzazione del finanziamento LTRO è stata nettamente superiore dei 117 miliardi di euro, dato che quasi tutti i finanziamenti a breve termine nel quadro di operazioni di rifinanziamento principali dell’Eurosistema sono stati sostituiti da finanziamenti LTRO. Le banche hanno investito una quota significativa dei fondi LTRO assegnati in titoli di Stato italiani, mentre gli investitori esteri riducevano l’esposizione verso il debito pubblico italiano (grafico 9). Nonostante l’allentamento dei vincoli di liquidità, in Italia il costo medio dei nuovi crediti alle imprese è rimasto nettamente più elevato che in Germania o in Francia, il che indica il continuo deterioramento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria (grafico 10).

300

20%

250

18%

200

16%

150 14%

100

lug-12

giu-12

apr-12

mag-12

feb-12

mar-12

gen-12

dic-11

ott-11

nov-11

set-11

lug-11

ago-11

giu-11

apr-11

10%

mag-11

0

feb-11

12%

mar-11

50 gen-11

miliardi di EUR

Grafico 9: quota del debito pubblico italiano detenuto dagli istituti monetari e finanziari italiani e rifinanziamento degli enti creditizi italiani da parte dell’Eurosistema

Rifinanziamento degli enti creditizi italiani da parte dell'Eurosistema (in essere) Quota del debito pubblico italiano detenuta da istituti monetari e finanziari italiani (lato destro)

Fonte: Banca d’Italia, servizi della Commissione

14

Grafico 10: tassi di interesse sui nuovi prestiti bancari alle società non finanziarie in una selezione di paesi

Grafico 11: volume dei prestiti alle società non finanziarie italiane

%

16 Tasso di crescita tendenziale (%)

4,5 4,0

12

3,5 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0

ott-12

Germania

Francia

Italia

Tasso di riferimento BCE

4 0 -4 -8 gen-07 giu-07 nov-07 apr-08 set-08 feb-09 lug-09 dic-09 mag-10 ott-10 mar-11 ago-11 gen-12 giu-12 nov-12

lug-12

apr-12

ott-11

gen-12

lug-11

apr-11

ott-10

gen-11

lug-10

apr-10

ott-09

gen-10

lug-09

apr-09

gen-09

0,5

8

Fonte: Banca d’Italia.

Fonte: Banca centrale europea

Sebbene le condizioni della liquidità delle banche italiane siano migliorate notevolmente dopo le LTRO, sono emerse altre carenze che impediscono al settore bancario italiano di svolgere la sua funzione di sostegno dell’aggiustamento dell’economia reale. La recessione a doppia v ha fatto ricadere sui bilanci delle banche italiane uno stock ingente e in rapida crescita di crediti in sofferenza (grafico 12), principalmente delle società non finanziarie, un problema ulteriormente aggravato dalla lentezza delle procedure di recupero dei crediti. In risposta, le condizioni del credito sono diventate considerevolmente più rigide nel periodo tra il 2011 e il 2012 (grafico 11). Ne hanno risentito in particolare le PMI, che dipendono in larga misura dalle banche per il loro finanziamento: rispetto alle imprese più grandi pagano tassi di interesse nettamente più elevati e le loro richieste di prestiti sono più spesso rifiutate3. La domanda di prestiti bancari è anch’essa modesta, una situazione questa che dovrebbe durare per buona parte del 2013. Inoltre, la crescita dei prestiti è stata frenata dalla necessità di mantenere un rigoroso controllo della situazione patrimoniale in considerazione del crescente rischio di credito. Infine, le prospettive di redditività delle banche italiane non appaiono incoraggianti. I margini netti di interesse sono soggetti alla pressione dei bassi tassi di interesse di riferimento e di costi di finanziamento ancora elevati, mentre la contrazione del credito determina la diminuzione delle entrate di base e rallenta il riapprezzamento degli attivi delle banche. L’efficienza in termini di costi delle banche italiane è bassa nel confronto internazionale: l’elevato rapporto costi/ricavi, dovuto principalmente all’ampia rete di filiali, rappresenta un ulteriore freno alla redditività.

3

Cfr. ad esempio la Banca centrale europea (2012).

15

Grafico 12: evoluzione dei prestiti in sofferenza italiani 14,0

16

12,0

14

8 6,0

6

4,0

4

Sett 12

Giu 12

Mar 12

Dic 11

Sett 11

Giu 11

Mar 11

Dic 10

Sett 10

Giu 10

Mar 10

0

Dic 09

0,0

Sett 09

2

Giu 09

2,0

Mar 09

% dei prestiti totali

10

8,0

Tasso di crescita trimestrale (%)

12

10,0

Prestiti scaduti Prestiti ristrutturati Incagli Sofferenze Tasso di crescita percentuale crediti in sofferenza (lato destro)

Nota: il confronto internazionale degli stock di crediti in sofferenza relativi all’Italia dovrebbe tener conto del fatto che i criteri contabili nazionali di determinazione della qualità dei prestiti sono più severi che in altri paesi, con una conseguente distorsione al rialzo della quota italiana dei crediti in sofferenza. Fonte: Banca d’Italia.

2.3.

L’INDEBITAMENTO DEL SETTORE PRIVATO E DEL SETTORE PUBBLICO

La posizione finanziaria netta delle famiglie italiane continua a essere relativamente forte. Le famiglie italiane hanno continuato ad accumulare attivi, avendo mantenuto un tasso di risparmio positivo, sebbene in calo (grafico 13). La ricchezza finanziaria netta rimane superiore al livello stimato per la Francia (135%), per la Germania (122%) e per la media della zona euro (128%), sebbene la diminuzione dei prezzi di mercato ne abbia ridotto il valore dal 177% del PIL a fine 2010 a circa il 165% alla fine del 2011. Nel complesso la ricchezza delle famiglie, comprensiva dei beni immobili, è stimata a circa il 550% del PIL4. L’indebitamento delle famiglie italiane continua a essere tra i più bassi della zona euro, e la loro vulnerabilità finanziaria, misurata come l’incidenza della rata sul reddito, rimane bassa5. Tuttavia, dall’inizio della crisi finanziaria la diminuzione del reddito reale disponibile delle famiglie è stata consistente, a causa sia dell’indebolimento del mercato del lavoro che dell’impatto Banca d’Italia (2012b). Secondo Magri, S. e R. Pico (2012) “La percentuale di famiglie vulnerabili, con un’alta incidenza della rata sul reddito, è rimasta invariata tra il 2008 e il 2010, quando alla forte riduzione del reddito è corrisposto un calo marcato dei tassi di interesse; simulazioni effettuate per il biennio 2011-2012 indicano variazioni contenute della vulnerabilità.. La condizione di sovra-indebitamento, una definitiva incapacità del debitore di adempiere le proprie obbligazioni, riguarderebbe circa 160 mila famiglie, lo 0,6 per cento di quelle totali.” 4 5

16

dell’importante risanamento di bilancio. Tale circostanza, combinata all’obiettivo delle famiglie di contenerne le ripercussioni sulle abitudini di consumo (consumption smoothing), ha determinato un calo del tasso di risparmio delle famiglie ai livelli più bassi mai registrati.

Grafico 13: patrimonio delle famiglie italiane per categoria di strumenti finanziari 300 250 200

% del PIL

150 100

50 0 -50 -100 98

99

00

01

02

03

04

A - Titoli (diversi da azioni) A - Prestiti A - Azioni e altri titoli di capitale A - Assicurazioni e riserve tecniche A - Altri conti A - Valuta e depositi

05

06

07

08

09

10

11

12

P - Titoli (diversi da azioni) P - Prestiti P - Azioni e altri titoli di capitale P - Assicurazioni e riserve tecniche P - Altri conti Attività finanziarie nette

Nota: i dati del 2012 sono stime basate sui dati trimestrali. Fonte: servizi della Commissione.

La tendenza sempre più marcata all’indebitamento delle società non finanziarie ha subito una battuta d’arresto a partire dal 2008. L’indebitamento delle società non finanziarie è aumentato di circa 25 punti percentuali di PIL nel decennio fino al 2008. Dato che l’importo totale dei crediti alle società italiane non finanziarie è diminuito di oltre il 2% su base annua nel dicembre 2012, lo stock del debito consolidato delle società italiane non finanziarie si è stabilizzato a circa l’80% del PIL e rimane leggermente inferiore alla media della zona euro. Questa situazione è ampiamente riflessa nel calo degli investimenti, ma le imprese hanno anche leggermente aumentato il ricorso all’autofinanziamento. Assieme al basso livello di indebitamento delle famiglie, l’indebitamento complessivo del settore privato italiano in percentuale del PIL resta quasi 20 punti percentuali al di sotto della media della zona euro (grafico 14).

17

Grafico 14: scomposizione del debito dell’Italia 350 300

% del PIL

250 200 150 100

50 0

98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 Società finanziarie

Amministrazione pubblica

Famiglie

Società non finanziarie

Settore privato zona euro 17

Settore privato

Nota: i dati del 2012 sono stime basate sui dati trimestrali. Fonte: servizi della Commissione.

Il debito pubblico elevato pesa gravemente sull’economia italiana, soprattutto in un contesto di crescita debole. Con un debito pubblico che secondo le stime ha raggiunto il 127% circa del PIL alla fine del 2012, l’Italia ha di gran lunga il rapporto debito pubblico/PIL più elevato tra i grandi paesi della zona euro. Dopo il consistente risanamento di bilancio in vista dell’adozione dell’euro, negli anni che hanno preceduto la crisi finanziaria mondiale l’Italia non ha sfruttato le opportunità offerte dalla diminuzione della spesa per interessi al fine risanare le finanze pubbliche. Al contrario, l’erosione prodottasi negli anni dell’avanzo primario conseguito al momento dell’adesione alla zona euro ha rallentato il ritmo della riduzione del rapporto debito/PIL (grafico 15). Mentre i bassi tassi di crescita rendono più difficile conseguire e mantenere i consistenti avanzi primari necessari per porre il rapporto debito pubblico/PIL dell’Italia su un percorso di riduzione continua, lo stock elevato del debito pubblico potrebbe a sua volta compromettere le prospettive di crescita6. In particolare, il livello di imposizione attuale e atteso necessario per il servizio del debito deprime la domanda interna e potrebbe aumentare i costi distorsivi della tassazione. Infatti, la pressione fiscale in Italia è elevata e incide pesantemente sul lavoro e sul capitale, a scapito della crescita (cfr. sezione 3.2). Inoltre, l’elevata spesa per interessi sottrae risorse per la spesa pubblica produttiva, specialmente per sostenere l’accumulazione di capitale umano e le infrastrutture fisiche e tecnologiche. Nel 2012 la spesa per interessi si è attestata al 5,5% del PIL, quasi 3 punti percentuali in più che in Germania e in Francia. Per contro, la spesa primaria strutturale, di poco inferiore al 43% del PIL potenziale, è stata in linea con quella della Germania e inferiore di oltre 8 punti percentuali a quella della Francia. 6

Cfr. anche, Commissione europea (2012b).

18

Grafico 15: scomposizione delle variazioni del rapporto debito pubblico/PIL dell’Italia 15

% del PIL

10 5 0 -5 -10 -15 1995-1998

1999-2007

2008-2012

Aggiustamento stock/flussi (compreso sostegno a zona euro) Inflazione (deflatore PIL) Crescita reale del PIL Spesa per interessi Saldo primario Variazione annuale media del rapporto debito/PIL

Fonte: servizi della Commissione.

Il debito pubblico rappresenta una delle principali vulnerabilità dell’Italia, con potenziali ricadute sul resto della zona euro. La crisi del debito sovrano ha accentuato il circolo vizioso tra debito elevato e bassi tassi di crescita. Tra la fine del 2007 e la fine del 2012 il rapporto debito pubblico lordo/PIL dell’Italia è aumentato di circa 24 punti percentuali di PIL. Questa evoluzione è largamente imputabile alla brusca contrazione del PIL, mentre in un contesto di margini di bilancio limitati le autorità hanno mantenuto un orientamento di bilancio prudente. Nel frattempo con l’impennata del premio di rischio sul debito sovrano dell’Italia registrata fra il 2011 e il 2012 è aumentato anche il costo del capitale per il settore privato, il che ostacola gli investimenti produttivi. Inoltre, vista la notevole frammentazione del mercato finanziario della zona euro lungo le frontiere nazionali, l’esposizione delle banche italiane all’elevato debito pubblico dell’Italia ha aggravato i problemi di finanziamento del settore bancario (cfr. riquadro 1). Dato che l’economia italiana è la terza maggiore economia della zona euro e che il debito pubblico italiano, pari a circa 2 000 miliardi di euro, è il secondo maggiore debito pubblico, le potenziali ricadute economiche e finanziarie delle tensioni sui mercati finanziari sul resto della zona euro sono considerevoli. Tuttavia, grazie alla strategia di bilancio credibile, alle riforme attuate per stimolare la crescita a livello nazionale e ai progressi verso una maggiore integrazione economica a livello della zona euro, i rendimenti dei titoli di Stato sono diminuiti in misura significativa dagli ultimi mesi del 2012. L’analisi della sostenibilità del debito presentata dalla Commissione nella sua relazione sulla sostenibilità di bilancio 20127 sottolinea l’importanza di conseguire avanzi primari elevati per porre il rapporto debito pubblico/PIL dell’Italia su un percorso di riduzione continua. Se verrà conseguito il previsto aggiustamento strutturale di bilancio, ossia se l’avanzo 7

Commissione europea (2012a).

19

primario strutturale sarà portato al 5% del PIL entro il 2014 e mantenuto allo stesso livello anche successivamente, la traiettoria discendente del rapporto debito/PIL a medio termine potrà essere mantenuta, persino in caso di shock temporanei dei tassi di interesse, anche se essi sono forti o dovessero determinare temporaneamente tassi di crescita più bassi. Tuttavia, se non verranno conseguiti gli obiettivi del saldo primario, il rapporto debito/PIL rimarrà vulnerabile ad un’evoluzione negativa dei tassi di interesse e della crescita. Il circolo vizioso tra aumento dei tassi di interesse e calo dei tassi di crescita accentuerebbe le vulnerabilità. Il patto di stabilità e crescita rafforzato offre il quadro appropriato per garantire un percorso di riduzione costante del rapporto debito pubblico/PIL, perché la nuova regola del debito prevede che il divario tra il rapporto debito/PIL effettivo e il valore di riferimento del 60% del PIL sia ridotto ad un tasso medio di un ventesimo all’anno, fissato come parametro di riferimento. Il rispetto della regola del debito potrebbe inoltre contribuire a rispondere alle aspettative del mercato e a ridurre il premio di rischio sul debito pubblico italiano. 2.4.

SVILUPPI SUL MERCATO IMMOBILIARE

Il rischio di una grave contrazione del mercato immobiliare italiano, con conseguenze negative sulla ricchezza delle famiglie e un drastico calo del valore delle garanzie reali delle banche appare limitato. Negli anni che hanno preceduto la crisi non si è avuta una bolla immobiliare in Italia. Alla fine di agosto 2012 in Italia i mutui ipotecari costituivano soltanto il 18% circa del totale dei crediti bancari, valore nettamente inferiore alla media della zona euro, pari al 33%. Due terzi dei mutui ipotecari in essere sono a tasso variabile, il che limita l’esposizione delle banche alle variazioni dei tassi di interesse interbancari. I rapporti mutuo/valore sono relativamente bassi in Italia e sono diminuiti considerevolmente dalla metà del 2005, dato che le banche hanno applicato criteri prudenti per la concessione dei mutui ipotecari. Il mercato immobiliare italiano si è indebolito considerevolmente a causa della profonda recessione economica in Italia. Il ridotto fatturato delle imprese edilizie e la limitata capacità di accedere ai finanziamenti in questo settore hanno determinato una netta riduzione dell’attività edilizia. I prezzi degli immobili (in termini nominali) sono scesi in misura modesta a partire dalla metà del 2011, con una diminuzione leggermente superiore per gli immobili non residenziali rispetto alle abitazioni. I volumi delle operazioni immobiliari sono diminuiti in misura più significativa. La domanda di mutui ipotecari da parte delle famiglie ha subito una contrazione, mentre il numero delle licenze di costruzione, soprattutto per l’edilizia abitativa, è rimasto a livelli bassi. L’aumento dell’imposta annuale sui beni immobili (imposta municipale unica – IMU), il cui livello di partenza era relativamente basso, deciso con il pacchetto di misure economiche e di bilancio del dicembre 2011 (cfr. sezione 3.2), potrebbe anch’esso aver inciso sul mercato immobiliare nel 2012. L’indebolimento del settore edilizio pesa sui bilanci delle banche. Nel dicembre 2012 il settore edilizio rappresentava circa il 18% del totale dei prestiti concessi dalle banche alle società non finanziarie, mentre la quota del settore sul totale dei crediti in sofferenza (delle società non finanziarie) era pari al 24%. In media un terzo dell’aumento netto mensile dei prestiti in sofferenza a partire dalla metà del 2011 è dovuto al settore edilizio. 20

3.

ANALISI APPROFONDITA: COMPETITIVITÀ

3.1.

ANDAMENTO DELLA COMPETITIVITÀ ITALIANA

A partire dall’adozione dell’euro l’Italia ha perso quote del mercato delle esportazioni e il ritmo dell’erosione si è accelerato con lo scoppio della crisi mondiale. Sebbene sia normale che un’economia matura perda quote di mercato nel contesto della forte crescita dei mercati emergenti trainata dalle esportazioni, i risultati dell’Italia nel settore delle esportazioni sono inferiori rispetto ad altri paesi della zona euro. Il grafico 16 riporta la crescita nominale delle esportazioni in termini di valore per una selezione di paesi della zona euro al netto della crescita nominale delle importazioni mondiali negli anni precedenti la crisi (2000-2007) e gli sviluppi nel periodo della crisi (2007-2010). Negli anni precedenti la crisi l’Italia stava già perdendo quote di mercato, anche se ad un ritmo moderato di 1,2 punti percentuali in media all’anno, mentre la zona euro nel suo complesso conservava la sua quota di mercato. La Francia registrava una perdita molto più accentuata, mentre le esportazioni di Germania e Spagna aumentavano ad ritmo più rapido delle importazioni mondiali. La quota italiana del mercato delle esportazioni ha subito un drastico e consistente calo, pari a 6,3 punti percentuali in media all’anno, durante gli anni della crisi 2007-2010, superiore alla media della zona euro, pari a -4,2 punti percentuali. Grafico 16: crescita nominale netta delle esportazioni di una selezione di paesi della zona euro Punti percentuali di crescita annuale nominale delle esportazioni (in USD) al netto della crescita delle importazioni mondiali

6

4

2

0

-2

-4

-6

-8 DE

FR

IT

2000-07

ES

Zona euro

2007-10

Nota: la crescita nominale netta delle esportazioni di un paese è definita come la crescita nominale delle esportazioni al netto della domanda di importazioni nominale mondiale. Una crescita nominale netta delle esportazioni positiva/negativa comporta un guadagno/una perdita di quote del mercato delle esportazioni. Fonte: servizi della Commissione.

21

La perdita di competitività di costo e di competitività non di costo nei confronti dei partner commerciali dell’Italia è uno dei fattori chiave all’origine del modesto andamento delle esportazioni. I seguenti fattori sono importanti al riguardo: 

in Italia il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato più rapidamente rispetto al resto della zona euro a partire dal 1998. Negli anni 1999-2012 il costo nominale del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 2,3% in media all’anno, il che implica pressioni del costo del lavoro sui prezzi superiori al valore di riferimento della BCE per l’inflazione. In Francia, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto dell’1,9% all’anno, mentre in Germania il tasso di crescita medio annuo pari allo 0,7% è stato ben inferiore alla media della zona euro dell’1,6%.



La costante debolezza della crescita della produttività è il principale fattore all’origine dell’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. La crescita della produttività totale dei fattori ha subito una battuta d’arresto all’inizio degli anni 2000 e da allora è stata modesta se non addirittura negativa (grafico 17). Ciò riflette la minore capacità delle imprese italiane di integrare le nuove tecnologie nei processi produttivi e di migliorare costantemente l’organizzazione della forza lavoro in un contesto di cambiamento e di accresciuta competitività, nonché la scarsità di manodopera qualificata (cfr. riquadro 2).

Grafico 17: produttività totale dei fattori in Italia e nella zona euro 115

Indice (1990 = 100)

110

105

100

95 90

92

94

96

98

00

02

Zona euro-12

04

06

08

10

12

IT

Fonte: servizi della Commissione.



L’impatto negativo sulla competitività della crescita rapida del costo del lavoro per unità di prodotto è stato accentuato dal notevole apprezzamento del tasso di cambio effettivo nominale dell’Italia. Scomponendo l’apprezzamento del tasso di cambio 22

effettivo reale dell’Italia basato sul costo del lavoro per unità di prodotto8 verificatosi dal 1998 in variazioni del tasso di cambio effettivo nominale e del costo nominale del lavoro per unità di prodotto in relazione ai partner commerciali emerge che l’apprezzamento della prima componente tra il 2003 e il 2009 è il principale fattore determinante (grafico 18). La Germania ha registrato un apprezzamento analogo del tasso di cambio effettivo nominale, ma l’impatto sul tasso di cambio effettivo reale è stato compensato dal calo del costo relativo del lavoro per unità di prodotto consentito da una notevole moderazione salariale (grafico 19). Secondo le stime dell’FMI il tasso di cambio effettivo reale dell’Italia presenta una leggera sopravvalutazione del 5-10%

Grafico 18: scomposizione della variazione cumulativa dal 1998 del tasso di cambio effettivo reale dell’Italia sulla base del costo del lavoro per unità di prodotto

Grafico 19: evoluzione del costo del lavoro relativo nominale per unità di prodotto in una selezione di paesi

16

115

14

110

10 8

Indice (1998 = 100)

Variazione cumulativa dal 1998 (%)

12

6 4 2 0 -2

105 100 95 90 85

-4 -6

80

-8 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 Contributo tasso di cambio effettivo nominale

75 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12

Contributo costo del lavoro per unità di prodotto

DE

Tasso di cambio effettivo reale

Fonte: servizi della Commissione.

ES

FR

IT

Nota: risultati relativi a 36 paesi industrializzati (doppia ponderazione delle esportazioni) Fonte: servizi della Commissione.



I risultati dell’Italia nel settore delle esportazioni continuano a risentire di una specializzazione merceologica sfavorevole. Per individuare le cause della perdita di quote del mercato delle esportazioni di cui al grafico 16, la crescita nominale netta delle esportazioni italiane prima e durante la crisi è scomposta in due indicatori strutturali, che indicano in che misura le esportazioni italiane sono state dirette verso mercati geografici e del prodotto dinamici, e in due indicatori di risultato che indicano il successo dell’Italia

Una misura alternativa della competitività di prezzo sarebbe il tasso di cambio effettivo reale dell’Italia basato sull’indice dei prezzi alla produzione, soprattutto per beni scambiati. 8

23

nel conseguire una crescita delle esportazioni superiore al mercato in mercati geografici e del prodotto grazie ai fattori di competitività (grafico 20). All’inizio del decennio l’economia italiana presentava una specializzazione merceologica sfavorevole in rapporto ai flussi mondiali delle esportazioni, ma le sue esportazioni erano ancora dirette verso paesi ancora dinamici, il che le ha consentito di beneficiare della distribuzione della domanda mondiale. Tuttavia, con il mutare dei flussi mondiali delle esportazione gli esportatori italiani non sono riusciti a riorientare i loro prodotti verso i paesi con la domanda di importazioni più dinamica. Pertanto, allo scoppio della crisi l’Italia presentava una specializzazione merceologica e geografica sfavorevole delle esportazioni. Entrambi questi svantaggi si sono poi aggravati durante la crisi, perché l’economia non ha dimostrato il dinamismo necessario per adattarsi ai drammatici cambiamenti delle condizioni generali e per il calo della domanda di importazioni in alcuni dei principali partner commerciali dell’Italia, soprattutto in Europa. Grafico 20: scomposizione della crescita nominale netta delle esportazioni dell’Italia in base alla composizione geografica e settoriale 2

Tasso di crescita annuale (%)

1 0 -1 -2 -3 -4 -5 -6 -7 2000-2007

2007-2010

Incrementi di quote di mercati di prodotti Incrementi di quote di mercato per destinazioni geografiche Specializzazione merceologica iniziale Specializzazione geografica iniziale

Nota: per maggiori informazioni sulla metodologia della scomposizione, cfr. Commissione europea (2012c). Fonte: servizi della Commissione.

24

Riquadro 2: IL CONTRIBUTO DELL’ISTRUZIONE ALLA CRESCITA L’istruzione è fondamentale per la crescita economica. La qualità del lavoro è particolarmente importante per le economie avanzate, che competono sui mercati internazionali con prodotti e servizi ad alto contenuto tecnologico. Infatti, le economie avanzate operano in prossimità o sulla frontiera tecnologica, ossia la produzione massima realizzabile per un dato volume di capitale e di lavoro utilizzando la tecnologia più avanzata disponibile. Per avvicinarsi alla frontiera o addirittura farla avanzare, sono necessari una forza lavoro altamente qualificata e investimenti in R&S (Vandenbussche et al. (2006)). La letteratura empirica dimostra che il capitale umano ha un impatto positivo sui risultati macroeconomici di un paese, soprattutto in quanto ne aumenta la produttività (Sianesi e Van Reenen, 2002). Il grafico 21 illustra il rapporto positivo tra prodotto potenziale pro capite e percentuale della popolazione con diploma di istruzione secondaria di secondo grado o terziaria per i paesi dell’UE-15. Esso mostra che l’Italia è superata dalla maggior parte degli altri paesi europei.

Grafico 21: PIL potenziale pro capite e livello di istruzione nell’UE, 2011 35000 NL DK

PIL potenziale procapite SPA (EUR)

33000

IE

31000

AT SE

DE

BE FI

29000

UK EA

27000

FR

ES

25000

IT

23000

EL PT

21000 19000 17000 15000 30

40

50

60

70

80

90

Percentuale di persone (25-64 anni) con istruzione secondaria di secondo grado o terziaria

Fonte: servizi della Commissione.

Infatti, la dotazione di capitale umano dell’Italia resta debole rispetto ad altre economie avanzate. La quota delle persone scarsamente qualificate sul totale della popolazione è relativamente elevata, perché malgrado alcuni notevoli miglioramenti negli ultimi anni il tasso di completamento dell’istruzione secondaria di secondo grado è inferiore alla media 25

dell’UE e il tasso di istruzione terziaria nella fascia di età compresa tra 30 e 34 anni è il più basso dell’UE: 21,3%, rispetto ad una media UE del 35,5% (grafico 22). Analogamente, l’Italia presenta una percentuale elevata di abbandoni scolastici (17,7% nel 2012 rispetto ad una media UE del 12,9%) e un tasso elevato di inattività tra i giovani: nel 2011 più di uno su cinque tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni in Italia non era né in formazione né occupato. Inoltre, i risultati del test PISA mostrano che l’istruzione scolastica produce risultati mediocri in termini di competenze di base, in particolare nelle regioni meridionali, e nei gruppi con basso livello di istruzione figurano molti figli di genitori con un basso livello di istruzione. Tutti questi elementi indicano una qualità dell’istruzione ancora in ritardo rispetto alla media dell’OCSE. Il divario con gli altri paesi industrializzati è ancora ampio anche in termini di passaggio dalla scuola al lavoro, e molti indicatori suggeriscono che il mercato del lavoro per i giovani con diploma di istruzione terziaria è diventato più difficile nell’ultimo decennio.

Grafico 22: percentuale di persone (di età compresa tra i 30 e i 34 anni) con diploma di istruzione terziaria, 2011 60

%

50 40 30 20 10

2011

UE-27

IE LU SE FI CY UK LT FR BE DK NL ES EE SI PL LV DE EL HU BG PT AT CZ SK MT RO IT

0

2000

Fonte: Eurostat

Per questi motivi, le sezioni successive della presente analisi approfondita vertono sulle leve principali per migliorare la competitività dell’Italia: la moderazione salariale, una struttura fiscale più favorevole alla crescita e, cosa più importante, una crescita più forte della produttività.

26

3.2.

CRESCITA

SALARIALE, CAPACITÀ DI ADEGUAMENTO DEL MERCATO DEL LAVORO E

IMPOSIZIONE

Dall’adozione dell’euro la crescita salariale in Italia ha seguito sostanzialmente la media della zona euro. La retribuzione nominale per dipendente è aumentata del 2,5% in media all’anno dal 1999 al 2012, con un rallentamento dopo il 2008 (grafico 23). La zona dell’euro e la Francia hanno registrato tassi di crescita simili, pari rispettivamente al 2,4% e al 2,6%. Per contro, la retribuzione nominale per dipendente è aumentata in misura molto più significativa in Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna prima della crisi finanziaria, mentre successivamente si è stabilizzata, o è diminuita drasticamente nel caso della Grecia. La Germania rappresenta un’eccezione, dato che la retribuzione nominale è rimasta immutata fino al 2008, per poi segnare una lieve accelerazione. La crescita della retribuzione nominale per dipendente non solo è in linea con la crescita media della zona euro, ma sembrava essere in linea con l’equilibrio del mercato nazionale del lavoro fino alla crisi finanziaria del 2008 e solo leggermente superiore alle previsioni sulla base dei fondamentali negli anni della crisi fino al 2011 9. La dispersione della crescita dei salari reali (grafico 24) è stata più contenuta dato che l’andamento dell’inflazione e l’andamento dei salari si sono influenzati a vicenda. Più specificamente, dopo l’adozione dell’euro la retribuzione reale per dipendente in Italia è aumentata in misura significativa soltanto nel biennio 2009-2010, quando la riduzione dei prezzi dell’energia ha portato ad un calo dell’inflazione. L’aumento è stato invertito nel biennio 2011-2012, quando l’aumento dell’imposizione indiretta e l’incremento dei prezzi del petrolio hanno fatto crescere l’inflazione, mentre la crescita dei salari è stata contenuta dalla recessione economica e dal congelamento delle retribuzioni nel settore pubblico. Negli anni dal 1999 al 2012 i salari reali in Italia sono cresciuti solo dello 0,2% in media all’anno. La crescita dei salari reali è stata maggiore in Francia (1,0%), mentre è stata simile all’Italia (0,1%) in Germania.

9

Rawdanowicz, L. et al. (2013).

27

Grafico 24: retribuzione reale per dipendente in una selezione di paesi

180

180

170

170

160

160

Indice (1998 = 100)

Indice (1998 = 100)

Grafico 23: retribuzione nominale per dipendente in una selezione di paesi

150 140 130 120

150 140 130 120 110

110

100

100

90

90 98

00 DE EL FR PT

02

04

06

08

10

98

12

00 DE EL FR PT

IE ES IT Zona euro-17

Fonte: servizi della Commissione.

02

04

06

08 10 IE ES IT Zona euro-17

12

Nota: sulla base del deflatore dei consumi privati Fonte: servizi della Commissione.

La quota dei salari soggetti a contrattazione aziendale resta modesta 10. I salari contrattuali fissati a livello nazionale per categoria sulla base del parametro di riferimento dell’inflazione per un periodo di tre anni hanno risposto meno bene all’andamento della produttività rispetto ai salari effettivi. I salari effettivi sono cresciuti a seguito di una certa deriva salariale positiva riscontrata appena prima della crisi finanziaria in virtù del miglioramento delle condizioni economiche. Al contrario, una deriva salariale negativa è emersa dalla fine del 2008 e ancora di più a partire dalla seconda metà del 2011, a seguito della crisi del debito sovrano che ha gravemente colpito l’economia italiana (grafico 25). La contrattazione aziendale può avere un ruolo importante nel rafforzare l’adeguamento dei salari alla produttività e alle condizioni locali del mercato del lavoro. Tuttavia, la quota dei salari oggetto di contrattazione a livello della singola impresa è ancora bassa, il che ostacola il miglioramento dell’allineamento dei salari alle condizioni economiche specifiche e alla competitività.

L’aggiustamento del costo del lavoro al mutare della situazione economica può essere misurato mediante diversi indicatori. Uno di questi è la deriva salariale, che misura la differenza tra l’aumento dei salari effettivi ricevuti dai lavoratori e l’aumento dei salari contrattuali. 10

28

Grafico 25: deriva salariale in Italia 120

Indice (05Q1 = 100)

115

110

105

100

95 05T1

05T4

06T3

07T2

08T1

08T4

09T3

10T2

11T1

11T4

Salari contrattuali

Retribuzione per ora di lavoro

VAL per ora di lavoro

Deriva salariale

12T3

Fonte: servizi della Commissione.

In Italia il livello dominante della contrattazione collettiva resta quello nazionale, benché dall’inizio degli anni ‘90 cambiamenti importanti del quadro della contrattazione abbiano favorito il progressivo spostamento verso il livello aziendale. Il più importante di questi cambiamenti è stato l’accordo tripartito del luglio 1993, che ha formalizzato il livello aziendale/territoriale in un quadro di contrattazione a due livelli. Altri due accordi, nel 2009 e nel 2011, ed un controverso articolo di legge adottato dal Parlamento nel settembre 2011 hanno costituito ulteriori tentativi di spostare l’equilibrio verso la contrattazione aziendale: l’articolo di legge consente persino che gli accordi collettivi a livello aziendale possano derogare al diritto del lavoro. In quanto permettono di negoziare localmente compromessi tra sicurezza del posto di lavoro e concessioni salariali, tali accordi consentirebbero di tener in miglior conto le necessità di specifiche attività produttive. Tuttavia, da quanto risulta finora i contratti a livello aziendale interessano una minoranza dei lavoratori e delle imprese, e la quota è particolarmente bassa nelle regioni meridionali. Le grandi imprese più produttive continuano a dominare il processo di contrattazione a livello nazionale per categoria, il che rende difficile alle PMI di adeguare i salari all’andamento della produttività interna e alle condizioni del ciclo. Inoltre, la durata triennale dei contratti, sebbene riduca l’impegno di contrattazione delle parti sociali, potrebbe essere troppo lunga per consentire l’aggiustamento ai cambiamenti imprevisti delle condizioni del ciclo e della competitività. Infine, la previsione a tre anni dell’inflazione, al netto dei prezzi dell’energia importata, utilizzata dal 2009 come parametro di riferimento per la fissazione delle retribuzioni a livello nazionale non tiene conto della necessità dell’Italia di riguadagnare competitività di costo nei confronti dei partner commerciali.

29

Il nuovo accordo sulla produttività firmato dalle parti sociali alla fine del 2012 potrebbe facilitare ulteriormente la contrattazione salariale a livello aziendale. L’accordo, firmato il 21 novembre 2012 dalle parti sociali, con l’importante eccezione della CGIL, il sindacato più grande, mira a rafforzare ulteriormente la contrattazione di secondo livello. L’accordo pone altresì l’accento sulla necessità di un miglior collegamento dei salari fissati nei contratti nazionali non solo all’inflazione triennale programmata, ma anche alla situazione economica e alla competitività del paese e dello specifico settore. Pur confermando la struttura tradizionale della contrattazione collettiva in Italia, per cui la legislazione e il governo continueranno ad avere un ruolo molto limitato, l’accordo potrebbe promuovere una maggiore efficienza del quadro della contrattazione. Le parti sociali si sono inoltre impegnate a definire le norme relative alla rappresentatività nella contrattazione collettiva, al fine di creare un sistema più stabile ed efficace delle relazioni industriali. Il governo sosterrà l’accordo con misure di defiscalizzazione del salario di produttività. L’elevata pressione fiscale sul lavoro aumenta la pressione sulla competitività di costo e contribuisce ai risultati insoddisfacenti dell’Italia sul fronte dell’occupazione, mentre l’elevata tassazione del capitale è all’origine degli scarsi investimenti. Nel 2010 l’Italia registrava l’aliquota implicita sul lavoro11 più elevata della zona euro, un’aliquota che infatti è aumentata in misura considerevole dal 1995 (grafico 26 – Gruppo A). L’elevata tassazione del lavoro aumenta il costo del lavoro, con un impatto negativo sulla competitività di costo. Inoltre, incide negativamente sulla domanda e sull’offerta di lavoro, soprattutto delle donne, e può creare incentivi per l’economia sommersa. Nel 2010 l’Italia presentava anche la quarta più alta aliquota implicita sul capitale12 (grafico 26 – Gruppo B). Il livello elevato delle imposte sui redditi delle società può penalizzare gli investimenti e contribuire a rendere l’economia italiana meno attrattiva per gli investimenti diretti esteri. Infine le imposte sui consumi, giudicate meno distorsive, rappresentano solo una minima parte del totale delle entrate. Nel 2010 l’aliquota implicita sui consumi era ancora tra le più basse della zona euro, ed è addirittura diminuita leggermente tra il 2000 e il 2010 (grafico 26 – Gruppo C).

L’aliquota d’imposta implicita sul lavoro è calcolata come la quota percentuale della somma di tutte le imposte dirette e indirette e dei contributi sociali che pesano sul reddito da lavoro dipendente sul totale delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti risultante dalla contabilità nazionale. 12 L’aliquota implicita sul capitale è calcolata come il rapporto tra tutte le imposte sul capitale e i redditi aggregati da capitale e risparmio nel territorio economico. Va, tuttavia, sottolineato che l’analisi dell’aliquota implicita sul capitale è resa notevolmente più complessa dal fatto che le imposte sul capitale includono una serie di imposte versate sia dalle imprese che dalle famiglie su numerose fonti di reddito. In particolare, in questi calcoli il gettito delle imposte e dei contributi sociali che pesano sui lavoratori autonomi, che in Italia costituiscono un gruppo relativamente numeroso, è registrato come imposta sul capitale. 11

30

Grafico 26: aliquote implicite su lavoro, capitale e consumi nella zona euro (ZE)

Gruppo A: lavoro 50

Gruppo B: capitale %

% 45

45

40

40

35

35

30

30

25

25 20

20 15

15 10

10

5

5

0 IT BE FR AT FI DE EE NL SI ES LU SK EL CY IE PT MT ZE-17

FR IT CY PT BE ES FI AT SI DE EL SK IE NL EE ZE-17

0

2000

2010

1995

Gruppo C: consumi % 30 25 20 15 10 5 0

LU NL EE FI SI IE BE AT DE FR MT CY SK PT IT EL ES ZE-17

2010

2010

2000

1995

Fonte: servizi della Commissione.

31

2000

1995

Le misure di risanamento del bilancio adottate dal governo italiano nel 2011 e nel 2012 hanno consentito di riequilibrare la pressione fiscale trasferendola sui consumi, i beni immobili e la ricchezza finanziaria. I pacchetti di misure di risanamento del bilancio adottati dal 2011 hanno aumentato l’imposta annuale sui beni immobili (compresa la reintroduzione dell’imposta sulla prima casa), l’aliquota ordinaria dell’IVA, la tassazione dei beni durevoli di lusso e delle attività finanziarie e le accise sui carburanti. Allo stesso tempo è stata ridotta la tassazione dei redditi da lavoro dei neoassunti, prevedendo la deducibilità della quota IRAP gravante sul costo del lavoro, con maggiori riduzioni per le donne, i giovani e le regioni meridionali, ed è stato introdotto un incentivo al capitale proprio delle imprese, il cosiddetto aiuto alla crescita economica (ACE). Con la legge di bilancio 2013 sono state aumentate anche le detrazioni per i figli a carico sul reddito delle persone fisiche. Infine, è stata introdotta una serie di nuove misure e di nuovi strumenti per migliorare il rispetto dell’obbligo tributario, tra cui l’intensificazione delle attività di controllo, l’abbassamento della soglia per l’uso obbligatorio dei pagamenti elettronici e l’introduzione del cosiddetto “redditometro” per individuare potenziali evasori fiscali sulla base del confronto tra il reddito dichiarato ai fini fiscali e le spese effettuate. Anche se aumentano la pressione fiscale complessiva, le misure finanziarie di recente adozione presentano alcune caratteristiche auspicabili in termini di efficienza. A causa dei vincoli di bilancio, l’alleggerimento della pressione fiscale su lavoro e capitale è stato relativamente modesto e, nonostante un certo riequilibrio dell’aggiustamento verso i tagli di spesa, la pressione fiscale complessiva è aumentata. In un contesto di persistente debolezza della crescita dell’Italia, combinata con l’urgente necessità di riportare il debito pubblico su un percorso discendente, l’aumento dell’imposta sui beni immobili è preferibile all’introduzione di nuove imposte, perché meno dannoso per la crescita a lungo termine e allo stesso tempo sostanzialmente in linea con gli obiettivi di equità, se adeguatamente congegnato13. Ciò è vero in particolare per l’Italia, dove l’imposta annuale sui beni immobili è sempre stata relativamente bassa (grafico 27). Alcuni aspetti della riforma dell’imposta sui beni immobili potrebbero tuttavia essere ulteriormente migliorati per accrescerne la progressività. Ampliando la base imponibile, mediante l’allineamento dei valori imponibili dei beni immobili ai valori di mercato, sarebbe possibile conseguire miglioramenti sotto il profilo dell’equità, oltre che generare entrate aggiuntive e ridurre le distorsioni. Inoltre il disegno di legge di delega per la revisione complessiva degli obsoleti valori catastali deve ancora essere adottato. Per quanto riguarda le altre misure fiscali, l’introduzione dell’ACE può ridurre la tendenza all’indebitamento per il finanziamento delle imprese (grafico 28). Esso dovrebbe incoraggiare le imprese, comprese le PMI, a espandere la base di capitale per accrescere gli investimenti e a ridurre il ricorso alla leva finanziaria e la dipendenza dai finanziamenti bancari, le cui condizioni sono diventate molto restrittive. Inoltre, il capitale proprio e gli utili non distribuiti sono considerati la fonte più importante di finanziamento per gli investimenti in ricerca e innovazione, perché i beni strumentali immateriali non possono offrire le garanzie richieste dalle banche.

13

Cfr. ad esempio, Johansson, Å, C. Heady, J. Arnold, B. Brys e L. Vartia (2008).

32

Grafico 27: imposizione sui beni immobili nella zona euro (ZE), 2010 2,5

% del PIL

2,0

1,5

1,0

0,5

0,0 FR BE ES IE FI CY PT IT NL SI DE SK EE EL AT MT

ZE

Nota: il grafico non tiene conto dell’aumento dell’imposta annuale sui beni immobili introdotto in Italia nel dicembre 2011. Fonte: servizi della Commissione.

Grafico 28: aliquote marginali effettive per investimenti finanziati mediante debito e nuovo capitale proprio nella zona euro, 2011 % 60 50 40 30 20 10 0 -10 -20 -30 MT EL LU FR PT

IT

BE ES DE NL AT FI

SI SK EE IE

Aliquota marginale effettiva nuovo capitale proprio Aliquota marginale effettiva debito Distorsione a favore del debito

Fonte: servizi della Commissione.

33

Zona euro

3.3.

ESAME

PIÙ DETTAGLIATO DI ALCUNI FATTORI ALL’ORIGINE DEL RALLENTAMENTO

DELLA PRODUTTIVITÀ

3.3.1.

IL CONTESTO IMPRENDITORIALE E LE CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE IMPRESE

Gli elevati costi dell’attività d’impresa e il contesto imprenditoriale sfavorevole riducono ulteriormente la competitività estera dell’Italia. Le imprese che operano in Italia devono sopportare costi elevati dei fattori di produzione in diversi settori. Il costo dell’energia in Italia, in particolare il prezzo dell’energia elettrica, è tra i più elevati dell’UE (grafico 29). I canoni di locazione per una serie di beni e servizi intermedi sono elevati, a causa della mancanza di concorrenza nei settori protetti14. Come spiegato nel riquadro 1, le imprese italiane, in particolare le PMI, devono far fronte a tassi di interesse considerevolmente più elevati sui nuovi prestiti bancari rispetto a imprese analoghe negli altri paesi della zona euro, a causa del costo elevato del finanziamento bancario, e alle restrizioni creditizie. Nel frattempo i mercati dei capitali restano poco sviluppati e di difficile accesso per le piccole imprese, nonostante le recenti iniziative del governo, quale la possibilità concessa alle PMI di emettere i cosiddetti “mini-bond”. Per quanto riguarda il contesto generale in cui operano le imprese, l’inefficienza della pubblica amministrazione, anche nel settore degli appalti pubblici, e del sistema della giustizia civile 15, la pervasività della burocrazia, la regolamentazione restrittiva del mercato del lavoro, l’insufficienza delle infrastrutture e l’inadeguata formazione della manodopera costituiscono i principali ostacoli alla creazione16 e alla crescita delle imprese italiane, che determinano lo scarso dinamismo delle imprese. I dati dell’indagine del World Economic Forum (2012) sui fattori più problematici per fare impresa in Italia (grafico 30) indicano che l’Italia si trova particolarmente in basso nella graduatoria per quanto riguarda i fattori relativi a contesto istituzionale, efficienza del mercato dei prodotti e del mercato del lavoro e, in misura minore, grado di sviluppo del mercato finanziario e innovazione tecnologica.

Cfr, ad esempio, Banca d’Italia (2012a). Secondo gli indicatori Doing Business della Banca mondiale, in Italia per l’esecuzione dei contratti occorrono in media 1 210 giorni rispetto alla media di appena 510 giorni dell’OCSE High Income. 16 L’Italia occupa solo l’84° posizione nella classifica della Banca mondiale Doing business per quanto riguarda l’indicatore sulla facilità di avviare attività d’impresa. 14 15

34

Grafico 29: prezzi dell’energia elettrica fornita ai consumatori industriali nell’UE, 2011 CY DK IT MT DE SK IE BE ES LV HU CZ LT EL UK NL PL SI PT LU RO SE FI EE FR BG 0

5

25

20

15

10

EUR / 100 KWh

Fonte: servizi della Commissione.

Grafico 30: fattori più problematici per fare impresa in Italia 17,1

Aliquote d'imposta

16,3

Burocrazia inefficiente Accesso ai finanziamenti

14,6

Normativa restrittiva in materia di lavoro

10,4

Normativa fiscale

8,8 8,3

Inadeguatezza delle infrastrutture 7,1

Corruzione 4,6

Insufficiente capacità di innovazione Scarsa etica del lavoro nella forza lavoro nazionale

4,2

Instabilità politica

4,2

Criminalità e furti

4,2 0,4

Istruzione inadeguata della forza lavoro Regolamentazione in materia di valuta estera

0

Instabilità di governo/colpi di stato

0

Inflazione

0

Scarsa salute pubblica

0 0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

Nota: agli intervistati è stato chiesto di indicare, dall’elenco di fattori (vedi grafico), i cinque fattori più problematici per fare impresa nel loro paese e di attribuire un ordine di priorità da 1 (il più problematico) a 5. Le barre nella figura indicano le risposte ponderate in funzione dell’ordine di priorità. Fonte: World Economic Forum (2012)

35

La predominanza delle piccole imprese potrebbe essere dovuta all’incapacità delle piccole imprese italiane di entrare nel circolo virtuoso dell’espansione d’impresa e della crescita della produttività. Nel 2011 le imprese italiane occupavano in media 4,0 persone, le imprese tedesche e francesi rispettivamente 11,8 e 5,6. Lo stesso anno le microimprese (ovvero le imprese con meno di 10 occupati) hanno rappresentato quasi il 95% di tutte le imprese italiane, mentre in Germania e in Francia la percentuale corrispondente è stata pari rispettivamente a circa l’83% e il 93%. Tra le PMI italiane, sono soprattutto le microimprese a risentire di un divario significativo di produttività rispetto alle imprese più grandi, ma anche rispetto alle loro omologhe europee: nel 2011 la produttività delle microimprese italiane è stata pari solo al 63% della produttività del settore italiano delle società non finanziarie nel suo insieme, situandosi così ben al di sotto dei risultati della Germania e della Francia, dove le percentuali rispettive sono state il 78% e il 94%. Inoltre nel 2011 il rapporto tra la produttività delle PMI italiane e quella delle PMI tedesche si è attestato al 71%, mentre per le microimprese la produttività relativa è stata addirittura inferiore (58%)17. L’incapacità di crescere di molte piccole imprese italiane impedisce loro di cogliere i benefici della globalizzazione. Un corpus sempre più ampio di ricerca economica, basato su dati raccolti a livello di impresa, indica una forte correlazione positiva tra dimensione dell’impresa, produttività e andamento delle esportazioni: le imprese operanti in attività internazionali, quali le esportazioni, sono di norma più grandi, occupano un numero maggiore di addetti e hanno una maggiore capacità di innovazione. Allo stesso tempo, le grandi imprese sono di norma più produttive, e la probabilità che un’impresa operi in attività internazionali aumenta con l’aumento delle dimensioni dell’impresa. Inoltre, le imprese più grandi tendono ad avere la più grande diffusione geografica e possono perseguire complesse strategie di internazionalizzazione che consentono loro di sfruttare le opportunità offerte dalla globalizzazione, il che a sua volta potrebbe generare ulteriori guadagni di produttività (ad esempio attraverso il trasferimento di conoscenze e tecnologia). Altomonte et. al (2012) dimostra che per internazionalizzarsi, le imprese devono superare una soglia di produttività che consenta loro di assorbire gli elevati costi fissi (e spesso sommersi) dell’internazionalizzazione e conseguire l’efficienza necessaria per far fronte alla concorrenza internazionale. Diverse caratteristiche istituzionali e aziendali ostacolano la crescita delle imprese italiane. La bassa concorrenza sui mercati nazionali dei prodotti e dei servizi protegge le imprese non produttive che altrimenti sarebbero costrette a chiudere, e rallenta la riallocazione delle risorse verso le imprese migliori. Varie norme di legge, ad esempio in materia di mercato del lavoro (si pensi alle norme sul licenziamento) e in materia fiscale (determinate agevolazioni), possono disincentivare l’impresa a crescere, in quanto accordano alle piccole imprese una serie di esenzioni e rappresentano quindi di fatto un’imposta sulle dimensioni. La limitata diffusione della contrattazione salariale decentrata impedisce ancora ai datori di lavoro di fissare i salari in linea con l’andamento locale della produttività, il che potrebbe rappresentare un ulteriore 17

I calcoli sono basati sulla base dati che accompagna la relazione annuale della Commissione europea sulle piccole e medie imprese nell’UE, 2011/12.

36

ostacolo all’allocazione efficiente delle risorse produttive alle imprese più efficienti. Le imprese possono essere incoraggiate a rimanere piccole anche dalla complessità del regime fiscale o addirittura, in alcune regioni, dalla criminalità organizzata. Infine, sia la mancanza di specifiche caratteristiche aziendali favorevoli alla crescita della produttività, quali un’elevata intensità di R&S, incentivi legati ai risultati e il finanziamento mediante capitali propri, che la presenza di caratteristiche aziendali sfavorevoli alla crescita della produttività, quali la proprietà familiare e i relativi effetti sull’avversione al rischio e sull’apertura all’innovazione (non) tecnologica e alle TIC, riducono la capacità delle imprese italiane di operare a livello internazionale18. La mancanza di un contesto favorevole alle imprese è il motivo principale del basso livello di afflussi di IDE in Italia. Tutti i fattori summenzionati che contribuiscono a creare un contesto sfavorevole alle imprese frenano l’arrivo di imprese attive a livello internazionale. A causa della limitata attrattività dell’Italia come luogo per creare impresa, nel 2010 lo stock complessivo degli IDE in entrata in percentuale del PIL è stato pari solo al 16% circa, rispetto al 27% della Germania e al 38% della Francia (grafico 31). Ciò riflette un livello degli investimenti esteri nettamente più basso nelle attività finanziarie e nei servizi professionali e alle imprese. Date le esternalità positive degli IDE in forma di riallocazione delle risorse produttive nazionali verso i settori dei beni e dei servizi scambiabili, di trasferimento di tecnologie e di conoscenze e di esposizione a diverse culture aziendali, all’Italia viene a mancare un’importante fonte potenziale di incremento della produttività. Negli ultimi mesi è stata adottata una serie di misure per promuovere la concorrenza sui mercati dei prodotti e dei servizi e migliorare l’efficienza del contesto imprenditoriale. In primo luogo, sono stati fatti progressi nell’eliminazione degli ostacoli alla concorrenza e nell’apertura di importanti segmenti di mercato nel settore dei servizi, in particolare degli ordini professionali. Altre misure mirano a migliorare la trasparenza e il funzionamento del mercato nelle industrie di rete, quali l’energia e i trasporti, in particolare attraverso la separazione in corso tra l’operatore storico e il gestore dell’infrastruttura nel settore del gas e la prevista attribuzione di poteri alle autorità di regolamentazione già esistenti o di nuova istituzione. In secondo luogo, è stata adottata una serie di misure per la semplificazione amministrativa, per migliorare l’accesso delle PMI ai finanziamenti, per l’ammodernamento della pubblica amministrazione, per promuovere la digitalizzazione dell’economia e per migliorare l’efficienza della giustizia civile. Per quanto riguarda quest’ultima, la revisione messa in atto delle circoscrizioni giudiziarie rappresenta una tappa fondamentale per migliorare l’organizzazione della giustizia. Il provvedimento è stato completato da misure volte ad accelerare i procedimenti giudiziari, a favorire la specializzazione dei giudici, a ridurre le controversie e a modernizzare l’uso dei servizi giudiziari. La riforma del mercato del lavoro adottata nel giugno 2012 potrebbe contribuire a migliorare la crescita della produttività, riducendo allo stesso tempo la segmentazione del mercato del lavoro. La riforma affronta le asimmetrie e la segmentazione del mercato del lavoro, al fine di conciliare sicurezza e flessibilità. Mira a disciplinare meglio la flessibilità all’entrata facendo dell’apprendistato il principale punto d’ingresso a posti di lavoro stabili e 18

Cfr., ad esempio, Altomonte, C., T. Aquilante e G. I. P. Ottaviano (2012).

37

riducendo gli incentivi per le imprese a ricorrere ai contratti a tempo determinato e al lavoro non dipendente. La riforma migliora anche la flessibilità all’uscita mediante la riforma della legislazione a tutela del lavoro. Infine, essa crea un sistema di sussidi di disoccupazione più ampio di tipo assicurativo. La revisione della legislazione a tutela del lavoro può ridurre l’incertezza e i costi dei licenziamenti. Tuttavia, l’interpretazione della nuova legislazione da parte dei giudici del lavoro sarà fondamentale per il successo della riforma, mentre le nuove restrizioni all’uso dei contratti atipici potrebbero incidere negativamente sulla domanda di manodopera. Le riforme adottate potrebbero consentire un notevole aumento della competitività e della crescita potenziale dell’Italia. Tuttavia, la loro piena attuazione rappresenta una sfida, e in alcuni settori saranno necessari sforzi ulteriori. Una descrizione più dettagliata delle misure adottate dalle autorità italiane in risposta alle raccomandazioni formulate dal Consiglio nel luglio 2012, che affronterà molte delle questioni discusse nel presente esame che sono all’origine degli squilibri dell’Italia, sarà predisposta nel contesto del terzo semestre europeo. In generale, è chiaro che le riforme adottate possono accrescere la competitività e il potenziale di crescita dell’Italia. Secondo le stime di Lusinyan et al. (2013), se attuate pienamente le riforme dei mercati dei prodotti potrebbero aumentare il PIL dell’1,0% in due anni, del 4,4% in cinque anni e dell’8,3% nel lungo periodo, mentre la recente riforma del mercato del lavoro potrebbe aumentare il PIL dello 0,6% in due anni, dell’1,1% in 5 anni e dell’1,8% nel lungo periodo. Tuttavia, l’attuazione di alcune misure rimane difficile, a causa di ritardi nell’attuazione concreta o perché le norme di secondo livello non sono state ancora adottate. È il caso, ad esempio, della nuova autorità di regolamentazione incaricata di promuovere la concorrenza nel settore dei trasporti, che non è stata ancora istituita, nonché di alcune misure per la semplificazione, per le quali si attendono ancora le disposizioni attuative. Per alcune disposizioni della riforma del mercato del lavoro, in particolare quelle relative agli incentivi all’assunzione delle donne e dei lavoratori anziani, mancano ancora le norme di attuazione.

38

Grafico 31: stock di IDE in entrata in una selezione di paesi, 2010 40 35 30

% del PIL

25

20 15

10 5 0 DE

FR

IT

Altre attività Attività amministrative e servizi di supporto Attività professionali, scientifiche e tecniche Attività immobiliari Attività finanziarie e assicurative Informazione e comunicazione Trasporto e stoccaggio Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di veicoli a motore e motocicli Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata Manifattura

Fonte: servizi della Commissione.

3.3.2.

LA SPECIALIZZAZIONE DELLE ESPORTAZIONI DEL SETTORE MANIFATTURIERO

L’economia italiana è caratterizzata dall’importanza relativa del suo settore manifatturiero. Il settore ha rappresentato il 16,7% del totale del valore aggiunto lordo dell’economia nel 2011 (rispetto al 22,3% della Germania, l’11,5% della Francia e il 16,6% della zona euro nel suo complesso). Tuttavia, questa quota è diminuita nel tempo (era pari al 21,5% nel 1995), e il calo si è accentuato dall’inizio della crisi finanziaria mondiale: la produzione industriale è scesa di oltre un quinto tra il 2007 e il 2012 e il numero netto delle nuove creazioni di imprese manifatturiere in Italia è stato negativo per tutti gli anni 2000 (grafico 32).

39

Grafico 32: creazione netta di nuove imprese nel settore manifatturiero in Italia 20.000 15.000 10.000 5.000 0 -5.000 -10.000 -15.000 98 99 00 01 02 03 04 Registrazioni di nuove imprese

05

06 07 08 09 10 Liquidazioni di imprese

11

12

Creazione netta di nuove imprese

Nota: escluse le imprese individuali. Fonte: Infocamere (Movimprese).

Una quota significativa del valore aggiunto manifatturiero dell’Italia è generata dai settori tradizionali caratterizzati da bassa intensità tecnologica, con limitate variazioni nel tempo. La quota del valore aggiunto manifatturiero nei settori a basso o medio-basso contenuto tecnologico ammontava al 62% nel 2009, rispetto al 44% della Germania, il 59% della Francia e il 64% della Spagna (grafico 33). Negli ultimi vent’anni la specializzazione settoriale dell’Italia è rimasta sostanzialmente stabile: il settore ad alta tecnologia rappresentava il 6,7% del valore aggiunto lordo totale del settore manifatturiero nel 2011, rispetto al 6,5% nel 1992, un incremento trascurabile in un lasso di tempo di quasi 20 anni.

40

Grafico 33: valore aggiunto reale del settore manifatturiero per intensità tecnologica in una selezione di paesi, 2009 9%

10%

14%

7%

28%

29%

27%

46% 29%

31%

30%

26% 31%

29%

IT

FR

36%

18% DE

ES

Alta tecnologia

Tecnologia medio-alta

Tecnologia medio-bassa

Bassa tecnologia

Nota: al costo dei fattori. Fonte: Eurostat.

Il modello di specializzazione dell’Italia ha esposto l’economia all’accesa concorrenza delle economie emergenti. La specializzazione dell’Italia nei prodotti a basso e medio-basso contenuto tecnologico implica un mix di prodotti per l’esportazione molto simile a quello della Cina e di altri mercati emergenti che possono beneficiare di manodopera a basso costo. Infatti, la similarità tra le esportazioni italiane e quelle cinesi è tra le più elevate tra i paesi dell’UE e la sovrapposizione tra le esportazioni italiane e quelle cinesi aumenta al diminuire dell’intensità tecnologica: nelle esportazioni ad alto contenuto tecnologico la Cina ha costruito una posizione molto più forte dell’Italia (grafico 34). Pertanto, il crescente ruolo della Cina nel commercio mondiale, in particolare dopo l’adesione all’Organizzazione mondiale del commercio alla fine del 2001, ha consentito a tale paese di sottrarre mercato alle esportazioni italiane. Per contro, il vantaggio competitivo della Germania rispetto all’Italia e ad altri paesi meridionali, sia in termini di competitività di costi che di competitività non di costi, anche grazie alla specializzazione del paese nelle esportazioni a medio-alto contenuto di tecnologia, ha determinato una forte domanda di beni tedeschi (soprattutto macchinari e apparecchiature) da parte della Cina e dei paesi produttori di petrolio19. La Germania è stata inoltre maggiormente in grado di sfruttare le opportunità offerte dall’allargamento dell’UE del 2004, tramite consistenti IDE nei nuovi paesi dell’Europa centrale e orientale per sfruttare i vantaggi derivanti dal basso costo della manodopera e dagli elevati rendimenti del capitale.

19

Cfr., ad esempio, Chen, R., G. M. Milesi-Ferretti e T. Tressel (2012).

41

Grafico 34: quota del totale delle esportazioni per intensità tecnologica, Italia e Germania rispetto alla Cina, 2010 % 60 50 40 30 20 10 0 Alta tecnologia

Tecnologia Tecnologia Bassa medio-alta medio-bassa tecnologia

Cina

Italia

Germania

Fonte: banca dati STAN dell’OCSE

Vi sono segnali di una ristrutturazione intrasettoriale, e non tanto intersettoriale, per rispondere in parte alle pressioni concorrenziali esercitate dai paesi a basso costo. La principale strategia adottata dalle imprese manifatturiere italiane per fronteggiare la concorrenza dei mercati emergenti, che è andata crescendo dall’inizio degli anni 2000 e si è accentuata durante l’attuale crisi20, è stata quella di alzare il livello della qualità. Questi spostamenti strutturali, tuttavia, non sembrano sufficienti per recuperare appieno la competitività del paese. L’impatto della crisi mondiale potrebbe aver accelerato l’uscita dal mercato delle imprese meno efficienti nei settori tradizionali, con un conseguente spostamento della produzione verso segmenti con grado di qualità superiore, meno esposti alla concorrenza delle economie a basso costo. Infatti i segnali indicano che i settori a basso o medio-basso contenuto tecnologico sono stati quelli più colpiti dalla crisi (grafico 35). Grafico 35: variazione del valore aggiunto reale del settore manifatturiero italiano per intensità tecnologica

Tasso di crescita annuale (%)

4 3

2 1 0 -1 -2

-3 -4 -5 1993-1998

1999-2007

Bassa tecnologia

Tecnologia medio-bassa

Tecnologia medio-alta

Alta tecnologia

Fonte: ISTAT

20

2008-2011

Cfr, ad esempio, Istituto nazionale di statistica (2013).

42

4.

SFIDE POLITICHE

L’economia italiana continua a registrare squilibri macroeconomici. L’analisi svolta nelle sezioni 2 e 3 indica che gli sviluppi macroeconomici nel settore delle esportazioni e la sottostante perdita di competitività, nonché l’elevato debito pubblico combinati al debole potenziale di crescita costituiscono i principali squilibri che l’Italia si trova ad affrontare. In particolare, l’elevato livello del debito pubblico rappresenta una delle maggiori vulnerabilità per l’economia, e genera preoccupazioni sulle ricadute transfrontaliere, dato il ruolo economico sistemico del paese nella zona euro. È opportuno ricordare che tali sfide sono state individuate nel quadro della procedura per gli squilibri eccessivi con il primo esame approfondito, e che le risposte politiche in materia sono state recepite e integrate nelle raccomandazioni specifiche per l’Italia formulate nel mese di luglio 2012. La valutazione dei progressi realizzati nell’attuazione delle raccomandazioni verrà effettuata nell’ambito della valutazione del programma nazionale di riforma e del programma di stabilità dell’Italia nel quadro del semestre europeo. Per questi motivi, la presente sezione esamina le diverse strade percorribili per affrontare le sfide individuate nel presente esame approfondito. La perdita di competitività esterna evidenzia i problemi di aggiustamento che l’Italia deve affrontare. Il recente miglioramento delle partite correnti non modifica la necessità dell’Italia di rafforzare la crescita della produttività e di ristrutturare l’economia. I segnali microeconomici indicano che il ristagno della crescita della produttività totale dei fattori, che è all’origine dei pessimi risultati dell’Italia in termini di produttività, è fortemente correlato all’incapacità di molte imprese italiane di crescere e operare sui mercati internazionali. All’origine del problema sono gli ostacoli istituzionali e normativi alla crescita delle imprese, le caratteristiche strutturali delle imprese italiane e gli elevati costi dell’attività d’impresa. L’eliminazione di questi ostacoli e la creazione di un contesto più favorevole all’attività d’impresa stimolerebbero la creazione di imprese e promuoverebbero il miglioramento della competitività esterna. Se attuate integralmente, le misure adottate di recente per affrontare le carenze strutturali di lunga data dell’Italia favorirebbero la crescita della produttività, contribuendo in tal modo a ripristinare la competitività. Dalla fine del 2011 l’Italia ha attuato una strategia di risanamento di bilancio e di riforme strutturali con l’obiettivo rispettivo di porre il rapporto debito pubblico/PIL su un percorso discendente e di rafforzare il potenziale di crescita dell’economia. Affrontando le asimmetrie esistenti della legislazione a tutela del lavoro, prevedendo allo stesso tempo una migliore disciplina della flessibilità all’ingresso e avanzando verso una rete di sicurezza sociale più integrata, la riforma del mercato del lavoro del giugno 2012 potrebbe contribuire a ridurre la segmentazione del mercato del lavoro e a migliorare la crescita della produttività. Il recente accordo tra le parti sociali potrebbe contribuire ad un migliore allineamento dei salari e della produttività a livello settoriale e a livello aziendale. Queste sfide sono state evidenziate nella quarta raccomandazione specifica per l’Italia nel quadro del semestre europeo 2012. Inoltre, l’Italia ha adottato misure volte a promuovere la concorrenza sui mercati dei prodotti e dei servizi e a rendere il sistema fiscale più favorevole alla crescita, come indicato rispettivamente nella sesta e nella quinta raccomandazione del 2012. Se 43

da un lato vi sono segnali che alcuni di questi sforzi cominciano a dare i loro frutti in alcuni settori dell’economia, l’impatto di molte misure, in particolare quelle strutturali, si farà sentire solo progressivamente nel medio periodo, se attuate integralmente. La crescita della produttività può essere stimolata anche tramite la creazione di un ambiente che offra alle imprese incentivi a dotarsi delle caratteristiche strutturali idonee a livello di impresa, in particolare per quanto riguarda l’innovazione, le finanze, le risorse umane e le pratiche di gestione. Un buon esempio è costituito dall’introduzione dell’incentivo fiscale al capitale proprio (ACE) nel 2012, che promuove il ricorso a fonti di finanziamento diverse dal debito. Gli investimenti diretti esteri, da attrarre soprattutto migliorando in misura significativa il contesto imprenditoriale italiano, potrebbero essere uno strumento importante per rimuovere gli ostacoli strutturali e culturali all’espansione delle imprese, alla crescita della produttività e in ultima analisi alla competitività esterna. Misure per ridurre la pressione sul lato dei costi potrebbero contribuire a migliorare la competitività esterna dell’economia italiana. In Italia i salari non sono ancora sufficientemente in linea con l’andamento della produttività. In questo settore un ruolo importante hanno ulteriori progressi nel promuovere il passaggio alla contrattazione salariale aziendale. Inoltre, il cuneo fiscale in Italia è tra i più alti dell’UE: l’ulteriore alleggerimento della pressione fiscale sul lavoro potrebbe contribuire a ridurre il cuneo fiscale e il costo del lavoro. La moderazione del costo del lavoro potrebbe perciò essere di aiuto nel breve e medio periodo, pur rimanendo consapevole dei rischi di effetti di retroazione negativi a causa delle pressioni deflazionistiche. Tenuto conto della diminuzione del tasso di risparmio nazionale e della minore disponibilità di finanziamenti privati esteri, necessariamente le prospettive di crescita dipenderanno maggiormente dalla qualità degli investimenti anziché dalla loro quantità. Incoraggiando il finanziamento degli investimenti mediante capitale proprio anziché debito e migliorando l’efficienza allocativa dell’economia italiana potrebbero essere fatti fondamentali passi avanti in tal senso. Il riesame in corso della spesa nel settore pubblico potrebbe contribuire a rafforzare l’efficienza e l’efficacia della spesa pubblica. Infine, promuovere gli IDE in entrata potrebbe essere un altro strumento per accrescere la qualità e la stabilità degli investimenti sul mercato interno. Il ruolo potenziale del settore finanziario italiano nel sostenere l’aggiustamento economico del paese resta limitato per il momento. La crisi ha messo sotto forte pressione le banche italiane, come evidenziano la loro dipendenza dal finanziamento dell’Eurosistema, l’ulteriore deterioramento della qualità degli attivi e il basso livello di redditività. Le condizioni del credito rimangono restrittive e i tassi di interesse sui nuovi prestiti, in particolare a favore delle piccole imprese, continuano a essere elevati nonostante la politica monetaria accomodante. La capacità delle banche italiane di riprendere il ruolo di finanziamento dell’economia reale in Italia e di sostenere l’aggiustamento del paese dipenderà soprattutto dalle condizioni macroeconomiche sottostanti. Le future strategie delle banche dovrebbero comprendere come elementi essenziali: il miglioramento della redditività, al fine di rafforzare e mantenere la base di capitale creando allo stesso tempo adeguate riserve a copertura del deterioramento della qualità degli attivi, la 44

riduzione della dipendenza dal finanziamento temporaneo dell’Eurosistema e l’allocazione del risparmio alle opportunità di investimento più produttive. Un elevato avanzo primario è essenziale per la sostenibilità del debito pubblico, come raccomandato dal Consiglio nel luglio 2012. La Fiscal Sustainability Report (relazione sulla sostenibilità di bilancio) del dicembre 2012 conclude che non sembra che l’Italia dovrà far fronte ad un rischio di tensioni di bilancio a breve termine. I rischi per la sostenibilità sembrano essere di media entità nel medio periodo, e diventeranno bassi a lungo termine, a condizione che venga realizzato pienamente l’ambizioso programma di risanamento di bilancio e che il saldo primario venga mantenuto al livello che si prevede sarà raggiunto quest’anno ben oltre il 2014. Infatti i rischi sarebbero nettamente più elevati nel caso in cui il saldo primario strutturale tornasse ai valori più bassi registrati in passato, come la media del periodo 1998-2012. Pertanto occorre continuare a porre l’accento sull’attuazione risoluta di misure per accrescere la sostenibilità e ridurre il debito pubblico. In Italia occorre preservare la spinta favorevole alle riforme. Assieme all’azione risoluta a livello della zona euro per creare efficaci meccanismi di risoluzione delle crisi, gli sforzi di riforma intrapresi finora dalle autorità italiane hanno permesso di recuperare in parte la fiducia dei mercati. Per consolidare questi benefici e rafforzare la resilienza dell’Italia nei confronti di nuove possibili tensioni sui mercati finanziari, occorre che l’Italia continui a conseguire avanzi primari elevati in modo da porre saldamente il debito pubblico su un percorso discendente. Per sostenere il risanamento di bilancio e realizzare il potenziale di crescita del paese, occorre assicurare che le riforme strutturali generino benefici e che la spinta alle riforme venga sostenuta.

45

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