il tempo della physis - Dipartimento di Matematica e Fisica

March 21, 2018 | Author: Anonymous | Category: Scienza, Fisica, Quantum Physics
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IL TEMPO DELLA PHYSIS enrico antonio giannetto Dipartimento di Fisica 'A. Volta' dell'Università di Pavia, via A. Bassi 6, 27100 Pavia [email protected] 1. Introduzione Si potrebbe ritenere che la "storia della fisica" sia una disciplina, riconosciuta in relazione ad un particolare ambito di ricerca o al suo insegnamento, che ricopra un tassello fra gli altri all'interno di un certo quadro del sapere e la cui conoscenza sia semplicemente addizionabile a quella degli altri. Secondo una consolidata tradizione, in questo quadro potremmo distinguere e separare due classi di scienze: da un lato, le scienze della natura (che comprenderebbero la matematica, la fisica, l'astronomia, la chimica, la biologia, etc.); dall'altro, le cosiddette scienze dello spirito (che comprenderebbero la filosofia, la storia, l'etica, l'estetica, la psicologia, la sociologia, la politica, l'antropologia, etc.). E potremmo così delineare una sorta di topologia del sapere, che evidenzi rapporti di separabilità tra le due classi e tra le discipline tra loro, rapporti di vicinanza o "lontananza" tra universi del discorso esattamente definiti e chiusi l'uno all'altro. Nel momento in cui però cercassimo di inquadrare all'interno di questo panorama del sapere una disciplina come la storia della fisica, se già non avessimo riscontrato la rigidità di tali divisioni, ci troveremmo in gravissime difficoltà; e non soltanto per il fatto che non sapremmo bene dove collocarla (forse in mezzo, in quanto legata da una parte alla fisica e quindi alle scienze della natura e dall'altra parte alla storia e quindi alle scienze dello spirito). Le difficoltà sorgerebbero soprattutto in quanto la storia si contrappone decisamente ad una configurazione puramente topologica del sapere, mettendola completamente in discussione, e coinvolgendo le varie discipline in una serie di processi dinamici, di mutamenti temporali che le intrecciano. E qui si vede già quale circolarità di concetti fondamentali sia implicita, per esempio appunto tra tempo storico e tempo fisico. Se per comprenderne meglio il significato risaliamo alle origini dell'uso delle parole greche physis e istoria da cui derivano le nostre fisica e storia, si può notare che la parola physis indicava, per i pensatori pre-socratici, praticamente e globalmente tutti i fenomeni: anche i fenomeni relativi all'uomo non erano considerati come separati e distinti dai fenomeni naturali e l'uomo non era tematizzato come separato dalla physis . Non esisteva quindi una storia come disciplina separata dalla fisica. Un concetto di storia come scienza separata nasce forse già con Platone, e legato al concetto del vedere e del rappresentare o "istoriare". Platone, con

l'invenzione di un'anima distinta e separata dal corpo, inaugura in effetti quel dualismo che si svilupperà nel dualismo di Descartes tra "res extensa" e "res cogitans", alle radici poi della divisione tra "Naturwissenschaften" e Geistwissenschaften". Risalire storicamente ai significati di alcune parole chiave o agli stadi piu' antichi di formazione di una disciplina non ci fornisce di per sé delle "verità" da accettare come tali, ma ci permette di riflettere sui vari modi, eventualmente alternativi, di interpretare una parola o la natura di una disciplina. In questo caso, possiamo notare che la separazione di una storia dalla fisica riflette in effetti, a livello teoretico, una già avvenuta separazione dell'uomo dalla natura al livello del suo "mondo della vita". Se ci si attiene ad un punto di vista storico, non si può che concludere che la fisica e la storia (come storiografia) sono pratiche umane, attività storiche dell'uomo geograficamente localizzate, strettamente interconnesse con le altre pratiche umane, discorsive e non discorsive, all'interno del nostro storico mondo della vita, eventi correlati agli altri fenomeni e processi naturali in una maniera inseparabile. Ovvero, il punto di vista storico converge inevitabilmente verso la prospettiva pre-socratica sulla physis. Questo accadere della fisica e della storiografia in un modo radicalmente storico, correlato alle pratiche di matematica, di logica, di filosofia o di mitologia, e a fattori estetici, etici, psicologici, sociologici, economici, politici, tecnici, etnologici, antropologici, biologici e in generale naturali, fa sì che non ci sia per tali discipline una fondazione stabile, assoluta e astorica da parte di un soggetto di conoscenza, separato e a sua volta astorico, e che le si debba invece comprendere come pratiche umane all'interno di un mondo. La fisica e la storiografia sono comunque pratiche discorsive (non solo tali, certamente), ovvero mediate da varie forme di linguaggi, dal cosiddetto linguaggio "naturale" e da quello matematico nelle loro varie forme. Come abbiamo già avuto modo implicitamente di notare, è chiaro che noi parliamo, ci esprimiamo con linguaggi che non sono nati con noi, e che hanno una storia tutta loro che "trascende" il nostro uso e i nostri tempi di vita. E lo stesso si può dire dei vari strumenti che noi usiamo per esempio nella fisica quale pratica non semplicemente discorsiva, ma, almeno dall'età moderna, anche sperimentale. Ne segue che la apparentemente semplice storia della fisica implica tutta una molteplicità di storie interconnesse e dai tempi differenti. E la storia delle pratiche linguistiche e "strumentali" che concorrono in maniera fondamentale a caratterizzare la nostra stessa esperienza del mondo ha un rilievo preponderante. Da fisici, per esempio, abbiamo imparato ad usare linguaggi e strumenti da un punto di vista tecnico, ma non ne abbiamo appreso a fondo i vari significati e le varie implicazioni concettuali storicamente stratificati che solo un'indagine storica ci può però restituire: un'indagine storica che si caratterizza subito quindi come una sorta di genealogia e di archeologia. La genealogia non ci consente 2

certamente di risalire fino ad un'origine in senso assoluto, impossibile da rintracciare: si può risalire soltanto a certi mutamenti "epocali", o comunque a piu' origini e nemmeno del tutto precise. Da questo punto di vista, allora, la storia della fisica risulta fondamentale non come attività a sé stante rispetto alla fisica, ma per darci una comprensione effettiva della stessa fisica, per riappropriarci meglio della stessa fisica, e, in generale, vista la portata delle connessioni, per darci una comprensione della nostra forma di vita, del nostro modo di essere nel mondo. Fin dove risalire, allora, per scorgere le origini della fisica? Molti corsi di storia partono da Galilei per caratterizzare la nascita della fisica come disciplina separata dalla filosofia, "scientifica". Ma è realmente possibile comprendere la fisica di Galilei senza confrontarla con la fisica medievale e aristotelica rispetto alle quali si è differenziata? Ed è possibile comprendere la fisica di Aristotele senza confrontarla con la fisica di Platone e con quella pre-socratica, rispetto alle quali si è differenziata costituendosi? Ed è effettivamente possibile comprendere la fisica pre-socratica senza tenere conto del sapere fisico-astronomico di cui è pure piena la mitologia? Il problema dei linguaggi, sopra accennato, ci fa comprendere che in effetti risalire alle origini della fisica implica risalire al costituirsi e al differenziarsi delle stesse pratiche simbolico-culturali a partire dalle "pratiche naturali", alle origini dei segni e dei numeri: alla loro preistoria. E la cultura non è sorta dal nulla, ma a partire da un'evoluzione genetico-biologica. Invero, credo che si debba superare un approccio storiografico astratto e teoretico che cerchi di individuare "oggetti storici" da un punto di vista "esterno". Ritengo che un'effettiva comprensione storica di ogni disciplina, della filosofia come della teologia, della scrittura di testi come della stessa fisica, richieda di considerarle come effettive pratiche umane correlate ad altre pratiche umane, come parte di un'autocomprensione della "vita fattizia" storica, individuale e collettiva dell'umanità nel mondo. Era stato questo anche il tentativo di Heidegger nei suoi primi corsi a Freiburg, in cui aveva delineato i limiti e le “deviazioni”, l’autocomprensione falsata della vita propria di quelle pratiche teoretiche che astraggono dalla vita, paradigmatiche, a partire dal pensiero antico greco, di tutta la filosofia occidentale come della scienza, caratterizzanti la conoscenza come separata dalla vita fattizia e operanti, di converso, un processo di de-vitalizzazione e di de-naturalizzazione della stessa vita. A tali pratiche teoretiche separate dalla vita, Heidegger contrapponeva l’autocomprensione (storica) autentica della vita fattizia storica nel mondo nell’esperienza del cristianesimo originario, che derivava da un'interpretazione dei più antichi testi delle lettere di Paolo (la lettera ai Galati e le due lettere ai Tessalonicesi). Già qualche anno dopo, Heidegger tradirà in effetti tale proposito radicale di comprensione 3

inevitabilmente storica, ontologizzerà il suo pensiero nel tentativo di una fondazione puramente filosofica di una teoria generale, universalmente valida, di una “analitica” dell’esistenza e dell’essere, staccata dall’esperienza storica e dalla vita fattizia: i corsi di Freiburg, pubblicati solo da qualche anno e ancora poco studiati, sono fra l’altro perlopiù interpretati in continuità, come meri antecedenti storici di, Sein und Zeit , senza che se ne comprenda l’irriducibile “rivoluzionarietà” perduta negli sviluppi successivi. Per quanto riguarda la questione del tempo nella fisica non è stata ancora posta nei termini di un’autocomprensione della vita fattizia, storica, nella natura: Heidegger ha delineato alcune caratteristiche generali della scienza moderna, ancora una volta dal punto di vista di una astratta ermeneutica generale, perlopiù senza alcuna prospettiva storica e appunto avulsa dalle trasformazioni onto-teologiche della vita “cristiana” in cui si radica e dalle quali radicalmente invece si discosta nella fisica contemporanea. La questione del tempo nella fisica contemporanea è altresì all’attenzione di alcune prospettive scientifiche ed epistemologiche, ma non è stata mai posta in tutta la sua complessità e radicalità che la riconnetta alla vita fattizia nella natura, come parte della natura. 2. Preistoria dei segni e del numero. Mitologia Il problema dell'origine del linguaggio è molto complesso, e molto varie sono le posizioni tenute dagli studiosi. Una ricostruzione di tale origine è quindi molto "soggettiva". E' noto che gli animali si scambiano segnali "naturali", corporei. E' probabile che il primo linguaggio umano sia altrettanto un linguaggio puramente corporeo e gestuale, e che ci sia stata una prima fase dell'esperienza umana mediata soltanto dal linguaggio del corpo: gesti per comunicare, e una sorta di prima percezione qualitativa del numero, seguita da un uso del corpo per numerare (con le dita) o per misurare (braccia, etc.). Il linguaggio dei gesti è costituito da segni che sono assimilabili a riproduzioni semplificate di azioni e situazioni, piu' difficibili da "rappresentare" direttamente. Tuttavia, il linguaggio dei gesti non aveva sufficiente duttilità per la comunicazione, e le parole potrebbero essere nate in connessione ai gesti imitativi fatti con la bocca. A sua volta, si può ritenere che anche i pittogrammi, oltre ad essere eventualmente legati all'elaborazione delle tracce di prede-animali inseguite ed osservate nella caccia, potrebbero essere sorti in connessione alla "rappresentazione" semplificata di gesti: si è visto, per esempio, come i piu' antichi ideogrammi cinesi siano derivabili da gesti manuali. Il linguaggio con segni "artificiali", ovvero non piu' corporale-naturale e non piu' con meri segnali acustici, ha senz'altro un'origine comunicativa, "comunitaria" all'interno di gruppi della specie umana e non "privata"-individuale, e come presupposto "tecnico" il fatto che la 4

nutrizione non è piu' legata a comportamenti naturali diretti e immediati ma è correlata a delle "tecniche" come la caccia e a degli strumenti-utensili. Cosí, un linguaggio verbale articolato e una piu' o meno contemporanea scrittura pittografica o ideografica, che in un primo tempo era incapace di rendere i segni acustici e viceversa, caratterizzerebbero grosso modo una seconda fase dell'esperienza umana, legata alla mediazione "artificiale" del cosiddetto (oggi) linguaggio "naturale". Tale linguaggio è inizialmente "olofrastico", ovvero descrive una situazione-azione (il linguaggio ha un'origine pragmatica, "performativa" o legata alla realizzazione di azioni, e "indicativo-ostensiva", non meramente "denotativa" di "oggetti") nella sua interezza attraverso un unico segno, ovvero senza parti differenziate del discorso ed equivalente ad una frase completa del successivo linguaggio fonetico-alfabetico. Solo dopo sarebbe seguita una terza fase legata ad un linguaggio verbale con parti differenziate del discorso corrispondente ad una scrittura fonetica alfabetica, e, sebbene non legato ad uno sviluppo globale uniforme, probabilmente corrispondente ad una società piu' complessa dei gruppi primitivi, con una divisione dei compiti "tecnici", di "lavoro" come dominio della natura e delle altre specie viventi. Non si sa esattamente quando l'uomo abbia iniziato a contare o numerare, ma certamente ci sono state piu' origini locali, e ancora oggi ci sono popolazioni "primitive" che non conoscono il linguaggio dei numeri o che si limitano all'uno, al due e a una indeterminata "moltitudine" a cui è assimilato il tre. Ciò corrisponde al fatto che in una percezione-visione diretta e rapida di esseri o processi (seppure già mediata dall'idea del numero) non riusciamo a distinguere piu' di quattro elementi, e un numero ulteriore è indeterminato alla percezione se non si inizia a contare. La tecnica "primitiva" di "numerazione" consistette in un confronto, in una corrispondenza bi-univoca unità per unità fra elementi appartenenti a gruppi diversi, permettendo di avere un'idea del numero senza formulare effettivamente i numeri. E' certo che la pratica linguistica dei numeri, e quindi l'aritmetica, abbia avuto la sua origine in una procedura in cui non era importante distinguere a livello qualitativo gli esseri o i processi, ovvero quando questi sono stati assimilati a degli "oggetti" senza qualità individuali: oggetti-prede di caccia o di pesca, o di allevamento o di coltura, e quindi oggetti-cibo di fagocitazione. La caccia, la pesca, l'allevamento e l'agricoltura sono i presupposti "tecnici" dell'aritmetica, legati al dominio dell'uomo sugli altri viventi uccisi o sfruttati. Ed è anche chiaro che il linguaggio aritmetico dei numeri, seppure legato cosí anche ad esigenze comunicative di gruppi della specie umana e non "privato", si sia potuto sviluppare effettivamente non in quanto parlato ma in quanto scritto, inizialmente in forma pittorico-ideogrammatica (di cui è residuotraccia il linguaggio geometrico, sorto in stretta connessione ad una rappresentazione dell'aritmetica come dimostra la successiva aritmo-geometria pitagorica) e poi in forma fonetica attraverso una primordiale corrispondenza tra cifre e lettere 5

alfabetiche. E certamente in relazione a società complesse che producono cibi, uccidendo e assoggettando individui di altre specie viventi in grandi quantità in relazione ai corrispondenti bisogni nutritivi. Le origini dell'uomo sembrerebbero risalire a due milioni circa di anni fa, ovvero all'era quaternaria del neozoico. E' possibile fare un'archeologia del linguaggio già per quell'era, e un'archeologia del mito già relativa al Pleistocene, intorno a seicentomila anni a. C. Alcuni ritengono che vi furono progressi negli "strumenti" della comunicazione umana già nel tardo paleolitico in corrispondenza al miglioramento degli strumenti-utensili e nell'arte grafica, ma è piu' probabile, come afferma A. Sommerfelt, che "i sistemi linguistici arcaici, usati durante le migliaia di centinaia di anni dell'epoca paleolitica, non abbiano subito mutamenti sostanziali prima della "rivoluzione" neolitica, allorché l'uomo imparò a produrre il cibo con la coltivazione delle piante e con l'addomesticamento degli animali. Come per l'epoca paleolitica, a noi manca una conoscenza diretta delle lingue parlate dai popoli che passarono attraverso la "rivoluzione" neolitica" (tale rivoluzione è situata intorno al nono millennio a. C.).

L'origine del linguaggio articolato risalirebbe al quarto millennio a. C. e tra i Sumeri della Mesopotamia la scrittura fonetico-alfabetica corrispondente venne usata verso la fine di tale millennio, in relazione al sorgere della civiltà urbana verso il 3500 a. C. (e pressocché nello stesso periodo tra gli Egiziani). Almeno dal 3000 a. C. si conservarono campioni di pesi e di misure, e le prime cifre sumeriche risalgono ad un periodo compreso tra il 3300 e il 2850 a. C. A quattrocentomila anni fa risalirebbe invece la "scoperta" della "tecnica" del fuoco (presso i Sinantropi della Cina) anche se il suo uso diffuso effettivo avvenne molto piu' tardi (almeno verso il 2500 a. C., neolitico evoluto). Il fuoco permise all'uomo di dominare definitivamente gli altri animali, di vivere al di fuori delle caverne, di osservare molto di piu' il cielo e di cambiare quindi "forma di vita": il fuoco come "tecnica" a disposizione dell'uomo permise una "rivoluzione" nel mondo animale e il dominio pressocché assoluto dell'uomo. Il mito, che caratterizza l'esperienza umana del mondo almeno fino al seicento a. C. per l'Occidente, è una forma di rappresentazione degli eventi della vita in termini di lotte di "potenze" divinizzate in quanto superiori alla potenza umana: le divinità primitive sono divinità animali e legati alle potenze della natura, e in particolare agli astri che regolano il corso della vita terrestre e umana. L'uomo passò molto presto da un iniziale regime dietetico vegetariano ad uno carnivoro soprattutto per la credenza di poter cosí inglobare e assorbire in sé la potenza "divina" dell'animale mangiato. L'uso del fuoco e per suo mezzo il dominio sugli animali portarono a poco a poco ad una sostituzione graduale delle divinità animali terrestri: il fuoco fu associato al sole, mitizzato e legato 6

appunto a divinità solari celesti predominanti a cui si sacrificarono animali in contraccambio del "dono" del fuoco. Questo determinò una sorta di "rivoluzione copernicana" ante litteram nella mitologia e nell'esperienza umana del mondo. Successivamente, questo si associò anche ad una caratterizzazione maschile delle divinità celesti, in contrapposizione alla caratterizzazione femmile-matriarcale delle divinità terrestri. Il numero divenuto "strumento" e "tecnica" di dominio degli animali e del cibo fu pure associato, come il fuoco, alle divinità celesti e si originò già all'interno della mitologia una protoastronomia o proto-fisica del cielo o della luce, dei movimenti regolari degli astri-dèi basata sul numero, quantitativa e legata ad una "divinazione" astrologica (le costellazioni furono inventate dai Sumeri intorno al 2000 a. C.). Lo sviluppo di una tale astronomia quantitativa, di una fisica del cielo basata sull'"oggettività" del numero fu alla fine determinante per l'abbandono nel mondo greco del "paradigma" del mythos in favore del logos come rapporto-misura (estensione metaforica del numero), ad esso contrapposto come sapere certo, incontrovertibile e "oggettivo", ovvero come espressione del mondo stesso, e non piu' "poietico": il mito fu abbandonato come rappresentazione o copertura "ideologica" - potremmo dire in termini moderni - come descrizione "fantastica" troppo legata ai desideri "soggettivi", umani. Il passaggio dal mythos al logos è pure legato alla transizione da una cultura basata sull'oralità ad un'altra basata sul pre-dominio della scrittura. Georges Ifrah nella sua Storia universale dei numeri fa notare che mentre nei vari miti il dono della scrittura è associato a un dio, non si parla del dono delle cifre o dei numeri; invece, i magi di Babilonia identificavano gli stessi dèi con i numeri in ordine decrescente in corrispondenza ad una gerarchia divina (60 corrispondeva ad Anu, dio del cielo, e richiama la grande base sessagesimale dell'aritmetica sumerobabilonese; 50 ad Enlil, dio della terra; 4O o 20 ad Enki o Ea, dio delle acque; 15 ad Innina-Ishtar dea-Venere; etc.)! Guy Trévoux, nel suo libro Lettere Cifre e Dei scrive che "tanto i miti dell'India prevédica quanto i graffiti preistorici di Cogul, in Spagna, ci dicono che, intorno all'anno 4000 prima della nostra èra, la divinità suprema veniva evocata sotto forma di trinità, o meglio, di una enneade, vale a dire una triade, ognuna delle cui tre componenti era, a sua volta, esprimibile con una trinità...La prima divinità suprema sarebbe stata identificata con la Luna. In effetti essa regola le maree, il mutamento del tempo, il movimento della linfa nei vegetali, provoca il ciclo mestruale delle donne, gli eccessi d'umore negli esseri umani e negli animali, ma, soprattutto, questo corpo celeste è in grado, nelle eclissi, di oscurare il Sole mentre non può avvenire mai il contrario. parve dunque logico ammettere che la Luna determinasse la distribuzione delle fortune e delle disgrazie all'intero universo, in un campo che spaziava dal Cielo agli Inferi. Fu così che la Luna venne considerata "dea" da popoli ai quali pareva assurda la concezione di un "dio" creatore della natura,

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anche proprio per pura legge naturale, mentre appariva loro ovvio che una divinità femminile potesse generare le creature, assumendo in tal modo il ruolo di matrice universale, di Grande Madre. Altri popoli l'identificarono in un dio, in particolare i Germani, anche se è possibile che essi pure, all'origine abbiano attribuito la creazione dell'universo ad una dea. Per simboleggiare il suo dominio sulle energie della natura, sia selvagge sia domate, gli artisti associarono alla figura della Grande Dea quella di due animali: il leone, simbolo delle forze selvagge (meno spesso una tigre o un serpente...) e la vacca dimbolo delle forze domate (meno spesso una capra, una pecora o altri animali domestici)...la Grande Dea ricevette differenti nomi, a seconda dei santuari a lei dedicati. In Grecia essa fu, di volta in volta, Écate, Éra, Demetra Athena, Artemide, Urania, etc. A nomi differenti corrispondevano differenti aspetti del carattere e differenti attributi. L'Artemide di Efeso aveva mammelle di scrofa e l'Hathor egizia una testa di vacca. L'assimilazione alla Dea della scrofa o della vacca, animali estremamente utili in agricoltura, indicava una particolare venerazione per la dea stessa. Si trattava, forse piu' semplicemente, di un'adulazione intesa a mascherare il timore che si aveva di lei in realtà. La si designava perciò "La Buonissima", "La Madre", "La Vergine", "La Purissima", mentre la si sarebbe piu' volentieri qualificata con epiteti contrari, dato che alla dea erano attribiute tutte le disgrazie dell'esistenza umana cosí come le poche cose piacevoli da essa parsimoniosamente elargite. Queste differenti rappresentazioni della dea influenzarono i poeti e i teologi dei tempi antichi. Essi stabilirono un parallelo tra le sue metamorfosi e i mutamenti delle stagioni. Raffigurata come una fanciulla, esprime la primavera; come una madre, l'estate; come una vecchia, l'inverno. essi stabilirono pure un ulteriore parallelo tra la Dea e gli aspetti della Luna. Cosí il primo quarto venne rappresentato dalla Dea fanciulla, gioiosa e benefica; la Luna Piena era la Madre, in tutta la sua gloria ma pure nel suo regale distacco; l'ultimo quarto era la tetra Carabosse, ovvero la madre di tutti i dolori. La spiegazione mitica della Luna Nuova, invisibile all'occhio umano, fu la favola per cui la Luna scendeva agli inferi ogni venti giorni: Demetra alla ricerca di Persefone. Un racconto dello stesso tipo narrerà piu' tardi che gli eroi solari debbono trascorrere agli inferi i tre mesi dell'inverno. Prova ne è che l'anno sacro degli Etruschi contava solamente nove mesi, non facendone parte i tre mesi invernali. Ma ben prima delle epopee degli dèi solari, la Dea-Madre, o Grande Dea, o Dea-Luna, come la si voglia chiamare, convenendole egualmenteognuno di questi nomi, aveva ricevuto differenti rappresentazioni. Si pensò di riunirle in forme triplici, per ricordare l'originaria immagine della Dea tra i suoi due paredri. Si ricorse anche alla raffigurazione dei tre aspetti della Luna, due di senso contrario, primo ed ultimo quarto, racchiudenti il terzo, il disco della luna piena. La Grande Dea divenne in tal modo la Triplice Dea e ognuna delle componenti della sua trinità era ricollegabile ad una parte del mese lunare e ad una stagione dell'anno. In effetti, in certi periodi, in alcune civiltà, vennero considerate soltanto tre stagioni dell'anno: la primavera, l'estate, e l'inverno. L'autunno appare solo con gli ultimi invasori dell'Ellade. E poiché il tempo degli dei obbediva piu' ai poeti che alla meccanica celeste, questi non esitarono a chiamare tanto Ore quanto Stagioni queste tre suddivisioni dell'anno. Prima dell'invasione innovatrice, gli Elladi chiamavano Écate la Dea Suprema e la immaginavano con tre corpi o con tre teste di animale: di leone, di cane, di cavallo. E' chiaro che furono i pensatori, i teologi e i poeti del tempo, piu' che gli artisti, ad essere sedotti da un simile modello. Leone, Cane e Cavallo erano, del resto i nomi di costellazioni la cui

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posizione nel cielo, a certe ore della notte, corrispondeva all'inizio di ogni stagione...Ecco dunque la ragione per cui tutte le religioni, tutte le organizzazioni iniziatiche es esoteriche hanno una particolare predilezione per il numero tre...".

3. Il tempo nel mito In origine, come spiega Marie-Louise von Franz nel suo Psiche e materia , il tempo fu concepito e vissuto come una divinità o una sua manifestazione. La distinzione di passato, presente e futuro, per noi ovvia, non aveva una sua realtà definita. Gli Indiani Hopi non hanno come esprimibile nella loro lingua questa distinzione, e anche i bambini distinguono ritmo, rapidità e frequenza molto prima di sviluppare un "senso" del tempo. Il tempo era per l'uomo primitivo il "segreto divino" del flusso vitale stesso. "Perciò gli antichi Greci equiparavano il tempo al fiume Oceano, che circonda la terra e abbraccia il cosmo come un flusso o come un serpente che si morde la coda, che porta sul suo corpo lo zodiaco. Questo fiume si chiamava anche Chronos (tempo) e fu in seguito equiparato a Crono, padre di Zeus, e al dio Aion. Aion significava anzitutto il succo vitale che pervade ogni essere, dunque il suo tempo vitale e il suo destino. Superava in durata la morte, in forma di serpente. In quanto acqua universale e Oceano, creatore e distruttore dell'essere, possedeva forza generatrice. Ferecide insegnava che la sostanza primordiale del mondo era Chronos (tempo), da cui erano nati fuoco, aria e acqua. Oceano, pertanto, era anche l'anima cosmica. Nell'Ellenismo questo dio Chronos-Aion fu equiparato al dio persiano del tempo, Zurvan. I Persiani distinguevano uno Zurvan akarana (tempo infinito) da uno Zurvan dareghochvadbata (il tempo di lunga durata). Quest'ultimo, che portava distruzione e morte, fu anche equiparato con Ahriman, il principio del male. Nei circoli orfici e mitraici ambedue gli Zurvan venivano visti come dio Aion. Un testo lo invoca con le seguenti parole: "Salute a te, dimora totale dello spirito dell'aria, salute a te, spirito, che penetri dal cielo sulla terra e dalla terra sino ai confini dell'abisso (...) spirito, che penetri in me, mi abbracci e mi attraversi, nel bene, secondo il volere di Dio, salute a te, inizio e fine della natura irremovibile (...) servo del raggio di sole, fulgore del mondo (...) grande, grandissima, illimitata struttura del mondo, spirito celeste, eterico (...) che hai forma d'acqua, terra, fuoco, vento, luce, buio, spirito fulgido umido-igneo-freddo come una stella (...) dio degli dèi (...) dio degli eoni (...) signore del tutto"...Questo dio mitraico assimilava in parte tratti del dio Sole egizio, Ra, che era anche . A ogno ora del dì e della notte egli mutava forma. Cosí, ad esempio, entrava e usciva dagli inferi come coccodrillo. Al momento della sua risurrezione, dopo mezzanotte, prendeva la forma del doppio leone Ruti-. Anche Osiride e ogni essere risuscitato, divenuto dio, dice di sé: ; vive nella 0) o ancora alla non-globale ordinabilità temporale di eventi non connessi in processi di moto (ds2 < 0); dall'altro lato, ad un nuovo concetto di tempo, detto 'tempo proprio' dei processi fisici: è questo il tempo reale, distinto dai tempi fittizi, esterni in quanto legati a differenti sistemi di riferimento non legati ai processi fisici in esame. E' questo l'equivalente fisico del 'tempo vissuto' bergsoniano, ma non unico quindi ma differente da processo a processo. Quanto detto comporta anche l’esistenza di un tempo proprio della luce, differente dal tempo dei processi ‘materiali’, e che è sempre identicamente nullo: è questa la controparte fisica dell’idea cristiana di un ‘tempo dell’eternità’, o meglio di un tempo del nuovo aiòn del regno di Dio ovvero del ‘regno della luce’. 47

Solitamente si dice che solo nella relatività generale si ha una completa dipendenza dello spazio e del tempo dagli eventi, ma, in effetti, questo si ha già a livello di relatività speciale allorché si considerano processi di moto non rettilinei uniformi ovvero accelerati: infatti, in questo caso, non vi è un tempo proprio o 'interno' definibile come unico per l'intero processo di moto. Il tempo proprio, come la distanza spaziale, cambia da evento a evento, non è integrabile su tutto il processo ma è 'storico-ereditario', ovvero dipende da tutta la storia degli eventi. Da evento a evento si devono considerare sistemi di riferimento differenti solo localmente inerziali, i quali appunto sono non-inerziali l'uno rispetto all'altro: conseguenza di tutto ciò è che le grandezze definite da questi sistemi non sono omogenee fra loro (sono legate da relazioni non lineari) e non sono quindi sommabili fra loro. Il tempo proprio, come lo spazio, non è cioè una grandezza estensiva, ma intensiva, e il suo flusso, come notato da Bergson, è quindi una molteplicità eterogenea irriducibile, in dipendenza degli eventi che formano il processo di moto. Cade così la teoria delle grandezze omogenee alla base della fisica classica newtoniana, e con essa la riduzione del tempo a ordinesuccessione di estensioni omogenee (lo spazio delle velocità è anch'esso, in generale curvo, lobachevtskyano, ovvero correlante grandezze non omogenee: anche il moto non è riducibile ad estensione omogenea, ma è flusso-molteplicità qualitativa eterogenea). (Fra l'altro, le radici che compaiono nelle trasformazioni di Lorentz fanno vedere che quelle misure, che danno numeri 'razionali' in un riferimento, danno invece irrazionali in un altro, ovvero non c'è omogeneità di grandezze, ma incommensurabilità (questa ovviamente c'è già, per la diagonale del quadrato, per la geometria in un riferimento). I numeri irrazionali non sono che un nome vuoto con cui si è mascherata l'incommensurabilità tra due grandezze, il cui rapporto non è descrivibile neanche come rapporto di numeri; ovvero, si è mascherata la prima 'divergenza', la necessità di infiniti numeri per esprimere la non-separabilità continua del moto, come cifre per esprimere tali rapporti che denotano l'impossibilità di misure e di commensurazioni. Nelle trasformazioni di Lorentz, la contrazione lungo l'asse del moto è legata ad un confronto di grandezze lungo direzioni diverse e quindi di superfici, perché l'invio di segnali di luce per "comunicare"-misurare i tempi non è lungo perpendicolari all'asse del moto relativo (nel qual caso ci si può ridurre al confronto unidimensionale-retti-lineare), ma in generale, rispetto al riferimento che si muove, il segnale percorre una 'diagonale' rispetto all'asse di moto.). L'eterogeneità dei tempi propri relativistici fa crollare il rapporto tra aiòn, chronos e kairòs come grandezze estensive-durate omogenee inglobabili in un ordine-successione globale. Vi è una molteplicità di chronoi, e l'aiòn universale, al di là dello specifico aiòn della luce, non è unico e non è che un flusso-molteplicità

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eterogenea non separabile di chronoi dei processi, che a loro volta non sono che flussi-molteplicità eterogenee non-separabili dei kairoi degli eventi. Così, contrariamente ad alcune interpretazioni della relatività pure autorevoli come quella di Einstein, a mio avviso la relatività ci conduce ad una nuova idea di realtà, legata al mutamento, al moto e al divenire. Proprio in relazione a queste altre interpretazioni, era nata tutta una serie di polemiche filosofiche che ancora oggi continuano: filosofi come Bergson, Husserl e Heidegger, e anche in ambito marxista Lukàcs, Marcuse, Habermas hanno accusato la scienza, e in particolare la relatività stessa, di dare della natura una visione statica, atemporale e quindi falsa e ideologica, legata essenzialmente agli scopi della tecnica, ovvero allo sfruttamento della natura e dell'uomo da parte dell'uomo stesso. La riduzione dei processi a cose estese nello spazio e nel tempo sarebbe la controparte ideologica della riduzione, della cosiddetta 'reificazione' della vita e di tutto a denaro o merce, come la relatività come controparte del relativismo dei valori proprio delle società capitalistiche. Ritornare allora all'interpretazione di Poincaré, o a quella successiva di Whitehead, che evidenziano l'aspetto processuale-‘vitale’ della natura e la correlata realtà del mutamento e del moto, ci permette di sganciare la relatività e la scienza che ne deriva da ogni possibile funzione ideologica, e al contrario di rappresentare una prospettiva sul mondo propositiva di una nuova forma di vita alternativa alla "reificazione" e all'alienazione dell'uomo dalla natura, come quella del cristiano ‘regno di Dio’ o ‘regno della luce’. 7.3 Heidegger e la relatività Sin dall'apparire della relatività speciale e della relatività generale, nella fisica vi è stato un processo di eliminazione delle forze esterne, in accordo alla dinamica di Leibniz: il Ge-stell delle forze esterne crolla. Spazio e tempo non sono piu' i dominii di determinazioni tecnico-matematiche della natura da parte di forze esterne come le azioni umane; non sono piu' dominii esterni ai corpi fisici considerati come contenuti in essi, né parametri commutabili vuoti ed omogenei, ma relazioni naturali (nonviolente) tra processi fisici. Spazio e tempo, come già detto, quali ordini locali sono relativi ai sistemi di riferimento e molteplici, invarianti sono gli eventi e alcune loro relazioni che esprimono il tempo 'proprio' dei processi e una misura del mutamento intercorso da un evento all'altro e del tipo di moto. L'influenza delle teorie della relatività su Heidegger è stata, a mio avviso, di grande rilievo. Invero, in Sein und Zeit, al di là delle sue critiche della relatività, precedenti e posteriori, sviluppa una nuova concezione dell'essere e del tempo, che può essere considerata come una profonda interpretazione filosofica della relatività, oltreché ovviamente un tentativo di ripensare il tempo cristiano, come già detto, 49

dandone un’interpretazione soggettivistica (Heidegger supererà la sua concezione soggettivistica e antropocentrica del tempo solo in Zeit und Sein ma non ricollegando la nuova visione al cristianesimo). Heidegger critica la concezione meta-fisica dominante (dai Greci fino almeno alla filosofia del diciannovesimo secolo, con esclusione di Leibniz) dell'essere come 'ousia', 'parousia', ovvero il concetto dell'essere come presenza sostanziale, permanente e 'disponibile' ai nostri usi. Per l’Heidegger ormai laicizzato, la ‘parousia’ non ha più alcun riferimento al concetto cristiano ma solo all’ontologia filosofica greca. Heidegger mostra che questa concezione dell'essere è correlata ad una concezione 'volgare' del tempo come un'entità separata, ed esterna ai corpi-oggetti considerati permanenti. Infatti, l'essere può essere concepito come presenza solo nella misura in cui oggetti sono presenti nello spazio e corrispondentemente 'contrassegnano' il tempo presente della loro simultaneità, ovvero della loro simultanea presenza. Come in Cartesio l'essere ha la sua determinazione primaria come estensione spaziale e non ha alcuna relazione con il tempo ma una corrispondenza estrinseca ad una serie esterna di molti 'tempi presenti' come 'puntiora' (als Jetzt, Jetzt-Punkten). Invero, questa concezione dell'essere crolla nella relatività nella misura in cui crollano i concetti di oggetto, spazio e tempo come entità separate. E’ chiaro che alla base della sua critica dell’ontologia filosofica dell’essere come presenza vi sia la concezione escatologica del cristianesimo primitivo, ma la chiave usata da Heidegger per superare e distruggere tali concetti filosofici non è stata più esplicitamente il richiamo storico all’escatologia cristiana primitiva, ma è stata la critica, alla base della relatività, del concetto di simultaneità come concetto senza significato o esprimente solo una convenzione; e tale chiave è stata usata esplicitamente da Heidegger nei paragrafi 21 e 30 del libro Logik. Die Frage nach der Wahreit. Non c'è alcuna possibile presenza simultanea di differenti oggetti in un tempo presente, perché la simultaneità può essere definita solo per un punto dello spazio: lo spazio implica il tempo e non c'è alcuno spazio di simultaneità ad un istante, ma solo un punto. Così, non c'è alcun oggetto (spazialmente esteso e permanente nel tempo), ma solo una serie di eventi spazio-temporali. Il tempo non è un parametro-entità esterno, una serie astratta di punti-ora di tempi presenti, ma è interno all'essere come evento (Ereignis). Da questo punto di vista, il mondo non è un mondo di oggetti, ma di eventi come 'atomi di moto o mutamento', e l'essere umano (Dasein) è un particolare evento-processo e non un particolare tipo di oggetto-entità, e inoltre il tempo è così relativo agli eventi. Nel paragrafo 70 di Sein und Zeit, forse, possiamo effettivamente notare un altro punto specifico d'influenza della relatività, laddove Heidegger propone una temporalizzazione dello spazio (in effetti, poi abbandonata in Zeit und Sein per 50

evidenziare la priorità degli eventi sullo spazio e sul tempo, e ripresa invece da Derrida), una concezione che anche Whitehead ha esplorato. La concezione 'volgare' del tempo, di cui Heidegger parla, invero, corrisponde al tempo che ha la sua caratterizzazione maggiore nella fisica newtoniana classica: la fisica newtoniana, da un lato, come la fisica di Cartesio, riduce l'essere ad estensione spaziale, e, dall'altro, come la fisica di Aristotele, introduce il concetto di essere come 'dynamis', cioè come potenza presente o 'disponibilità' all'uso. Nella fisica di Newton ogni corpo è un'entità-oggetto presente, 'disponibile' in quanto sottomesso all'azione simultanea di un altro tipo di entità presenti, le forze come potenze esterne. Tuttavia, con il crollo del concetto di simultaneità c'è anche il crollo del concetto di forza e dell'essere come 'diponibilità' all'uso e come potenza: non ci può essere alcuna azione simultanea di una forza, operata da un oggetto su un altro oggetto, e le forze devono essere sostituite da una serie di eventi. Anche il moto deve essere ripensato: non lo si può più concepire come cambiamento spaziale nel tempo, ma deve essere compreso come una serie di eventi-mutamenti. Gli eventi non possono essere più ordinati globalmente e assolutamente secondo una determinazione temporale in un presente, un passato e un futuro, ma vi è una molteplicità di tempi relativi ai particolari eventi: così il passato non può più essere concepito come la potenza precedente del presente attuale, e il presente non può più essere concepito come la 'potenza' del futuro, in quanto il passato e il futuro non possono essere più concepiti come elementi differenti della serie astratta di puntiora di tempi presenti. Relativisticamente, le misure di spazio e tempo come parametro esterno non sono piu' invarianti e quindi reali; solo gli eventi con alcune loro relazioni sono invarianti e reali: questo può essere considerato come la controparte del rigetto, da parte di Heidegger, del tempo come determinato dalla scienza. Il tempo originario (Eigenzeit) di Heidegger non richiama più ora, anche se implicitamente lo è, il tempo originario-proprio dell’esperienza escatologica cristiana, ma è il tempo 'proprio' degli eventi, dei processi relativistici. Da questo punto di vista, la concezione di Heidegger dell'essere e del tempo può essere vista come radicata in un pensiero relativistico, anche se poi è stata elaborata indipendentemente e liberamente rispetto ai presupposti metodologici ed epistemologici delle teorie della relatività, e certamente inglobata in un contesto di pensiero più profondo e più ampio. E viceversa la relatività può essere compresa nelle sue implicazioni profonde per mezzo di Heidegger e di Sein und Zeit come una sorta di ermeneutica fisica. Inoltre, si può brevemente considerare il pensiero di Heidegger come presentato in Zeit und Sein dove Heidegger recupera la dimensione non soggettivistica del tempo come Temporalität dell’essere rispetto alla Zeitlichkeit dell’esserci umano. Qui, la terminologia relativistica dell'evento (das Ereignis), dello spazio-tempo o del 51

tempo-spazio (Zeit-Raum), è usata esplicitamente, anche se con una variazione di significato, e i correlati concetti fisici gli forniscono le basi della sua prospettiva. Data la relatività delle misure di spazio e di tempo come parametri esterni, Heidegger cerca di concepirli al di là di questa dimensione numerica, guardando alla realtà 'assoluta' dalla quale derivano le loro particolari e relative determinazioni. Questo non corrisponde al semplice 'spostamento' d'attenzione operato da alcuni neo-kantiani (neo-newtoniani) per considerare lo spazio assoluto e independentemente il tempo assoluto al di là delle misure relative: Heidegger si muove in uno sfondo concettuale relativistico. Così, questa dimensione "indeterminata" dello spazio-tempo è individuata da Heidegger in die Lichtung des Offenes (la radura dell'aperto), in das Offene des Zeit-Raumes (l'aperto dello spaziotempo), dove, oltre al rimando implicito ed esplicito alla luce, la reale natura del tempo è scoperta quale quadridimensionale. Il tempo è invero quadrimensionale perché è il tempo interno agli eventi, non il parametro esterno 'volgare': la temporalizzazione dello spazio e anche l'appartenere dello spazio-tempo agli eventi spiegano come il presente, il passato e il futuro siano tre dimensioni del reale tempo 'originario' che ha una costituzione quadridimensionale. Heidegger passa così dallo spazio-tempo alla sua origine pre-geometrica e cerca di descrivere questa dimensione pre-geometrica senza un'ontologia meta-fisica. Egli invero può fare questo passo riferendosi all'assoluta realtà degli eventi al di là della loro ‘soggettivistica’ coordinatizzazione spazio-temporale in relatività, e l'idea del “das Ereignis " riflette appunto la realtà fisica degli eventi relativistici, superando in qualche modo la concezione meta-fisica degli enti e dell'essere. Non si possono più concepire gli eventi a partire dall'essere e dal tempo, ma l'essere e il tempo devono essere compresi a partire dagli eventi. Invero, il 'tempo originario' o 'autentico' non è nient'altro che il processo degli eventi, che è irriducibile ad una qualsiasi meta-fisica della presenza. E’ quindi la relatività che permette ad Heidegger di riottenere per via puramente teoretica quanto faceva parte dell’esperienza autentica del tempo cristiano, ma in definitiva ciò permette di vedere, al di là del velo laico-filosofico della sua presentazione, come la contemporanea fisica relativistica comporti la riappropriazione dell’autentica, storico-escatologica, esperienza del tempo nella vita fattizia del cristianesimo originario. 7.4 Heidegger e i processi irreversibili di Prigogine Secondo Heidegger, la concezione 'volgare' del tempo si riconosce dal fatto che questo è pensato a partire dal presente: anche il passato e il futuro sono pensati attraverso il presente; il primo come un presente che non è più, il secondo come un

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presente (punto-ora) che non è ancora. Questa concezione comporta un effettivo appiattimento dell'essere e del tempo sulla presenza come 'dato' del presente. Certo, il pensare il tempo a partire dal passato avrebbe diffetti ancora maggiori: il passato inteso come ciò che è stato, come ciò che è dato una volta per tutte, ciò che è del tutto determinato, comporta delle difficoltà nel pensare il mutamento e gli eventi. Ridurre il presente ad un passato nel suo momento di divenire tale, e il futuro ad un qualcosa che sarà passato è pensare l'essere come un atto dato, o meglio come realizzazione di una potenza data come passato. Pensare il futuro come realizzazione di una potenza data come passato o come presente significa ridurre, come notato anche da Bergson in Le possible et le réel, la possibilità come concetto-limite puramente negativo quale senso dell'indeterminazione del futuro, attraverso una sua proiezione a posteriori sul passato o sul presente, ad una potenza positivamente data, atta alla determinazione di ogni essere e tempo. Salvare la 'possibilità' del mutamento nella sua indeterminazione, dell'essere come evento, ovvero come indeterminazione onto-logica rispetto alla presenza o alla non-presenza, come darsi che si 'esaurisce' nel suo darsi senza mai diventare data presenza o non-presenza, implica allora il pensare il tempo e l'essere come futuro. Ovvero come evenire indeterminato nel suo darsi, che non sia mai riducibile a presente o passato dato, a potenza o atto dati. Pensare l'essere al di là dell'ontologia della potenza e dell'atto, come evento nella sua processualità, nel suo mutamento o moto, come puro divenire al di là di uno stato iniziale di potenza e di uno stato finale d'atto, al di là di un nichilistico passaggio dall'essere al non essere o viceversa. Ma il pensare l’essere come futuro per Heidegger non è altro che il retaggio ormai nascosto dell’escatologia cristiana primitiva, protesa verso la Parousia ed il regno di Dio annunciato da Gesù. In effetti, questa modalità dell'essere come futuro è anche alla base di quella 'irreversibilità' del tempo che si ritrova anche in parte della concezione fisicotermodinamica (o propria della meccanica 'ereditaria') in opposizione alla completa omogeneizzazione statica del tempo alla base della meccanica newtoniana (a prescindere dagli sviluppi della fisica del caos). Il modo scientifico di rappresentare tale irreversibilità è stato inficiato, come già evidenziato da Nietzsche, da influenze nichilistiche nascoste, come legata appunto a qualcosa che scorre dal futuro, senza fine, nel presente dell'ora e poi nel passato irrecuperabile; ovvero, come notato da Heidegger, tale irreversibilità è presentata come fondata su un tempo già invertito, su una celata inversione del tempo. Ma il suo corso è proprio l'inverso: il passato è un futuro che è stato, il presente è un futuro che è, e il futuro è il futuro che sarà, e il corso degli eventi è dal futuro-passato al futuro-futuro; è una 'tensione' verso nuove indeterminazioni, non un decadere dall'indeterminato al determinato-dato in un 53

degrado dell'essere fino alla privazione delle sue 'potenzialità' nello scontato dato del passato. Heidegger evidenzia come la considerazione della storia che si forma a partire dal presente vede in essa solo delle attività irrecuperabili, e non perviene al passato in quello che effettivamente ha rappresentato, ma solo ad un passato come forma degradata del presente come dato. Al contrario, la base di una corretta ermeneutica della storia per Heidegger (nonostante tali connotazioni del tempo e della storia siano inizialmente legate ad un'analisi della struttura dell'esserci dell'uomo, queste sono svincolabili da tale contesto, - tenendo anche conto dello sviluppo delle sue posizioni -, e correlabili direttamente alla concezione dell'essere) sta nel rendersi conto che il passato nel suo darsi all'esperienza non è stato altro che un futuro, e quindi non è il 'non-più', come il presente non è l' 'è' e il futuro il 'non-ancora', ma un futuro che si dà. Tale irreversibilità come degradazione della presenza in una forma parzialmente irrecuperabile è stata effettivamente tematizzata dalla termodinamica ottocentesca dell'equilibrio e della morte termica, a ragione criticata da Nietzsche: la degradazione entropica dell'energia è la degradazione della presenza come dato manipolabile per il lavoro umano, come fondo di risorse per l'uomo ('Bestand'). La termodinanica dei processi irreversibili lontani dall'equilibrio, delle strutture dissipative con organizzazione crescente, sviluppata da Ilya Prigogine ha rivoluzionato completamente questo punto di vista. Prigogine, sulla base di tali analisi, fortemente influenzato da Bergson, ha sviluppato una visione termodinamica della fisica in opposizione al meccanicismo ancora oggi in gran parte imperante nella comunità dei fisici. La sua critica della fisica meccanicistica è una critica della fisica come fisica dell'essere, contrapposta ad una fisica termodinamica come fisica del mutamento, del tempo e del divenire. Più recentemente, Prigogine ha riottenuto i risultati stabiliti attraverso una termodinamicizzazione della meccanica, a partire da una dinamica espressione della nuova fisica del caos. Anche se, come ho cercato di mostrare, nella meccanica ereditaria prima e nella relatività poi nonostante le interpretazioni riduttive, queste basi criticate da Prigogine siano state superate, la sua critica dell'atteggiamento meccanicista è del tutto corretta, e la sua critica concide con quella filosofica di Heidegger dei presupposti newtoniani dell'essere come presenza e del tempo 'volgare'; come pure la sua proposizione di una fisica del divenire coincide con l'idea heideggeriana dell'essere come evento-processo e del tempo 'autentico'. Nelle formazioni morfologiche di strutture organizzate c'è una crescita entropica dell'indeterminazione delle parti di un sistema di processi, in quanto non individuabili come tali e quindi irriducibili ad energia-presenza, che permette l'emergere termodinamico del 'nuovo' e del più complesso. L'irreversibilità effettiva non è quindi quella della morte termica, ma, per Prigogine come per Bergson, è 'entropia creatrice' ovvero 'evoluzione creatrice': la funzione morfogenetica del tempo 54

evidenziata da Petitot in tali processi è legata alla concezione del tempo come futuro di Heidegger. La degradazione della presenza è reale, ma non è degradazione dell'essere e del tempo, ma degrado del fondo di risorse per la volontà di potenza umana, 'morte termica' delle possibilità di dominio tecnico della natura. Anche in questo confronto fra Heidegger e la termodinamica dei processi irreversibili è un ricostituirsi di una connessione profonda fra l’esperienza escatologica del tempo cristiano e gli esiti della fisica contemporanea, che si evidenzia al di là delle maschere di superficie e che dà un significato effettivo e non meramente arbitrario alla metafora di Prigogine della ‘nuova alleanza’. 7.5 La ‘meccanica quantistica di Heisenberg, Born e Jordan Vorrei qui brevemente risalire, solo sotto alcuni aspetti concettuali, agli articoli di Heisenberg, Born e Jordan in cui si è presentata la prima forma di "meccanica quantistica" che sola ci può dare una comprensione autentica della rivoluzione in essa implicita: Über quantentheoretische Umdeutung kinematischer und mechanischer Beziehungen di Heisenberg, Zur Quantenmechanik I di Born e Jordan, e Zur Quantenmechanik II , scritto da Heisenberg con Born e Jordan. In questi tre lavori apparsi tra il 1925 e il 1926 è formulata una nuova dinamica, appunto"rivoluzionaria" rispetto alla meccanica classica e alla stessa dinamica relativistica elaborata solo una ventina d'anni prima (Si deve ricordare che una nuova dinamica dei quanti era stata proposta da Henri Poincaré già negli anni 1911-1912). Dal punto di vista storico, necessario per una effettiva comprensione dei problemi coinvolti, bisogna fare attenzione al fenomeno di meaning variance sottolineato dall'epistemologia contemporanea: vi è un reale cambiamento di significato dei termini del linguaggio scientifico nel passaggio da una teoria fisica ad un'altra. Ma non è tutto: in questo caso, storicamente vi è stato un cambiamento di significato anche nella stessa locuzione che dà nome alla stessa teoria indicata. E non solo perché da un punto di vista storico ed epistemologico profondo la "meccanica quantistica", comunque la si consideri, è un nome inadeguato per la teoria fisica che indica: la dinamica quantistica non può essere sussunta, non è inquadrabile all'interno di una "meccanica" nel senso che questa parola storicamente ha e ha avuto in stretta connessione con la cosiddetta concezione meccanicistica della natura. Che l'atomismo meccanicistico, dopo secoli di paradigmatico dominio all'interno della scienza moderna, sia morto definitivamente con la "meccanica quantistica" risulta evidente da molti punti di vista: basti fare riferimento al fatto che in essa è impossibile definire quello che classicamente è lo "stato meccanico di moto", per cui è necessaria la definizione simultanea della posizione e della quantità di moto di un sistema fisico (impossibile per le relazioni di indeterminazione di Heisenberg del 1927) . 55

Si tratta invece di un problema apparentemente più banale, ma ancora più di fondo. La Quantenmechanik formulata in questi articoli non è la stessa teoria che oggi tutti i manuali chiamano meccanica quantistica, e questo non per i "naturali" sviluppi-arricchimenti storici che una teoria può avere nel tempo (la meccanica delle matrici è considerata come un caso particolare, corrispondente alla cosiddetta "rappresentazione di Heisenberg", di una teoria più generale ). La meccanica quantistica,

come disciplina con una sua caratterizzazione istituzionale all'interno delle università, come oggi viene insegnata e presentata nei testi di riferimento, è il frutto di complessi processi storici, conosciuti nella "lettera" ma ancora non del tutto chiariti nello "spirito", e dei quali qui potremo dare solo un cenno. E' questo il motivo per cui qualunque riflessione filosofica sulla meccanica quantistica non può prescindere dal chiarimento dei complessi processi storici in questione. E' noto che la Quantenmechanik di Heisenberg, Born e Jordan è la cosiddetta meccanica delle matrici. Negli stessi anni un'altra nuova meccanica fu formulata da Schrödinger: la meccanica ondulatoria. Un'altra meccanica elaborata negli stessi anni, quella di Dirac, è molto più "simile" a quella di Heisenberg, Born e Jordan, ma non "identica". Schrödinger nel 1926 diede una "dimostrazione" dell'equivalenza tra la meccanica delle matrici e la meccanica ondulatoria. I fisici, da allora in poi, hanno fatto riferimento a tale presunta dimostrazione e pragmaticamente hanno usato come strumento di calcolo uno "sviluppo" della "più comoda" meccanica ondulatoria di Schrödinger. Gli storici hanno evidenziato come la dimostrazione tentata da Schrödinger fosse quanto meno incompleta. Si è anche creduto che tale dimostrazione fosse stata completata da Pauli, in una lettera a Jordan scoperta da Van der Waerden nel 1972, e indipendentemente da Eckart. Il dibattito sull'equivalenza della meccanica delle matrici e della meccanica ondulatoria ha prodotto interessanti analisi epistemologiche sul problema dell'equivalenza fra teorie fisiche, sugli eventuali criteri di scelta fra esse o sul generale problema della cosiddetta "sotto-determinazione" o "indeterminazione" delle teorie, ovvero sulla molteplicità di teorie compatibili con gli esperimenti. Recentemente, seguendo un punto di vista comunque già espresso varie volte nella storia di questo problema, F. A. Muller ha messo in luce come quello dell'equivalenza tra meccanica delle matrici e meccanica ondulatoria non sia nulla di più che un mito, almeno da una prospettiva storica: secondo Muller, oggi si ha invece l'equivalenza delle due teorie nella loro riformulazione nel linguaggio contemporaneo della meccanica quantistica (Hanson rileva come la meccanica ondulatoria fosse una teoria fisica che comportava, nell’interpretazione di Schrödinger, conseguenze sperimentali differenti dalla meccanica delle matrici, “verificabili-falsificabili” a livello sperimentale: secondo Hanson, l’interpretazione di Schrödinger è stata giudicata quale “meta-fisica” (non in senso popperiano) solo dopo la sua 56

“falsificazione” sperimentale; la meccanica ondulatoria nell’interpretazione statistica poi fornita da Born va considerata come una teoria fisica differente da quella di Schrödinger, e, al contrario, “verificata” sperimentalmente.). Muller, riprendendo temi in parte già discussi da altri autori, fa notare che: i) mentre la meccanica delle matrici poteva descrivere l’evoluzione temporale dei sistemi fisici per mezzo dell’equazione di Born-Jordan, la meccanica ondulatoria non poteva, al tempo della dimostrazione dell’equivalenza, in quanto l’equazione di Schrödinger dipendente dal tempo fu formulata dallo stesso tre mesi dopo la sua dimostrazione (l’esistenza di stati stazionari, al contrario, non era contemplata nella meccanica delle matrici); ii) non ci poteva essere equivalenza senza l’interpretazione probabilistica di Born per la funzione d’onda di Schrödinger; iii) la meccanica delle matrici si limitava, in maniera non necessaria, altresì ai fenomeni periodici; iv) nella meccanica delle matrici non vi è uno spazio degli stati definito come quello delle funzioni d’onda: le matrici (infinite) avevano un’esistenza autonoma (un significato fisico indipendente da uno spazio degli stati) e non quali specificazioni parziali di operatori lineari agenti sullo spazio di Hilbert di funzioni complesse, come nell’odierna caratterizzazione d’osservabili di stato della meccanica quantistica; v) nella meccanica delle matrici non vi è uno spazio euclideo né vi è densità di materia carica "diffusa", né vi sono auto-oscillazioni, come invece in quella ondulatoria: misure di densità di carica per gli elettroni, distribuità con continuità secondo l'interpretazione del quadrato della funzione d'onda da parte di Schrödinger, avrebbero potuto costituire un experimentum crucis (contrario alla meccanica ondulatoria); vi) nella meccanica delle matrici vi è la prima teoria di "campo elettromagnetico quantizzato" per mezzo di campi a valori matriciali, mentre nella meccanica ondulatoria si assumevano valide le equazioni di Maxwell classiche. E' chiaro allora che fornire almeno un abbozzo di risposta alla questione dell'equivalenza fra meccanica delle matrici e meccanica ondulatoria comporta un'analisi approfondita di che cosa è una teoria fisica e di quando questa si possa dire identica, equivalente o non equivalente ad un'altra teoria. E da quest'analisi dipenderà anche la comprensione di che cosa è la meccanica quantistica e di quali conseguenze filosofiche comporti. Una tale analisi approfondita non è proponibile nei limiti di questa introduzione; tuttavia si possono dare alcune indicazioni. Tali teorie fisiche sono formulate in un particolare linguaggio matematico e hanno poi una loro dimensione semantico-pragmatica legata alla loro interpretazione e alla pratica sperimentale. Seppure con la meccanica delle matrici e con la meccanica ondulatoria si poteva descrivere un certo numero comune di esperimenti, non tutti, resta il problema dei loro differenti linguaggi matematici: quello algebrico delle matrici e quello analitico delle equazioni differenziali di Schrödinger. In particolare, il linguaggio algebrico 57

della teoria di Heisenberg, Born e Jordan si limita a grandezze fisiche discrete in relazione ad un criterio di osservabilità e di misura effettiva che permette di individuare solo un numero finito di cifre. L'estensione al caso continuo di tale linguaggio algebrico della meccanica delle matrici è stato fatto dagli stessi Heisenberg, Born e Jordan, solo dopo ed in relazione all'equivalenza da raggiungere con la meccanica ondulatoria. Si può quindi notare che non si tratta semplicemente di una "banale" differenza di linguaggi matematici, in quanto tale differenza implica una differente considerazione della pratica sperimentale che stabilisce ciò che è teoreticamente osservabile, quali sono le grandezze fisiche, e che cosa ha "significato" e "realtà" fisica. Basta questo solo esempio per evidenziare che: a) le due meccaniche sono differenti per i differenti linguaggi matematici, e che tali linguaggi effettivamente usati non sono matematicamente equivalenti; b) le due meccaniche sono differenti dal punto di vista sperimentale (la meccanica delle matrici, per esempio, non era in grado di descrivere ipotetiche grandezze fisiche continue); c) conseguentemente le due meccaniche sono differenti dal punto di vista fisico, implicando differenti grandezze fisiche; d) le due meccaniche sono differenti dal punto di vista epistemologico: vi è un differente rapporto tra teoria ed esperimenti, vi sono una differente concezione della conoscenza fisica, di teoria fisica e una differente concezione della "realtà" fisica e della natura (la meccanica ondulatoria si basa ancora sul presupposto meta-fisico che natura non facit saltus ). La meccanica ondulatoria nell'interpretazione di Schrödinger era sorta per ripristinare l'intuibilità o la “visualizzabilità” teorica di una realtà fisica continua, descrivibile in termini spazio-temporali, secondo il principio di causalità, di reversibilità temporale, e del determinismo meccanicistico classico seppure in termini di particelle-"atomi" da considerare quali onde materiali (solo dopo Born mostrerà l'impossibilità di dare un'interpretazione "materialistica" delle onde e introducendo l'interpretazione probabilistica, mai accettata fino in fondo da Schrödinger). Scrive infatti Schrödinger: “...l’allontanamento dalla meccanica classica nelle due teorie appare svilupparsi proprio in direzioni diametralmente opposte. Da Heisenberg, le variabili continue classiche sono sostituite con sistemi di grandezze numeriche discrete (matrici), che, dipendendo da una coppia di indici interi, vengono determinate con equazioni algebriche . Gli autori stessi qualificano la teoria come ‘vera teoria del discontinuo’. La meccanica ondulatoria invece segna, giusto all’opposto, uno scostamento dalla meccanica classica nel senso della teoria del continuo . Invero, al posto del fenomeno descrivibile con un numero finito di variabili dipendenti, per mezzo di un numero finito di equazioni differenziali alle derivate totali, compare un fenomeno continuo di campo nello spazio delle configurazioni, che è governato da una singola equazione differenziale alle derivate parziali , deducibile da un principio

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d’azione. Questo principio d’azione, oppure questa equazione differenziale, rimpiazza le le equazioni del moto e le condizioni quantistiche della ‘teoria dei quanti classica’.”.

(La Donini evidenzia la posizione di Hilbert - che aveva indicato di ricercare l'equazione differenziale che presentava le matrici come "sottoprodotto" degli autovalori del problema di condizioni al contorno - che non fu ascoltata da Heisenberg, Born e Jordan. Tagliaferri sottolinea l’atteggiamento contrario nei confronti della meccanica ondulatoria, oltre che di Heisenberg, dello stesso Born e di Jordan). In effetti, al di là delle varie valutazioni che ne sono state date, Born ha operato una reinterpretazione del formalismo di Schrödinger che ne decostruiva, alla maniera di Wittgenstein per il linguaggio naturale, le ipostatizzazioni ontologiche e meta-fisiche implicite al livello semantico “usuale” (della interpretazione di Schrödinger), dando alla meccanica ondulatoria, compatibilmente con la sua struttura, quasi lo stesso “contenuto” fisico, lo stesso significato fisico della meccanica delle matrici). Per quanto riguarda la problematica contemporanea è sufficiente porsi il seguente quesito: una volta effettuata l'estensione del linguaggio delle matrici al caso del continuo, è effettivamente possibile "tradurre senza residui" un linguaggio matematico in un altro? L'equivalenza "contemporanea" tra le due meccaniche considerata da Muller si basa su questo presupposto. Ogni linguaggio matematico, al di là delle relazioni non-univoche sintatticamente istituibili con un altro linguaggio, sottintende una differente concezione del mondo che si riflette e si articola anche al livello sintattico oltre che semantico-pragmatico: è questa anche la controparte di un noto teorema di logica matematica che mostra la "non-caratterizzabilità" di una teoria formale attraverso un numero finito di assiomi; ovvero l'analisi puramente sintatticoformale di una teoria "censura", nasconde e mette da parte qualsiasi concezione del mondo correlata a tale livello sintattico. Il linguaggio delle equazioni differenziali della meccanica ondulatoria è non solo storicamente, ma anche strutturalmente (sintatticamente) connesso al determinismo meccanicistico, causale e continuista, spazio-temporale e reversibilista, dell'ontologia della fisica classica. Al contrario, il linguaggio algebrico-matriciale, essendo caratterizzato dalle relazioni di generale non-commutatività delle matrici, è strutturalmente (sintatticamente) indeterministico e quindi non-meccanicistico, acausale, irreversibilista e discreto, de-costruttivo dell'ontologia della fisica classica; anche lo spazio-tempo classico quale “contenitore”, forma di determinazione del moto, dei processi fisici, non è più definibile ed è del tutto eliminato. Non crolla solo il concetto di posizione di una particella in moto ad un certo istante, per cui il moto non è riducibile ad una serie di stati istantanei e ha una sua realtà processuale irriducibile di transizione, ma crollano anche il concetto di spazio59

tempo come geometria globale, il concetto di punto spaziale e il concetto di evento istantaneo, in quanto non hanno una loro universale caratterizzabilità sperimentale, una loro misurabilità effettiva indipendente dai processi fisici e che abbia senso al di là del caso non-realistico di imprecisione infinita della quantità di moto e dell'energia. Lo spazio-tempo quantistico nella meccanica delle matrici può assumere solo un significato del tutto opposto a quello che aveva nelle altre teorie precedenti: non è altro che la stessa indeterminazione del moto (quantità di moto, energia) come processo irreversibile, non è che una forma di ciò che solo ha significato fisico "invariante" rispetto alle differenti condizioni sperimentali, ovvero dei quanti d'azione (processi energetico-temporali finiti e irreversibili). Né esistono nella meccanica delle matrici (come nelle formulazioni contemporanee della meccanica quantistica) stati fisici indipendenti (su cui poi agiscano degli operatori), astratti dalle grandezze fisiche rappresentate dalle matrici, che possano costituire ancora un supporto linguistico per ipostatizzazioni ontologiche di una “realtà” fisica classica: la “realtà” fisica, ovviamente, non è negata, ma la sua radicale indeterminazione ontologica non è descrivibile in un qualsiasi spazio di rappresentazione. Alla meccanica delle matrici è ovviamente correlato il più generale formalismo della meccanica quantistica, quello delle matrici densità, soddisfacenti un'equazione di Liouville quantistica, per il caso di sistemi fisici che non ammettono una funzione d'onda (corrispondente al caso ideale di sistemi preparati in uno stato puro ) e per i quali non esiste un sistema completo di misura che determini univocamente risultati prevedibili (corrispondenti a sistemi fisici in "stati miscelati "): è qui che appare evidente l'intrinseca incompletezza della meccanica delle matrici in contrasto con la mitica completezza della meccanica quantistica: incompletezza non da superare, ma che riflette l'impossibilità sperimentale, di principio, di una descrizione completa della realtà fisica. Dalla meccanica delle matrici non sarebbe mai potuta sorgere una teoria quanto-relativistica di campo come quella attuale, basata sull'assunzione di uno spazio-tempo parametrico non quantizzato nel quale sono definiti i campi: si sarebbe potuta altresì costruire direttamente una teoria della matrice di scattering S per il calcolo della probabilità di ogni processo tra stati fisici definiti solo attraverso le grandezze fisiche misurabili, come anche si sarebbe potuto esplorare direttamente un approccio algebrico ad una teoria quanto-relativistica, in tutti e due casi però senza alcuna assunzione di uno spazio-tempo sia pure relativistico ma esistente indipendentemente dai processi fisici e senza alcuna "sostanzializzazione" meta-fisica delle particelle nel linguaggio dei campi. Molti problemi che ancora oggi assillano i dibattiti sulla meccanica quantistica derivano certamente dal fatto che la meccanica quantistica si è affermata ed è divenuta paradigma dominante in una forma che è sostanzialmente quella di Schrödinger con l'interpretazione modificata datane da Born e con il formalismo degli operatori (che 60

hanno sostituito le matrici come loro versione astratta e anche continua) che è solo "giustapposto" alla meccanica ondulatoria. Vi è stato così un mescolamento dei linguaggi e delle loro implicazioni epistemologiche che ha creato grande confusione (Paradossalmente, riferendosi all'interpretazione statistica della meccanica ondulatoria, da parte di vari autori, si è cercato di "determinare storicamente", in senso economico e socio-politico, il prevalere di tale interpretazione da un lato come il frutto di un globale processo di "razionalizzazione" produttiva e sociale in quanto si è identificato l'abbandono delle precedenti categorie teoretiche ed epistemologiche con una svolta strumentale-pragmatica della fisica, e dall'altro come la conseguenza di un processo di adattamento ideologico agli orientamenti vitalistici e irrazionalistici dell'ambiente tedesco di quegli anni. Dalla prospettiva fin qui seguita il quadro risulta completamente diverso: attraverso la mera ed estrinseca adozione dell'interpretazione statistica, a livello linguistico-strutturale profondo è prevalsa la meccanica ondulatoria con tutti i suoi vecchi schemi teoretici classici, assorbendo e neutralizzando l'effettiva "rivoluzione" concettuale della meccanica delle matrici nelle maglie della sua strumentale pragmatica di calcolo differenziale classico; è stata questa la reale restaurazione all'interno di un processo di "razionalizzazione" globale, di reificazione e di dominio della natura, che ha proprio nelle categorie e negli schemi strutturali della fisica classica i suoi presupposti ideologici, quelli propri della "forma di vita occidentale moderna"). La "meccanica" delle matrici di Heisenberg, Born e Jordan aveva un carattere ancora più estremo di "frattura epistemologica" nei confronti delle precedenti teorie fisiche, per il suo linguaggio matematico discreto, per la sua radicale concezione di teoria fisica in relazione alle pratiche sperimentali, per quella che già nel 1927 apparirà come la sua intrinseca portata indeterministica, che la "rivoluzione quantistica" ha in parte perso nel suo cammino storico. La meccanica delle matrici implicava un cambiamento dei rapporti fra matematica e fisica: come nel caso della relatività che comportava il cambiamento della geometria e l'assunzione di una "geometria fisica" scelta in base alla sua sperimentabilità, così l'aritmetica e l'algebra nel caso della meccanica delle matrici non potevano essere più date a priori, dovevano essere scelte in relazione agli esperimenti, e ciò portava ad un'aritmetica e ad un'algebra "quantistiche" o dei "numeri quantistici" (matrici o "q-numbers"). La rivoluzionaria conseguenza di ciò è il ribaltamento dei rapporti tra "logos mathematikòs" e "physis", che poi sarà effettuato dagli approcci radicali di "logica quantistica". Analizzare ancora oggi i lavori costitutivi della meccanica delle matrici non ha allora solo il sapore di una nostalgia o di un'erudizione storica; si tratta invece di restituire alla "rivoluzione quantistica" la sua estrema radicalità originaria, non solo per il suo valore storico, ma per le sue conseguenze fisiche e filosofiche che ci 61

impegnano a riconsiderare completamente lo stesso nostro modo di rapportarci alla natura e da un punto di vista epistemologico e da un punto di vista che non potrà non essere anche etico: il cambiamento nell'idea della natura, implicato dalla meccanica delle matrici, comporta l'abbandono dell'illusoria moderna "epoca delle immagini del mondo", in cui la natura era ridotta ad immagine dell'uomo; comporta quindi una diversa relazione dell'uomo con la natura e di questi con Dio. La natura, come "mutamento" irriducibile, nella sua indeterminazione fondamentale non potrà più essere oggetto inerte e passivo delle nostre rappresentazioni meccaniciste come delle nostre correlate manipolazioni tecnologiche: e con il meccanicismo crollano anche la teologia e l'etica che lo informavano e che ci allontanavano dalla percezione della natura come "grande madre vivente" in cui soffia e dimora lo Spirito di Dio; contrariamente alle idee di Einstein, la meccanica delle matrici indica non solo un Dio che gioca a dadi con il mondo rispettandone la radicale libertà creaturale che si riflette nell'indeterminazione, ma anche, come scrive Heisenberg, una nuova "forma spirituale" di vita al di là del rapporto soggetto-oggetto. La fisica indeterministica, come quella del caos, riconduce e restituisce allora del tutto l’esperienza autentica del tempo cristiano proiettato verso l’impredicibilità della Parousia e del regno di Dio. 8. Verso una “Nuova Alleanza” A mio avviso, i filosofi e i fisici, nonostante i fraintendimenti e le differenze comunque rilevanti, ci hanno dato, a partire dall'inizio di questo secolo, una nuova prospettiva convergente sul tempo: così, questa nuova visuale può essere accettata anche evitando il rischio di accettare 'in toto' le varie teorie fisiche implicate come teorie ultime e fondamentali. Tuttavia, ancora una volta, nella comunità dei fisici, le prospettive di Poincaré e Whitehead o Eddington a questo riguardo sono state in gran parte rifiutate e nascoste come accaduto similmente in altre occasioni nella storia della fisica. Così, la concezione atemporale di Einstein è stata accettata e diffusa, la relatività del moto usata per la sua intrinseca negazione, e il tempo e la storicità sono state eliminate almeno apparentemente dalla fisica. Allo stesso modo, l'irreversibilità introdotta dall'evoluzione dei processi quantistici indeterminati è stata nascosta nella formulazione della meccanica quantistica basata sull'equazione indipendente dal tempo di Schrödinger. Anche gli aspetti temporali, correlati al trattamento all'interno della teoria del problema dell'irreversibilità degli stessi processi di misura (le definizioni operative delle grandezze fisiche comportano irreversibilità), ovvero del problema della 'nonseparabilità' del 'soggetto fisico' con le sue connotazioni relativistiche e quantistiche, sono stati trascurati e nascosti. Così, non considerati solitamente gli aspetti temporali 62

della non-separabilità degli eventi, implicati dall'analisi di esperimenti tipo quello di Einstein-Podolski-Rosen (EPR), con una evidente interconnessione di passato, presente e futuro. Ancora trascurata la temporalità fondamentale della logica quantistica, con il carattere non-denotativo dei suoi termini, associabili soltanto a processi indeterminati di mutamento. E così pure celato il tempo come indeterminazione di bergsoniana memoria, inerente alle relazioni d'indeterminazione di Heisenberg (il tempo come indeterminazione, irriducibile ad estensione, delle variabili fisiche come l'energia), alla considerazione dei mutamenti propri dei cosiddetti interfenomeni. L'indeterminazione della struttura metrica implicita in ogni possibile 'quantizzazione' dello spazio-tempo a livello cosmologico, implicante una 'somma' storico-ereditaria su tutti i possibili tempi propri dell'evoluzione dell'universo come un tutto è ancora effettivamente non analizzata in tutte le sue conseguenze: anche qui l'aiòn universale non è più riducibile a estensione-durata o successioneordine globale (causale), ma è un flusso-molteplicicità eterogenea non-separabile di chronoi e di kairoi di eventi. Ápeiron aiònios. Max Born negli anni cinquanta e la dinamica caotica di Prigogine in tempi più recenti hanno mostrato che la stessa meccanica classica è effettivamente ed intrinsecamente statistica, indeterministica e irreversibile, ovvero il mutamento e il tempo, e così la natura stessa, non possono essere ridotti ad immaginerappresentazione di matematiche grandezze estensive, quantitative omogenee neanche al livello della meccanica classica. Se vi è una cifra della natura come mutamento, tempo e caos, tale numero simbolico è del tutto indeterminato e indeterminabile. Analizzando recentemente la meccanica relativistica, ho dimostrato altrove che anch'essa deve essere caotica e con gli stessi aspetti caotici considerati per la meccanica classica e quantistica: tali aspetti dinamici devono essere inglobati all'interno della stessa struttura dello spazio e del tempo come correlati agli eventi: così, si ha di fronte una dinamica, uno spazio e un tempo caotici, irreversibili, e storici. Un tempo non più come ordine seppure locale, ma come irreversibile chaos di eventi. Ápeiron aiònios come chaos di chronoi e kairoi. Da ciò segue anche una temporalità, relatività e storicità delle leggi fisiche, già considerata da Poincaré, Pierce, Finkelstein e Wheeler sotto altre forme. Non si tratta quindi di un semplice inglobamento della fisica all'interno di filosofie del tempo precostituite o delle 'scienze storiche', come 'storia della natura', senza primo di tutto superare le presupposizioni presenti nelle filosofie e nelle scienze storiche, come indicato da Ernst Bloch: anche nelle analisi storiche si deve 'integrare' come in teoria quantistica su molte storie e molti tempi, che a loro volta sono relativi a eventi, locali, 'storico-ereditari' e caotici. D'altra parte, la relatività, l'irreversibilità termodinamica e l'indeterminazione quantististica implicano l'impossibilità di una riduzione della natura a 'Bestand'', 63

ovvero a riserva di energia per gli scopi tecnici umani e ad oggetto che può essere dominato in una maniera predicibile. Vi è il crollo dei presupposti tecnici della scienza moderna, della fisica, senza il quale non è concepibile un superamento della separazione tra umanità e natura alla base della concezione 'volgare' del tempo e dell'essere. Solo tenendo conto di ciò, a mio avviso, si possono superare le presupposizioni spaziali, di geometria dei solidi, che sono inglobate nella struttura dei nostri linguaggi scritti e alle radici della meta-fisica occidentale come del dominio tecnico della natura. E solo allora, come dice Michel Serres, si potrà passare dalle 'epoche dei solidi' ad un' 'età dei liquidi, dei fluidi o del tempo', correlata ad una 'nuova alleanza', ad un nuovo dialogo tra l'umanità, gli altri esseri viventi e l'intera natura. Ed è il tempo quale dimensione costitutiva della natura, dei processi fisici, che relativizza e indetermina l’esperienza della natura meccanicistico-tecnica aprendo ad una nuova percezione che corrisponde a quella del nuovo Aiòn come nuovo tempo cosmico e di ogni parte dell’universo come della luce, del kairòs degli eventi e della Parousia impredicibile quale prospettiva insita di un finale “regno della luce”, come annunciato nel vangelo di Gesù, nella natura stessa. Parafrasando Borges: il tempo è ciò di cui siamo fatti e di cui sono fatte le stelle. Il tempo è un fiume che ci trascina, ma noi siamo il fiume: un fiume tra altri fiumi, nel fiume del mondo. Il tempo è un fuoco che ci divora, ma noi siamo il fuoco: fiamme tra altre fiamme, nel fuoco del mondo. Il tempo è un amore che ci consuma e che ci distrugge, ma noi siamo l'amore: un amore tra altri amori, nell'amore del mondo. Il mondo, fortunatamente, è reale; solo l'amore esiste. Weltzeit: Das Miteinanendersein in der Weltliebe.

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