“Le forme di mercato” - Prof. Spallone, 1-12-2005

March 21, 2018 | Author: Anonymous | Category: Impresa, Scienze economiche, Macroeconomia
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“Introduzione al corso di economia politica” lezione del 17-11-2005 Prof. Di Giorgio A cura di Gregorio Alteri Micro e Macroeconomia La Microeconomia si interessa principalmente dei singoli agenti che operano all’interno del sistema economico e del funzionamento del mercato. Quando le scelte individuali degli agenti economici vengono aggregate ed utilizzate per spiegare alcune variabili come occupazione ed inflazione si parla di Macroeconomia. Micro e Macroeconomia sono due discipline che fino a trent’anni fa erano studiate in modo diverso e distinto. La prima con un approccio più teorico, la seconda con uno più pratico. In realtà, attualmente, gli economisti, in considerazione della complessità del sistema economico, parlano anche di “Macroeconomia microfondata” o di “ricadute microeconomiche di scelte aggregate”. Se ci chiediamo quale sia lo stato di salute di un determinato sistema economico, dobbiamo considerare tre grandezze che ci vengono in aiuto proprio a questo scopo. Queste tre grandezze sono:  il PIL (prodotto interno lordo),  il tasso di inflazione,  il tasso di disoccupazione. Sono dei buoni indicatori perché sono grandezze profondamente correlate fra loro e perché ogni loro variazione è un segnale fondamentale dell’andamento di un sistema economico. Per esempio, una crescita sostenuta del PIL (reale) è, presumibilmente, il segnale di prossime tensioni inflazionistiche e rende prevedibile la riduzione della disoccupazione. E’ una situazione detta di “espansione”. Infatti, il PIL in termini reali è anche considerato il tasso di crescita dell’economia. Viceversa, allora, una sua riduzione fa prevedere deflazione e crescita della disoccupazione. In questo caso ci troviamo di fronte ad una difficoltà del sistema economico tanto che, se il PIL reale diminuisce per due trimestri consecutivi si parla di “recessione” vera e propria. Abbiamo introdotto un concetto, quello di PIL, che va approfondito. Esso può infatti essere considerato sia in termini nominali sia in termini reali. Il PIL(nominale) misura il valore in un determinato periodo di tempo del complesso dei beni e dei servizi prodotti all’interno di un determinato paese. N

∑ PiQi i=1

Il PIL(reale) invece, coglie meglio l’aumento della disponibilità dei beni e dei servizi prodotti all’interno di un Paese perché è la misura del PIL(nominale) a prezzi bloccati ad un certo anno, detto (anno) base. Isola, in sostanza, il livello dei Prezzi e prende in considerazione soltanto la quantità di beni e servizi prodotta. N

__

∑ PiQi 1

i=1

La comprensione del PIL(reale) ci permette di approfondire un concetto introdotto prima, cioè il tasso di crescita economica. Il tasso di crescita economica (g) è la variazione percentuale del PIL(reale). Il deflatore del PIL è il rapporto fra PIL(nominale) e PIL(reale), cioè una media ponderata dei prezzi dei beni e dei servizi prodotti, in quanto le Q (quantità) sono le stesse mentre i P (prezzi sono diversi). E’ allora al tempo stesso una misura del Livello Generale dei Prezzi e ci permette di misurare l’inflazione. Il tasso di inflazione (π) è la variazione relativa (percentuale) del Livello Generale dei Prezzi. Si ricava infatti dal Deflatore del PIL: π = [Deflatore (t) – Deflatore (t-1) / Deflatore (t-1)] % Un’altra misura dell’inflazione è data da l’Indice dei Prezzi al Consumo IPC (o CPI). Anche quest’indice corrisponde ad una media del Livello dei Prezzi, ma a differenza del Deflatore del PIL, che tiene conto di tutti i beni e servizi prodotti in un anno, l’IPC rappresenta il campione del consumo medio di una famiglia tipo e si basa su un paniere abbastanza ampio. La misura dell’IPC non varia di tanto rispetto a quella del Deflatore del PIL proprio perché il paniere comprende una grande varietà di beni. Nella rilevazione dell’ISTAT, per esempio, il paniere è composto da 250 beni. Ovviamente, però, i confronti fra diversi paesi sono viziati da piccole differenze, basti pensare al diverso consumo che Italia e Germania fanno della birra e del vino! π = [IPC(t) – IPC(t-1) / IPC (t-1)] % Infine, la terza delle grandezze : il tasso di disoccupazione (u) Per comprendere questa grandezza occorre partire da un altro dato: la popolazione censita dall’ISTAT sulla base di rilevazioni che avvengono ogni dieci anni. Un sottoinsieme della popolazione è rappresentato dalla popolazione in età da lavoro che, all’incirca, comprende tutta la popolazione compresa fra i 14 o i 15 anni e i 65 anni. Fra questi, però, solo alcuni costituiscono forza-lavoro, gli occupati ovviamente e i disoccupati, tenendo ben presente però che i disoccupati non sono soltanto quelli che non lavorano bensì tutti coloro che vorrebbero lavorare ma non lavorano e che dimostrano pertanto concretamente di cercare un lavoro. Per questo motivo la forza-lavoro è una frazione di popolazione totale diversa da quella della popolazione in età da lavoro. Allora, il tasso di disoccupazione (u) è dato dal rapporto percentuale fra i disoccupati (il numeratore) e la forza-lavoro (il denominatore): u = (disoccupati / forza-lavoro) %

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Il Flusso circolare della Macroeconomia. Immaginiamo uno schema in cui sono rappresentati in orizzontale gli agenti economici cioè le Famiglie, le Imprese e la Pubblica Amministrazione che interagiscono sul mercato dei beni e dei servizi, sul mercato dei fattori della produzione, e sui mercati finanziari. Le Imprese producono “utilità” che riversano sul mercato dei beni e dei servizi dal quale attingono le Famiglie che li acquistano per soddisfare i propri bisogni. La spesa delle famiglie per beni e servizi corrisponde al fatturato delle Imprese. Parte di esso torna alle Famiglie sotto forma di remunerazione (il reddito delle Famiglie) dei fattori della produzione. Non tutto il reddito delle famiglie viene però speso nel consumo di beni e di servizi. Parte di esso viene prelevata dallo Stato attraverso le imposte ed un’altra parte viene risparmiata e riversata su intermediari e mercati finanziari. Qui il risparmio è “acquistato” sia dalle Imprese, per finanziare i propri investimenti, sia dalla Pubblica amministrazione per finanziare la propria spesa pubblica. Questo schema lo possiamo immaginare ancora più semplificato se non teniamo conto del settore pubblico ma solo di Famiglie e Imprese. Le famiglie offrono forza lavoro alle Imprese. Le Imprese remunerano la forza lavoro delle Famiglie con i salari che costituiscono il reddito delle Famiglie. Con la Forza Lavoro le Imprese possono produrre beni e servizi che poi vengono acquistati dalle Famiglie che spendono in consumi il proprio reddito. La spesa delle Famiglie è pari al fatturato delle Imprese. E’ evidente allora che il PIL, cioè il valore complessivo dei beni e dei servizi prodotti è uguale alla spesa per l’acquisto di quei beni e di quei servizi. Il PIL(nominale) è pertanto interpretabile come il valore della spesa per l’acquisto dei beni e dei servizi. Lo schema è più complesso, ma non molto, se consideriamo i quattro grandi canali di assorbimento del PIL:  I CONSUMI (C) cioè la spesa (al netto del prelievo fiscale) delle famiglie per l’acquisto di beni e servizi  Gli INVESTIMENTI (I) cioè la spesa delle imprese per accrescere la propria produzione e dunque i propri ricavi.  La SPESA PUBBLICA (G) cioè la spesa della Pubblica Amministrazione.  Le ESPORTAZIONI NETTE (NX) cioè il saldo (X-M) fra le Esportazioni totali (X) e le Importazioni totali (M) di un dato paese. Il PIL allora è uguale alla somma di queste componenti. PIL = C+I+G+NX Ma possiamo anche dire che il PIL sommato alle Importazioni di un paese (M) costituisce il totale delle risorse di cui dispone un Paese e la somma Consumi, Investimenti, Spesa Pubblica e Esportazioni costituisce il totale degli impieghi. 3

Queste relazioni sono dette Identità fondamentali della Contabilità Nazionale. Volendo approfondire il concetto di consumi, va rilevato che i beni possono essere distinti in beni durevoli o non durevoli a seconda che il loro impiego possa essere reiterato nel tempo o meno. Per l’acquisto di beni durevoli normalmente si ricorre all’indebitamento e dunque al sistema finanziario. A livello aggregato, i consumi dipendono dal reddito nazionale (corrente ma anche futuro, cioè “atteso”), dal prelievo fiscale, dai tassi di interesse (correnti o futuri “attesi”) e dalla ricchezza di un paese (in particolare quella finanziaria). PIL, occupazione e inflazione, inoltre, sono variabili “endogene”, mentre la spesa pubblica è considerata esogena (cioè determinata da fattori politici estranei all’analisi meramente economica). Gli Investimenti, cioè gli acquisti di beni e servizi mirati ad accrescere la capacità produttiva, invece, dipendono dal costo del capitale e dal tasso di crescita dell’economia (corrente e futuro atteso). Le Esportazioni nette (NX), infine dipendono dal reddito corrente e futuro atteso di un paese e da quello dei suoi partners commerciali e dalla competitività di un paese. La competitività, a sua volta, e ci torneremo in seguito, è influenzata dal tasso di cambio nominale cioè dal prezzo di una valuta in termini di un’altra valuta e dai differenziali di inflazione.

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“La determinazione del reddito nazionale” lezione del 24 novembre 2005 Prof. G. Di Giorgio A cura di Anguel Beremliysky

Introduzione: Come ben noto, la definizione più diffusa dell’importante indicatore economico del reddito nazionale è rappresentata dalla nozione di Prodotto Interno Lordo (PIL)1. A fini statistici, tale entità si misura attraverso l’equazione che vede come componenti principali del PIL i consumi della popolazione al netto del prelievo fiscale (C), gli investimenti effettuati nel dato sistema economico (I), la spesa del settore pubblico (G) + l’ammontare delle esportazioni al netto delle importazioni, NX (NX=X-M). Possiamo rappresentare la relazione che esiste tra le componenti summenzionate nel seguente modo: PIL = C + I + G + NX

1. Altre misure del reddito. All’interno della varietà di studi economici e statistici si possono riscontrare anche altre misure del reddito nazionale/prodotto interno. Tali rappresentazioni tengono conto di diversi fattori a secondo dell’uso che se ne vuole fare. Così, si possono introdurre altre grandezze, come: a. Prodotto Nazionale Lordo (PNL) – rappresenta una misura che fa riferimento agli attori economici che sono legati al territorio nazionale in base al loro rapporto di cittadinanza. Per avere l’ammontare di questa nuova misura bisogna aggiungere al PIL il reddito prodotto all’estero dai cittadini residenti dello Stato in questione, togliendo al contempo il reddito prodotto all’interno dello stesso dai cittadini stranieri. PNL = PIL + REDDITO ESTERO DEI RESIDENTI – REDDITO “INTERNO” DEGLI STRANIERI b. Il Prodotto nazionale netto (PNN) riprende la misura testé esposta, esprimendola al netto degli ammortamenti, ovvero di quei beni capitali che, diventati obsoleti, non sono più in grado di produrre ricchezza. Infatti: PNN = PNL - AMMORTAMENTI c. Reddito Nazionale (RN) – un’ulteriore elaborazione del dato di cui sopra, introdotto grazie alla sottrazione delle imposte indirette, applicate dall’amministrazione statale sulle transazioni. 1

Il termine 'interno' serve a distinguere la produzione che avviene all'interno dell'economia da quella che avviene in altre economie, e diventa importante quando si studiano i rapporti con altre economie come importazioni, esportazioni, rimesse degli emigrati all'estero, movimenti di capitali

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La voce principale dell’imposizione indiretta è sicuramente l’Imposta sul valore aggiunto (IVA). Così l’equazione può essere trascritta come segue: RN = PNN – Imposte indirette (sostanzialmente IVA)

d. Il Reddito personale (RP) è la misura che mette in rapporto il RN con il settore sociale del sistema economico. Esso è composto dalla somma di RN e trasferimenti pubblici, al netto dei contributi sociali e dei profitti non distribuiti. In questo caso, è necessario sottolineare che le pensioni fanno parte dell’ammontare dei trasferimenti pubblici e non rientrano nella G. RP = RN + TRASFERIMENTI PUBBLICI – CONTRIBUTI SOCIALI – PROFITTI NON DISTRIBUITI

e. Reddito personale disponibile (RPD) – rappresenta la parte di reddito personale che rimane a disposizione delle famiglie e può essere speso da loro in base alle loro preferenze e necessità. Per arrivare a questa semplificazione dal RP si devono sottrarre le imposte dirette, da loro versate.

2. La Bilancia dei pagamenti (BP) è un’altra grandezza della contabilità nazionale di importanza fondamentale. Essa rappresenta la registrazione puntuale di tutte le transazioni che un Paese effettua nei confronti del resto del mondo. Tali transazioni possono essere di tipo commerciale o di tipo finanziario. In questo modo è possibile studiare i rapporti che questo Paese intrattiene con le altre entità statali. Per fare ciò, ovviamente, si deve partire dalla premessa obbligatoria che esso si trovi in una situazione di apertura verso l’esterno. Il saldo della Bilancia dei pagamenti è pari al saldo delle partite correnti (parte corrente o PC), il quale contabilizza le operazioni commerciali, più il saldo dei movimenti di capitale (MC), in quanto indicatore, riguardante le transazioni finanziarie. BP = PC + MC Dal canto suo il saldo di PC è uguale alle esportazioni nette (NX), che si possono altresì indicare come saldo della Bilancia commerciale, più gli interessi percepiti dai residenti su attività finanziarie all’estero, meno gli interessi pagati a cittadini straniere su attività finanziarie interne, sottraendone o aggiungendone alla fine, a seconda dei casi, i trasferimenti netti unilaterali che si verificano principalmente attraverso gli aiuti concessi ad altri Stati. Della Parte corrente fanno parte anche gli interessi percepiti all’estero e quelli versati in favore di cittadini stranieri, in quanto essi rappresentano la remunerazione per un servizio prestato (in questo caso l’acquisto di titoli). D’altro lato, i trasferimenti netti unilaterali

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possono avere segno positivo o negativo, giacché un Paese può essere un benefattore netto o beneficiario netto dei suddetti. Resta da definire il saldo dei movimenti di capitale che misura l’acquisto di attività finanziarie all’estero dei residenti al netto dell’acquisto di attività domestico da parte degli stranieri. Il conto di BP è tendente allo zero. Gli squilibri che si possono verificare si aggiustano mediante i movimenti del tasso di cambio nelle seguenti modalità: a. se il saldo di BP è positivo (BP>0) il tasso di cambio nominale (definizione: il prezzo in valuta nazionale di 1 unità di una valuta estera, oppure il prezzo di 1 unità della valuta nazionale, espresso in valuta estera) si apprezza. b. se il saldo di BP è negativo (BP Rma : l’impresa non ha interesse a produrre al livello Q, infatti realizzerebbe una perdita marginale ed è quindi portata a ridurre la produzione. Cma < Rma, l’impresa realizza un profitto marginale positivo e quindi troverà conveniente aumentare la quantità di prodotto. 10

Cma = Rma = p rappresenta l’unica possibile condizione di equilibrio in quanto l’impresa non trova conveniente produrre una quantità differente di prodotto. In sintesi, la scelta del produttore dipende in modo cruciale dalla funzione del costo marginale: la produzione sarà fissata al livello in cui questi costi eguagliano il prezzo di mercato.

Cma

p

q*

q

Al fine di stabilire il profitto dell’impresa produttrice è necessario analizzare anche l’andamento del costo medio, Cme. Questo rappresenta la quota di costi totali attribuibile a ciascun prodotto. I costi totali sono a loro volta composti da costi fissi e costi variabili.

C me 

CT CF CV   q q q

All’aumentare della produzione il costo medio subisce un decremento per effetto della ripartizione dei costi fissi ed un incremento per effetto dei costi variabili; fino ad una certa quantità di prodotto prevale il primo effetto, oltre tale quantità prevarrà il secondo effetto. La curva del Cma è crescente e interseca la curva del costo medio nel suo punto di minimo.

C ma C me

q

Nel breve periodo possono verificarsi le seguenti situazioni: a) La curva del costo medio è al di sopra della curva di domanda (fig. a). In questo caso l’impresa subisce una perdita; se la perdita persiste alcune imprese saranno spinte ad abbandonare il mercato riducendo così l’offerta complessiva; questo avrà un effetto positivo sul prezzo che, crescendo, permetterà di ridurre la perdita delle imprese ancora operanti. Il fenomeno si ripete finché il prezzo non giunge al livello del costo medio. 11

b) La curva del costo medio è al di sotto della curva di domanda (fig. b). In questo secondo caso l’impresa realizza un extra-profitto (profitto che eccede la remunerazione del fattore imprenditoriale); se questo persiste nel tempo nuove imprese saranno incentivate ad entrare nel mercato, offrendo quantità aggiuntive di prodotto, con effetti negativi sul prezzo. La riduzione del prezzo deprimerà i profitti e il fenomeno si ripeterà finché il prezzo non scenderà al livello del costo medio. Pertanto l’equilibrio di lungo periodo non può che realizzarsi con la coincidenza tra costo marginale, costo medio e prezzo di mercato (fig. c). In questo punto di equilibrio l’extra-profitto è nullo.

C ma

C ma C me

C me p perdita

profitto

p

q*

q

q*

fig. a

q

fig. b

C ma C me p

q*

q

fig. c

Per il primo teorema dell’economia del benessere, l’equilibrio di un mercato in concorrenza perfetta è efficiente nel senso di Pareto: il libero meccanismo di adeguamento dei prezzi garantisce un’allocazione delle risorse efficiente, nel senso che un’eventuale riallocazione non potrebbe migliorare la condizione di alcun agente senza peggiorare la condizione di altri. Secondo i pensatori liberisti i mercati in concorrenza perfetta garantiscono l’allocazione delle risorse più efficiente possibile. Non sarebbe quindi necessario l’intervento dello Stato finché non si verifichino fallimenti del mercato.

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Il monopolio I monopoli sono mercati caratterizzati dalla presenza di un solo produttore. L’impresa produttrice esercita il suo potere di mercato fissando non solo la quantità ma anche il prezzo di vendita in modo da massimizzare i profitti. Nell’assumere tale decisione deve però tenere conto della relazione che intercorre tra prezzo e quantità di prodotto immessa sul mercato: la curva di domanda è inclinata negativamente e lo è, quindi, anche la curva dei ricavi marginali (derivata della curva di domanda). La quantità di prodotto che massimizza il profitto del monopolista è, come nel caso di concorrenza perfetta, quella per la quale il costo marginale eguaglia il ricavo marginale. Ma il prezzo di mercato, in corrispondenza di questa quantità, è superiore rispetto al costo marginale: il produttore potrebbe produrre di più senza incorrere in perdite. In condizione di monopolio si verifica una perdita di efficienza, rappresentata dalla minore produzione e dall’incremento del prezzo unitario rispetto al caso di concorrenza perfetta.

Cma pm

Cme

extra profitti

pc Rma q*

p q

Il monopolista realizza extra-profitti persistenti:

  RT  CT   p * q * C me q *q * I teoremi dell’economia del benessere non escludono che anche in un mercato non concorrenziale possa essere raggiunta un’allocazione efficiente delle risorse; questo può avvenire attraverso l’intervento pubblico. Alcuni mercati presentano delle caratteristiche peculiari (nella struttura produttiva ad esempio), tali da rendere conveniente l’esistenza del monopolio: si tratta dei monopoli naturali. In questi mercati il prezzo di equilibrio concorrenziale non permetterebbe la copertura dei costi totali, quindi è necessario che il prezzo sia fissato ad un livello superiore, in modo da permettere ad almeno una impresa di realizzare il prodotto senza incorrere in perdite.

Oligopolio Esistono delle forme di mercato alternative a monopolio e concorrenza perfetta, mercati in cui operano un numero limitato di imprese: gli oligopoli. Esistono due tipologie di oligopoli: 1) oligopolio collusivo 2) oligopolio competitivo

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1) Nel primo caso le imprese produttrici stipulano accordi e si comportano come un unico grande monopolista; beneficiano quindi dei profitti di monopolio a discapito dell’efficienza del mercato. 2) Nel secondo caso gli oligopolisti competono tra loro. Ciascun oligopolista è in grado di influenzare il prezzo di mercato, tuttavia non ha pieno potere sulla determinazione del prezzo; le imprese adottano delle strategie per prevenire o reagire alle strategie delle imprese concorrenti (analisi secondo le tecniche della teoria dei giochi). La teoria economica si è interessata molto agli oligopoli; ad una conclusione interessante è pervenuto Sweezy, secondo cui la curva di domanda per l’impresa oligopolista è “ad angolo”.

p

q curva di domanda per l’oligopolista

Concorrenza monopolistica Ci sono alcuni mercati concorrenziali in cui ciascuna impresa concorrente è al tempo stesso monopolista rispetto ad una nicchia del mercato. Il monopolio può basarsi sull’originalità del prodotto, su questioni geografiche o su qualunque altra caratteristica che renda “unico” il prodotto realizzato (la caratteristica distintiva di un prodotto rispetto ai suoi concorrenti può anche essere rappresentata da una campagna pubblicitaria particolarmente efficace). La concorrenza monopolistica è la forma più comune di mercato; nel breve periodo può essere considerato come un monopolio ma, essendo aperto all’ingresso di nuovi concorrenti, nel lungo periodo è più simile alla concorrenza perfetta.

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“LA POLITICA FISCALE” - lezione di economia del 06 dicembre 2005

Prof. Di Giorgio A cura di Ilaria Screpante

Y = C + I + G + NX Partiamo dalla considerazione che nel lungo periodo Y (reddito) dipende dal livello dell’offerta (caso classico con offerta aggregata verticale), mentre nel breve periodo secondo il sistema keynesiano dalla domanda aggregata (offerta aggregata orizzontale). Analizziamo ora singolarmente le variabili della funzione y. La variabile G rappresenta la spesa esogena della Pubblica amministrazione in beni e servizi. Il livello della spesa pubblica influisce sulla curva di equilibrio del mercato dei beni (o curva IS). La variabile I rappresenta gli investimenti, che dipendono strettamente dai tassi di interesse. Al variare dei tassi, infatti, si verifica una sostanziale variazione degli investimenti, per cui: I (investimenti) = I (spesa autonoma per investimenti) – bi (dove b è la sensibilità degli investimenti al tasso di interesse b>0; i è il tasso d’interesse)

Tale equazione indica che gli investimenti sono inversamente proporzionali al tasso d’interesse, ovvero al diminuire del tasso di interesse aumenta l’investimento programmato, come evidenziato nel seguente grafico; la pendenza della retta è pari alla sensibilità degli investimenti al tasso d’interesse.

i

I

I tassi di interesse si distinguono in tasso di interesse nominale e tasso di interesse reale. Il tasso di interesse nominale è il tasso di interesse misurato in termini monetari; misura, quindi, il rendimento in euro ad una data scadenza per un euro investito ed è fortemente influenzato dal tasso ufficiale fissato dalla Banca Centrale Europea (BCE). Il tasso di interesse reale, invece, tiene conto dell’inflazione ed è dato dalla differenza tra il tasso di interesse nominale e l’inflazione: r (tasso di interesse reale) = i (tasso di interesse nominale) – π (inflazione)

Il tasso di interesse reale r, quindi, costituisce una grandezza nota solo al termine delle operazioni finanziarie. Da tale equazione deduciamo che r* (interesse reale atteso) = i (tasso di interesse nominale)– πe (inflazione attesa)

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Poniamo ora attenzione sulla variabile NX, che rappresenta le esportazioni nette: NX (esportazioni nette) = X (esportazioni) – M (importazioni) NX (y, y estero, ε tasso di cambio reale)

All’aumentare del tasso di cambio reale ε si verifica una diminuzione delle esportazioni (motivata dal fatto che il prezzo delle merci esportate risulterà più elevato per gli acquirenti esteri). Quindi le esportazioni nette NX dipendono sia dal tasso di crescita (y) sia dal tasso di cambio reale ε, per cui: NX = NX0 – m1y – m2ε

ECONOMIA CHIUSA NEL LUNGO PERIODO

y  f ( K , L ) , quindi Y = C + I + G Nel lungo periodo (caso classico) con offerta aggregata verticale e piena occupazione, Y è fissata ad un valore Y*, definito esclusivamente dal livello d’offerta. Considerando quindi costanti C (consumi) e G (spesa pubblica), l’unica variabile saranno gli investimenti I che, in un economia chiusa, dipendono dai tassi di interesse. Qualora venga adottata una politica fiscale espansiva, con un aumento della spesa pubblica o una diminuzione dell’aliquota fiscale si ha conseguentemente un aumento della domanda aggregata. In generale, un incremento della spesa pubblica determina un aumento del reddito di equilibrio e, conseguentemente, anche del tasso di interesse. A tassi di interesse invariati, invece, un livello più elevato della spesa pubblica accresce la domanda aggregata, per cui se G ↑ → anche Yd ↑ e C ↑ Con l’aumento della spesa pubblica, quindi, si verifica un incremento generale del reddito (Y) seguito da un incremento del livello dei consumi, e da un aumento dei tassi di interesse. Da ciò deduciamo che in base all’equazione già riportata I = I – bi (b > 0), gli investimenti diminuiranno con l’aumentare dei tassi di interesse. Quindi l’incremento della spesa pubblica, provoca una diminuzione degli investimenti. In questo senso l’incremento della spesa pubblica spiazza gli investimenti (effetto di spiazzamento). In un’economia chiusa l’effetto spiazzamento si ripercuote esclusivamente sugli investimenti, mentre in un’economia aperta – caratterizzata da un’elevata mobilità di capitali – l’effetto di spiazzamento incide anche sulle esportazioni nette, per cui se G ↑ o T ↓ si verifica un apprezzamento del tasso di cambio reale (la moneta interna assume un valore maggiore) e una diminuzione delle esportazioni nette NX. In una grande economia aperta, quindi: G ↑ → I ↓ e NX ↓. Nel caso di una piccola economia aperta, invece, l’effetto di spiazzamento si verifica solo sulle esportazioni nette, per cui se G ↑ → NX ↓.

NEL BREVE PERIODO Per spiegare come si determina il prodotto nel breve periodo introduciamo il modello del moltiplicatore, che indica come le variazioni degli investimenti, delle esportazioni e delle politiche di bilancio 16

possono incidere sul prodotto e sull’occupazione. Il moltiplicatore agisce nella formazione della domanda aggregata mostrando esattamente in che misura il consumo, gli investimenti e altre variabili interagiscono, determinando così il livello della domanda aggregata. Il modello del moltiplicatore presuppone innanzitutto che siano considerati fissi i prezzi dei fattori produttivi e quindi l’offerta aggregata è orizzontale. Dati i prezzi fissi, il reddito Y sarà determinato dalla domanda di beni e servizi ed anche l’occupazione dipenderà dalla quantità di beni e di servizi prodotti. Il moltiplicatore della spesa pubblica (stabilizzatore dell’economia) indica quindi l’entità della variazione del livello di equilibrio del reddito in seguito ad un aumento della spesa pubblica.

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“La politica monetaria e la politica fiscale nel modello IS-LM” - lezione del 12 Gennaio 2006 Prof. Spallone. A cura di Maria Lucia Beneveni Se il titolo della lezione, così posto, ne definisce il tracciato, si potrebbe formulare in questi termini il suo obiettivo: stabilire un modello analitico semplice finalizzato a garantire alle autorità, monetaria e fiscale, di raggiungere determinati obiettivi politici. Si assume come orizzonte temporale il breve periodo. In genere, l’economia è studiata dividendola in due grandi aree: quella reale e quella monetaria; l’una è la parte che si occupa dei beni e dei servizi scambiati, l’altra, il settore monetario, si occupa di variabili nominali, come la moneta, appunto. L’equazione fondamentale della contabilità nazionale è data da: Y = C + I + G. In essa mai si parla di moneta, perché l’espressione rappresenta il settore reale dell’economia (l’acquisto di beni e servizi da parte delle famiglie, gli investimenti delle imprese, la spesa pubblica). Le grandezze indicate nell’espressione sono grandezze fisiche. La variabile fondamentale del consumo, C, è data dal reddito disponibile, quella dell’investimento, I, dal tasso di interesse; la spesa pubblica, G, è una variabile politica, dipendente da obiettivi del Governo, da sue scelte discrezionali, per cui si dice che essa è una variabile esogena.

Come i classici pensano il funzionamento dell’economia. Per i classici è fondamentale soltanto il settore reale dell’economia perché è in esso che si determina l’equilibrio tra domanda e offerta di beni e servizi; questo consente loro di non fare alcun cenno alle variabili nominali. Per semplicità si assume che G sia pari a zero (G = 0); si è detto che è una variabile esogena, pertanto l’equazione si riduce: Y=C+I ma si potrebbe semplificare ancora, portando C dall’altra parte dell’equazione, ottenendo: Y–C=I ed ancora di più, la semplificazione potrebbe continuare dicendo che: Y–C=S S, essendo il risparmio, quindi: S = I. Nel settore reale dell’economia questa espressione identifica una situazione di equilibrio. Si sa che l’investimento, I, dipende dal tasso di interesse, r, e che tra queste due grandezze esiste una relazione inversa: S = I(r) ma da cosa dipende S? Per i classici S è sostanzialmente una funzione del tasso di interesse, in quanto S costituisce l’offerta di fondi, laddove I è la domanda di fondi. Se il tasso di interesse è sufficientemente alto, ne consegue che il risparmio è maggiormente redditizio, quindi S è una funzione crescente di r. L’equilibrio nel settore reale dell’economia può essere così rappresentato:

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dove r* è quel livello del tasso di interesse tale per cui S = I. Nell’equilibrio visto, la moneta non viene chiamata in causa. Il tasso di interesse è un fenomeno prettamente reale. A questo punto, ci si potrebbe chiedere quale sia l’importanza del settore monetario dell’economia per i classici, a cosa serva la moneta. Per rispondere a questi quesiti bisogna descrivere il settore monetario. Questo è costituito da una offerta di moneta, Ms , che essendo controllata dalla Banca centrale è un dato acquisito, esogeno, Ms = M. La domanda di moneta, Md è invece funzione del reddito, Md = fY. Inoltre, la moneta ha un ruolo essenzialmente transazionale, aiuta a rendere le transazioni più efficienti. La situazione di equilibrio è tale per cui: Ms = Md. Dato che per i classici la domanda di moneta è giustificata dallo scopo transazionale, la domanda di moneta è correlata alla domanda di potere di acquisto. Al fine di mettere in risalto questo aspetto, si divide ciascuna componente del settore monetario, di cui sopra, per il livello generale dei prezzi, P: Ms / P; Md / P2 A questo punto si hanno quattro incognite, Ms, Md, Y, P, e tre equazioni. Se alla luce delle conoscenze matematiche, questo è un sistema indeterminato, per i classici questo è solo un falso problema e questo perché l’economia tende sempre al livello di pieno impiego dell’occupazione. Se i fattori di produzione (lavoro, L, capitale, K) e le risorse naturali, T, sono fattori noti, data la funzione di produzione, f, è possibile conoscere il livello del reddito Y : Y = f (K, L, T). Il settore monetario serve a determinare il livello assoluto dei prezzi. Ciò che conta però è il livello relativo. La determinazione del livello assoluto dei prezzi da parte del settore monetario dell’economia fornisce soltanto, potrebbe dirsi, una indicazione di scala, senza alterare le scelte degli agenti economici. Questo modello classico ha nella determinazione di Y sia la sua forza formale, essendo un livello di pieno impiego, ma anche il suo elemento di debolezza, in quanto nel breve periodo la piena occupazione non si realizza. Da qui la critica keynesiana. Se si assume che esistano tanti possibili equilibri di sottoccupazione, e non invece un solo equilibrio di piena occupazione, il settore monetario è indeterminato e così pure il settore reale dell’economia. Per i classici valeva l’espressione di seguito scritta I(r) = S(r) espressione che potrebbe anche scriversi nel modo seguente 2

Il rapporto di cui al testo calcola il potere di acquisto a disposizione.

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I(r) = S(r, Y) in quanto se Y è una variabile esogena, l’espressione non cambia il suo significato proprio perché Y è una costante. Se si accetta la critica keynesiana, Y non può più essere considerato costante, né la funzione del risparmio3 si può pensare abbia una posizione unica. Il fatto che il risparmio S sia anche funzione di Y è rilevante: la sua funzione assumerà posizioni diverse, a seconda del livello di Y che si intende prendere in considerazione. Questa critica rompe la dicotomia classica, in quanto non conta più la differenza tra settore monetario e settore reale dell’economia, proprio perché l’elemento monetario M risulterebbe avere anche degli effetti sul modello reale. Il sistema classico è indeterminato per Keynes. Si parta dal sistema a due incognite: S = S(Y, r) I = I(r) S = I. Si consideri il settore reale dell’economia. Nel grafico si riporta la funzione degli investimenti, I. La funzione del risparmio, S, risulta dipendere da r ed è indicizzata ad un certo livello di Y, Y 1, uno dei tanti livelli di reddito di sottoccupazione che si possono verificare.

Se si pone che Y2 sia maggiore di Y1 e se Y rimane una delle determinanti che però non si trova sugli assi cartesiani, il movimento che si può registrare non è lungo la curva, ma è un movimento della curva della funzione del risparmio. L’effetto potrebbe essere il seguente:

Si consideri la funzione del consumo: C = c 0 – çY. Attraverso una serie di passaggi è possibile scrivere la funzione del risparmio: Y – C = Y – c0 - çY (si sottrae Y da entrambi i lati dell’equazione); S = - c0 + Y (1 – ç) laddove (1 – ç) è la propensione marginale al risparmio, s, (ç è invece la propensione marginale al consumo, cioè il rapporto tra l’incremento del consumo e l’incremento del reddito che ne è la causa; la somma dei due tipi di propensione è pari a 1, c + s = 1); S = - c0 + sY. 3

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In tal caso il risparmio risulta aumentato. Il tasso di interesse è fisso ad un livello costante r*: questo serve a spiegare l’effetto sul risparmio, ma in realtà è una variabile. Un effetto opposto sul risparmio si avrebbe nel caso in cui il livello di reddito considerato fosse inferiore a quello di riferimento. Ora, la relazione che è possibile osservare tra r ed Y è una relazione di tipo inverso, per cui aumentando il livello di reddito, il tasso di interesse diminuisce e viceversa. Anche se Y non è sugli assi, detta relazione può essere così rappresentata:

Lo spostamento della funzione del risparmio S sarà verso destra, portandosi verso la posizione S’, e poi anche eventualmente verso S’’, S’’’, per livelli di reddito via via sempre maggiori. Tutti i punti di equilibrio che è possibile osservare hanno lo stesso valore: indicano quelle combinazioni di Y e di r che pongono in equilibrio il settore reale dell’economia, I e S. Il luogo geometrico dei punti di equilibrio così determinati è la curva che unisce gli stessi, o curva IS:

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Se si riuscirà a fare lo stesso ragionamento per il settore monetario dell’economia, si riuscirà a trovare allora quel livello di Y che per i classici era determinato. Si riprenda il settore monetario. Si sa che nel breve periodo i prezzi sono rigidi, costanti. Si sa che l’offerta di moneta (Ms) è data, la domanda di moneta (Md ) è funzione del reddito e che l’equilibrio nel settore che si analizza si verifica nel punto in cui la domanda e l’offerta di moneta si eguagliano: Ms = M; Md = f Y; Ms = Md . Per Keynes, tuttavia, la domanda di moneta non è soltanto funzione di Y, dipende anche dal tasso di interesse e più precisamente inversamente da esso, per cui un aumento del tasso di interesse, r, determina una minore domanda di moneta. La moneta, invero, è una componente che a differenza di quelle di tipo transazionale, svolge piuttosto anche una funzione speculativa, essendo utilizzata come attività finanziaria alternativa ad altre: se l’acquisto di titoli consente di realizzare un tasso di interesse alto, il costo opportunità di detenere moneta è alto, quindi sono più convenienti le attività finanziarie. Data la funzione di domanda di moneta: Md = f Y – mr se Ms = M, Md si rappresenta come una funzione decrescente di r, che dipende da Y, ma che graficamente risulta indicizzata a livelli di reddito che si fissano come riferimento:

Se si suppone che Y2 sia maggiore di Y1, si può osservare che la domanda di moneta cresce. Anche in questo caso, l’effetto che ne consegue va letto come spostamento non lungo la curva, ma della curva che raffigura la funzione di domanda monetaria. Lo spostamento è verso l’esterno, verso destra. Se si ripete questo ragionamento per diversi livelli di reddito, Y, si osservano ulteriori spostamenti della funzione di domanda monetaria 22

verso l’alto. Tutti i punti di intersezione con la curva di offerta di moneta rappresentano punti di equilibrio del settore monetario. Il luogo geometrico dei punti di equilibrio del settore monetario o finanziario dell’economia è la curva LM: l’insieme delle possibili combinazioni dei livelli di reddito e di tasso di interesse per le quali vi è uguaglianza tra domanda e offerta di moneta. Nel caso del settore monetario la relazione che si osserva tra tasso di interesse e reddito è di tipo diretto. Questa relazione evidenzia un legame tra due variabili, r e Y, che sono le stesse viste a proposito del settore reale dell’economia. Riportando dette variabili sugli assi, quanto detto conduce alle seguenti raffigurazioni grafiche:

Il punto di intersezione, E, del grafico a destra è per definizione un punto di equilibrio nei due settori dell’economia. In tal modo si conosce la combinazione di r e Y di equilibrio: r non è più un fenomeno reale come i classici hanno teorizzato, ma un fattore che si determina su entrambi i settori economici; Y non è più dato, costante, come dagli stessi classici suggerito, ma qualsiasi livello di Y può essere considerato come punto di partenza iniziale per analizzare il funzionamento dei settori. Nel punto E si realizza l’equilibrio simultaneo dei due settori economici. Y non necessariamente è quello di piena occupazione. Politica fiscale. Si prenda in esame la politica fiscale4, in particolare il caso di una politica fiscale espansiva. Si supponga che il Governo aumenti il livello della spesa pubblica G. Uno dei problemi che ci si pone è come venga finanziato questo aumento5 e poi quali siano gli effetti dello stesso su tasso di interesse e reddito. Si parta dagli effetti finali. Quando si verifica un aumento della spesa pubblica, la curva IS si sposta verso l’esterno: La politica fiscale è posta in essere dal Governo di un Paese facendo variare la tassazione o la spesa pubblica. Questa politica influenza direttamente la curva IS in due differenti maniere: una diminuzione della tassazione o un aumento della spesa pubblica ( politica fiscale espansiva) comporta graficamente uno spostamento della curva IS verso l’esterno, verso destra; un aumento della tassazione o una diminuzione della spesa pubblica (politica fiscale restrittiva) comporta uno spostamento della curva IS verso sinistra. 5 La spesa pubblica può essere finanziata tramite un aumento della tassazione ovvero, in deficit, attraverso l’emissione di titoli del debito pubblico. Il finanziamento con creazione di base monetaria (emissione di moneta) non può considerarsi una via percorribile dopo che le regole del Trattato di Maastricht vietano la monetarizzazione del debito. 4

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I livelli di reddito e di tasso di interesse pari a r* e Y* sono quelli di partenza, tali per cui il livello di spesa pubblica sia G = 0. Quando la spesa pubblica aumenta, questo produce un aumento della domanda aggregata e questo si riflette sul livello di reddito Y, nel caso in esame Y**. L’aumento si registra anche per il tasso di interesse che si porta a livello r**. Questi effetti che realizzano uno spostamento verso l’alto della curva IS sono visibili nel nuovo punto di equilibrio. Ripercorrendo la sequenza degli eventi consequenziali ad una politica fiscale espansiva, si osserva che l’aumento della spesa pubblica, nel quale si realizza il tipo di politica in esame, produce un aumento del reddito, quindi un aumento della domanda di moneta; questo implica un aumento del tasso di interesse che però produce una diminuzione degli investimenti privati. In sintesi: ↑ G → ↑ Y → ↑ Md → ↑ r → ↓ I. L’incremento iniziale del reddito Y viene soffocato dalla diminuzione degli investimenti privati. Si dice che la spesa pubblica G spiazza gli investimenti privati. Ritornando all’insieme di equazioni che definiscono il settore monetario Md = kY-mr ; Ms = M ; Ms = Md si ha che non solo la domanda di moneta dipende, come già visto, dal reddito, ma questo, insieme all’aumento del tasso di interesse, come effetto nella catena di eventi di cui sopra, rendono il settore monetario così raffigurato:

Volendo esaminare le possibili modalità di finanziamento della spesa pubblica per valutare il comportamento degli agenti economici, è insito nel grafico un finanziamento della stessa tramite 24

emissione di titoli di Stato6. Nel caso precedente, a fronte di un aumento del tasso di interesse, si verifica una situazione in cui può divenire più conveniente acquistare titoli di Stato piuttosto che investire direttamente in una impresa. Politica monetaria. Si esamini la politica monetaria7, ed in particolare il caso di una politica monetaria di tipo espansivo. Si supponga che la Banca centrale aumenti la quantità di moneta in circolazione. Questo graficamente si traduce in uno spostamento verso l’esterno della curva LM, spostamento che si realizza con un aumento del livello di reddito ma una diminuzione del tasso di interesse.

Sul mercato monetario la situazione che si osserva è la seguente:

Nel caso della politica monetaria espansiva, un intervento di tal genere si traduce in un aumento dell’offerta di moneta e quindi in una diminuzione del tasso di interesse; tale diminuzione implica un aumento degli investimenti che si traduce in un aumento del livello di reddito. Ecco in sintesi la sequenza degli eventi: In tal caso, si presume che lo Stato voglia collocare titoli sul mercato e ne aumenti quindi l’offerta. Di conseguenza, il prezzo dei titoli scende. Per i titoli, esiste una relazione di tipo inverso tra il prezzo del titolo e il suo rendimento. Invero, si supponga, ad esempio, che il titolo valga 100, acquistato sotto la pari a 95, il suo rendimento è pari a 100-95/95; a seguito di un aumento dell’offerta dei titoli, il prezzo del titolo considerato diminuisce sino, ad esempio, a 93; il suo rendimento è pari a 100-93/93. 7 La politica monetaria è messa in atto dalla Banca centrale facendo variare la quantità di moneta presente sul mercato. Questa politica influenza direttamente la curva LM in due diversi modi: un aumento della quantità di moneta (politica monetaria espansiva) comporta graficamente uno spostamento della curva LM verso destra; una diminuzione della quantità di moneta (politica monetaria restrittiva) comporta graficamente uno spostamento della curva LM verso sinistra. 6

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↑ Ms → ↓ r → ↑ I → ↑Y. Nel punto in cui il livello di reddito aumenta, alla catena di eventi di cui sopra, si può aggiungere la catena di eventi precedentemente osservata, in quanto sono tutti fenomeni consequenziali che si tende a considerare separatamente per esigenze didattiche. Il modello IS-LM è la sintesi (neoclassica) del pensiero classico e di quello keynesiano. Il pensiero keynesiano originale prevede un fenomeno chiamato trappola della liquidità. Questa situazione si verifica quando le aspettative degli operatori convergono e sono realiste nel pensare che il tasso di interesse non possa scendere al di sotto di un “certo” livello, ma anzi salirà.

Graficamente, il tratto rilevante della curva di domanda di moneta è il tratto piatto, quello che raffigura la trappola di liquidità. Il tasso di interesse rimane fisso nel punto di equilibrio. Il reddito sposta la curva di domanda di moneta, ma a partire dal punto di equilibrio. Se tale è il caso, quando la Banca centrale immette nuova moneta in circolazione, gli agenti economici non investono in titoli, in quanto le loro aspettative al rialzo generano nell’immediato una paura di incorrere in perdite in conto capitale8. E’ questo atteggiamento che non produce alcuno spostamento nel livello del tasso di interesse e neppure della curva LM (in situazioni in cui l’elemento psicologico non è così rilevante, l’aumento di offerta di moneta determina

una diminuzione del tasso di interesse). In tal caso una politica fiscale espansiva produce uno spostamento della curva IS verso l’esterno, cioè aumenta il Si supponga che si acquisti un titolo a 95, alla cui scadenza varrà 100. Se ci si libera di esso prima della scadenza, si può incorrere in alcune perdite: se il tasso di interesse aumenta, si corre il rischio di non trovare alcuno che rimborsi il valore di 95, perché se il tasso di interesse aumenta gli altri agenti economici potrebbero acquistare il titolo al momento della sua emissione, pagandolo ad esempio 93. 8

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livello di reddito, senza alcun effetto sul tasso di interesse. La politica monetaria è inefficace, perché ad un “certo” punto (dopo il tratto piatto, quello rilevante, della curva LM) la curva LM comincia a salire. Cercando di contestualizzare il pensiero keynesiano, la crisi del 1929 fa venire meno l’idea che l’economia da sola possa stabilizzarsi ad un livello di piena occupazione. Una politica fiscale espansiva stimola l’economia e la politica monetaria è inefficace, perché in quel periodo si avverte una paura generalizzata di investire; ecco perché è il tratto piatto quello rilevante della curva LM. Il pensiero keynesiano entra in crisi e si ritorna al pensiero classico attraverso i monetaristi, quando dopo la seconda guerra mondiale una politica fiscale espansiva che si somma alle politiche belliche appena concluse aggrava i bilanci degli Stati, con tassi di inflazione molto elevati e disavanzi di bilancio drammatici. L’analisi condotta sulle politiche attuabili in economia porta a parlare dei meccanismi di trasmissione delle politiche. Questi sono quei processi attraverso i quali una alterazione (aumento o diminuzione) della quantità di moneta impatta sulle variabili reali, in particolare sul reddito. Il meccanismo keynesiano è indiretto e passa attraverso il tasso di interesse. Tornando alla sequenza già vista: ↑ Ms → ↓ r → ↑ I → ↑Y. si può osservare come il tasso di interesse r sia l’anello di connessione tra le variabili reali e quelle nominali. Per i classici, invece, se si verifica un aumento della quantità di moneta, questo si riverbera solo sui prezzi. Ponendo mente alla teoria quantitativa della moneta, essendo il reddito e la velocità di circolazione della moneta fissi a livelli costanti, l’effetto è evidente: MV = PY. Dato questo impatto da parte della variabile monetaria, si dice che la moneta è neutrale. Non è detto, però, che nel breve periodo Y corrisponda al livello di reddito di piena occupazione e che la teoria abbia valore anche nel lungo periodo, cioè: ↑MV = ↑P↑Y. Se nel breve periodo la quantità di moneta aumenta, cresce il potere di acquisto (M/P) degli operatori economici, aumentano quelli che si chiamano “saldi monetari reali” (l’aumento della liquidità è superiore all’aumento dei prezzi e la differenza corrisponde all’incremento del reddito). Se il potere di acquisto è il risultato di un comportamento razionale del consumatore, questo potrebbe essere poco significativo; tuttavia se il potere di acquisto è cresciuto, questo significa che il consumatore tenderà a spendere indifferentemente su tutti i beni di consumo. Pertanto, la relazione tra moneta e reddito è diretta e passa attraverso i consumi, non c’è nessun’altra variabile che faccia da trade-union tra moneta e reddito.

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“La politica monetaria: obiettivi e strumenti di FED e BCE “ - lezione del 19 gennaio 2006 Prof. Di Giorgio A cura di Sara Ceccarelli

Istituzioni e governo monetario Fed System Il sistema monetario statunitense è così costituito: Dodici Fed locali: sono banche distrettuali che rappresentano l’articolazione territoriale della Federal Reserve. Ciascuna Fed locale gestisce i pagamenti e il risconto (anche se nella prassi la determinazione del tasso di sconto è assunta a livello centrale), svolge attività di ricerca sullo stato dell’economia (soprattutto locale) ed infine pubblica statistiche e divulga informazioni sull’economia locale. Le fed locali sono governate da un direttorio di nove membri, di cui tre nominati dal Board of Governors, tre dal sistema bancario locale e tre dalle associazioni imprenditoriali. Tra le Fed quella di New York è anche responsabile per le operazioni di mercato aperto. -

Board of Governors: è l’organo, composto da sette membri, responsabile per le principali decisioni di politica monetaria

-

FOMC : è il Comitato per le operazioni di mercato aperto. E’ composto dai sette membri del Board of Governors, dal presidente della Fed di New York e da quattro presidenti delle Fed locali tra le undici rimanenti. Le undici Fed locali partecipano agli incontri del Fomc ma solo a quattro di queste è attribuito, a rotazione, il diritto di voto9.

SEBC Il sistema europeo delle banche centrali (SEBC) è attualmente composto dalla Banca Centrale Europea, dalle dodici banche centrali dei Paesi che hanno aderito all’euro e dalle (13) banche centrali dei Paesi che fanno parte dell’Unione Europea pur non avendo aderito alla moneta unica. I principali organi del SEBC sono: -

Consiglio direttivo: è l’organo che assume le decisioni di politica monetaria per l’area dell’euro. E’ composto da diciotto membri: i dodici governatori delle banche centrali nazionali e i sei membri del Comitato esecutivo della BCE. La composizione del Consiglio direttivo è tale che grande peso hanno le posizioni dei singoli stati membri.

-

Comitato esecutivo: è l’organo che dà esecuzione alle decisioni di politica monetaria assunte dal Consiglio direttivo impartendo le istruzioni necessarie alle banche centrali nazionali. E’

Le riunioni del Fomc hanno una struttura rigida: dopo una iniziale discussione sui trend dell’economia reale, si passa all’analisi monetaria. Il capo ufficio studi descrive gli andamenti delle ultime sei settimane; il presidente del Board esprime la sua visione e a seguire intervengono tutti i banchieri con diritto di voto; il presidente propone una decisione di voto alla quale seguono le votazioni. Le decisioni più rilevanti sono quelle relative ai tassi d’interesse. 9

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composto da sei membri (tra cui il presidente e il vice-presidente della BCE), nominati di comune accordo dai capi di stato dei paesi dell’Unione Economica e Monetaria. -

Consiglio generale: è un organo che consente, all’interno della BCE, la rappresentanza dei Paesi dell’Unione non appartenenti all’area dell’euro. E’ composto dai governatori delle banche centrali dei venticinque paesi dell’Unione, dal presidente e dal vice-presidente della BCE.

Con il recente ingresso nell’Unione degli stati dell’est europeo e la loro futura adesione alla moneta unica, si pone il problema di una eccessiva numerosità, e quindi di scarsa efficienza, dell’organo decisionale della politica monetaria: si è reso necessario, quindi, un cambiamento dell’assetto di governance del SEBC che prevede un meccanismo di rotazione delle rappresentanze nazionali nel Consiglio direttivo. E’ stata, inoltre, prevista una modifica anche nelle modalità di voto all’interno del Consiglio: il numero di voti spettante ai Paesi rappresentati è attribuito in ragione del peso che essi hanno all’interno dell’Unione economica e monetaria.

Le decisioni che vengono assunte dalle competenti istituzioni monetarie sono funzionali al raggiungimento di quegli obiettivi che le autorità hanno deciso di perseguire. In relazione agli obiettivi della politica monetaria si rinvengono sostanziali differenze tra il sistema monetario europeo e quello statunitense. Con riguardo alle finalità delle manovre monetarie si deve distinguere tra: obiettivi finali; obiettivi intermedi; obiettivi operativi.

Obiettivi finali Gli obiettivi finali vengono individuati in relazione a quelle variabili macroeconomiche di interesse generale che si ritengono decisive per il benessere della collettività. Lo Statuto della BCE stabilisce due obiettivi finali per l’area dell’euro: 1) mantenere la stabilità dei prezzi; per stabilità si intende il contenimento dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC) tra lo 0 e il 2%; sub 1) contribuire allo sviluppo dell’area dell’euro. La stabilità dei prezzi è un obiettivo prioritario ed irrinunciabile: solo subordinatamente ad esso le autorità monetarie possono adottare manovre per favorire lo sviluppo10. Diversamente dalla BCE, la Federal Reserve non è vincolata dal suo statuto al perseguimento di un obiettivo prioritario, né è previsto alcun contenuto numerico per gli obiettivi finali.

La scelta di un obiettivo finale, in sede europea, in termini di contenimento dell’inflazione è stato ispirato dall’esperienza tedesca: la Bundesbank aveva adottato una tale politica sin dal 1974 e la Germania ha subordinato il proprio ingresso nell’euro all’inserimento di questo obiettivo finale nello Statuto della BCE. 10

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I sei obiettivi finali della Fed sono: stabilità dei prezzi; crescita sostenuta; pieno impiego delle risorse (in primo luogo, elevata occupazione); stabilità finanziaria; stabilizzazione dei tassi a lunga scadenza; stabilizzazione del tasso di cambio.

Obiettivi intermedi Un obiettivo intermedio è definito in relazione ad una variabile monetaria (aggregato monetario11 e tassi d’interesse) più facilmente controllabile dall’Autorità e attraverso la quale si ritiene di poter raggiungere l’obiettivo finale. Con riferimento a questa strategia diffusamente adottata dalle banche centrali si parla di gestione “a due stadi” della politica monetaria: gli effetti di una decisione di politica monetaria si verificano con ritardo rispetto alla manovra che li ha indotti. Una variabile del mercato monetario può essere qualificata come obiettivo intermedio quando: è facilmente rilevabile (a livello statistico); è strettamente controllabile; è in relazione stabile con l’obiettivo finale. La politica monetaria viene quindi condotta attraverso la gestione di tassi d’interesse o di aggregati monetari che influenzano il livello dei prezzi, obiettivo finale della BCE12. Tuttavia, l’efficacia della politica monetaria dipende anche dalla domanda di moneta, che non è condizionata solo dal tasso di interesse bensì anche dalle aspettative degli agenti circa il futuro. Quindi, se in assenza di incertezza una manovra di fissazione del tasso di interesse implica un determinato livello dell’offerta di moneta e viceversa, lo stesso non può dirsi in condizioni di incertezza. In quest’ultimo caso, infatti, la politica monetaria potrà solo limitare il livello di offerta di moneta o il tasso di interesse entro un range di variabilità.

i

Ms

Md M Il controllo dell’autorità monetaria si indirizza non solo alla moneta ma anche a quegli aggregati monetari che svolgono le stesse funzioni di questa: sono cioè mezzi di pagamento, unità di conto e riserve di valore. Nell’Eurosistema l’aggregato M0 è costituito dalla base monetaria, cioè circolante e riserve; M1 comprende anche depositi a vista; l’aggregato M2 comprende anche depositi con scadenza inferiore a 2 anni o rimborsabili con preavviso inferiore a 3 mesi; nell’aggregato più ampio M3 si aggiungono pronti contro termine verso la clientela, obbligazioni con scadenza inferiore a 2 anni e quote di fondi di investimento nel mercato monetario. 12 La relazione tra quantità di moneta e livello dei prezzi è definita dalla teoria quantitativa della moneta sintetizzabile nell’equazione: M V = P Y che, in termini di tassi di crescita, diviene: M+V=P+Y. 11

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La scelta di individuare in un aggregato monetario o nel tasso di interesse la variabile intermedia di controllo dovrebbe essere subordinata alla valutazione della tipologia di disturbi che influenzano il sistema economico in un determinato periodo: quando l’incertezza è maggiore nei mercati finanziari è preferibile che l’autorità monetaria fissi il tasso d’interesse, quando invece l’incertezza investe maggiormente il mercato reale è preferibile stabilizzare l’offerta di moneta. La Federal Reserve ha fatto generalmente ricorso ai tassi d’interesse come obiettivo intermedio della politica monetaria pur non avendone annunciato esplicitamente l’utilizzo. Raramente agli obiettivi intermedi della Fed è stato assegnato un valore quantitativo vincolante; l’enfasi della politica monetaria statunitense è piuttosto incentrata sugli obiettivi operativi. La strategia monetaria della BCE si fonda su due pilastri: 1) un obiettivo intermedio definito su un aggregato monetario: inizialmente era prevista una crescita annua dell’aggregato M3 pari al 4,5%, ma dal 2004 la crescita annua dell’aggregato M3 viene definita sulla base dell’analisi monetaria ed economica, per cui il vincolo è diventato variabile; 2) il monitoraggio di variabili informative relazionate all’andamento dei prezzi (prezzi delle materie prime, costo del lavoro, produttività).

Obiettivi operativi Un obiettivo operativo è definito su una variabile direttamente controllabile dall’autorità monetaria ed in grado di esercitare un’influenza determinante su un obiettivo intermedio. Anche questi obiettivi possono essere formulati in termini di quantità di moneta (controllo sul livello delle riserve bancarie) o di tassi d’interesse (tassi interbancari, tassi pronti contro termine). La Fed utilizza come obiettivo operativo principale il tasso sui fed funds; la Bce utilizza invece un aggregato quantitativo individuato nella quantità “normale” di riserve.

Strumenti della politica monetaria Gli strumenti della politica monetaria rappresentano concretamente le modalità attraverso le quali le autorità competenti perseguono gli obiettivi di cui si è parlato. Gli strumenti della politica monetaria sono: tassi ufficiali di interesse: rappresentano le condizioni di prestito e deposito tra banca centrale e altri istituti bancari; operazioni di mercato aperto (OMA), con le quali si inducono variazioni della base monetaria; coefficiente di riserva obbligatoria: influisce sulla quantità di moneta che le singole banche possono immettere nel sistema economico.

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Gli strumenti utilizzati dalla Fed sono i seguenti: Discount window: fornitura collateralizzata di liquidità (lending of last resort) da parte delle autorità monetarie a favore delle banche e rispetto alla quale le banche pagano un tasso di sconto. OMA: operazioni di mercato aperto giornaliere di vario tipo; ROB: riserve obbligatorie definite sulla base di due coefficienti, da depositare presso la banca centrale per un periodo di quindici giorni e sulle quali non è corrisposta alcuna remunerazione. Gli strumenti utilizzati dalla BCE sono: “Corridoio dei tassi”. Sono previste due tipi di operazioni su iniziativa delle controparti: un’operazione di rifinanziamento marginale che permette alle banche di ottenere liquidità overnight; e un’operazione di deposit facility che permette alle banche di impiegare la liquidità giornaliera in eccesso. I tassi d’interesse relativi a queste due operazioni definiscono un limite massimo e un limite minimo entro i quali possono oscillare i tassi di interesse. OMA; ROB.

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“INTERMEDIARI E MERCATI FINANZIARI” - lezione del 26 Gennaio 2006, Prof. Di Giorgio A cura di Ilaria Screpante

Le motivazioni della regolamentazione del sistema economico possono essere riconducibili a tre assunti fondamentali, che di conseguenza si pongono anche alla base della regolamentazione del sistema finanziario: 1. correggere le distorsioni dei fallimenti del mercato 2. assicurare equità nella distribuzione delle risorse 3. garantire stabilità macroeconomica In generale, i mercati finanziari sono i luoghi nei quali si scambiamo attività finanziarie, ossia quelle attività – definite intangibili – che rappresentano un diritto legale a ottenere un probabile beneficio futuro, tipicamente consistente in una somma di denaro. Le attività finanziarie svolgono due funzioni principali: la prima consiste nel trasferire fondi da coloro che hanno disponibilità da investire (risparmi) a coloro che necessitano di fondi per svolgere altre attività (progetti di investimento); la seconda, invece, consiste nel diversificare le forme di investimento per diminuire il rischio. Per un’analisi dettagliata degli strumenti e delle istituzioni proprie dei mercati finanziari – nonché del ruolo degli intermediari e della regolamentazione di tali mercati – è necessario, però, porre attenzione anche sulle possibili cause dei fallimenti del mercato, di cui è utile descrivere sinteticamente alcuni aspetti specifici: a. Le economie di scala, che potrebbero agevolare la formazione di sistemi oligopolistici. b. L’esternalità positiva o negativa. Ad esempio un caso di esternalità negativa si ha quando il fallimento di una data banca potrebbe causare una brusca riduzione della fiducia anche verso altre istituti di credito. c. L’incertezza e l’asimmetria informativa. d. I beni pubblici. e. Il Market power, a causa di collusioni esplicite o implicite, o fusioni ed acquisizioni, ovvero l’utilizzo di tecnologie che di fatto potrebbero limitare il numero di imprese operanti nel mercato. f. La libertà di entrata e di uscita. Oltre ad eventuali fallimenti che potrebbero verificarsi nel mercato, sono nondimeno possibili anche fallimenti riguardanti strettamente il sistema di regolamentazione dei mercati finanziari, soprattutto dovuti a cause endogene al mercato stesso:  difficoltà nel formulare obiettivi chiari e realmente raggiungibili (che potrebbe portare a pesanti inefficienze delle agenzie di regolamentazione);  assenza o scarsità di incentivi, causa di una scarsa motivazione da parte della burocrazia regolamentatrice;

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 collusione tra apparato di regolamentazione – o singoli componenti di esso – e attori del mercato; difficoltà gestionali e burocratiche delle agenzie di regolamentazione; scarsa competitività dei salari rispetto al settore privato. Questi fattori, rappresentando possibili cause del fallimento dei sistemi di regolamentazione, costituiscono di conseguenza ostacoli alla stabilità sia dei mercati finanziari che degli intermediari, nonché freni alla realizzazione di un’effettiva trasparenza nei mercati e di una leale concorrenza tra gli attori. Questi ultimi elementi costituiscono di fatto i veri obiettivi propri della regolamentazione e della supervisione finanziaria e bancaria, che più precisamente possono essere distinti in quattro aree: 1. Macro stabilità: si riferisce alla stabilità dei mercati ed equivale al controllo del rischio sistemico. 2. Micro stabilità (in riferimento alla stabilità degli intermediari): le misure di controllo della stabilità degli intermediari sono quelle proprie della regolamentazione di stabilità delle attività imprenditoriali, ossia: limitazioni all’indebitamento; requisiti di capitale minimo; requisiti di onorabilità, ecc. (anche se in realtà gli intermediari finanziari sono regolati in modo più capillare soprattutto a causa della funzione di allocazione del risparmio che essi svolgono, nonché di tutela dei soggetti risparmiatori). 3. Effettiva trasparenza nei mercati finanziari: raggiungibile esclusivamente attraverso specifiche regole di trasparenza e correttezza rivolte sia al mercato che agli intermediari. Più specificatamente, nei mercati finanziari è possibile raggiungere tale obiettivo attraverso la parità di trattamento e di diffusione delle informazioni; in riferimento agli intermediari finanziari, invece, ciò è possibile mediante regole di non discriminazione nei rapporti tra intermediari e categorie diverse di clienti. 4. Leale concorrenza nei mercati: soprattutto attraverso regole antitrust in materia di concentrazioni, intese e posizioni dominanti sia tra intermediari finanziari che tra mercati organizzati. Dopo la breve descrizione dei mercati finanziari e dei loro caratteri, delle possibili cause del fallimento dei mercati e della necessità di un’attenta regolamentazione come fondamento della stabilità di essi, è necessario porre attenzione anche sui soggetti dei mercati finanziari e sugli specifici caratteri dell’intermediazione finanziaria. In genere, i partecipanti a tali mercati (soggetti che emettono e acquistano attività finanziarie) comprendono le famiglie, le imprese (società per azioni e società semplici), lo Stato e i suoi enti, le amministrazioni locali e i soggetti esteri (Stati esteri, organismi sopranazionali come la Banca Mondiale e la Banca per lo sviluppo Asiatico, società straniere e singoli individui). Un ruolo primario all’interno dei mercati finanziari, però, spetta alle istituzioni finanziarie, che svolgono una molteplicità di funzioni: a. Scambio di attività finanziarie per conto di clienti. b. Scambio di attività finanziarie per conto proprio.

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c. Assistenza nella creazione di attività finanziarie per conto dei propri clienti, vendendole quindi ad altri partecipanti al mercato. d. Servizi di consulenza sugli investimenti finanziari. e. Gestione del portafoglio di altri partecipanti al mercato. f. Trasformazione di attività finanziarie, acquistate attraverso il mercato, in nuove attività con proprietà più apprezzate dal pubblico. Questa ultima funzione è svolta in via prioritaria dagli intermediari finanziari, che costituiscono la tipologia più importante di istituzione finanziaria. Essi comprendono sia le istituzioni di deposito (banche commerciali, casse di risparmio, cooperative di credito) che acquistano il volume dei loro fondi offrendo le loro passività al pubblico, spesso sottoforma di depositi; sia le compagnie di assicurazione, i fondi pensione e le società finanziarie. Gli intermediari finanziari svolgono il ruolo di trasformare le attività finanziarie che sono meno desiderabili per una grande parte del pubblico in altre attività che corrispondono a passività emesse dagli intermediari medesimi in possesso di caratteristiche più apprezzate. Secondo le teorie classiche – o tradizionali – dell’intermediazione bancaria, nel compiere tale trasformazione le banche semplificano i costi associati alle transazioni finanziarie e svolgono una molteplicità di funzioni economiche: 1. il servizio di trasformazione delle scadenze: in sostanza la banca commerciale trasforma un’attività di lunga scadenza in una a breve scadenza, concedendo all’investitore-prenditore di fondi un prestito con la scadenza desiderata, e al depositante-investitore un’attività finanziaria in un tempo desiderato. In questo modo gli investitori hanno una maggiore gamma di scelta in relazione alla scadenza dei loro investimenti, e coloro che prendono il prestito possono scegliere tra una maggiore varietà di scadenze per ripagare il proprio debito13. Questa funzione è definita intermediazione sulla scadenza. 2. il servizio di ripartizione del rischio: funzione che l’intermediario svolge attraverso l’impiego dei fondi ricevuti nelle azioni di più società. Per i piccoli risparmiatori, invece, sarebbe difficile acquistare quote azionarie di un ampio numero di aziende. Questa funzione – definita diversificazione – consiste, quindi, nella trasformazione di attività rischiose in attività meno rischiose, dando così la possibilità di ridurre il rischio del portafoglio. 3. il servizio di riduzione dei costi di transazione: soprattutto attraverso la possibilità di sfruttare economie di scala nell’attività contrattuale e in quella di elaborazione delle informazioni, che dipendono dall’ammontare di fondi gestiti dagli intermediari finanziari. 4. il servizio che consente la divisibilità degli investimenti, garantendo anche a piccoli investitori l’accesso ad investimenti di ammontare elevato.

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Per un approfondimento cfr. F. J. Fabozzi, F. Modiglioni, Mercati finanziari, Il Mulino, Bologna, pp. 17 ss.

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5. i servizi di pagamento offerti dal settore bancario: gran parte delle transazioni che avvengono oggi non necessitano della presenza effettiva di denaro liquido. I pagamenti, infatti, possono essere effettuati mediante assegni, carte di credito, carte di addebito, trasferimenti elettronici di fondi. Quest’ultimo aspetto, ossia la capacità di effettuare i pagamenti senza l’uso di denaro liquido, rappresenta un punto fondamentale del funzionamento dei mercati finanziari. Infine, un ultimo importante aspetto del ruolo svolto dagli intermediari finanziari è quello di migliorare i problemi di scarsa informazione che si potrebbero verificare nel mercato, soprattutto per i dati sulle imprese di cui sono spesso depositari gli istituti bancari (in accordo con la teoria dell’asimmetria informativa, possibile causa – come abbiamo già visto – dei fallimenti del mercato). Oggi, nonostante i grandi cambiamenti verificatisi nel sistema finanziario e sebbene i costi di transazione e quelli informativi siano fortemente diminuiti, l’attività di intermediazione finanziaria risulta essere notevolmente aumentata. Ciò è stato spesso attribuito all’aumento eccessivo dei costi impliciti di partecipazione al mercato che il singolo investitore deve affrontare. Costi che invece possono essere diminuiti attraverso l’intervento degli intermediari finanziari, che agiscono per conto di terzi. Questo aspetto è di fondamentale importanza, soprattutto in quanto costituisce la ratio dell’esistenza di relazioni di lungo periodo tra intermediari e clienti. Così come scaturisce da quanto descritto, occorre evidenziare che il ruolo fondamentale assunto nelle moderne economie dai mercati finanziari ha reso necessario – ormai in tutti gli Stati contemporanei – regolamentare in forma giuridica il complesso funzionamento di tali mercati. La regolamentazione si è manifestata essenzialmente in tre forme: sulla trasparenza delle informazioni che devono essere offerte ai potenziali investitori; sull’attività di compravendita su alcuni mercati; su alcuni aspetti delle istituzioni finanziarie. In generale, i modelli di regolamentazione dei mercati finanziari sono quattro: 1. Regolazione Istituzionale: minimizza i costi di regolamentazione e consente l’utilizzo di un arbitraggio regolamentare. È ottimale in economie finanziarie semplici. 2. Regolazione Funzionale (per attività): evita gli arbitraggi e risulta essere instabile. È limitata nel fatto che si concentra interamente sulle funzioni delle istituzioni finanziarie, tralasciando il controllo su di esse nella loro interezza. 3. Regolazione per finalità 4. Modello a quattro picchi 5. Regolatore unico Tra questi quattro modelli è difficile individuare quello ottimale. Al contrario, essi dovrebbero essere valutati in base al Paese dove vengono adottati, nella consapevolezza che modelli diversi dovrebbero essere adottati in base alle caratteristiche economiche di ogni contesto. Oggi in Europa vi è uno specifico modello regolamentare in ogni singolo Stato, mentre invece sarebbe necessaria una maggiore armonizzazione dei modelli utilizzati, senza arrivare necessariamente ad una centralizzazione del sistema regolamentare. Una possibile 36

soluzione potrebbe essere quella di un modello federale, con un’agenzia europea che elabora disposizioni normative comuni, e agenzie nazionali incaricate di farle eseguire. Vi è quindi bisogno di Comitati di coordinamento sia a livello nazionale che europeo.

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“Inflazione e Disoccupazione” - lezione del 2 Febbraio 2006. Prof. Spallone A cura di Maria Lucia Beneveni L’inflazione si definisce come l’aumento nel tempo del livello generale dei prezzi. L’obiettivo è quello di cercare di capire come l’inflazione viene misurata, quali sono le cause che determinano il verificarsi di questo fenomeno, quali sono i costi connessi alla sua presenza e quale sia il legame tra inflazione e disoccupazione. Inflazione: come si misura. Esistono due modi. Il primo consiste nel considerare l’inflazione come la variazione dell’indice dei prezzi al consumo, ovvero, come la variazione del prezzo medio di un paniere di beni14. Il secondo modo è quello di guardare al Deflatore del PIL15. La scelta tra i due diversi modi non è indifferente, soprattutto se si considera la portata di questa scelta (oltre alla diversa costruzione dei due indici). Il calcolo dell’inflazione con i due modi porta a considerazioni differenti. L’indice dei prezzi al consumo è la variazione del prezzo di un paniere di beni e servizi, selezionato e ben definito. Se invece si considera il Deflatore del PIL, questo esprime la variazione di tutti i prezzi dei beni e servizi dell’economia di riferimento. La base di riferimento dei due indici è quindi diversa. L’indice dei prezzi al consumo è una media ponderata i cui pesi sono scelti a priori, costanti nel tempo (indice di Laspeyres); il Deflatore del PIL è anch’esso una media i cui pesi però cambiano di anno in anno, allargandosi anche la base dei beni considerati (indice di Paasche). La frazione dei beni di consumo cambia a seconda dei gusti, delle preferenze degli agenti economici. Nelle due misure lo schema di consumo è diverso, diversi essendo anche i problemi cui si va incontro. Nel caso dell’indice dei prezzi al consumo, si hanno dei risultati più facilmente disponibili, anche a brevi scadenze (mese, settimana), tuttavia il mancato aggiornamento del paniere di beni potrebbe produrre risultati poco realistici. A livello europeo, scopo principale, se non unico, della BCE è quello della stabilità dei prezzi, con un tasso di inflazione che si cerca di mantenere al di sotto del 2%.16 L’indice di riferimento è l’Indice armonizzato dei prezzi al consumo, IAPC, calcolato dall’Istituto europeo di statistica, Eurostat, su di un paniere armonizzato: l’Istituto, cioè, rileva gli indici dei singoli Paesi, ne fa una media e armonizza poi la misura sintetica così ottenuta, pesando l’indice a seconda della popolazione del Paese in cui i prezzi sono rilevati17. Avendo come riferimento un determinato paniere di beni di consumo e guardando i prezzi dei vari beni dapprima in relazione ad un anno base e poi in relazione a quelli degli anni successivi, da questo confronto è possibile osservare quale sia stata l’evoluzione dell’inflazione nel tempo considerato, è possibile in altri termini avere una misura del tasso di inflazione, Consumer Price Index (CPI). 15 Si consideri il PIL di un anno base, che si suppone essere il 1990; si consideri poi il PIL di un altro anno, il 1991 ad esempio. Valutando quale sia il PIL ai prezzi correnti nel 1991 (PIL nominale) e quello in relazione ai prezzi tenuti costanti nell’anno scelto come base, il 1990 (PIL reale), e poi rapportando i due valori così considerati (PIL1991 / PIL1990) è possibile avere la misura di come siano variati i prezzi. 16 0< Δ % IACP < 2 . 17 Ogni Paese membro ha un suo indice calcolato con una sua metodologia. Il risultato dello IAPC è una misura a livello europeo diversa da quella dei singoli indici adottati all’interno degli Stati, anche perché la stessa politica monetaria nei Paesi ammessi può essere asimmetrica e gli effetti possono essere completamente diversi, essendo altrettanto differenziate le strutture economiche e fiscali. Peraltro, se prima il meccanismo dell’equilibrio del cambio costituiva uno strumento che risolveva taluni problemi di inflazione nei diversi Paesi, ora questo strumento non è più applicabile e la politica monetaria impatta direttamente, in misura maggiore, sul sistema Paese. Invero, se in America le asimmetrie sono risolte anche con una forte mobilità capitale – lavoro (lo spostamento fisico di intere famiglie da un luogo all’altro), lo stesso non può dirsi in Europa. Nell’ ambito della strategia di politica monetaria la BCE ha attribuito allo IAPC la funzione di mantenimento della stabilità dei prezzi. Esso in particolare ha la finalità di quantificare gli andamenti dei prezzi dei beni e dei servizi 14

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Inflazione: le cause e i suoi costi. In proposito, vengono in rilievo due visioni tradizionali sull’inflazione. Per i monetaristi, che riprendono i classici e i neoclassici, l’inflazione è un fenomeno monetario, che dipende dalla quantità di moneta in circolazione. L’approccio teorico dei classici è la teoria quantitativa della moneta: P Y = M V. Le ipotesi dei classici formulano per Y un livello di reddito di piena occupazione e per V una velocità costante di circolazione della moneta. Questo comporta che ogni aumento di moneta tende a scaricarsi sui prezzi: ↑P Y¯ = ↑M V¯. Per i keynesiani, l’inflazione è un fenomeno che scaturisce dall’eccesso della domanda aggregata sull’offerta. Se, per un motivo qualsiasi, ad un aumento della domanda aggregata nel breve periodo non consegue da parte delle imprese un adeguamento della produzione, i prezzi aumentano. Per Keynes, comunque, se il mancato adeguamento dell’offerta all’eccesso di domanda è dovuto a difficoltà strutturali delle imprese nel breve periodo, nel lungo periodo l’inflazione viene assorbita perché raramente si parte da un periodo in cui il livello di reddito è di piena occupazione. Keynes riduce la portata della teoria neoclassica circa il ruolo della moneta nel generare inflazione. L’inflazione dipende dall’evento reale dell’eccesso della domanda aggregata sull’offerta - inflazione da domanda -, non è un fenomeno esclusivamente monetario. Se è vero che le anzidette due visioni tradizionali hanno ragione di esistere, esistono anche altre cause dell’inflazione che non sono contemplate nelle visioni stesse. Una di queste cause è rappresentata dall’aumento dei costi di produzione - inflazione da costi -. Aumentando i costi dei fattori produttivi, a seguito di shocks avversi sull’offerta, aumentano conseguentemente i prezzi di vendita dei beni stessi. Sul punto è importante distinguere tra inflazione da costi interni e inflazione da costi di importazione, a seconda che l’approvvigionamento avvenga sui mercati interni o sul mercato estero, con beni importati18. Nell’inflazione da costi, un ruolo importante è giocato dalla dinamica dei salari, essendo il lavoro un costo per l’impresa. Questo elemento legherà inflazione e disoccupazione. Quali sono i costi che l’inflazione comporta? In riferimento ad un fenomeno, come appunto l’inflazione, vissuto soprattutto per gli effetti in termini di costi che esso implica, sono necessarie alcune specificazioni. I costi dell’inflazione, anche per opinione diffusa, sono legati alla incertezza anche dal lato degli investimenti, ma non solo. Anzitutto è opportuno distinguere l’inflazione attesa dall’ inflazione a sorpresa. La prima è l’aumento generalizzato dei prezzi, a conoscenza degli operatori economici, da loro acquistabili nel territorio economico dello Stato membro e destinati al soddisfacimento diretto della domanda dei consumatori. Così inteso, l’indice presenta alcune differenze rispetto agli IPC nazionali sul piano della costruzione, conservando invece analogie sul piano concettuale. Lo IAPC misura la variazione media dei prezzi al consumo confrontando la spesa relativa a un paniere rappresentativo di beni e servizi nel periodo di segnalazione e in quello di riferimento. A tal fine, gli istituti nazionali di statistica rilevano su base mensile i prezzi di un campione di beni e servizi selezionati per essere rappresentativi dell’insieme di prodotti acquistati dalle famiglie a fini di consumo, per ciascuno dei quali il campione include più prezzi relativi alle varianti dei prodotti, alle rilevazioni effettuate in punti vendita e regioni differenti. Il confronto tra il prezzo corrente di un prodotto e quello del periodo di riferimento tiene conto delle specifiche o della qualità del prodotto eventualmente modificate. L’indice armonizzato di ciascun Paese dell’area euro è la media ponderata degli indici di prezzo di numerosi gruppi di prodotto, i cui pesi sono le quote corrispondenti a ciascun gruppo nella spesa delle famiglie per i beni e servizi coperti dallo IAPC. Nella fase di elaborazione finale, lo IAPC per l’area nel suo complesso risulta dalla media degli indici armonizzati nazionali dei dodici paesi membri, ponderati per le rispettive quote della spesa per consumi delle famiglie sul totale dell’area: sul punto v. http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bce/mb/2005/mb200507/bce07/articoli_07_05.pdf. 18 La differenza è tanto più importante, là dove le materie prime sono scarse all’interno di un paese considerato, come ad esempio l’Italia. In tal caso, l’aumento all’estero dei beni interessati impatta sui prezzi interni, quindi sull’inflazione nel Paese di riferimento.

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atteso, previsto19. La seconda è quella inflazione che, sulla base di un tasso di inflazione dichiarato, è giunta inattesa dagli opertori. I costi associati ai due fenomeni sono diversi. Per quanto concerne i costi dell’inflazione attesa, gli agenti economici tenderanno ad adeguare le loro scelte alle attese di inflazione; quello che si verifica è la costanza dei prezzi relativi. All’adeguamento del salario nominale degli operai, segue un aumento dei prezzi dei beni da parte delle imprese: il salario reale non cambia. ↑W (salario) / ↑P (prezzo) – inflazione fissa (ad esempio, 2%). Se l’inflazione è sufficientemente o molto elevata, il livello dei prezzi cambia molto velocemente. Il frequente aggiornamento dei listini da parte delle imprese comporta costi notevoli, sono i menu costs, costi di menù o di listino, nei quali è implicito anche un certo riadeguamento delle politiche di prezzo. Cambia anche la domanda di moneta, sono questi i shoe leather costs, costi da “consumo delle suole delle scarpe”, quei costi idealmente connessi ai frequenti viaggi per il prelievo di moneta presso gli istituti bancari. Per quanto concerne, invece, l’inflazione a sorpresa, questa altera i prezzi relativi (l’esempio dei salari) sulla base di taluni shocks esterni. L’inflazione inattesa produce un effetto importante che è quello della redistribuzione della ricchezza dal creditore al debitore, con un conseguente cambiamento del potere di acquisto da parte degli operatori: i prestiti sono generalmente fissati in valore nominale, per cui la perdita di potere di acquisto della moneta favorisce i debitori a scapito dei creditori20. Ora, si consideri il caso di un’impresa che assume lavoratori, tali per cui vale la relazione: W / P = PML in base alla quale, quanto più basso è il salario reale, tanto più l’impresa tende ad assumere. Ad un dato livello di salario reale, è possibile associare 1) un livello di lavoratori assunti, N, per l’ultimo dei quali vale la relazione di cui sopra, con un certo salario fisso, e 2) un certo livello di lavoratori, N’, quello relativo ad una situazione di inflazione a sorpresa che, aumentando il livello dei prezzi, riduce il salario reale. A fronte di questi dati un’impresa, in caso di inflazione a sorpresa, tende ad assumere un numero di lavoratori N’, con N’ > N, tenendo conto che per i lavoratori in più si ha un prodotto marginale del lavoro più basso, essendo più basso il salario reale. Questa situazione indica come un incentivo, nell’ipotesi di inflazione inattesa, sia quello di aumentare il numero degli occupati, quindi spingere il livello di reddito verso la piena occupazione. Questa argomentazione mette in luce l’esistenza di un rapporto tra inflazione e disoccupazione. Il trade-off inflazione – disoccupazione. Esiste una curva, la curva di Phillips, che lega il tasso di inflazione, ∏, al tasso di disoccupazione, u. Essa identifica una relazione inversa tra le due grandezze, per cui quanto più basso è il tasso di inflazione, tanto più alto è il tasso di disoccupazione e viceversa. Espressa in questi termini, questa è la prima versione della curva di Phillips, l’economista inglese che per anni ha registrato i dati relativi ai tassi in questione, scoprendone la relazione inversa. Così è soltanto una relazione empirica, che però identifica un trade-off importante: a partire dal suo primo articolo sull’argomento si è sviluppata una letteratura enorme, una teoria economica di grande Un esempio di inflazione dichiarata, attesa: un aumento della quantità di moneta nei prossimi anni da parte della BCE potrebbe tradursi in un aumento dell’inflazione. 20 Un esempio potrebbe essere quello tra Stato (debitore) e cittadini (creditori) nel caso dei titoli del debito pubblico. Queste considerazioni valgono anche nel caso di individui che vivono di pensioni fisse in termini nominali i quali risentono della perdita di potere di acquisto della moneta. Un caso particolare è costituito dal fiscal drag: dato che l’imposta progressiva aumenta in funzione crescente del reddito del contribuente, quando il reddito monetario cresce, anche se rimane invariato il reddito in termini reali, il prelievo è più alto. Esso aumenta automaticamente in relazione all’aumento del reddito monetario e produce una riduzione del reddito disponibile. Questo aumento, definito drenaggio fiscale, produce una riduzione del reddito reale del contribuente, quando a causa dell’inflazione aumenta il suo reddito nominale. 19

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rilievo. La prima versione della curva di Phillips osservava l’esistenza di una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e il tasso di variazione dei salari monetari, w·. Nella curva di Phillips odierna compare il tasso di inflazione, anziché il tasso di variazione dei salari monetari. Questa differenza non è di rilievo essendo il tasso di variazione dei salari una componente importante del tasso di inflazione e cioè essendovi uno stretto legame tra il tasso di inflazione e il tasso di variazione dei salari: nei periodi in cui i salari aumentano a un ritmo elevato, anche i prezzi aumentano velocemente.

La spiegazione a fondamento della curva di Phillips presuppone che, in fase di espansione economica, quando il tasso di disoccupazione è basso, a fronte dei pochi lavoratori disoccupati, le imprese domandano lavoro; la forte domanda di lavoro provoca una crescita dei salari (si può immaginare ad esempio un potere dei sindacati sufficientemente forte da far valere le proprie ragioni; al contrario, in fase di recessione, il potere contrattuale è molto basso). In termini più analitici, si scrive l’equazione che rappresenta la curva di Phillips, partendo dal concetto teorico legato alla curva. Esiste cioè un modo per scrivere la curva di offerta aggregata nel breve periodo: Y = Y¯ + β ( P – Pe ) dove β è un parametro sulla elasticità del reddito rispetto allo scostamento del livello di inflazione rispetto alle attese. Si può così ad esempio supporre che sindacati e imprese siglino un accordo per un certo periodo di tempo, e comunque fino alla scadenza del contratto, per un salario reale pari a W/Pe sulla base di aspettative di prezzo Pe ; se però accade che il livello dei prezzi sia maggiore di quello atteso, P > Pe , l’impresa paga un salario effettivo inferiore a quello atteso, W/P < W/Pe , assume più lavoratori, produce di più, dato il livello di tecnologia a disposizione, e il livello di reddito

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si spinge oltre il livello naturale21. Dal punto di vista grafico, la curva di offerta è inclinata positivamente22:

La curva di Phillips è un modo alternativo di esprimere l’offerta aggregata nel breve periodo. E’ possibile esprimere l’equazione di cui sopra ponendo P come variabile dipendente: β ( P – Pe ) = Y - Y¯ da cui si ha βP – βPe = Y - Y¯ quindi βP = βPe + Y - Y¯ e dividendo entrambi i membri dell’equazione per β si ottiene che P = Pe + 1 / β ( Y - Y¯ ) la quale rappresenta l’equazione della curva di offerta aggregata di breve periodo in funzione dei prezzi. Sottraendo poi, a entrambi i membri dell’equazione, dal livello dei prezzi correnti il livello dei prezzi al tempo precedente, P1, si ha: P – P1 = Pe – P1 + 1 / β ( Y - Y¯ ) dove P - P1 è il tasso di inflazione, ∏, e Pe – P1 il tasso di inflazione atteso, ∏e. Sostituendo, si ottiene: ∏ = ∏e + 1/β (Y - Y¯ ). Questa espressione rappresenta la legge di Okun, la relazione inversa tra disoccupazione e prodotto. Esiste una relazione negativa tra la deviazione del prodotto dal suo livello naturale e la deviazione del tasso di disoccupazione dal suo livello naturale: quando il prodotto è maggiore del suo livello naturale, il tasso di disoccupazione è inferiore al suo tasso naturale. In virtù di questa relazione, la variabile β che moltiplica Y-Y¯ al suo livello naturale si sostituisce con un’altra variabile, -α, e indicando con u il tasso di disoccupazione, è possibile osservare che se il livello di inflazione è più alto di quello naturale, il tasso di disoccupazione è più basso di quello naturale: β ( Y - Y¯ ) = -α (u – ū)

Il prodotto si discosta dal suo livello naturale se esiste una discrepanza tra livelli di prezzo, correnti e attesi. Quando i prezzi che si realizzano sono più alti di quelli attesi, il prodotto viene spinto al di là del suo livello naturale. Il livello di prodotto di piena occupazione o anche livello del prodotto naturale è il prodotto per il quale le risorse dell’economia sono pienamente impiegate ovvero la disoccupazione è al suo tasso naturale. 22 Questa situazione si differenzia dalla visione neoclassica con una curva di offerta verticale e dalla ipotesi keynesiana di una curva di offerta orizzontale. 21

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dove a 1/β si sostituisce β e α è un parametro sulla elasticità. Sulla base di queste osservazioni è possibile scrivere: ∏ = ∏e – α ( u – ū ) + v dove v è una variabile casuale in senso statistico (variabile che si realizza con media 0, varianza costante). Quella così scritta è l’espressione analitica della curva di Phillips derivata dalla curva di offerta aggregata. Essa serve ad analizzare l’inflazione. Invero, ciascuno degli elementi a destra dell’uguaglianza identifica uno dei fattori determinanti dell’inflazione. Il secondo termine, -α (u – ū) identifica la relazione sottostante la curva di Phillips, quanto più alto è il tasso di disoccupazione, tanto più basso è quello di inflazione23. Questa componente rappresenta l’inflazione da domanda, per cui ad un tasso di inflazione basso è associato un livello basso della domanda. La variabile v rappresenta possibili shocks dal lato dell’offerta che influiscono sul tasso di inflazione e che possono derivare ad esempio dalla variazione dei prezzi dei beni di importazione. E’ l’inflazione da costi. Il primo termine ∏e evidenzia come il tasso di inflazione dipenda dalle attese sullo stesso. Questo spiega altresì il fenomeno dell’isteresi dell’inflazione e anche il fatto che in molti casi le attese sull’inflazione si autorealizzano. In proposito si supponga che gli operatori economici pongano il tasso di inflazione atteso pari al tasso di inflazione registrato nel periodo immediatamente precedente. I modi attraverso i quali si formano le attese sull’inflazione sono diversi. Per spiegare cosa determina l’inflazione attesa, è possibile formulare l’ipotesi che gli operatori formino le proprie aspettative riguardo all’inflazione sulla base dell’inflazione osservata di recente. La formulazione più semplice è quella di supporre che gli operatori si aspettino che i prezzi aumentino allo stesso tasso al quale sono aumentati nell’anno precedente: ∏e = ∏ - 1 . Supponendo che il tasso di disoccupazione sia pari al tasso di disoccupazione naturale e che non ci siano shocks sull’offerta: -α (u – ū) = 0; v = 0 la relazione espressa dalla curva di Phillips indica che i prezzi continueranno ad aumentare allo stesso tasso registrato nel periodo passato: ∏ = ∏ - 1. Questo fenomeno di persistenza dell’inflazione nel tempo si chiama isteresi. L’esistenza di effetti persistenti sul tasso di inflazione si manifesta in quanto l’inflazione passata influenza le aspettative (aspettative adattive) sull’inflazione futura, le quali, in mancanza di cambiamenti nella struttura dell’economia, possono autorealizzarsi e il tasso di inflazione risente e dipende da questo. Dette aspettative poi influenzano le decisioni su salari e prezzi, innescando talvolta una spirale inflazionistica con ricadute significative sul tasso di inflazione: è quanto messo in luce dal meccanismo della c.d. “scala mobile”, attraverso il quale i prezzi, legati alle aspettative di inflazione futura, tendono ad aumentare, determinando una conseguente crescita dei salari, a fronte della quale le imprese aumentano i prezzi, alimentando continuamente la spirale prezzi-salari. Essendo la curva di Phillips indicizzata alle aspettative di inflazione futura, tende a spostarsi, verso l’alto se l’inflazione attesa aumenta. Partendo da un certo livello di disoccupazione, u, se le aspettative di inflazione crescono, anche lasciando invariati gli altri membri dell’espressione della curva di Phillips, il tasso di inflazione registra un aumento e, graficamente, la curva si sposta verso l’esterno. E’ coerente avere talvolta un tasso di inflazione alto associato ad una elevata disoccupazione? E’ possibile che si abbia una situazione del genere, ma nell’ambito della spiegazione teorica ciò che si rileva è che la curva di Phillips identifica la relazione tra le variazioni dei due tassi interessati. 23

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Questo significa che non esiste una sola curva di Phillips, ma infinite curve legate alle aspettative di inflazione; pertanto, ogni livello di disoccupazione è coerente con qualsiasi livello di inflazione a seconda delle aspettative di riferimento.

Poiché le persone modificano le loro aspettative di inflazione col passare del tempo, il trade-off tra inflazione e disoccupazione esiste soltanto per il breve periodo. Nel lungo periodo la curva di Phillips è verticale, il tasso di disoccupazione ritorna al suo livello naturale. Valgono le ipotesi tipiche dei classici, le politiche inflazionistiche nel lungo periodo modificano il livello dei prezzi e la curva di offerta aggregata rilevante è quella in corrispondenza di un livello di reddito di piena occupazione. Nel lungo periodo non esiste alcun trade-off tra inflazione e disoccupazione, la quale risulta definita solo da variabili reali. Si ritorna alla dicotomia classica con variabili reali sganciate da variabili nominali.

Nel breve periodo, alcuni prezzi sono viscosi, quindi non si adeguano a variazioni della domanda: la curva di offerta aggregata di breve periodo è orizzontale. Nel lungo periodo invece i prezzi sono flessibili, la curva di offerta aggregata è verticale. Nel lungo periodo l’economia opera in corrispondenza dell’intersezione tra la curva di offerta aggregata di lungo periodo e la curva della domanda aggregata (punto A). Poiché i prezzi si sono aggiustati al livello corrispondente al punto di equilibrio, anche la curva di offerta aggregata di breve periodo passa per questo punto. Il livello di reddito è quello di piena occupazione, Y*. Un eventuale shock positivo sulla domanda aggregata 44

sposterebbe la stessa verso l’esterno. Nel breve periodo, i cambiamenti della domanda aggregata influenzano il livello di produzione dell’economia, che si sposta, lungo la curva di offerta aggregata di breve periodo, al di là del livello naturale, Y’, ciò che significa che vi è un eccesso di domanda (punto B). Col tempo l’aumento graduale dei prezzi sposta l’economia, lungo la nuova curva di domanda aggregata, fino al nuovo punto di equilibrio di lungo periodo, punto in cui il prodotto è quello di piena occupazione, mentre i prezzi sono più alti rispetto al precedente equilibrio di lungo periodo (punto C).

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“Deficit e debito e politiche dal lato dell’offerta” - lezione del 31-03-2006 Prof. Spallone A cura di Giordano Simoncini

La misura del disavanzo del bilancio è data dalla differenza tra le spese che lo Stato sostiene e a) gli introiti, e b) la spesa per interessi che lo Stato deve fronteggiare dato un certo ammontare di stock di debito pubblico. In formula: D = G – T + iB dove la grandezza G – T è il disavanzo primario e la grandezza iB, prodotto del tasso di interesse per lo stock di debito, è la spesa sostenuta per gli interessi. Il problema da risolvere, ovvero la necessità cui far fronte, si sostanzia dunque in questa domanda cruciale: come finanziare i disavanzi? Originariamente, le risposte erano tre:  aumentare le tasse;  battere moneta, accrescendone la quantità in circolazione;  emettere nuovi titoli di debito. Nel nostro paese, fino gli anni ’70, la Banca d’ Italia era obbligata ad acquistare tutti quei titoli di Stato posti in commercio dal Tesoro e che il mercato non era in grado di assorbire. Tale condizione, dannosissima in termini di gestione del bilancio pubblico, ingenerava due gravi distorsioni: in primo luogo, portava allo zero assoluto qualsiasi incentivo per lo Stato a considerare di contenere o ridurre il disavanzo, dal momento che, quale che fosse stato l’ ammontare del debito in crescita, la Banca d’ Italia avrebbe comunque comprato tutti i titoli di debito non collocati; in secondo luogo, dal momento che non era il solo mercato dei titoli a fissare il tasso d’ interesse, il valore di quest’ ultimo non poteva più svolgere alcuna funzione informativa per gli operatori. In tal modo si finiva inevitabilmente con lo spiazzare i mercati finanziari. Successivamente, nel corso degli anni ’70, la Banca d’ Italia venne sollevata dall’ obbligo di acquisto dei titoli di debito: pertanto, tale acquisto poteva essere effettuato solo se in coerenza con gli obiettivi di politica monetaria fissati dalla banca centrale che, in questo modo, si trovava a godere di una maggiore tutela nei riguardi di eventuali pressioni dello Governo. Nel luglio del 1981 l’ allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta vietò definitivamente l’ acquisto dei titoli di Stato invenduti (si trattava del cd. divorzio tra Bankitalia – della quale era Governatore Carlo Azeglio Ciampi – e Tesoro). Con la firma del Trattato di Maastricht, poi, tale

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divieto venne esteso anche alla BCE, che pertanto oggi non può acquistare titoli di debito di nessuno Stato membro sul mercato primario. Da quanto detto segue che, alla domanda che chiede come finanziare il disavanzo, rimangono oggi due sole risposte possibili: tasse e titoli di debito pubblico. Dal punto di vista dell’ analisi economica, è però ancora più importante domandarsi come il disavanzo si assesti, evolvendosi nel tempo: se in maniera contenuta ovvero “esplosiva”. L’ evoluzione del disavanzo, a propria volta, può essere analizzata tenendo in debito conto e confrontando due particolari variabili, che sono il tasso di crescita dell’ economia ed il tasso di interesse reale. L’ importanza di queste due variabili è intuitiva: la prima, che indichiamo con g, dice quanto velocemente si allarga la base imponibile per aumentare il gettito; la seconda, che indichiamo con r, è nient’ altro che una misura del costo del debito, e dunque una misura di come il debito cresce per pagare se stesso. Il confronto degli andamenti di g ed r fornisce dunque le informazioni di cui l’ analisi economica ha bisogno. Nello specifico: se l’ economia cresce ad un livello più alto del tasso di interesse reale, il rapporto tra debito pubblico e PIL diminuisce, poiché le entrate fiscali crescono più velocemente e mediante queste ultime è in ultima analisi possibile erodere il debito; al contrario, se il tasso di interesse supera il tasso di crescita dell’ economia, il rapporto B/Y si innalza, per giunta in maniera esplosiva. Schematicamente: g > r  B/Y ↓ g < r  B/Y ↑

*** Dal trascorso studio del modello keynesiano, sappiamo che la politica fiscale dal lato della domanda impatta sulla finanza pubblica, poiché ogni spesa pubblica va – ovviamente – pagata. Non si ignori però che esiste un’ ampia letteratura di Supply Side Economics, che si preoccupa di evidenziare come sia possibile sviluppare le economie agendo attraverso politiche dal lato dell’ offerta e non da quello della domanda. Tra gli studiosi più famosi, in tale ambito, vi è un economista, Laffer, ex consigliere di Ronald Reagan. La tesi di costui può essere riassunta come segue: non è detto che all’ aumentare delle aliquote fiscali aumentino anche le entrate fiscali, ed anzi, si osserva piuttosto che, da un certo punto in poi, man mano che le aliquote aumentano le entrate fiscali diminuiscono. Graficamente:

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T

α

Nel grafico, T rappresenta le entrate fiscali ed α le aliquote fiscali (o meglio, una media di queste ultime in grado di rappresentare il trend dell’ economia). L’ andamento della curva che esprime la relazione tra entrate ed aliquote fiscali si spiega quasi da sé: il progressivo incremento della tassazione sottrae via via ogni incentivo a produrre; la diminuzione della produzione finisce con il contrarre la base imponibile e dunque le entrate. Secondo le opinioni di Laffer, gli Stati Uniti di Reagan si trovavano oltre il picco della curva del grafico: si imponeva dunque una riduzione delle aliquote, la quale sarebbe stata indolore per la finanza pubblica ma avrebbe potuto fornire all’ economia la propulsione necessaria. Le cose, però, non andarono come previsto. La riduzione delle aliquote condusse il Paese a deficit enormi – non soltanto per la fallacia delle previsioni di Laffer, ad essere onesti, ma anche perché la crescita della base imponibile venne frenata da una strettissima politica monetaria, architettata da una FED eccessivamente timorosa di un’ eventuale crescita dell’ inflazione. Per concludere, si noti che rientrano nella Supply Side Economics tanto le manovre sull’offerta di moneta quanto tutte quelle politiche (riforme del lavoro, infrastrutture…) che tendono a modificare in qualche modo la struttura dell’ offerta, vale a dire produzione, sistema industriale et cetera.

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“La programmazione economica e finanziaria” – lezione del 21-06-2006 Prof. Spallone A cura di Polo Lilliu

1. Introduzione In relazione al tema della programmazione economica e finanziaria, nella prima parte della lezione affronteremo qualche aspetto teorico. In seguito, tuttavia, guarderemo soprattutto alla concreta programmazione economica, così come essa si configura nel nostro Paese, guardando ai documenti programmatici del Ministero dell’economia. Saranno lasciati a disposizione anche il documento di programmazione economica e finanziaria per il 2006 -2009 e il documento del Programma di stabilità per l’Italia.

2. Il livello teorico Parlando di programmazione è sottinteso che parliamo di problemi intertemporali. Quanto visto fino ad oggi (in particolare il modello IS-LM ed i modelli di intervento della Banca Centrale Europea) relega le nostre conoscenze a modelli statici. Nel modello IS-LM non c’è la variabile tempo. Agiamo oggi per vedere il nostro risultato oggi. Introducendo la variabile tempo, alcuni dei risultati scontati della IS-LM non sono più tali. Qualche esempio lo abbiamo fatto la volta scorsa con il ruolo del risparmio e dell’accumulazione del capitale nella crescita economica. Oggi ripartiremo da qui. Intorno agli anni sessanta si è avviato un importante dibattito su cosa andava inteso per programmazione. La programmazione -in termini generali- potrebbe essere definita come una ottimizzazione dinamica o ottimizzazione intertemporale. Data la funzione obiettivo da raggiungere e si è cercato di utilizzare la matematica a questo scopo. Erano gli anni dell’esplorazione spaziale. Ottimizzare la traiettoria dei satelliti umani nello spazio significava ottimizzarne la traiettoria di periodo in periodo. La teoria prevalente era - all’epoca -quella del controllo ottimo. Essa dice che è indifferente massimizzare all’inizio del periodo d’interesse per tutti i periodi che ci interessano, oppure massimizzare questa funzione periodo per periodo. Traslando questa constatazione ad una scienza sociale come l’economia, quest’acquisizione ha un rilievo importantissimo. Posso scegliere oggi la mia politica economica per i prossimi cinque anni o posso ridefinire la mia politica anno per anno per i prossimi cinque anni. Tuttavia, manca qualcosa. Anzitutto, ci troviamo in un ambito, come quello delle scienze sociali dove le variabili e i fattori di disturbo da considerare, sono moltissimi. Inoltre, appare limitante legarsi le mani, senza considerare ed incorporare nella nostra programmazione fatti, dati e fattori nuovi che nel tempo possono emergere.

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In particolare, traducendo l’analisi matematica al mondo dell’economia, emerge quindi che l’equivalenza tra i due approcci non è così stretta. I teoremi sul controllo ottimo si basano sulla funzione che tutte le scelte che vengono fatte dipendano dai valori passati che le variabili hanno assunto. Dobbiamo dunque essere flessibili o darci delle regole fisse? Apparentemente, la risposta è ovvia, a favore delle regole flessibili. La realtà è però meno semplice e prevedibile. Supponiamo di trovarci in una classe di giovani studenti. Alla prima lezione in aula il docente afferma: “Ragazzi, studiate molto, perché gli esami di giugno saranno durissimi”. Come docente, il massimo obiettivo perseguibile è un ottimo apprendimento da parte degli studenti e la minimizzazione del mio sforzo come esaminatore. Se, al termine del corso, intuisco che tutti gli studenti hanno studiato molto, il massimo risultato che posso ottenere è quello di sollevare gli studenti (e me stesso, come esaminatore) dalla fatica dell’esame. Questa è una vera massimizzazione. Sembrerebbe mostrarsi la superiorità delle regole flessibili. Il problema è che, nel ciclo successivo, se tento di replicare il mio comportamento massimizzante, quasi certamente i miei studenti ridurranno l’entità del proprio impegno e, con ogni probabilità, mi troverò obbligato ad esaminarli tutti. In un solo ciclo d’azione, passerò dal first best result al third best. Se avessi rispettato la regola data all’inizio e l’anno dopo avessi fatto lo stesso annuncio, mi sarei stabilizzato in un risultato intermedio. Io fatico a fare gli esami, ma voi studiate. Se ne evince l’importanza ed il ruolo delle regole fisse. Dal punto di vista pratico, in cosa si sostanzia la scelta di una regola fissa piuttosto di una regola flessibile? Le autorità di politica economica possono agire sulla quantità di moneta. Controllare questo strumento significa controllare un obiettivo intermedio, che nel modello IS-LM è il tasso d’interesse. Aumentando la quantità di moneta, il tasso d’interesse si abbassa. Per controllare - finalmente - il livello del reddito. In uno scenario flessibile, se intraprendo un’azione e questa non produce il risultato sperato, cambio azione. Se invece fissiamo una regola e continuiamo ad utilizzarla, anche se il risultato finale non è quello atteso, siamo coerenti con il convincimento che tra lo strumento ed il risultato finale esista un intrinseco legame. Questo -ad esempio- è il motivo per cui la BCE fissa il tasso di crescita della moneta per un periodo molto lungo. In questo scenario, si ritiene che gli scostamenti tra risultati attesi e risultati programmati, siano legati ad elementi di disturbo o a scostamenti temporali, senza nulla togliere alla certezza che il legame mezzi/fini sia solido e meritevole di tutela. Ad un livello teorico ancora superiore, bisogna ricordare che c’è anche chi crede che i prezzi siano flessibili e che -naturalmente- il mercato ci porta nel migliore degli equilibri possibili. In questo caso, fissare una regola che vale per sempre, significa fissare una regola che non distorce gli incentivi e il 51

comportamento degli agenti, all’interno di un mercato. Si garantisce un setup solido agli operatori economici. Le regole fisse possono essere di diversi tipi: 1. senza alcun tipo di feedback. Es.: ipotizziamo che Mt sia la quantità di moneta in circolazione al tempo t. Abbiamo che: mt = K (mt-1) 2.

una regola fissa, tuttavia, può anche essere più complessa, considerando gli effetti di un’azione come input del successivo processo decisionale.

Sempre per rimanere all’interno di politiche economiche intertemporali, vi faccio un piccolo esempio di come può cambiare la “lettura” se noi ci riferiamo al breve periodo o se ci riferiamo ad una serie di periodi più ampi.

IS’ r IS

LM

Partiamo dalla scheda IS-LM, nel caso di una politica fiscale espansiva. Assistiamo ad una crescita del reddito e del tasso d’interesse. Ciò accade, secondo questa formula : Y

Politica fiscale espansiva nel caso di schema IS LM

Y  G

1 1  c(1  t ) 

aK m

Questo moltiplicatore dipende dalla propensione marginale al consumo; dall’aliquota fiscale [t] e da un coefficiente [ aK/m ] che è il coefficiente di retroazione monetaria. Se [c] è la propensione marginale al consumo, tanto più questa propensione marginale è grande, tanto più questo denominatore è piccolo (perché davanti c’è il segno meno), tanto più il moltiplicatore nel suo complesso è grande. A guardare il modello IS-LM sembrerebbe quindi che: maggiori sono i consumi relativi, maggiore è l’effetto sul reddito d’equilibrio. Adesso invece, guardiamo agli effetti intertemporali. La mia funzione obiettivo è quella di indurre crescita economica, piuttosto che la crescita immediata del mio reddito. Tale espressione implica anzitutto l’accumulazione di capitale. Più produco capitale -infatti- ; più produco ricchezza. Se io voglio accumulare capitale, quello che è importante è che un’ampia parte degli incrementi di reddito

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(quando se ne realizzino) vengano ad essere risparmiati e destinati al finanziamento di nuovi investimenti. Questo consentirà -nel lungo periodo- livelli di consumo più elevati. Quindi: se guardo al breve periodo, rilevo il paradosso del risparmio keynesiano. Dove il risparmio è qualcosa di negativo. Se guardo al lungo periodo, il risparmio diventa il motore della crescita. Quindi è importante capire, se il mio obiettivo è quello di massimizzare una funzione del benessere sociale o una funzione obiettivo dell’autorità politica che è intertemporale, oppure focalizzata sull’immediato. Quindi ci sono tanti motivi per cui è importante capire la variabile tempo.

3. la programmazione economica in Italia Vediamo ora, concretamente, come si fa la programmazione economica in Italia. Entro il 30 giugno : Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (DPEF). Prima è approvato dal Consiglio dei Ministri, poi dal CIPE, poi arriva in Parlamento. Entro il 30 settembre: viene presentata la Relazione previsionale Anch’essa con lo stesso percorso del DPEF.

programmatica (RPP).

Poi, viene presentato il Programma di stabilità (PS) (entro il 30 dicembre) che, prima deve essere approvato dalla Commissione europea, poi va in parlamento. Il 31 gennaio, la Relazione per lo sviluppo delle aree depresse Poi l’anno successivo, il 28 febbraio, va approvato l’Aggiornamento sull’andamento dell’economia nell’anno precedente e l’aggiornamento delle previsioni per l’anno in corso (AGGRPP), congiuntamente alla Relazione trimestrale di cassa (RTC) Ultimo documento (entro il 31 Marzo) Relazione generale sull’economia (RGE). Si approfondirà il discorso, in materia di DPEF e Programma di stabilità. Anzitutto, cerchiamo di capire a cosa servono. Il DPEF serve a mettere su carta gli obiettivi economici e finanziari del governo, prima che tali obiettivi vengano trasformati in legge, attraverso la finanziaria. Infatti, quando esce il DPEF ci sono discussioni su quali sono gli obiettivi primari del governo, oltre che un’indicazione di dove il governo decide di reperire i fondi per finanziare la propria politica. Il DPEF, una volta approvato dal parlamento, vincola il governo sia in relazione agli obiettivi, sia per ciò che riguarda l’entità delle entrate e delle uscite.

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Il DPEF fino a poco tempo fa, veniva fatto per tre anni. Oggi lo si fa per quattro anni. Questo per essere coerente con il programma di Stabilità, le cui scadenze vengono definite in sede europea ed è quadriennale. Qual è l’importanza del DPEF? In comune con tutti i documenti programmatici c’è una fotografia dell’economia in un certo momento, e un’enunciazione di quello che si vuole fare. Nel DPEF appaiono sempre i dati e i valori degli scenari secondo due ipotesi: in primo luogo si fa riferimento al bilancio a legislazione vigente (dunque si vede come si sarebbero evolute le variabile rilevanti dell’economia e del bilancio, se il governo non avesse attuato alcun tipo di intervento. Dunque fotografia attuale più previsione a legislazione vigente). Poi c’è una comparazione con quello che si ritiene accadrà alla luce dell’azione che il governo ha intenzione di intraprendere. E’ l’unico documento in cui questo accade. Dal punto di vista della programmazione, il DPEF è un documento fondamentale: il governo mette per iscritto ciò che vuole fare.

Il Programma di stabilità è un documento programmatico di recente introduzione e dipende dalle regole che i Paesi dell’Unione europea si sono dati, dopo la firma del trattato di Maastricht. Poiché esiste un Patto di stabilità da rispettare, il programma di stabilità sta ad indicare che un certo Paese lo sta rispettando o, se non lo rispetta, sta mettendo in essere una serie di politiche economiche che gli permetteranno di rientrare nei parametri. Dal punto di vista economico è un documento molto importante, giacché deve essere redatto secondo degli standard comuni europei. Dunque, i documenti sono confrontabili. Inoltre contiene delle analisi di sensitività che danno un’idea di quella che può essere l’evoluzione futura e l’efficacia delle politiche economiche che i governi propongono per rientrare nei parametri, ad esempio, indicandoci cosa accade all’avanzo primario se cambiano i tassi d’interesse. Il Programma di stabilità ci fa vedere che cosa succede all’avanzo primario e al debito pubblico italiano, se cambiano i tassi d’interesse o se il PIL cresce di più o di meno. Quindi, da un punto di vista delle prospettive economiche di medio termine, sia il DPEF che il Programma di Stabilità sono due documenti importanti. Il primo perché ci dice, dal punto di vista della politica economica, cosa vuole fare il governo rispetto allo scenario mediamente atteso. Il secondo perché ci fa un’analisi di sensitività (un’analisi di statica comparata), che ci permette di capire la possibile evoluzione dei parametri. Tra l’altro, in termini molto simili a quanto accade nel DPEF, anche nel programma si confrontano differenti scenari. Nel primo caso tra legislazione vigente e azione prevista dall’esecutivo. Nel secondo caso tra tre differenti scenari: uno positivo, uno quello realistico (o intermedio) e uno negativo. Tutto si fonda su un + 0,5 e su un - 0,5, rispetto alla previsione ortodossa.

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La tabella è la pagina introduttiva del DPEF del 2006 - 2009, con P.C.d.M Berlusconi e ministro dell’Economia Siniscalco. Sono enunciati gli obiettivi e le priorità del governo. Al primo punto, tra gli obiettivi: 1) A livello di paese potenziamento della domanda e delle infrastrutture, accelerando gli investimenti in opere pubbliche materiali e immateriali nel Mezzogiorno e nelle altre aree del paese dove la dotazione di infrastrutture è più carente. Qui, il concetto di potenziamento della domanda è associato al completamento delle infrastrutture. A prima vista, una prospettiva keynesiana. 2) A livello di sistema produttivo maggiore libertà nel mercato dei prodotti e soprattutto nei servizi; migliore e minore regolamentazione; maggiore semplificazione; più concorrenza nel settore energetico; più attrazione di investimenti dall’estero; rafforzamento del mercato dei capitali con l’avvio effettivo dei fondi pensione. Rientrano in quest’area anche gli interventi a sostegno dell’investimento in capitale umano, dell’innovazione tecnologica, della ricerca e della capacità innovativa delle imprese. Siamo passati alle politiche sul lato dell’offerta. 3) Riduzione del carico tributario sul prodotto e sul lavoro; recupero di produttività; pochi programmi strategici nei settori più rilevanti per l’innovazione e per lo sviluppo; riduzione delle sacche di illegalità che ancora esistono nel nostro sistema, dal sommerso alla contraffazione. 4) Difesa del potere d’acquisto delle famiglie: concludendo i contratti di lavoro, dopo il Protocollo Governo OO.SS. del 30 maggio 2005; contenendo l’aumento delle tariffe; promuovendo la trasparenza dei prezzi; individuando forme di sostegno selettivo alle famiglie più deboli. Qui si torna ad una politica sul lato della domanda.

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Invece, il programma di stabilità, che si presenta in un format standardizzato in tutti i Paesi dell’Unione. Come si può vedere, ci sono una serie di variabili rilevanti (tasso di crescita del PIL nominale; tasso di crescita del PIL reale; tasso di crescita del PIL potenziale; l’output gap; l’indebitamento netto; l’indebitamento netto corretto per il ciclo; l’avanzo primario corretto per il ciclo e il debito pubblico). C’è un confronto tra tre scenari diversi: quello di base, che si fonda sui dati; è un dato di estrapolazione storica. Poi ci sono due scenari: quello “ottimista” e quello “pessimista”. Guardate la situazione di debito prevista per il 2009: nello scenario di maggiore crescita il nostro debito dovrebbe essere intorno allo 97,1; mentre in quello peggiore, siamo al 105,5. La commissione europea ha approvato che il PIL di un Paese possa essere rappresentato da una funzione di produzione di questo tipo:

Y  L kUk 

1

f (TFP) L= lavoro k= capitale U = percentuale di utilizzo del capitale TFP= livello tecnologico (Total factor productivity)

Per chi ha familiarità con l’economia, questa è una funzione di produzione detta “Cobb-

Douglas”. Per i neofiti, sia sufficiente sapere che essa spiega che il Prodotto dipende dalla quantità di lavoro impiegata per la quantità di capitale a disposizione (per il tasso d’impiego) per il tasso di progresso tecnologico. L’ipotesi di questa formula è che non esiste perfetta sostituibilità dei fattori, giacchè se un fattore è uguale a 0, il tutto diventa uguale a zero. Se andiamo a sostituire, all’interno di questa funzione di produzione i valori effettivi che riguardano un certo Stato, estraiamo il reddito effettivo. Se andiamo a sostituire tali fattori con quelli potenziali, estraiamo il reddito potenziale. Si ipotizza che tutto il capitale sia impiegato e che il lavoro sia massimamente occupato. Dunque: nell’ipotesi di reddito potenziale, la percentuale di utilizzo del capitale è pari ad 1; mentre la percentuale di lavoro impiegata dipende dalla stima del tasso naturale di disoccupazione. La differenza tra reddito potenziale e reddito effettivo rappresenta l’output gap. 56

Prendiamo ora il tasso di crescita del PIL reale che è quello che ci dice, a prezzi correnti, quanto cresce il PIL di una nazione. E’ importante sottolineare che le manovre strutturali di un governo impattano sul reddito potenziale. Si rileva che l’output gap si riduce, quindi c’è uno scenario d’espansione e un progressivo maggiore impiego delle risorse disponibili. L’avanzo primario, quando è corretto per il ciclo, tende a crescere, giacchè si allarga la base imponibile. Per la Commissione Europea la distinzione tra PIL effettivo e PIL reale è importante, giacchè serve a distinguere manovre strutturali da manovre contingenti. Dal Programma di stabilità dell’Italia , aggiornamento del dicembre 2005

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E’ interessante, a questo punto, leggere qualcosa. (si tratta del giudizio finale della Consiglio dei ministri CE, rivolto all’’Italia) “Sulla base della valutazione che precede, il programma può essere considerato compatibile con una correzione del disavanzo eccessivo entro il 2007, a condizione di un'attuazione completa ed effettiva del bilancio 2006 e della definizione e adozione di ulteriori misure sostanziali per il 2007. Alla luce delle raccomandazioni avanzate dal Consiglio a norma dell'articolo 104, paragrafo 7 del trattato il 28 luglio 2005, e per rafforzare la sostenibilità delle finanze pubbliche, il Consiglio invita l'Italia: i) a realizzare gli sforzi strutturali previsti nel programma per il 2006 e il 2007 per assicurare la correzione del disavanzo eccessivo entro il 2007 in modo credibile e sostenibile; ii) a descrivere le grandi misure sulle quali dovrebbe basarsi il percorso di aggiustamento nel 2007 e nella parte finale del programma e ad assicurare che l'aggiustamento verso l'obiettivo di medio termine resti conforme ai requisiti del patto di stabilità e crescita; iii) a provvedere affinché il rapporto debito/PIL scenda verso il valore di riferimento del 60 % previsto dal trattato a un ritmo più sostenuto, anche ponendo particolare attenzione ai fattori diversi dall'indebitamento netto che contribuiscono a modificare i livelli del debito; e iv) a migliorare il processo di bilancio, accrescendone la trasparenza e applicando in modo efficace i meccanismi vecchi e nuovi per il monitoraggio, il controllo e il rendiconto della spesa.”

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“SISTEMA FINANZIARIO, SVILUPPO E CRESCITA ECONOMICA” 21 Settembre 2006, Prof. Di Giorgio A cura di Marco Sonsini

1. Il ruolo del sistema finanziario nella teoria neoclassica della crescita economica. La teoria neoclassica della crescita economica trova espressione compiuta nel modello di Solow, elaborato a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Nel delinearlo sinteticamente, cerchiamo di dare risposta alle seguenti questioni fondamentali: 1) Che impatto hanno le dimensioni e i caratteri del sistema di intermediazione finanziaria sul tasso di crescita? 2) Come possiamo elaborare una misura dello sviluppo di un dato sistema finanziario? 3) Quali sono le determinanti della struttura finanziaria di un paese? 4) Che ruolo hanno le istituzioni? Già l’osservazione empirica ci consente di verificare alcune importanti regolarità: 1) Il prodotto per lavoratore (Y/L), cioè il reddito pro capite, tende a crescere; 2) Il capitale per lavoratore (K/L), cioè l’intensità di capitale, tende a crescere; 3) Il tasso di interesse reale (r), a prescindere dalle fluttuazioni congiunturali, è grosso modo costante nel lungo periodo; 4) Lavoro e Capitale percepiscono una quota di reddito tendenzialmente costante; 5) Il rapporto Capitale/Prodotto nel tempo tende a mantenersi costante, dunque Y/L e K/L mantengono un pari tasso di crescita; 6) Il tasso di crescita è direttamente proporzionale al tasso di risparmio, cioè all’accumulazione del capitale; 7) I tassi di crescita differiscono anche fortemente da paese a paese. Il modello di Solow si costruisce a partire dalla seguente funzione di produzione: Y(t) = F (K(t), L(t)×E(t)) con F=K L’equazione ci dice che il livello di equilibrio del reddito nazionale al tempo t è funzione costante della quantità, al tempo t, di capitale, di lavoro e del livello delle conoscenze che determinano l’efficienza del lavoro (non solo in relazione alle conoscenze tecnologiche in senso stretto, ma anche in riferimento all’organizzazione della forza lavoro, al suo grado di specializzazione ecc.). Si assume che E cresca ad un tasso costante, g, e che corrisponde al progresso tecnologico; si assume altresì che L creca ad un tasso n, che rappresenta la crescita della popolazione. Caposaldo del modello è inoltre l’assunzione dell’inesistenza di un settore pubblico e di scambi con l’estero, e della perfetta flessibilità dei prezzi, per cui il reddito nazionale sarà determinato dalla somma di consumi e investimenti: Y = C + I. L’allocazione del reddito sarà poi distinta in consumo e risparmio; nel modello di Solow, una frazione costante s del reddito viene risparmiata, dunque S(t)=sY. Il tutto è riassunto dalla seguente equazione: Y(t) – C(t) = S(t) = I(t). 59

Se passiamo ad esaminare l’equilibrio da un punto di vista dinamico, possiamo dire che l’incremento del capitale al tempo t è dato dalla differenza tra investimento lordo (che rappresenta la spesa per l’accrescimento dello stock di capitale) e tasso di deprezzamento del capitale stesso, dK(t): DK(t) = I(t) – dK(t) La funzione di produzione che abbiamo scritto all’inizio gode della proprietà dei rendimenti costanti di scala; ne consegue che F (lK, lL×lE) = lY. Per cui, posto l= 1/EL, Y/EL = F(K/EL, 1) Se poniamo Y/EL=y, e K/EL = k, possiamo riscrivere l’equazione come y = F (k,1), dunque y = Fk, dove y non è il livello del reddito ma il rapporto tra questo e l’efficienza nell’impiego della forza lavoro, determinata dall’entità di L e dal livello delle conoscenze tecnologiche e dalla qualità del capitale umano, e k è il rapporto tra capitale ed efficienza del lavoro. Posto i = I/EL, possiamo ancora scrivere sy = i, dunque s f(k) = i A questo punto, possiamo riscrivere l’equazione dinamica, che eguaglia l’incremento del capitale alla differenza tra investimento lordo e tasso di deprezzamento, come DK/EL = i – dK/EL Quindi, visto che E è funzione del tasso di progresso teconologico g e L è funzione del tasso di incremento della popolazione n, Dk = i – (d+n+g)k L’equazione dinamica così ottenuta ci dice che l’incremento del prodotto tra capitale ed efficienza di impiego della forza lavoro dipende negativamente dal tasso di deprezzamento del capitale (che provoca una diminuzione dello stock di K), dal tasso di progresso tecnologico e da quello di aumento della popolazione (che incrementano il rapporto EL). Se tuttavia consideriamo l’equilibrio dell’economia, cioè la condizione in cui l’accrescimento del capitale per forza lavoro è nullo, abbiamo k(t) = k(t-1) = k(t+1) = k* k* è detto equilibrio dinamico dell’economia. Si noti bene che, ad essere costante in equilibrio, non è lo stock di capitale K, ma il rapporto K/EL. Dunque se D=0, anche i – (d+n+g)k = 0; ma allora anche sf(k) – (d+n+g)k=0 In questo modo, l’equilibrio è espresso con una equazione di primo grado ad una sola incognita, cioè K/EL. Possiamo rappresentarlo anche graficamente:

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(n+g+d)k

Dk

sf(k)

k’

k*

k = K/EL

Dk=0

Se il rapporto tra capitale e forza lavoro è costante, l’investimento per forza lavoro è pari alla funzione lineare di K/EL che determina la tendenza di tale rapporto a contrarsi, per le ragioni viste sopra. Sapendo dalla funzione di produzione iniziale che il prodotto marginale è positivo e decrescente, sf(k), cioè l’investimento per forza lavoro sarà una curva del tipo di quella tracciata sul grafico, essendo s nient’altro che un parametro numerico compreso fra 0 ed 1. Se dunque il livello di capitale per forza lavoro fosse inferiore a quello di equilibrio, il risparmio, così come l’investimento per forza lavoro sarebbe maggiore del deprezzamento del capitale; di conseguenza, sf(k) sarebbe maggiore di (d+n+g) k, e nel tempo lo stock di capitale per forza lavoro si accrescerebbe fino a raggiungere il livello di equilibrio dinamico. Il modello di Solow ci permette inoltre di verificare l’impatto di una variazione del tasso di risparmio sul reddito pro-capite. La variazione del tasso di risparmio da un valore s a un valore s’< s, provoca infatti uno spostamento verso il basso della curva dell’investimento, facendo spostare, di conseguenza, il valore di equilibrio del capitale per forza lavoro k* lungo la retta che descrive il tasso di deprezzamento:

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sf(k)

s’f(k)

k**

k*

k

Naturalmente, la diminuzione del valore di equilibrio di k influisce anche su quello di y, dal momento che questo è funzione di k. Tuttavia, nel nuovo equilibrio il livello di k e quello di y si presentano, nel modello di Solow, nuovamente in quiete. Ciò significa che il modello che abbiamo sviluppato è in grado di cogliere solamente le dinamiche di breve periodo. Analizziamo le conseguenze di questo limite dal punto di vista del ruolo dello sviluppo del sistema finanziario nella determinazione del tasso di crescita. Dato che il tasso di crescita di E è pari ad un parametro g, e quello di L è pari ad un parametro n, il tasso di crescita del EL è pari a n+g. Se k, in stato di quiete, tende a rimanere costante, sarà costante anche il rapporto K/EL, dunque K dovrà crescere al medesimo tasso n+g. Parimenti, se y è costante, e pari a Y/EL, anche Y dovrà crescere al tasso n+g. Date queste premesse, il reddito pro capite Y/L crescerà al tasso g: in altre parole, nel modello di Solow, il tasso di progresso tecnologico è pari al tasso di crescita della produttività, e dunque del reddito pro capite, ma g è una variabile esogena, dal momento che il modello non la spiega. Nel nostro modello, in conclusione, la crescita economica di lungo periodo è sostanzialmente indipendente dal tasso di risparmio.

2. Il ruolo del sistema finanziario nelle teorie della crescita endogena. A partire dalla fine degli anni ’80, gli economisti hanno sviluppato teorie della crescita alternative a quella di Solow, allo scopo di individuare una determinante della crescita di lungo periodo che fosse spiegata dal modello (o, in altre parole, che fosse una variabile endogena rispetto al modello stesso). Riportiamo qui il modello sviluppato da Marco Pagano, che parte dalla definizione di una funzione di produzione semplificata: Yt = A Kt A è una semplice costante numerica, che non ha a che fare direttamente con lo sviluppo tecnologico. Se ne deduce che il livello del reddito è funzione lineare del livello del capitale (se vogliamo, del capitale fisico e umano, ovvero del complesso degli inputs). Le equazioni fondamentali del modello sono: 62

1) Yt/Kt = A. 2) It = Kt+1 – (1-d) Kt Kt+1 – Kt + δKt = It Kt+1 – Kt = It – δKt cioè il tasso di crescita dello stock del capitale equivale alla differenza tra investimenti e deprezzamento del capitale stesso. 3) φSt =It con φ
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