LA FOTOGRAFIA DELLA MALATTIA Quanti sono i malati di

March 21, 2018 | Author: Anonymous | Category: Scienza, Biologia, Neuroscienze
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LA FOTOGRAFIA DELLA MALATTIA 

Quanti sono i malati di Alzheimer?



Come si manifesta la malattia



I meccanismi della malattia



Cause e fattori di rischio



Come si giunge alla diagnosi di Alzheimer



Le cure oggi disponibili



La donna è più esposta ma la prevenzione potrebbe essere a portata di mano

Il morbo di Alzheimer è una forma di demenza che colpisce prevalentemente le persone anziane. Alla base dell’Alzheimer è una lenta e progressiva degenerazione delle cellule nervose o neuroni. Non è quindi una malattia mentale, o comunque un disturbo anche lontanamente apparentabile con la pazzia, ma più semplicemente un venir meno del normale funzionamento del cervello e, in questo senso, è più simile a disturbi come il morbo di Parkinson. Il fatto che colpisca soprattutto, ma non esclusivamente, gli anziani, ha indotto molti a pensare che questa malattia sia una conseguenza inevitabile della vecchiaia, ma anche questo non è vero: non tutti gli ultraottantenni, per esempio, sono affetti da Alzheimer, anche se la percentuale è abbastanza alta, cioè uno su cinque. Il morbo di Alzheimer prende il nome dal suo scopritore, Alois Alzheimer, neurologo e patologo tedesco che descrisse la malattia nel 1907, chiarendone sia le manifestazioni (sintomi e loro evoluzione) sia le caratteristiche anatomo-patologiche, ma non si azzardò a ipotizzare delle cause. A tutt’oggi, questa è ritenuta la forma di demenza senile più diffusa.

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Quanti sono i malati di Alzheimer? Per molte ragioni, non ultima la mancanza di test diagnostici specifici e affidabili, è difficile fornire dati precisi quanto quelli relativi ad altre malattie. Sulla base di studi condotti in Italia, Giappone, Gran Bretagna e Olanda, si stima che il numero di malati oscilla dal 4,1 all’8,4 per cento delle persone con più di 65 anni. Oggi in Italia i malati di Alzheimer sono circa 450 mila, di cui 60 mila in Lombardia. Si prevede, però, che il loro numero raddoppierà nel 2020. Secondo la stima accettata negli Stati Uniti, i casi gravi rappresentano il 4 per cento della popolazione sopra i 65 anni, che tradotto nella realtà italiana significa circa 500.000 casi. In Europa, dati più completi provengono da uno studio collettivo (Eurodem Prevalence Research Group) effettuato nel 1991 che ha selezionato 12 studi di popolazione condotti in differenti regioni europee in cui la diagnosi di demenza è stata fatta secondo criteri internazionalmente riconosciuti. Classe d'età Prevalenza della malattia 60-64 anni

1,0%

65-69 anni

1,4%

70-74 anni

4,1%

75-79 anni

5,7%

80-84 anni

13,0%

85-89 anni

21,6%

90-94 anni

32,2%

Attualmente si stima che nei 33 paesi che aderiscono all'Alzheimer Disease International sono almeno 15 milioni le persone colpite, mentre secondo l’OMS la stima mondiale per le demenze è di 29 milioni di soggetti colpiti.

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Come si manifesta la malattia Come ogni altra forma di demenza, il morbo di Alzheimer produce una progressiva perdita delle capacità cognitive e intellettuali. Si comincia con perdite della memoria a breve termine, per poi proseguire con la perdita di altre facoltà come quella di orientarsi e riconoscere il luogo in cui ci si trova, l’abilità di compiere ragionamenti astratti come quelli sui numeri e via di seguito fino alle abilità linguistiche e alla capacità di controllare gli sfinteri. L’andamento della malattia è piuttosto lento e in media l’evoluzione dalla fase iniziale a quella finale (cioè la totale incapacità del paziente di badare a se stesso anche per operazioni semplici come alimentarsi o vestirsi) dura in media da quattro a otto anni, anche se le variazioni sono piuttosto grandi: si va dai due ai venti anni. Il più delle volte il malato di Alzheimer muore per malattie diverse che si aggiungono al suo stato, per esempio la polmonite, oppure per disidratazione o malnutrizione, che invece dipendono dalla sua incapacità di badare a se stesso. La progressione dei sintomi riflette più o meno direttamente la progressione della degenerazione delle cellule cerebrali. Questa comincia nella corteccia entorinale, per poi proseguire nell’ippocampo e infine nella corteccia cerebrale, che è la sede delle funzioni più elevate quali il linguaggio e il ragionamento astratto. Degradandosi le capacità intellettuali si assiste anche a una modificazione della personalità: per esempio, persone miti divengono irascibili e hanno anche scoppi di violenza". Le persone colpite dall’Alzheimer sono destinate a perdere i caratteri della natura umana" dice il professor Orso Bugiani, primario della divisione di neuropatologia dell'Istituto neurologico Carlo Besta di Milano. "Il malato si trasforma in una persona diversa da quella che parenti e amici hanno conosciuto".

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I meccanismi della malattia Che cosa accada ai neuroni della persona afflitta da questa forma di demenza senile era già stato determinato da Alois Alzheimer. All’esterno del neurone si assiste alla formazione di caratteristiche placche, frutto della deposizione di una sostanza chiamata beta amiloide, mentre all’interno si producono particolari strutture anomale chiamate grovigli neurofibrillari. Il risultato di queste modificazioni, che possono essere accertate soltanto esaminando direttamente al microscopio il tessuto cerebrale, sono l’impossibilità per il neurone di trasmettere gli impulsi nervosi. Un altro fenomeno scoperto alla metà degli anni settanta che accompagna la malattia è la forte diminuzione nel cervello, fino al 90 per cento, della quantità di acetilcolina, un neurotrasmettitore legato direttamente alla memoria e ad altre capacità intellettuali, che è particolarmente sfruttato dai neuroni dell’ippocampo e della corteccia cerebrale, cioè le zone più direttamente colpite dalla malattia. Come agiscano effettivamente le placche e i grovigli sul funzionamento del neurone sono scoperte abbastanza recenti, che hanno contribuito in misura diversa a non soltanto a chiarire la genesi della malattia, ma anche ad allargare le possibilità di diagnosi e cura.

Cause e fattori di rischio Probabilmente questo è il capitolo ancora meno esplorato. Guardando ai dati epidemiologici, le donne risultano essere più esposte all’Alzheimer, così come i parenti di primo grado di malati di Alzheimer sono più esposti a loro volta alla malattia. Quest’ultimo punto è stato confermato dagli studi condotti sui gemelli, dove si è visto che tra i gemelli monozigotici accade più di frequente che entrambi siano colpiti dalla malattia rispetto ai gemelli dizigotici, nei 4

quali il patrimonio genetico non identico. Questo tende ad avvalorare l’ipotesi che la demenza di Alzheimer sia una malattia in cui pesa la componente genetica, anche se non è il solo e non è una condizione necessaria, ovverosia ci sono casi che si presentano in famiglie in cui nessuno aveva precedentemente sviluppato la malattia. L’ipotesi genetica viene attualmente indagata a fondo, e sono state rintracciate particolarità coinvolte nella malattia sui cromosomi 21, 14 e 19. Soprattutto quest’ultima ha dato risultati interessanti. In questo cromosoma infatti è presente il gene che comanda la produzione della apolipoproteina E. Di questa sostanza esistono tre forme diverse e una di queste, la ApoE4, costituisce un fattore di rischio per la demenza. Infatti nei membri delle famiglie "predisposte" se è presente il gene che comanda la produzione di questa forma la probabilità di ammalarsi aumenta: se è pari al 20 per cento nelle persone che non hanno neanche un gene, sale al 90 per cento negli individui che ne presentano due. Tuttavia, l’ApoE4 non è la sola causa e quindi si è inclini a pensare che le anomalie genetiche coinvolte siano più d’una e che differiscano da famiglia a famiglia. Le anomalie dei cromosomi 21 e 14, invece, sarebbero legate piuttosto alla forma più rara della malattia, cioè quella a esordio precoce (prima dei 60 anni). A essere chiamata in causa è una mutazione del gene PS2 che, da una parte accelererebbe l’apoptosi delle cellule cerebrali, cioè la loro "morte programmata", rendendole più sensibili all’attacco della beta amiloide e, dall’altra, provocherebbe una maggiore produzione della proteina stessa come risposta allo stress. Nel corso degli anni si è pensato anche a fattori ambientali nella genesi della demenza. Per esempio, per un certo periodo si è ritenuto potesse essere causata dall’intossicazione da alluminio, ma questa spiegazione è stata accantonata, mentre si continua a discutere sulla possibile influenza del livello di istruzione. Infatti, statisticamente la malattia è meno diffusa tra le persone che hanno un grado di cultura più elevato, anche se questo dato è soggetto a differenti 5

interpretazioni: chi ha ricevuto un’istruzione superiore di norma appartiene a una classe sociale più agiata, quindi si è alimentato meglio, è vissuto con un comfort superiore eccetera. Pertanto potrebbero essere le migliori condizioni di vita generali a proteggere la persona e non la "ginnastica mentale" dello studio.

Come si giunge alla diagnosi di Alzheimer Diversamente dalla maggioranza delle malattie, non esiste un test specifico per scoprire la presenza del Morbo di Alzheimer. In effetti i segni distintivi, cioè la deposizione di beta amiloide e la formazione dei grovigli neurofibrillari, può essere agevolmente effettuata soltanto dopo la morte del paziente, in quanto è necessario procedere all’esame del tessuto cerebrale. Effettivamente, in linea teorica, si potrebbe provvedere a una biopsia, ma questa pratica porta con sé tali rischi di complicazioni da renderla sconsigliabile. Le tecniche di diagnostica per immagini come la risonanza magnetica nucleare, la TAC, la PET e la SPECT servono più che altro a escludere che la demenza sia dovuta ad altre cause, per esempio l’ictus cerebrale. Ad allargare le possibilità di diagnosi è poi venuta qualche anno fa la scoperta del ruolo della proteina tau che, secondo gli studi pubblicati da John Q. Trojanowski sugli Annals of Neurology, può essere dosata nel liquido cerebrospinale prelevato con una puntura lombare. Già nelle prime fasi della malattia la quantità di proteina tau presente nel liquido cerebrospinale è nettamente superiore alla norma, anche se poi non aumenta con il progredire della demenza. La Ricerca Italiana e le nuove ipotesi di diagnosi dell'Alzheimer. In attesa che questa e altre pratiche vengano standardizzate, oggi la diagnosi si basa principalmente sull’esame neuropsicologico, cioè sulla valutazione delle capacità mentali del malato attraverso una serie di domande che mettono alla prova la memoria della 6

persona e la presentazione di una serie di disegni che deve completare dimostrando così le sue capacità cognitive. Anche se apparentemente meno certa di quella ottenibile con il ricorso al laboratorio, questa valutazione ha un’elevata precisione: il 90 per cento circa delle diagnosi ottenute in questo modo viene poi confermata dall’autopsia.

Le cure oggi disponibili Come si è detto, una delle prime conferme venute dalla ricerca riguarda il ruolo della carenza di acetilcolina nelle manifestazioni della malattia. Quindi la prima scelta per la terapia è stata la somministrazione dei precursori di questa sostanza, colina e lecitina, così da aumentarne la disponibilità nel cervello. Questa strada non si è rivelata efficace, quindi si è pensato di intervenire su un enzima, la colinesterasi, che provvede a distruggere l’acetilcolina. Usando sostanze che impediscono o rallentano l’azione della colinesterasi si ha come effetto l’aumento dell’acetilcolina disponibile. Attualmente i due soli farmaci approvati dalla Food and Drug Administration, l’ente che autorizza la commercializzazione dei farmaci negli USA, per la terapia dell’Alzheimer, la tacrina o tetraidroaminoacridina e il donepezil, agiscono in questo modo. Il miglioramento ottenibile nelle forme lievi-moderate di demenza, cioè ai primi stadi della malattia, si traduce in un rallentamento della progressione del male: con 30 settimane di trattamento con tacrina, per esempio, si guadagna circa un anno. La terapia sostitutiva, però, incontra il suo principale limite teorico nel fatto che l’acetilcolina non è il solo neurotrasmettitore che viene coinvolto nella malattia. Altre ricerche sono in corso su potenziali trattamenti, ciascuna delle quali si basa uno dei possibili meccanismi attraverso i quali la malattia conduce alla morte dei neuroni: ipotesi del danno da calcio, 7

ipotesi del danno da radicali liberi. A tutt’oggi, comunque, non esiste una terapia specifica capace di far regredire la malattia, anche se non vanno sottovalutati i farmaci attualmente disponibili se sono in grado arrestare l’evoluzione della demenza e rendere più facile l’assistenza al malato.

La donna è più esposta ma la prevenzione potrebbe essere a portata di mano Le donne sono particolarmente esposte all’insorgere della malattia di Alzheimer, e già da tempo si è indicato nella caduta degli estrogeni successiva alla menopausa una delle possibili ragioni. In effetti gli estrogeni promuovono la crescita dei neuroni colinergici, influenzano il metabolismo del precursore della proteina amiloide e paiono interagire con l'apolipoproteina E4. A questo punto restava da stabilire se la terapia ormonale sostitutiva poteva costituire una forma di prevenzione della demenza. Una prima positiva risposta viene dallo uno studio dei Dipartimenti di neurologia, psichiatria ed epidemiologia della Columbia University di New York diretto dal neurologo Min-Xing Tan. Si tratta ovviamente di uno studio descrittivo, che ha interessato un campione di 1.124 donne (età media 74 anni circa) di Manhattan, in cui erano rappresentati sia i diversi gruppi etnici sia i diversi strati sociali. Nel gruppo che assumeva estrogeni si sono verificati 9 casi di Alzheimer (5,8 per cento del campione) durante il periodo di osservazione, contro i 158 (16,3 per cento) registrati tra le donne mai sottoposte alla terapia. Da notare che delle 23 donne in cura durante lo studio nessuna ha sviluppato la malattia. L'incidenza annuale dell'Alzheimer si collocava al 2,8 per cento nel gruppo che aveva assunto estrogeni e all'8,4 nell'altro. Il campione era stato arruolato sulla base dell'assenza di disturbi cognitivi, di precedenti cerebrovascolari e morbo di Parkinson; di queste donne, 968 non avevano mai fatto ricorso agli ormoni e 156 sì, sia 8

pure per periodi di tempo differenti. Il campione è stato anche suddiviso in base al genotipo per l'apolipoproteina E. In definitiva, nelle donne che seguono (o hanno seguito) la terapia ormonale sostitutiva si avrebbe una sostanziosa diminuzione del rischio relativo (che passa da 1 a 0,40 in media) e, come era logico attendersi, la riduzione del rischio è proporzionale alla durata della sostituzione (si veda la tabella). L'effetto positivo si estende anche alle donne che presentano un gene per l’apolipoproteina E4, mentre non è stato possibile valutare l'effetto sulle donne omozigoti per questo genotipo (nessuna delle 9 donne con questa caratteristica aveva assunto estrogeni). «I nostri risultati non mostrano che la terapia ormonale sostitutiva previene in assoluto il morbo di Alzheimer, ma che sembra realmente ritardare il presentarsi della malattia» ha dichiarato Min-Xing Tan. Su questa base è più facile spiegare perché studi precedenti che non tenevano conto dell'età alla quale si presenta la demenza, come quello di Brenner e Kukull pubblicato nel 1994 sull'American Journal of Epidemiology, non abbiano mostrato analoghi benefici per la terapia estrogenica. Estrogeni e alzheimer Uso degli estrogeni Soggetti a rischio Casi di Alzheimer Rischio relativo Mai

968

158

1,0

Non definibile

31

3

1,3

Fino a un anno

67

5

0,47

Per più di un anno

58

1

0,13

The Lancet (1996; 348: 429-432)

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