Tumori maligni dell`apparato digerente, del fegato, delle vie biliari e

April 7, 2018 | Author: Anonymous | Category: Scienza, Medicina, Oncology
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CAPITOLO 45 Michele Reni

Tumori maligni dell’apparato digerente, del fegato, delle vie biliari e del pancreas

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Tumori dell’esofago Definizione I tumori dell’esofago sono lesioni neoplastiche localizzate nel tratto del tubo digerente compreso tra la cartilagine cricoide e la giunzione gastroesofagea. L’esofago viene convenzionalmente suddiviso in un tratto cervicale (dalla cartilagine cricoide all’ingresso nella cavità toracica) e in uno toraco-addominale, a sua volta diviso in terzi: il terzo superiore si estende dall’ingresso nella cavità toracica alla carena, il terzo medio dalla carena alle vene polmonari inferiori e il terzo inferiore dalle vene polmonari alla giunzione gastroesofagea. Si distinguono pertanto tumori dell’esofago cervicale e del terzo superiore, medio e inferiore. Il carcinoma dell’esofago rappresenta una delle forme tumorali gravate dalla maggiore mortalità nell’ambito delle neoplasie solide, con un rapporto incidenza/mortalità vicino all’unità.

Epidemiologia Il carcinoma dell’esofago costituisce circa il 5% di tutti i tumori maligni ed è il terzo tumore più comune nel tratto gastroenterico e tra i primi dieci tumori più comuni a livello mondiale. Negli ultimi trent’anni si è osservato un aumento dell’incidenza di queste neoplasie di circa 6 volte, quasi esclusivamente legato all’aumento degli adenocarcinomi del terzo inferiore dell’organo e non attribuibile al miglioramento delle metodiche diagnostiche. Esistono notevoli differenze geografiche in termini di incidenza: dai 5-10 casi/100.000 persone/anno negli Stati Uniti (razza bianca), in Giappone, parte dell’Europa e Canada si sale a 10-50 in India, Sri Lanka, Sudafrica, Svizzera e Francia, ai 150-160 in Zimbabwe, 350-360 in Sudafrica e a 550/100.000 abitanti in Kazakhstan. Il carcinoma esofageo colpisce soprattutto il sesso maschile, con un rapporto che oscilla tra 2:1 e 4:1 rispetto al sesso femminile, e la fascia d’età è compresa tra la sesta e l’ottava decade di vita.

Eziologia e fattori di rischio L’eziologia del carcinoma esofageo è sconosciuta. Sono state individuate alcune condizioni associate a un aumentato rischio di sviluppare una neoplasia esofagea. Il

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fumo e il consumo di bevande alcoliche sono i principali fattori di rischio per le forme squamocellulari, con un aumento del rischio relativo che varia da 5-10 volte a 100 volte, in base alla quantità di sigarette e alcolici e all’associazione dei due fattori di rischio, che ha un effetto moltiplicativo. Il ridotto consumo di frutta e verdura e il diminuito apporto di ␤-carotene, di vitamina E e selenio raddoppiano il rischio di sviluppare un carcinoma squamocellulare. L’irritazione cronica della mucosa esofagea, i danni provocati da sostanze caustiche, il refl usso gastroesofageo, l’ernia hiatale e l’esofago di Barrett (rischio relativo aumentato di 40 volte) sono i principali fattori di rischio per gli adenocarcinomi. Inoltre, l’obesità, l’acalasia (rischio relativo di 16-30 volte), la tilosi (malattia genetica autosomica dominante caratterizzata da ipercheratosi al palmo delle mani e alla pianta dei piedi e da leucoplachia orale), una precedente radioterapia mediastinica o mammaria e la presenza di alcune lesioni precancerose come, per esempio, i papillomi sono associati a una maggiore incidenza di neoplasie esofagee maligne. Alcuni fattori dietetici, come il consumo di cibi o bevande particolarmente caldi (riso fra i cinesi, tè fra gli anglosassoni) o di bevande fermentate, potrebbero in parte giustificare le differenze geografiche ed etniche dell’incidenza. Va anche ricordata l’associazione del carcinoma esofageo con la sindrome di Plummer-Vinson (correlata all’anemia sideropenica; si veda il Capitolo 48), specialmente nei Paesi scandinavi, dove questa patologia è particolarmente frequente.

Patogenesi I carcinomi dell’esofago originano dalla proliferazione incontrollata di cloni cellulari caratterizzati da difetti della regolazione del ciclo cellulare. La maggior parte delle mutazioni colpisce la regolazione del ciclo cellulare a livello del punto di restrizione G1, che viene eluso mediante l’iperespressione di ciclina D1 (presente nel 40-60% dei carcinomi esofagei e nel 30% delle lesioni preneoplastiche) o l’inattivazione di p16 (20-70% dei casi). Il 20-60% delle neoplasie esofagee presenta viceversa deficit di espressione di Rb. Spesso, e soprattutto in relazione all’esposizione al fumo di tabacco, coesistono

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mutazioni di p53 (50-80% dei casi). L’iperespressione del recettore del fattore di crescita dell’epidermide (EGFR, Epidermal Growth Factor Receptor) è presente nel 30-70% dei casi. Nel 60-100% dei carcinomi esofagei sono state riscontrate delezioni di 3p che potrebbero essere responsabili dell’inattivazione del gene oncosoppressore FHIT (Frail Histidine Triad), coinvolto nella regolazione dei processi di progressione del ciclo cellulare e di apoptosi. Le mutazioni puntiformi o l’ipermetilazione del promotore del gene sono presenti nel 50-90% delle neoplasie esofagee. Le mutazioni di FHIT sono peraltro correlate all’esposizione al fumo di tabacco. La quasi totalità delle neoplasie esofagee presenta anche un’aberrante espressione della telomerasi, condizione rara o assente nel tessuto esofageo sano e nelle lesioni preneoplastiche. Il gene TOC (Tylosis Oesophageal Cancer), mutato nelle persone affette da tilosi con maggior rischio di sviluppare un carcinoma esofageo, risulta frequentemente deleto anche nelle forme sporadiche. L’irritazione cronica della mucosa esofagea, causata da vari fattori come danni da sostanze caustiche, prolungata permanenza di particelle di cibo (acalasia, Plummer-Vinson, diverticolosi), reflusso gastroesofageo, potrebbe avere un ruolo nella patogenesi di queste neoplasie. Anche il virus oncogeno HPV (Human Papilloma Virus) potrebbe essere coinvolto nella patogenesi del 15-30% dei carcinomi esofagei nelle sole aree endemiche dell’Asia e del Sudafrica. Il gene infatti codifica per due proteine, E6 ed E7, che sequestrano il prodotto dei geni oncosoppressori Rb e p53.

Anatomia patologica I due principali istotipi sono il carcinoma squamocellulare, predominante nel terzo esofageo prossimale e medio, e l’adenocarcinoma, di più frequente riscontro nel tratto distale e a livello della giunzione gastroesofagea. Negli studi clinici non sembrano esistere differenze significative di comportamento tra i due istotipi. Negli Stati Uniti, l’adenocarcinoma è l’istotipo prevalente (60%), mentre nella maggior parte degli altri Paesi del mondo è più comune il carcinoma squamocellulare. Dal punto di vista macroscopico si distinguono forme vegetanti (di tipo polipoide, stenosanti, con tendenza a provocare fenomeni ulcerativi e necrotici con possibile formazione di fistole) e forme infiltranti, che provocano stenosi anulare dell’esofago. I carcinomi esofagei tendono a essere ben differenziati e associati ad aree contigue o non contigue di carcinoma in situ e a una diffusa disseminazione linfatica sottomucosa. Sono stati individuati alcuni istotipi rari, come il carcinoma squamocellulare con aspetti sarcomatosi o adenoido-cistici e i carcinomi mucoepidermoidi. Tuttavia queste forme hanno la stessa presentazione clinica e la stessa storia naturale degli istotipi più comuni. I carcinomi a piccole cellule rappresentano circa l’1% dei tumori esofagei, sono prevalentemente localizzati al terzo medio e inferiore e hanno un’evoluzione più aggressiva metastatizzando precocemente ad altri organi. Tra le forme mesenchimali, prevale il leiomiosarcoma (1%) del terzo inferiore dell’organo, che si presenta come

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una massa voluminosa e con spiccata tendenza alla necrosi e al sanguinamento. Ancora più rari sono i linfomi e i melanomi.

Fisiopatologia L’assenza di una sierosa attorno all’organo e la presenza di un ricco reticolo linfatico sottomucoso, che comunica con i dotti linfatici localizzati negli strati muscolari drenando attraverso la parete dell’organo ai linfonodi adiacenti o al dotto linfatico, rappresentano un terreno favorevole per un’estesa infiltrazione neoplastica locale e linfonodale regionale. La storia clinica della malattia è pertanto caratterizzata da problemi correlati all’alterata motilità dell’organo e all’infiltrazione o alla formazione di tragitti fistolosi con organi circostanti, come il nervo laringeo ricorrente, la trachea, i grossi bronchi, l’aorta, il mediastino, il diaframma, la pleura, il pericardio. Le manifestazioni cliniche del carcinoma esofageo possono inoltre variare in funzione della sede interessata, della tendenza alla crescita vegetante o infiltrante, dell’invasione delle strutture circostanti. Nelle neoplasie del tratto prossimale prevalgono scialorrea, tosse “esofagea” (stizzosa), disfonia con voce bitonale da paralisi del ricorrente e disfagia; nelle neoplasie distali prevalgono i disturbi dispeptici, singhiozzo molesto e, nelle fasi avanzate, disfagia. Infine, anche se al momento della diagnosi non sono presenti metastasi, l’evidenza e la storia clinica della neoplasia suggeriscono la presenza costante di micrometastasi. Il carcinoma esofageo può metastatizzare per via linfatica, coinvolgendo i linfonodi cervicali e sovraclaveari (neoplasie del terzo superiore), i linfonodi tracheobronchiali (neoplasie del terzo medio), i linfonodi celiaci e della piccola curvatura dello stomaco (neoplasie del terzo inferiore), con conseguenti problemi di sintomatologia nella sede interessata. Anche la metastatizzazione per via ematogena è frequente e riguarda prevalentemente fegato, polmoni e, più raramente, scheletro e peritoneo. Epatomegalia, dispnea, dolori ossei o ascite possono essere presenti nella fase molto avanzata della malattia.

Manifestazioni cliniche I carcinomi esofagei si localizzano più frequentemente a livello dei restringimenti fisiologici dell’esofago. All’esordio il quadro clinico è in genere caratterizzato da disturbi di modesta entità che consistono in disfagia intermittente, limitata ai cibi solidi o ai boli voluminosi, pirosi che insorge subito dopo la deglutizione, bruciore retrosternale dopo ingestione di liquidi caldi. La disfagia tende a essere ingravescente, riguardando in un secondo tempo anche l’ingestione di liquidi, e condiziona un calo ponderale anche consistente. Il corteo sintomatologico è inoltre caratterizzato da odinofagia, eruttazioni, raucedine, tosse stizzosa, scialorrea, rigurgito, vomito alimentare, dolore retrosternale continuo o subcontinuo, talvolta irradiato al dorso e, in genere, associato all’estendersi del processo neoplastico nel mediastino alle strutture periesofagee, disfonia, singhiozzo. Emorragie massive con ematemesi e, talora, melena non sono frequenti (5%), mentre è praticamente costante uno stillicidio cronico, in grado nel tempo di provocare un’anemia sideropenica.

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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS

Nelle fasi avanzate possono essere presenti manifestazioni sistemiche caratterizzate da anoressia, inappetenza verso tutti i cibi, calo ponderale e progressivo deterioramento delle condizioni generali, fino alla cachessia. L’esame obiettivo è assai poco significativo. A parte la compromissione dello stato generale che si instaura progressivamente nel tempo, è possibile, talvolta, la palpazione di tumefazioni linfonodali nelle stazioni cervicali e sovraclaveari, talora solo a sinistra con positività del cosiddetto segno di Troisier.

Diagnosi È importante la raccolta di un’anamnesi accurata e focalizzata alle informazioni relative ai fattori predisponenti lo sviluppo di neoplasie esofagee e, in particolare, al fumo di tabacco, all’abuso di alcolici, al reflusso sintomatico, alla pregressa diagnosi di esofago di Barrett e alla storia di precedenti neoplasie della testa-collo. Occorre anche raccogliere informazioni relative a pregressi interventi chirurgici su stomaco e colon, in quanto potrebbero condizionare le scelte della chirurgia ricostruttiva in caso di esofagectomia. Gli esami di laboratorio non sono di grande utilità per la diagnosi. L’anemia sideropenica è frequente e la ricerca di sangue occulto nelle feci quasi sempre positiva. Non ci sono marcatori tumorali specifici. L’esame radiologico dell’esofago con solfato di bario dimostra la riduzione del diametro del lume esofageo, i cui contorni sono caratterizzati da irregolarità e rigidità, spesso associate a segni indiretti della neoplasia (spasmi esofagei più frequenti al di sopra del tumore e arresto dell’onda peristaltica); frequente è la presenza di una dilatazione del tratto a monte. Questa metodica diagnostica, nell’era dell’endoscopia moderna, è sempre meno utilizzata. L’esofagogastroduodenoscopia è un esame imprescindibile in quanto permette: 1) la localizzazione precisa della neoplasia rispetto all’arcata dentaria; 2) l’osservazione diretta delle sue caratteristiche, come il grado di ostruzione, la profondità di infiltrazione della parete dell’organo, la presenza di lesioni satelliti o sincrone, la presenza di lesioni linfonodali regionali; 3) un intervento di emostasi in caso di emorragie; 4) il posizionamento di un’endoprotesi per palliare la disfagia e l’esecuzione di prelievi bioptici e brushing della lesione. I risultati di questa metodica sono strettamente operatore-dipendenti. La biopsia presenta un rischio di emorragia o di perforazione e non sembra in grado di fornire un uguale livello di affidabilità diagnostica rispetto all’indagine citologica, risultando positiva soltanto nel 65% circa dei casi. Viceversa, l’esame citologico, se correttamente eseguito, consente di ottenere un risultato diagnostico in oltre il 95% dei casi. La broncoscopia è indicata per le neoplasie del tratto prossimale dell’organo per studiare l’eventuale infiltrazione di bronchi e trachea e la presenza di tragitti fistolosi. La tomografia computerizzata (TC) di torace, addome e pelvi con somministrazione di mezzo di contrasto ha una rilevanza fondamentale per la corretta pianificazione diagnostico-terapeutica, dato che l’eventuale presenza di metastasi condiziona l’esecuzione di altri esami diagnostici e la scelta delle strategie di trattamento. La TC ha un’ac-

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curatezza per l’individuazione delle metastasi polmonari ed epatiche e per la valutazione dell’infiltrazione aortica o tracheobronchiale superiore al 90%. Viceversa, la capacità di valutare la situazione loco-regionale della malattia, in termini di profondità di invasione della parete esofagea e di interessamento linfonodale, è limitata (50-70%). La tomografia a emissione di positroni con fluorodesossiglucosio (FDG-PET) ha un ruolo complementare alle altre metodiche di stadiazione in situazioni particolari. La PET è in grado di dimostrare metastasi non osservate con la TC (falsi negativi) nel 15% dei pazienti e la negatività di lesioni sospette per secondarismi alla TC (falsi positivi) nel 10% dei pazienti. Complessivamente, la PET determina un cambiamento della strategia terapeutica nel 20% dei casi e può quindi fornire indicazioni preziose nei pazienti potenzialmente resecabili. Questo esame può essere utile per il monitoraggio della risposta alla chemioterapia e alla radioterapia. Alcune tecniche chirurgiche minimamente invasive, come la laparoscopia e la toracoscopia, consentono di individuare micrometastasi non segnalate dalle altre procedure di stadiazione e di risparmiare la morbidità correlata a una laparotomia nel 10-15% dei pazienti. Queste tecniche non sono tuttavia ampiamente utilizzate in quanto esse stesse gravate da morbidità, prolungamento della degenza ospedaliera e costi elevati. Nella tabella 45.1 sono riportati la classificazione e lo stadio TNM per il tumore esofageo.

Tabella 45.1 Classificazione TNM per il tumore esofageo T – Tumore primitivo Tumore in situ Tis Invasione neoplastica della lamina propria o della T1 sottomucosa Invasione neoplastica della muscolaris propria T2 Invasione neoplastica dell’avventizia T3 Invasione neoplastica delle strutture adiacenti T4 N – Linfonodi regionali Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi N0 Presenza di metastasi ai linfonodi regionali N1 M – Metastasi a distanza Nessuna metastasi a distanza M0 Presenza di metastasi nei linfonodi celiaci (per i tumori M1a del terzo inferiore) o cervicali (terzo superiore) Presenza di metastasi ad altri organi M1b Stadio in base al sistema TNM T1N0M0 I T2N0M0 IIA T3N0M0 T1N1M0 IIB T2N1M0 T3N1M0 III T4NqualsiasiM0 TqualsiasiNqualsiasiM1a IVA TqualsiasiNqualsiasiM1b IVB

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Terapia Il decorso di questa malattia è progressivo e ingravescente e la prognosi è infausta con una sopravvivenza globale a 5 anni inferiore al 10%. La diagnosi di carcinoma esofageo viene infatti spesso effettuata quando la malattia si trova in una fase già avanzata. La scarsità di studi con disegno appropriato rende difficile raggiungere un consenso sulla strategia ottimale per ciascun singolo stadio di malattia.

Stadio I La chirurgia radicale rappresenta il trattamento standard e non è richiesta nessuna terapia adiuvante. La resezione esofagea (esofagectomia) può impedire la progressione delle lesioni preneoplastiche a carcinoma invasivo, è curativa per i tumori T1 ed è in grado di migliorare il controllo loco-regionale della malattia per i tumori che infiltrano la sottomucosa, la parete dell’organo e i linfonodi. Si tratta di una chirurgia estremamente impegnativa, con elevati rischi di complicanze anche mortali che sono funzione dell’esperienza del centro e del chirurgo, potendo variare dall’8% dei centri che eseguono 19 o più esofagectomie all’anno al 20% dei centri che eseguono solo 2 interventi all’anno. L’intervento chirurgico ottimale consiste nell’asportazione di un tratto di esofago esteso per almeno 8-10 cm a monte e a valle dei limiti macroscopici della neoplasia. Infatti, in quasi il 50% dei casi, isole di tessuto tumorale sono presenti a 5 cm e più di distanza dai limiti macroscopici della neoplasia. Le neoplasie dell’esofago cervicale richiedono una laringoesofagectomia, ma la radicalità è ottenibile in una minoranza di pazienti a causa della crescita infiltrativa nei confronti delle strutture adiacenti. Nel complesso, la sola chirurgia non è in grado di modificare in modo rilevante la storia naturale della malattia. Considerato l’elevato prezzo biologico correlato e il fatto che circa tre quarti dei pazienti presentano una malattia localmente avanzata (stadi IIB e III) alla diagnosi, negli ultimi anni si è assistito al proliferare di studi di terapia combinata di chemio- e radioterapia, con l’obiettivo di migliorare la prognosi.

Stadi II-III Il trattamento di questi stadi della malattia è controverso. Le varie opzioni a disposizione sono la chirurgia seguita o preceduta da un trattamento chemioterapico sistemico o chemio-radioterapico o radioterapico, oppure la chemio-radioterapia esclusiva. La chemio-radioterapia preoperatoria seguita dall’esofagectomia ha lo scopo di: 1) ottenere una riduzione della massa neoplastica facilitando l’intervento chirurgico nei pazienti con neoplasia localmente avanzata; 2) rimuovere la malattia chemio-radio-resistente residua dopo il trattamento di induzione; 3) aumentare il tasso di resezioni complete con margini circumferenziali negativi; 4) trattare la malattia micrometastatica.

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Nonostante non sia stata osservata una differenza statisticamente significativa di sopravvivenza, sulla base dei dati riportati e delle meta-analisi, che hanno dimostrato un aumento della sopravvivenza a 2 anni del 13% e una riduzione del rischio relativo di morte, la comunità scientifica ha adottato il trattamento chemioradioterapico seguito dalla chirurgia come standard negli stadi IIB e III, soprattutto per gli adenocarcinomi dell’esofago distale e della giunzione gastroesofagea. Il trattamento chemio-radioterapico aumenta però le complicanze e la mortalità perioperatoria dal 4 al 9% e deve perciò essere eseguito solo in centri specializzati e nei confronti di pazienti selezionati. Il ruolo della chemio-radioterapia postoperatoria è controverso. La somministrazione della chemioterapia postoperatoria è di difficile attuazione a causa del lento recupero postoperatorio, soprattutto nei pazienti sottoposti a chemio-radioterapia neoadiuvante, meno del 40% dei quali è in grado di completare il programma terapeutico. La chemio-radioterapia esclusiva ottiene sopravvivenze mediane e a 5 anni rispettivamente di 14-20 mesi e del 20-27%, che sembrerebbero sovrapponibili a quelle della sola chirurgia (11-16 mesi e 20%). Analogamente, le recidive locali sono del 39-45% rispetto al 61% osservato con la sola chirurgia. Alcuni studi hanno analizzato l’utilità dell’intervento chirurgico dopo chemio-radioterapia senza osservare particolari vantaggi, soprattutto nei pazienti con una risposta obiettiva ottenuta durante la prima parte del trattamento non chirurgico.

Stadio IV La chemioterapia sistemica rappresenta il trattamento di prima scelta per la malattia metastatica. La valutazione dell’attività dei singoli farmaci è resa difficile dall’eterogeneità delle casistiche analizzate e degli schemi di somministrazione dei farmaci. Il trattamento della malattia metastatica ha una finalità palliativa e la scelta dello schema terapeutico deve tenere conto dell’impatto della tossicità iatrogena sulla qualità di vita del paziente. Il farmaco più attivo è considerato il cisplatino, che viene pertanto quasi sempre incorporato negli schemi chemioterapici di combinazione. Le combinazioni di due o più farmaci sono in grado di produrre una maggiore percentuale di risposte obiettive al prezzo di una più elevata tossicità. Gli schemi più attivi si basano sull’impiego del cisplatino associato a 5-fluorouracile (35% di risposte) oppure a vinorelbina (34% di risposte). L’associazione del cisplatino con il paclitaxel o con l’irinotecan ha ottenuto rispettivamente il 43-50% e il 51-57% di risposte. Le associazioni di tre farmaci (cisplatino, 5-fluorouracile ed epirubicina oppure paclitaxel) ottengono il 50% circa di risposte. Devono essere infine ricordate le manovre terapeutiche attuate con finalità palliative per consentire l’alimentazione, quali la dilatazione endoscopica, il posizionamento di protesi, la laserterapia, la brachiterapia intraluminale, gli interventi di diversione alimentare (digiunostomia).

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Tumori gastrici Definizione I tumori dello stomaco sono neoplasie localizzate nel tratto del tubo digerente compreso tra la giunzione gastroesofagea e il piloro. Nel presente capitolo si tratterà esclusivamente delle neoplasie di origine epiteliale, che rappresentano oltre il 90% delle neoplasie maligne dello stomaco.

Epidemiologia Nonostante la riduzione di incidenza, il carcinoma gastrico rappresenta tuttora la seconda più comune causa di morte per tumore nel mondo. Questa tendenza è prevalentemente legata a modificazioni dell’alimentazione, della catena di preparazione e conservazione del cibo e ad altri fattori ambientali. La riduzione di incidenza è limitata ai tumori distali dello stomaco (antro e corpo), mentre si è osservato un aumento dei tumori dello stomaco prossimale e della giunzione gastroesofagea, che sono biologicamente più aggressivi e più difficili da trattare. Il declino è stato più rapido nelle donne rispetto agli uomini. L’incidenza varia considerevolmente nelle varie regioni del mondo ed è più elevata in Cina, Giappone, Europa orientale e America Latina, dove si osservano da 30 a 85 nuovi casi/100.000 abitanti/anno. È invece molto più rara negli Stati Uniti, in Israele e Kuwait, dove si osservano 4-8 nuovi casi/100.000 abitanti/anno. L’incidenza maschi/femmine è di circa 1,6:1 ed è maggiore tra le classi sociali più basse. Circa il 60% dei pazienti ha un’età superiore a 65 anni. L’incidenza per età aumenta rapidamente da 1,5/100.000 persone/anno in pazienti con meno di 30 anni a 40/100.000 persone/anno nella fascia di età compresa tra 45-64 anni, per raggiungere i 140/100.000 persone/anno nei pazienti con più di 75 anni.

Eziologia e fattori di rischio La causa del carcinoma gastrico è sconosciuta e probabilmente multifattoriale. Le due varianti istologiche, intestinale e diffusa, hanno verosimilmente una diversa eziologia. Infatti, la variante intestinale tende a originare da lesioni precancerose (si veda oltre), negli uomini più spesso che nelle donne, negli anziani più spesso che nei giovani, e predomina nelle aree geografiche in cui il cancro gastrico è endemico, suggerendo un’eziologia prevalentemente ambientale. Viceversa, la forma diffusa è più comune nelle aree geografiche a bassa incidenza, nelle donne e nei giovani ed è più spesso correlata alla familiarità, suggerendo un’importante componente genetica. Sono state individuate varie condizioni associate a un aumentato rischio di sviluppare il tumore allo stomaco. I fattori ambientali, culturali e metabolico-nutrizionali hanno certamente un ruolo rilevante. Gli emigrati da Paesi a elevata incidenza verso altri a incidenza bassa presentano una diminuzione della frequenza della malattia intorno alla seconda-terza generazione, soprattutto se intervengono cambiamenti nelle abitudini alimentari.

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Questa osservazione suggerisce che l’esposizione ad alcuni fattori ambientali intervenga precocemente nella vita, ma che altri fattori ambientali e culturali continuino a influenzare la predisposizione a sviluppare un cancro. È di recente osservazione, per esempio, che la presenza nell’acqua potabile o nel cibo di nitroguanidina o di metilacetilnitrosurea è in grado di provocare l’insorgenza di cancro gastrico nell’animale da esperimento. Questi nitrocomposti (nitrosamine) possono formarsi anche nell’uomo in seguito alla conversione di nitrati, contenuti negli alimenti, in nitriti che interagiscono quindi nello stomaco con amine secondarie o terziarie formando nitrosamina ad attività cancerogena. In Giappone il consumo di pesce salato richiede per la conservazione discrete quantità di nitrati (come anche tutti i cibi affumicati); in Cile esistono abbondanti depositi di nitrati la cui concentrazione può essere elevata negli alimenti e nell’acqua. Si ritiene che circa il 66-75% del rischio associato al cancro gastrico potrebbe essere ridotto con un maggiore consumo di frutta e vegetali nella dieta e con una minore assunzione di cibi salati. La possibilità di refrigerare, che consente il consumo di frutta e verdura per tutto l’anno, e la riduzione dell’uso del sale e dell’affumicamento come conservanti hanno contribuito alla riduzione del rischio di sviluppare i tumori dello stomaco. Anche l’assunzione di vitamina C e ␤-carotene potrebbe avere un ruolo protettivo. Un elevato indice di massa corporea e un elevato consumo calorico sono associati a una maggiore frequenza di adenocarcinomi del cardias. Il reflusso gastroesofageo raddoppia il rischio di sviluppare tumori del cardias e il fumo di sigaretta lo aumenta di 2,4 volte. Viceversa, l’uso di acido acetilsalicilico e di farmaci antinfiammatori non steroidei riduce il rischio, suggerendo un ruolo eziologico di fattori infiammatori e infettivi. Batteri anaerobi, che spesso colonizzano lo stomaco già affetto da gastrite atrofica e metaplasia intestinale, sono in grado di trasformare nitrati e nitriti in nitrosamine. Studi epidemiologici hanno chiaramente dimostrato l’esistenza di un’associazione tra infezione da Helicobacter pylori (Hp) e carcinoma gastrico (il rischio è più alto di 3-6 volte). Tale associazione sembra essere ristretta al tumore di tipo intestinale a localizzazione distale e non sembra essere correlata allo sviluppo di ulcera peptica che di frequente si riscontra in questi soggetti. Il meccanismo preciso dell’infezione da Hp nella carcinogenesi gastrica non è chiaro, per quanto si ritenga che sia in relazione all’insorgenza di gastrite cronica atrofica indotta da tale microrganismo. D’altra parte, considerando che l’Hp è presente in oltre il 50% delle persone in alcune parti del mondo e che il carcinoma gastrico si sviluppa soltanto nel 5% dei portatori, si suppone che l’insorgenza di una neoplasia conclamata richieda l’intervento di altri fattori, genetici o di altra natura, come il fumo di tabacco, l’età, il sesso e la dieta. Anche la virulenza del tipo di Hp potrebbe avere un ruolo. Tra l’altro l’effetto della prevenzione o del trattamento dell’infezione da Hp sul rischio di sviluppo di carcinoma dello stomaco non è conosciuto, a differenza di quanto avviene per il linfoma gastrico Hp-correlato.

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Un ruolo eziologico è sicuramente rivestito dai fattori genetici. Il cancro dello stomaco è infatti particolarmente frequente in alcune famiglie (storicamente rilevante il caso della famiglia Bonaparte: Napoleone, suo padre Carlo e suo nonno Giuseppe morirono tutti a causa di questa malattia così come alcuni fratelli e sorelle). I pazienti con carcinoma del colon-retto non poliposico ereditario (sindrome di Linch di tipo II), una rara sindrome autosomica dominante, presentano un elevato rischio di cancro dello stomaco. L’incidenza della malattia nei familiari dei soggetti che ne sono affetti è più alta di 2-3 volte rispetto alla popolazione generale. Nell’ambito di una stessa nazione, inoltre, sono spesso particolari gruppi etnici a essere più frequentemente colpiti di altri (neri americani, popolazione di origine celtica). Altri fenomeni sembrano ulteriormente avvalorare l’importanza dei fattori genetici; per esempio, l’incidenza della malattia tra i soggetti di gruppo sanguigno A è maggiore del 10-20% che nella restante popolazione, mentre tra i portatori di questa neoplasia non si trovano praticamente individui “Lewis-negativi”, che nella popolazione generale rappresentano circa il 7%. Sono state identificate anche alcune lesioni precancerose. L’osservazione protratta (oltre 10 anni) di pazienti con gastrite cronica atrofica ha dimostrato che, nell’8-10% dei casi, si sviluppa un carcinoma gastrico. La gastrite atrofica è caratterizzata dalla scomparsa della componente ghiandolare e dalla presenza, in oltre il 40% dei casi, di metaplasia intestinale e di fenomeni rigenerativi aberranti della mucosa, localizzati soprattutto nella regione antrale. L’importanza di questa lesione precancerosa deriva dall’elevata incidenza nella popolazione, dato che sarebbe presente nel 20-25% dei soggetti giovani apparentemente sani e nel 50-60% delle persone anziane. Il rischio di cancro gastrico è 2-3 volte maggiore nei pazienti affetti da anemia perniciosa, il 6% dei quali sviluppa una neoplasia nel corso della vita. Anche in questo caso la condizione predisponente consiste nella presenza di metaplasia intestinale. I polipi adenomatosi gastrici sono lesioni precancerose; infatti, l’1,5% circa di tutti i pazienti con disturbi gastrici è affetto da polipi, che costituiscono il 10% di tutti i tumori dello stomaco. Il rischio della degenerazione neoplastica maligna è presente solo per gli adenomi, i quali si localizzano soprattutto nella regione antrale e pilorica e sono particolarmente frequenti in corso di gastrite atrofica, specialmente se associata ad anemia perniciosa. I polipi possono essere peduncolati o sessili; in questi ultimi la degenerazione neoplastica è più frequente. Il rischio è minore nelle poliposi multiple, che sono costituite quasi sempre da polipi iperplastici. Infine, la probabilità di una degenerazione maligna si innalza con l’aumento delle dimensioni del polipo (in particolare se il diametro supera i 2 cm). La frequenza della degenerazione neoplastica dell’ulcera gastrica è assai variabile nelle differenti casistiche (in media 10% dei casi). Le ulcere di piccole dimensioni sembrano degenerare meno frequentemente rispetto a quelle di dimensioni maggiori. Le ulcere situate nelle regioni prepilorica e cardiale degenerano più frequentemente rispetto a quelle localizzate altrove.

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Gli studi più recenti suggeriscono che la degenerazione maligna di un’ulcera benigna sia un evento estremamente raro e che quasi sempre si tratta in realtà di neoplasie gastriche in stadio molto precoce, con aspetto ulcerato. È stato anche osservato che il rischio del carcinoma gastrico aumenta nel tempo (10-20 anni) dopo un intervento di resezione gastrica parziale secondo Billroth II per ulcera peptica.

Patogenesi Come per il carcinoma del colon-retto, delezioni alleliche dei geni MCC, APC e del gene della proteina oncosoppressiva p53 sono state descritte in una percentuale variabile di pazienti con cancro gastrico. Per contro, a differenza di quanto avviene per il carcinoma del colon e del pancreas, molto raramente si riscontrano mutazioni a carico dell’oncogene K-RAS. Sono state identificate alterazioni a carico dei prodotti di alcuni geni coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare, nella cascata dei segnali attivata dai fattori di crescita, nell’attività telomerasica, nell’angiogenesi e nella struttura della matrice extracellulare. Per esempio, la perdita di p-27, che interviene nella regolazione del ciclo cellulare, è stata identificata in tumori gastrici in stadio avanzato. L’EGFR è iperespresso in circa un quarto dei tumori gastrici, mentre c-erb-B2 è amplificato nel 10% circa dei casi. Sono state inoltre segnalate alterazioni a carico dei fattori coinvolti nei processi di angiogenesi come il VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor). In ogni caso, sono necessari nuovi studi per poter meglio definire il significato di tali caratteristiche molecolari nell’eziopatogenesi di questa malattia.

Anatomia patologica L’adenocarcinoma rappresenta più del 90% dei tumori dello stomaco. Più rari sono il carcinoma squamocellulare, l’adenoacantoma, i tumori carcinoidi, i leiomiosarcomi e i linfomi non Hodgkin. In rapporto agli aspetti macroscopici, sono stati proposti diversi sistemi classificativi. Tra i principali, la classificazione di Borrmann divide i carcinomi gastrici in cinque tipi sulla base dell’aspetto macroscopico: il tipo I sono i tumori polipoidi; il tipo II le lesioni ulcerative circondate da bordi sopraelevati; il tipo III comprende lesioni ulcerative infiltranti la parete gastrica; il tipo IV sono i tumori diffusamente infiltranti e il tipo V quelli non classificabili. La forma polipoide è una proliferazione vegetante con aspetto “a cavolfiore” all’interno dello stomaco. Può raggiungere anche dimensioni ragguardevoli. La forma ulcerativa si distingue dalle ulcere benigne per quanto riguarda la localizzazione, assai frequente sulla grande curvatura, e le dimensioni, potendo superare i 4 cm di diametro. La forma infiltrativa è caratterizzata da uno sviluppo intramurale che può limitarsi allo spessore della mucosa o infiltrare la parete a tutto spessore fino alla completa rigidità di quest’ultima. In questo gruppo va compresa anche la cosiddetta “linite plastica”, in cui si riscontra un notevole incremento di tessuto connettivo con deformazione di tutta la cavità gastrica o di parte di essa (stomaco “a borsa di cuoio” nel primo caso, stomaco “a clessidra” nel secondo).

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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS

La classificazione più utilizzata è quella di Lauren, che distingue due forme principali, quella intestinale e quella diffusa, sulla base dell’istologia, cui corrispondono diverse eziologia ed epidemiologia. La variante intestinale, più frequente, colpisce più spesso soggetti di età avanzata, si associa alla gastrite e alla metaplasia intestinale, è costituita da cellule ben differenziate che tendono a formare elementi ghiandolari ben distinti e a diffondere in modo circoscritto. La variante diffusa interessa anche soggetti di giovane età, non è associata alla metaplasia intestinale e presenta una scarsa coesione cellulare, con una spiccata tendenza a infiltrare in modo diffuso la sottomucosa e a metastatizzare. Il termine carcinoma in situ viene utilizzato per le forme in cui la proliferazione neoplastica è limitata alla sola tonaca mucosa e si ritiene che questo sia uno stadio costante nello sviluppo di ogni neoplasia. Negli ultimi anni è stata definita una particolare entità anatomoclinica, denominata early gastric cancer, che ha trovato la sua caratterizzazione soprattutto in Giappone, dove gli screening di massa hanno permesso l’identificazione di carcinomi limitati esclusivamente alla mucosa e alla sottomucosa. Con il progredire delle tecniche diagnostiche, l’incidenza del cancro precoce è aumentata dal 5 al 30%. Tutte le zone dello stomaco possono essere colpite; in ordine decrescente: regioni pilorica e antrale (50% dei casi), piccola curvatura (20%), regione cardiale (9%), grande curvatura (7%).

Fisiopatologia I carcinomi dello stomaco tendono, nel 60-90% dei casi, a penetrare in profondità nella parete gastrica fino a raggiungere e superare la sierosa e infiltrare per contiguità le strutture circostanti. Anatomicamente, lo stomaco è localizzato tra il diaframma e il lobo epatico sinistro, cranialmente a colon trasverso, mesocolon e grande omento, ventralmente e medialmente a milza, pancreas, rene e surrene sinistro e flessura splenica del colon. Ne consegue che i tumori prossimali possono infiltrare il diaframma, la milza o il lobo epatico sinistro; quelli a origine dalla grande curvatura tendono a invadere l’ilo splenico e la coda pancreatica e quelli più distali interessano il colon trasverso. Inoltre, il carcinoma gastrico tende almeno nel 50% dei casi a diffondere per via linfatica a esofago e duodeno lungo l’estesa rete linfatica intramurale o sottosierosa, o, attraverso i dotti linfatici intratoracici, alla regione sovraclaveare sinistra (linfonodo di Virchow – segno di Troisier) e ascellare sinistra (linfonodo di Irish), oppure, attraverso i linfatici del legamento epatoduodenale e falciforme, ai tessuti sottocutanei periombelicali (nodi di sorella Mary Joseph). Infine, sono frequenti e precoci la diffusione per via ematogena, che interessa primariamente il fegato dato che il sangue refluo venoso transita attraverso il sistema portale, e la colonizzazione delle sierose (nella donna, localizzazione a entrambe le ovaie attraverso il peritoneo, tumore di Krukenberg).

Manifestazioni cliniche Il carcinoma gastrico può decorrere per lungo tempo asintomatico o con sintomatologia lieve e aspecifica, così da ostacolare una diagnosi tempestiva; si stima che

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trascorrano in media 6-8 mesi tra la comparsa dei primi sintomi e la prima osservazione da parte del medico. Il ritardo diagnostico corrisponde al tempo che intercorre tra l’esordio clinico e l’inoperabilità della neoplasia. Nella maggior parte dei casi i primi sintomi sono rappresentati da generici disturbi digestivi: vago senso di fastidio e di peso epigastrico, rigurgiti, eruttazioni, sazietà precoce, digestione prolungata. In circa il 25% dei casi i sintomi iniziali possono simulare un’ulcera gastrica con tipico dolore ritmato con i pasti. Talora, in assenza di disturbi a carico dell’apparato digerente, compaiono sintomi di carattere generale: astenia, febbre, perdita di peso, anoressia generica o specifica per un determinato alimento (soprattutto la carne, sarcofobia), perdita di desiderio del fumo. È meno frequente, ma non eccezionale, che l’esordio sia rappresentato da un episodio emorragico con ematemesi e/o melena; raramente nelle forme ulcerative l’inizio può essere contrassegnato da un episodio di perforazione gastrica. Talvolta, precedendo anche di molti mesi qualsiasi altro sintomo, l’esordio è rappresentato da anemia, più spesso di tipo microcitico (sideropenica). Nei tumori localizzati in prossimità dell’orifizio cardiale, prevalgono disfagia e dolore retrosternale di tipo oppressivo, mentre in quelli prepilorici il quadro clinico può esordire con sintomi di ostruzione pilorica. Talvolta, infine, la neoplasia può essere rivelata solo attraverso il riscontro delle metastasi. In fase più avanzata sono frequenti dispepsia, anoressia, nausea, perdita di peso, astenia, anemizzazione, comparsa di edemi discrasici soprattutto ai malleoli, febbre, diarrea, ittero, dolori ai quadranti addominali inferiori, stipsi, ascite, occlusione intestinale, dolori ossei. In circa il 40% dei pazienti è possibile riscontrare una massa epigastrica, epatomegalia, tumefazioni linfonodali e ovariche. Inoltre possono essere osservate, per quanto in modo non frequente, varie sindromi paraneoplastiche tra le quali si ricordano: anemia emolitica microangiopatica, glomerulopatia membranosa, rapida comparsa di cheratosi seborroica (segno di Leser-Trelat), achantosis nigricans, coagulopatia intravascolare disseminata con possibile trombosi arteriosa e/o venosa (sindrome di Trousseau) e, assai di rado, dermatomiosite.

Diagnosi Tra gli esami di laboratorio, l’antigene carcinoembriogenico (CEA, Carcino Embryonic Antigen) è meno di frequente elevato che nelle neoplasie del colon-retto. La probabilità di riscontrare livelli patologici è in funzione dello stadio della malattia, essendo del 40-50% nel carcinoma gastrico metastatico e del 10-20% nei soggetti con malattia resecabile. Nonostante la bassa specificità, il CEA può essere utile, quando inizialmente elevato, per il monitoraggio della malattia, in quanto le sue variazioni correlano con la risposta al trattamento o con la progressione/recidiva di malattia. Anche l’␣-fetoproteina e il CA 19-9 sono elevati in circa il 30% dei pazienti con tumore dello stomaco, ma, come il CEA, il loro incremento si registra soprattutto nei casi di malattia estesa e, perciò, anch’essi non sono utili per la diagnosi precoce. L’anemia sideropenica per stillicidio occulto e per alterato assorbimento del ferro è presente in circa il 50% dei pazienti; l’anemia può essere macrocitica in caso di associazione

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con anemia perniciosa e gastrite atrofica. La ricerca del sangue occulto nelle feci è positiva in circa il 50% dei casi; la presenza di un significativo aumento di fosfatasi alcalina o ␥-GT può essere indice di metastasi epatiche o ossee; i livelli di albumina sierica possono essere ridotti a causa della protidodispersione da parte della mucosa gastrica coinvolta dalla neoplasia. La gastroscopia consente la visualizzazione diretta della mucosa gastrica e il prelievo bioptico per la diagnosi istologica con una sensibilità del 96-98% ed è, pertanto, la metodica diagnostica fondamentale delle neoplasie gastriche. L’ecoendoscopia, consentendo la valutazione degli strati profondi della parete gastrica, può rivelarsi utile per identificare precocemente neoplasie diffuse che potrebbero altrimenti sfuggire all’analisi condotta con altre metodiche. L’accuratezza è del 90% per la definizione dello stadio T e del 75% per la valutazione dello stadio N (si veda oltre). La TC addomino-pelvica (o total-body) contribuisce a definire l’estensione del tumore primitivo e a identificare l’eventuale presenza di metastasi ai linfonodi loco-regionali o ad altri organi. L’impiego delle TC spirali multidetettore, multifase, ha consentito di migliorare l’accuratezza dell’indagine. In ogni caso, la limitata sensibilità della TC nell’individuare le metastasi peritoneali rappresenta la base razionale per l’uso della laporoscopia di staging nei pazienti candidati alla gastrectomia, allo scopo di evitare un inutile intervento chirurgico maggiore. Sono disponibili relativamente pochi dati sul ruolo della FDG-PET nella stadiazione del cancro gastrico. Alcuni aspetti della biologia tumorale potrebbero limitarne il ruolo in questa neoplasia. Il glucose transporter-1, importante per il trasporto di FDG all’interno delle cellule tumorali, è spesso assente nei tipi più frequenti di carcinoma gastrico, contribuendo a un elevato tasso di esami falsi negativi. Nella tabella 45.2 sono riportati la classificazione e lo stadio TNM per il tumore gastrico.

Tabella 45.2 Classificazione TNM per il tumore gastrico T – Tumore primitivo Tumore in situ Tis Invasione neoplastica della lamina propria o della T1 sottomucosa Invasione neoplastica della muscolaris propria T2a Invasione neoplastica della sottosierosa T2b Penetrazione neoplastica attraverso la sottosierosa T3 (peritoneo viscerale) Invasione neoplastica delle strutture adiacenti T4 N – Linfonodi regionali Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi N0 Metastasi a 1-6 linfonodi regionali N1 Metastasi a 7-15 linfonodi regionali N2 Metastasi a più di 15 linfonodi regionali N3 M – Metastasi a distanza Nessuna metastasi a distanza M0 Presenza di metastasi a distanza M1 Stadio in base al sistema TNM T1N0M0 IA T1N1M0 IB T2a/bN0M0 T1N2M0 II T2a/bN1M0 T3N0M0 T2a/bN2M0 IIIA T3N1M0 T4N0M0 T3N2M0 IIIB T4N1-3M0 IV T1-3N3M0 Ogni T ogni NM1

Terapia La gravità della prognosi è strettamente correlata alla notevole difficoltà di una diagnosi precoce. Infatti, lo stadio della neoplasia rappresenta il fattore prognostico più importante e la sopravvivenza a 5 anni è superiore al 90% per lo stadio IA, poco più dell’80% per il IB, 55% per il II, 35% per il IIIA e 10% per il IIB e il IV. Le probabilità di guarigione restano in sostanza affidate a una diagnosi precoce e alla possibilità di attuare un intervento chirurgico radicale. Il carcinoma gastrico di tipo intestinale ha una prognosi più favorevole, dopo resezione chirurgica, rispetto al carcinoma di tipo diffuso (sopravvivenza a 5 anni rispettivamente del 25% e 15%). La prognosi è peggiore nelle forme poco differenziate e in quelle in cui sono presenti alterazioni di carattere genetico. La sopravvivenza a 5 anni dall’exeresi chirurgica cambia anche in funzione della sede della neoplasia ed è del 20-25% per i pazienti con tumore distale, del 10% per quelli con tumore prossimale e

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meno del 5% per quelli in cui la malattia interessa tutto lo stomaco. La peggior prognosi dei pazienti con neoplasia a localizzazione prossimale può essere espressione di una maggiore aggressività clinica, o di caratteristiche istologiche più indifferenziate o anche di maggiori difficoltà tecniche per un’exeresi radicale in cui, cioè, sia possibile ottenere margini liberi da malattia sufficientemente ampi.

Stadio I In casi selezionati di early gastric cancer, senza infiltrazione oltre alla mucosa, non ulcerati e con diametro inferiore a 3 cm, l’intervento può essere limitato a una resezione mucosa per via endoscopica o a una gastrotomia con escissione locale della neoplasia. In tutti gli altri casi, l’intervento chirurgico di scelta è la gastrectomia radicale subtotale, che prevede la rimozione di circa l’80% dello stomaco (con margini di resezione ad almeno 5 cm dai limiti visibili della neoplasia), dell’omento, della prima porzione del duodeno e del tessuto linfatico contenuto nel

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legamento epatoduodenale, nel legamento gastroepatico e nel legamento gastrocolico. Per le neoplasie più prossimali, gli interventi di scelta sono invece la gastrectomia totale o la resezione gastrica prossimale, che però è gravata da una maggiore incidenza di disturbi postoperatori (anoressia, dumping, bruciore retrosternale). La gastrectomia rappresenta un intervento chirurgico tecnicamente complesso, le cui morbidità e mortalità sono strettamente correlate all’esperienza del chirurgo e del centro. Non sono necessarie terapie complementari.

Stadi II-III Anche per gli stadi II e III la chirurgia, secondo le modalità precedentemente descritte, rappresenta la modalità terapeutica principale. L’estensione della resezione linfonodale è controversa. Nella resezione D1 è necessaria la rimozione dei linfonodi lungo la piccola e grande curvatura; l’intervento è considerato adeguato se nel campione sono rinvenuti almeno 15 linfonodi. Nella resezione D2 è effettuata la rimozione integrale della borsa omentale attraverso la dissezione dello strato frontale del mesocolon traverso, con isolamento completo dei peduncoli vascolari dello stomaco. Gli studi randomizzati effettuati in Europa non sono riusciti a dimostrare alcun beneficio di sopravvivenza per la resezione D2 rispetto alla D1. Tuttavia, le elevate morbidità e mortalità osservate nel braccio sperimentale di questi studi hanno sollevato qualche perplessità sui risultati e il potenziale ruolo terapeutico della resezione più estesa non è completamente chiarito. Sono allo studio altre tecniche, come quella del linfonodo sentinella, che possano consentire di pianificare l’estensione della resezione linfonodale su base individuale. L’intervento chirurgico, per quanto radicale, si traduce in una probabilità di guarigione definitiva piuttosto bassa, con un elevato rischio di recidiva sia locale sia a distanza. Da ciò deriva il tentativo di migliorare i risultati mediante l’utilizzo di terapie complementari. I trattamenti postoperatori consentono di limitare la tossicità associata ai soli pazienti con più elevato rischio di recidiva, selezionati sulla base della stadiazione patologica. Numerosi studi randomizzati di fase III e diverse meta-analisi non hanno finora fornito dati conclusivi per raccomandare l’uso routinario della chemioterapia adiuvante al di fuori di studi clinici. La chemioterapia primaria o neoadiuvante aumenta le probabilità di una resezione R0 e offre il

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vantaggio di trattare pazienti in migliori condizioni generali rispetto alla chemioterapia adiuvante e di curare l’eventuale micromalattia metastatica presente. Lo studio MAGIC, condotto nel Regno Unito, ha dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza libera da progressione e di sopravvivenza globale per i pazienti trattati con tre cicli di chemioterapia primaria secondo lo schema ECF (epirubicina, cisplatino, 5-fluorouracile), chirurgia e altri tre cicli di chemioterapia adiuvante nei confronti dei pazienti trattati con sola chirurgia. Questa strategia rappresenta pertanto una valida opzione per il trattamento del carcinoma gastrico agli stadi II-III. Dato l’elevato rischio di disseminazione peritoneale, la chemioterapia e la chemioipertermia intraperitoneali sono anche oggetto di studio, ma non esistono a oggi dati sufficienti per raccomandarne l’uso nella pratica clinica.

Stadio IV La finalità del trattamento dei pazienti con carcinoma gastrico allo stadio IV è puramente palliativa. È stato dimostrato che la chemioterapia migliora la sopravvivenza e la qualità di vita rispetto alla miglior terapia di supporto. Numerosi chemioterapici (fluoropirimidine, cisplatino e analoghi, antracicline, taxani, irinotecan ecc.), quando usati da soli, sono in grado di ottenere risposte obiettive nel 10-20% dei pazienti trattati. I trattamenti di combinazione ottengono tassi di risposta superiori al 40%. Le sopravvivenze mediane degli studi condotti si attestano tra i 9 e gli 11 mesi, senza nessuna evidente superiorità di uno schema sull’altro. In generale, le opzioni terapeutiche disponibili sono numerose e gli schemi a tre farmaci ottengono i risultati migliori. La scelta del trattamento, in considerazione della finalità palliativa, deve però tenere conto dell’età del paziente, delle condizioni generali, delle comorbidità, del rischio di tossicità e del costo. Come in altre malattie, sono in corso studi sulla targeted therapy, diretta contro bersagli molecolari critici per la crescita, la progressione e la metastatizzazione del carcinoma gastrico. I risultati preliminari con gli antiangiogenetici e con gli anticorpi anti-EGFR sono promettenti, ma, per poterne meglio apprezzare il rapporto rischi/benefici, è necessario ovviamente attendere l’esecuzione di studi di fase III.

Tumori dell’intestino tenue I tumori dell’intestino tenue presentano aspetti diagnostici e terapeutici problematici, perché costituiscono un gruppo di neoplasie piuttosto eterogeneo e si presentano con una sintomatologia vaga e aspecifica rendendo difficoltosa una diagnosi tempestiva. Infatti, è raro che ne venga riconosciuta la presenza prima che si manifestino delle complicanze rappresentate solitamente da emorra-

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gie, stenosi e perforazione. Nonostante il tenue rappresenti circa il 75% dell’intera lunghezza dell’intestino, i tumori che insorgono in questa sede sono estremamente rari (circa l’1% delle neoplasie dell’apparato digerente e lo 0,3% di tutte le forme neoplastiche). Sono state formulate numerose teorie nel tentativo di dare una spiegazione a questo fenomeno. In sostanza, la riduzione dell’esposizio-

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ne della mucosa a eventuali carcinogeni sarebbe favorita da: 1) transito più veloce del contenuto prevalentemente liquido del tenue; 2) pH alcalino o neutro; 3) popolazione batterica meno anaerobica, e quindi con minor tendenza a degradare i sali intestinali che si suppone abbiano un ruolo nella carcinogenesi dell’intestino crasso; 4) presenza di numerosi recettori per i folati che avrebbero un valore protettivo contro i carcinogeni; 5) presenza di elevati livelli di benzopirene idrolasi che sarebbe in grado di distruggere il benzopirene; 6) presenza di immunoglobulina A che svolgerebbe un ruolo di immunoprotezione; 7) minore presenza di cellule staminali tessuto-specifiche. I tumori dell’intestino tenue insorgono per la maggior parte in età avanzata, soprattutto nel sesto-settimo decennio di vita, e si localizzano più frequentemente nei segmenti terminali dell’ileo. Si riscontrano prevalentemente gli adenocarcinomi, ma sono relativamente frequenti anche i linfomi, i tumori carcinoidi e i tumori stromali gastrointestinali (GIST, GastroIntestinal Stromal Tumor). Dei tumori carcinoidi dell’intestino tenue si è già detto ampiamente nella parte dedicata agli apudomi (si veda il Capitolo 26), ai quali, pertanto, si rimanda per questo argomento. Gli adenocarcinomi rappresentano il 35-40% dei tumori dell’intestino tenue, sono prevalentemente localizzati al duodeno (50%), al digiuno (circa 20%) e all’ileo (circa 15%). La sopravvivenza a 5 anni è del 30% circa, con migliori risultati nelle lesioni più distali (duodeno 28%; ileo 38%) e nei pazienti con età inferiore ai 75 anni (34% versus 22%). Il trattamento è prevalentemente chirurgico, mentre le informazioni disponibili sull’efficacia della radioterapia e della chemioterapia sono limitate. I GIST sono un’entità nosologica di recente identificazione; fino a pochi anni fa questi tumori venivano identificati

come leiomiomi o leiomiosarcomi. I GIST presentano in oltre il 90% dei casi una mutazione del proto-oncogene KIT, che determina l’attivazione incontrollata della proteina KIT, recettore transmembrana delle tirosin-chinasi implicato nei processi di proliferazione e sopravvivenza cellulare. L’antigene CD117 è un marcatore della presenza di KIT ed è pressoché universalmente presente nei GIST. Nel 5% dei GIST si manifesta un’attivazione mutazionale di PDGFR-␣, una chinasi strutturalmente correlata a KIT. I GIST rappresentano l’1-3% dei tumori dell’intestino e sono più frequenti nel digiuno, seguito dall’ileo e dal duodeno. I GIST dell’intestino tenue tendono a essere più aggressivi rispetto a quelli dello stomaco e del colon. Le metastasi sono di riscontro relativamente raro (circa il 30%) e sono più frequenti nei tumori con diametro superiore ai 5 cm. Il trattamento si basa principalmente sulla rimozione chirurgica radicale che presenta difficoltà tecniche non trascurabili, dato che questi tumori tendono spesso a rompersi e a disseminare nella cavità addominale. Il coinvolgimento linfonodale è raro, per cui la resezione linfonodale estesa non è necessaria. I GIST tendono, nel 90% dei casi, a sviluppare nel corso degli anni recidive locali o a distanza. Il 50% dei pazienti presenta metastasi peritoneali e il 65% metastasi peritoneali ed epatiche. La sopravvivenza a 5 anni per i pazienti sottoposti a chirurgia radicale supera il 50% e la sopravvivenza mediana è circa il triplo di quella dei pazienti sottoposti a resezione incompleta (66 mesi versus 22 mesi). Le prospettive terapeutiche sono state migliorate dalla disponibilità dell’STI571 (imatinib mesilato), un inibitore di alcune famiglie di tirosin-chinasi, tra cui c-kit e PDGFR, in grado di ottenere risposte obiettive nella maggioranza dei pazienti con malattia metastatica trattati e prolungamento della sopravvivenza.

Tumori dell’intestino crasso Definizione I tumori dell’intestino crasso sono le neoplasie che si localizzano nel tratto dell’apparato digerente compreso tra la valvola ileo-ciecale e l’ano. L’intestino crasso è suddiviso in cinque segmenti in base al supporto vascolare e alla localizzazione extraperitoneale o retroperitoneale: cieco e colon ascendente, colon traverso, colon discendente, sigma, retto.

Epidemiologia Il carcinoma del colon-retto è il terzo tumore più frequente nel sesso maschile e il secondo nel sesso femminile. Negli anni Novanta se ne contavano quasi 800.000 nuovi casi all’anno nel mondo e nel 2000 ne sono stati stimati più di 900.000. Il carcinoma dell’intestino crasso rappresenta il 10-12% di tutte le neoplasie dell’apparato gastroenterico ed è, quindi, il più frequente dopo il cancro dello stomaco. L’incidenza del carcinoma sporadico del colon-retto aumenta considerevolmente dopo i 45-50 anni. Sembra esistere una leggera prevalenza per il sesso maschile (1,9:1,5). Questa patologia presenta un’elevata variabilità geografica

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e i tassi di incidenza oscillano dai 70 casi/100.000 abitanti/ anno dell’Alaska ai 2 casi/100.000 abitanti/anno di Gambia e Algeria. In generale, l’incidenza è più elevata nei Paesi industrializzati occidentali, mentre è molto bassa nei paesi africani, in Giappone e in certe aree del Sudamerica. In Italia l’incidenza è di circa 30 casi/100.000 abitanti/anno. Si pone, quindi, dopo il cancro del polmone nell’uomo e dopo quello della mammella e dell’utero per la donna. La sede preferenziale è a livello dell’ultimo tratto dell’intestino crasso e l’incidenza percentuale diminuisce passando dalla porzione rettosigmoidea, dove raggiunge il 70-80% rispetto a tutte le altre localizzazioni intestinali, procedendo in senso cefalico. Negli ultimi anni si è tuttavia osservato un aumento dell’incidenza dei tumori del colon destro in Nordamerica, Europa e in alcuni Paesi asiatici.

Eziologia e fattori di rischio L’eziologia dei carcinomi colo-rettali è complessa e implica l’intervento di fattori ambientali e genetici che determinano nel corso degli anni la trasformazione della mucosa normale in polipi adenomatosi preneoplastici e, in seguito, in forme tumorali maligne.

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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS

La responsabilità dei fattori ambientali è anche dimostrata dal fatto che gli emigranti da aree di bassa incidenza ad aree di elevata incidenza assumono il livello di rischio dell’area di adozione entro una generazione. Tra i fattori ambientali, la dieta ricopre un ruolo fondamentale. Esiste infatti una correlazione tra obesità, dieta ricca di grassi o di carni rosse e l’insorgenza di un cancro del colon-retto. Una dieta ricca di fibre, frutta e verdura ridurrebbe il rischio di sviluppare un cancro colo-rettale, probabilmente per un effetto di diluizione dei carcinogeni o di riduzione del tempo di transito intestinale degli stessi, anche se alcuni studi recenti sembrerebbero smentire questa ipotesi. L’assunzione di alcolici sarebbe associato a un rischio lievemente aumentato, probabilmente per un’interferenza con il metabolismo dei folati. Lo stile di vita sedentario sembrerebbe associato al rischio di neoplasie del colon, ma non del retto, secondo meccanismi non identificati. L’assunzione di acido acetilsalicilico e farmaci antinfiammatori non steroidei è associato in modo inversamente proporzionale all’incidenza di neoplasie colo-rettali (rischio relativo 0,49). La familiarità ha un ruolo importante, dato che il rischio risulta aumentato in funzione dell’anamnesi familiare, essendo, per esempio, raddoppiato se un parente di primo grado ha sviluppato una neoplasia del colon-retto dopo i 60 anni di età. Sono state identificate delle lesioni precancerose e i polipi adenomatosi e, soprattutto, quelli villosi, solitari o multipli, mostrano una spiccata potenzialità maligna. Le probabilità di trasformazione maligna di un polipo aumentano in rapporto alle dimensioni, superando il 30% se il diametro è maggiore di 2 cm. Alcune malattie infiammatorie dell’intestino crasso, per esempio la retto-colite ulcerosa, sono associate a un rischio circa 10 volte superiore di neoplasie del colon-retto rispetto alla popolazione generale. Si stima che il 20-30% dei tumori del colon-retto insorga per responsabilità di fattori genetici. L’incidenza di questi tumori, per esempio, è elevata in alcune forme di poliposi. La poliposi familiare adenomatosa (FAP, Familial Adenomatous Polyposis) interessa tutto l’intestino crasso ed è caratterizzata dalla comparsa entro i 30 anni d’età di oltre 100 formazioni polipoidi classificabili istologicamente come polipi adenomatosi e, più raramente, come adenomi villosi. La malattia è trasmessa con carattere autosomico dominante e la trasformazione maligna avviene nel 100% dei casi se il colon non viene rimosso chirurgicamente. Possono essere presenti anche osteomi mandibolari, denti soprannumerari, cisti epidermoidali, adenomi surrenalici, tumori desmoidi, tumori tiroidei, adenocarcinomi ampollari, glioblastomi e medulloblastomi (sindrome di Turcot). La poliposi ereditaria (sindrome di Gardner), anch’essa trasmessa con carattere autosomico dominante, è caratterizzata da polipi multipli diffusi del colon e del tenue (in genere di tipo adenomatoso, molto più di rado di tipo villoso) in numero minore rispetto alla FAP e dalla presenza di tumori ossei, generalmente benigni, di mandibola, sfenoide e mascella, e di tumori dei tessuti molli (lipomi, cisti sebacee, fibromi, leiomiomi ecc.). L’insorgenza è di regola più tardiva rispetto alla FAP. Anche in questo caso, la tendenza alla cancerizzazione è molto elevata.

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Il tumore del colon-retto ereditario non-poliposico (HNPCC, Hereditary Nonpolyposis Colorectal Cancer) è una sindrome trasmessa con carattere autosomico dominante con una penetranza di circa l’80%, caratterizzata dalla presenza di meno di 100 polipi, più frequentemente nel colon destro, che tendono a trasformarsi in senso maligno attorno ai 43 anni di età (HNPCC I). L’HNPCC II presenta anche tumori di stomaco, piccolo intestino, dotti biliari, pelvi renale, uretere, vescica, utero, ovaio, cute e pancreas. Il tumore del colon-retto è anche associato alla sindrome di Peutz-Jeghers e alla poliposi giovanile.

Patogenesi La natura della dieta determina la composizione quantitativa e qualitativa delle feci in termini di flora batterica e metaboliti. La carenza di fibre grezze produce feci disidratate che tendono a ristagnare, favorendo in particolare la proliferazione di quei batteri che degradano i sali biliari a metaboliti potenzialmente carcinogeni. Il rallentamento del contenuto intestinale conseguente alla disidratazione determina un più prolungato contatto di questi metaboliti con le pareti del colon. Una dieta povera di scorie provoca inoltre un aumento del tono e delle contrazioni segmentarie del colon, che è responsabile di un incremento della pressione endoluminale e della possibile formazione di diverticoli. Una dieta ricca di grassi agirebbe invece aumentando l’apporto di particolari substrati nel lume intestinale, quali i sali biliari e gli steroli neutri, e di altre sostanze di origine alimentare, come le nitrosamine derivanti dai nitrati aggiunti agli alimenti come conservanti, potenziali agenti carcinogenetici. Le mutazioni presenti nelle forme ereditarie hanno permesso di identificare il ruolo chiave di alcuni geni implicati nell’oncogenesi dei tumori sporadici del colon-retto. In particolare è stato identificato il gene APC (Adenomatosis Polyposis Coli) responsabile della FAP, in quanto la sua mutazione predispone a una precoce insorgenza della poliposi e, a seguito dell’inattivazione acquisita nel corso della vita dell’altra copia del gene, del cancro del colonretto. Circa l’80% dei polipi adenomatosi presenta una mutazione del gene APC, che ha un ruolo chiave nella regolazione dell’omeostasi intestinale. Infatti, le disfunzioni della proteina codificata da questo gene sono responsabili dell’instabilità cromosomica. Successivamente, nel 40-50% dei casi, compaiono mutazioni dell’oncogene Ras. La trasformazione maligna è associata a mutazioni dei geni oncosoppressori p53 e SMAD4 in circa l’80% dei casi. Nel 70-80% dei polipi adenomatosi e dei tumori del colon-retto, è stata osservata un’iperespressione di cicloossigenasi-2 (COX-2), che inibisce l’apoptosi e promuove l’angiogenesi. Nell’HNPCC sono invece presenti mutazioni dei geni che codificano per gli enzimi deputati alla riparazione degli errori spontanei o provocati dall’esposizione ad agenti esogeni che si verificano durante la replicazione del DNA (DNA mismatch repair), responsabili di un’instabilità microsatellitare. Nel 15% dei tumori sporadici del colon-retto sono presenti mutazioni a carico del geni che costituiscono il bersaglio d’azione di questo sistema, tra cui bax e i geni che codificano per il recettore per TGF-␤II e per IGF tipo I.

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Anatomia patologica

I tumori del colon destro sono prevalentemente di tipo vegetante e, dato il carattere ancora liquido del contenuto fecale, difficilmente danno luogo a occlusione intestinale. I tumori del colon sinistro sono invece prevalentemente di tipo scirroso, cioè stenosanti e, dato che il materiale fecale ha già un carattere solido, tendono a dare luogo precocemente a manifestazioni occlusive o subocclusive. Il dolore è da correlarsi a fenomeni spastici, a irritazione peritoneale o a compressione da parte della tumefazione neoplastica. La diarrea è indotta da fenomeni irritativi della porzione a monte della neoplasia o dal disfacimento necrotico del tessuto tumorale. I carcinomi del colon-retto possono infiltrare la sierosa peritoneale, con frequente insorgenza di carcinosi peritoneale disseminata, disseminarsi precocemente attraverso il sistema linfatico, o attraverso il sistema portale (con interessamento epatico) e cavale (nei tumori del terzo medio e distale del retto, con interessamento polmonare).

distensione addominale. Sono spesso presenti all’esordio turbe del transito consistenti in diarrea, stipsi più o meno ostinata fino a vere e proprie manifestazioni subocclusive e ileo meccanico, o alvo alternante. Spesso è presente mucorrea o pseudodiarrea, emissione ripetuta di piccole quantità di feci miste a muco e talvolta a detriti neoplastici, che di solito maschera una condizione di tipo occlusivo, più frequente nelle forme del colon sinistro. La proctorragia è molto comune nelle forme più conclamate, dove il sangue si presenta mescolato alle feci nelle neoplasie del colon destro, mentre in quelle del colon sinistro, del retto e della giunzione rettosigmoidea esso “vernicia” in genere le feci o si verifica indipendentemente dall’emissione del materiale fecale. Più spesso è presente uno stillicidio cronico e il sangue è dimostrabile soltanto con metodo chimico. Il paziente è anoressico, astenico, presenta un progressivo calo ponderale; può avere febbre ed essere anemico. In genere, il quadro clinico ha un esordio subdolo e un andamento lentamente ingravescente; più raro è un esordio acuto con manifestazioni di tipo subocclusivo o con vera e propria sindrome occlusiva. Per quanto riguarda i sintomi correlati alla sede della neoplasia, i carcinomi del colon destro in genere si manifestano con sintomi “colitici” per il frequente sovrapporsi di processi flogistici; le turbe dell’alvo sono rappresentate prevalentemente da diarrea e frequenti e precoci sono i disturbi dispeptici, l’astenia, il dimagramento e la febbre. I carcinomi del colon sinistro presentano più spesso dolori di tipo colico, stipsi e pseudodiarrea, mentre meno frequenti sono i disturbi dispeptici e la compromissione delle condizioni generali. I carcinomi del retto e della giunzione rettosigmoidea si manifestano con emorragie rettali con emissione di sangue rosso vivo che “vernicia” le scibale o con emissione di sangue indipendentemente da quella del materiale fecale. Il tenesmo rettale (stimolo doloroso alla defecazione non seguito dall’evacuazione del contenuto intestinale) è solitamente precoce ed è dovuto all’irritazione dell’ampolla da parte della neoplasia, la quale provoca spesso particolari conformazioni delle scibale (feci nastriformi, feci caprine ecc.). La sintomatologia dolorosa è in genere tardiva, così come la compromissione delle condizioni generali del paziente. Per quanto riquarda l’esame obiettivo, la palpazione della massa neoplastica non è frequente e solitamente tardiva, anche in presenza di un’importante sintomatologia intestinale. L’obiettività addominale può evidenziare zone di dolorabilità, specialmente alla palpazione profonda, in corrispondenza della sede della neoplasia. Più significativo può risultare l’esame obiettivo in presenza di complicanze di questa malattia, quali l’occlusione intestinale, la perforazione o l’esistenza di metastasi con riscontro di epatomegalia, ittero, dispnea, adenopatie, a seconda della sede interessata.

Manifestazioni cliniche

Diagnosi

Il carcinoma del colon-retto esordisce con sintomi comuni a tutte le localizzazioni e sintomi caratteristici in rapporto alla sede. Tra i primi, il dolore localizzato o diffuso a tutto l’addome compare precocemente, è ingravescente e, se provocato da stenosi del lume intestinale, tende ad assumere il carattere della colica e ad accompagnarsi a borborigmi e

Il sospetto diagnostico di carcinoma dell’intestino crasso può essere avanzato in rapporto al quadro clinico del paziente. L’insorgenza di irregolarità dell’alvo, anche se saltuarie, in un soggetto adulto o anziano con precedenti normali funzioni intestinali, la comparsa di proctorragie, dolori di tipo colico, crisi subocclusive e occlusive,

L’aspetto macroscopico del carcinoma del colon può essere: • vegetante: proliferazione sessile che protrude nel lume con aspetto encefaloide o “a cavolfiore”; • polipoide: proliferazione peduncolata, in genere derivata dalla trasformazione maligna di un polipo adenomatoso o villoso; • colloide: caratterizzato dalla ricchezza di cellule muco-secernenti; • scirroso: caratterizzato da abbondante stroma connettivale con scarse formazioni ghiandolari, che determina un restringimento circolare del lume che assume un aspetto tipico di “anello portatovagliolo”. Dal punto di vista microscopico, in oltre l’85% dei casi si tratta di un adenocarcinoma. La variante ad “anello con castone” e quella a piccole cellule sono correlate a una prognosi più sfavorevole, mentre non è chiaro il ruolo prognostico della variante mucinosa. Il carcinoma midollare è associato a un elevato livello di instabilità microsatellitare e a una migliore prognosi. Nel referto anatomopatologico devono essere obbligatoriamente riportati istotipo, grado di differenziazione, livello di infiltrazione della parete, infiltrazione della sierosa e del grasso periviscerale, distanza della neoplasia dai margini di resezione prossimale, distale e circonferenziale (nel retto), numero di linfonodi esaminati (non inferiore a 13) e numero di linfonodi metastatici, integrità della fascia mesorettale (nel retto).

Fisiopatologia

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anemia, astenia e il progressivo deterioramento delle condizioni generali devono attivare l’esecuzione di opportuni accertamenti. Oltre alla raccolta di un’approfondita anamnesi personale e familiare, può rivelarsi utile la ricerca del sangue occulto nelle feci e i test di laboratorio possono individuare un’anemia sideropenica, alterazioni elettrolitiche, della funzionalità epatica e degli indici di flogosi. Il CEA può risultare elevato e, in questo caso, utile per monitorare l’evoluzione della malattia e la risposta al trattamento medico o chirurgico. Nel caso di neoplasie della parte distale del retto, l’esplorazione rettale consente la palpazione diretta della neoplasia. L’esame endoscopico (rettosigmoidoscopia o colonscopia) è di fondamentale importanza, in quanto permette l’osservazione diretta della neoplasia e l’esecuzione di prelievi bioptici ed è per questo preferito all’esame radiologico. A completamento della stadiazione delle neoplasie del retto è utile l’esecuzione di una ecoendoscopia o di una risonanza magnetica (RM) endorettale, che meglio permettono di valutare la profondità dell’infiltrazione della parete dell’organo e l’eventuale interessamento dei linfonodi regionali. La TC toraco-addominale con mezzo di contrasto permette infine di individuare eventuali metastasi sistemiche. La diagnosi differenziale si pone con la malattia di Crohn, la rettocolite ulcerosa, la diverticolosi-diverticolite e con processi neoplastici di natura benigna. Lo stadio patologico rappresenta il principale fattore prognostico per le neoplasie del colon-retto. Nella tabella 45.3 sono riportati la classificazione e lo stadio TNM per il tumore del colon-retto. Pur essendo storicamente esistite altre classificazioni, questa viene oggi considerata l’unica da utilizzare.

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Tabella 45.3 Classificazione TNM per il tumore del colon-retto T – Tumore primitivo Tumore in situ Tis Invasione neoplastica della sottomucosa T1 Invasione neoplastica della muscolaris propria T2 Penetrazione neoplastica attraverso la muscolaris T3 propria nella sottosierosa Invasione neoplastica di altri organi o strutture adiacenti T4 o perforazione del peritoneo parietale N – Linfonodi regionali Lo stato linfonodale non può essere definito Nx Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi N0 Metastasi a 1-3 linfonodi regionali N1 Metastasi in più di 3 linfonodi regionali N2 M – Metastasi a distanza Lo stato metastatico non può essere definito Mx Nessuna metastasi a distanza M0 Presenza di metastasi a distanza M1 Stadio in base al sistema TNM T1-2N0M0 I T3N0M0 IIA T4N0M0 IIB T1-2N1M0 IIIA T3-4N1M0 IIIB T1-4N2M0 IIIC IV

T1-4N0-2M1

Terapia Nonostante le considerevoli risorse impiegate nei programmi di diagnosi precoce e le importanti prospettive di prevenzione aperte dalle nuove conoscenze sulle forme ereditarie, il carcinoma del colon-retto rappresenta la seconda causa di morte per cancro e nella pratica clinica un quarto circa dei casi si presenta con una malattia avanzata e non più operabile con intenti curativi. Inoltre, dei tre quarti dei casi rimanenti, un terzo circa morirà per recidiva della malattia, potendosi stimare pertanto una guarigione nella metà dei casi circa.

Stadio I La chirurgia rappresenta la principale opzione terapeutica con intento curativo nelle neoplasie del colon-retto. L’intervento deve essere preceduto da un’adeguata preparazione meccanica intestinale con lo scopo di ridurre il contenuto fecale e la carica batterica. La profilassi con eparina a basso peso molecolare e la profilassi antibiotica riducono il rischio di trombovenosi profonda, di embolia polmonare e di infezioni. È stata anche riconosciuta da anni l’importanza di evitare le trasfusioni di sangue allogenico nel periodo postoperatorio, mentre si è dimostrato vantaggioso dal punto di vista oncologico (minor

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numero di ricadute), oltre che in termini di costo/ beneficio, ricorrere agli autodepositi. La scelta della tecnica chirurgica deve basarsi su considerazioni anatomiche e oncologiche. Il segmento di intestino crasso sede di malattia deve essere rimosso con adeguati margini prossimo-distali (1-2 cm) e circonferenziale (> 1 mm), unitamente ai linfonodi regionali e agli organi adiacenti eventualmente infiltrati in un unico blocco. Senza entrare nel dettaglio delle tecniche chirurgiche, per le quali si rimanda ai trattati specialistici, si ricorda che, in base alla sede anatomica della lesione, si ricorre a emicolectomia destra o sinistra, trasversectomia, sigmoidectomia, escissione totale del meso-retto (TME, Total Mesorectal Excision), con conservazione delle innervazioni simpatica e parasimpatica allo scopo di preservare le funzioni urinaria e sessuale, resezione anteriore bassa del retto, resezione del retto con coloano anastomosi con colostomia temporanea, resezione di retto e ano per via addomino-perineale con colostomia definitiva (intervento di Miles), tumorectomia con finalità palliativa. Negli ultimi anni, la tecnica laparoscopica viene sempre più ampiamente utilizzata in alternativa a quella classica laparotomica. I vantaggi consistono in una minore invasività con conseguente diminuito dolore postoperatorio, precoce ripresa dell’alimentazione e delle attività quotidiane, minori

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complicanze e ridotto periodo di degenza. Inoltre, recenti ampi studi randomizzati hanno dimostrato benefici sulla qualità di vita del paziente nel breve termine e vi sono iniziali segnalazioni di un minore numero di ricadute. Tuttavia, occorre ricordare che il successo della chirurgia in generale, e più in particolare delle tecniche sofisticate, è molto operatore- e centro-dipendente e che l’escissione radicale non è tecnicamente possibile con le tecniche laparoscopiche nei tumori del retto, soprattutto se distali. Dopo un’exeresi radicale di una lesione allo stadio I, non sono richieste ulteriori terapie complementari e ci si può aspettare una sopravvivenza a 5 anni superiore al 95%. Il riscontro di un carcinoma dell’intestino crasso all’interno di un polipo rimosso per via endoscopica non richiede un reintervento, se il margine sul peduncolo non è infiltrato.

Stadi II-III Nei tumori agli stadi II-III il rischio di microdisseminazione metastatica è elevato e la recidiva si manifesta in circa un terzo dei pazienti, in genere durante i primi 3 anni dopo l’intervento, principalmente a livello di fegato, polmone, peritoneo, linfonodi. La sopravvivenza a 5 anni è del 70-80% negli stadi II e del 40-50% negli stadi III. Il ruolo della chemioterapia adiuvante è controverso nei tumori del colon allo stadio II e in genere limitato ai pazienti con fattori prognostici sfavorevoli, come perforazione, occlusione preoperatoria, inadeguato sampling linfonodale, grading G3, invasione linfovascolare o perineurale, infiltrazione per contiguità degli organi adiacenti, aumento dei valori preoperatori del CEA. La chemioterapia adiuvante è invece indicata nei pazienti con tumore del colon allo stadio III e ottiene un aumento della sopravvivenza a 5 anni del 6%. La chemioterapia si basa sulla somministrazione per 6 mesi di 5-fluorouracile e acido folinico sulla base di diversi studi randomizzati, che hanno anche dimostrato che i diversi schemi di somministrazione (mensile, settimanale, con basse o alte dosi di acido folinico) si equivalgono in termini di efficacia. L’aggiunta di oxaliplatino (schema FOLFOX) va valutata tenendo in considerazione l’entità della riduzione del rischio di recidiva a 3 anni (sopravvivenza libera da recidiva a 3 anni: 66% versus 72%; hazard ratio 0,76; 95% CI, 0,62-0,92), l’entità del miglioramento della sopravvivenza a 5 anni (73% versus 68,6%), la maggiore neurotossicità (con rischio del 10% di neuropatia persistente a 2 anni dal termine della terapia) e gli elevati costi del regime di combinazione. È probabile che la capecitabina orale possa sostituire la somministrazione di 5-fluorouracile infusionale. Nel carcinoma del retto si verificano con maggiore frequenza ricadute locali rispetto al carcinoma del colon. Ciò è probabilmente legato a cause anatomiche, ossia alla vicinanza delle pareti pelviche e alla mancanza di un adeguato rivestimento sieroso dell’organo. Gli stadi avanzati localmente (T3 e T4) o a livello linfonodale (N1 e N2) presentano un rischio più elevato, con percentuali di ricaduta dopo sola

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chirurgia che superano il 20%. Pertanto è stato analizzato il ruolo della radioterapia postoperatoria, che in questa sede anatomica presenta un minor rischio di effetti collaterali a carico dell’intestino tenue rispetto al colon. La radioterapia postoperatoria, se utilizzata da sola, riduce le recidive locali (aspetto rilevante per la qualità di vita del paziente) senza ottenere un significativo miglioramento della sopravvivenza. Viceversa, il trattamento postoperatorio concomitante radio-chemioterapico con 5-fluorouracile, preceduto e seguito da chemioterapia con 5-fluorouracile e acido folinico, ottiene un miglioramento significativo sia del controllo locale di malattia sia della sopravvivenza di circa il 10-15%. La tossicità, particolarmente quella gastroenterica ed ematologica, non è, tuttavia, trascurabile per entità e frequenza, essendo riportata come seria nel 25-50% dei casi. Inoltre pesano spesso nel lungo termine sulla qualità di vita del paziente le disfunzioni intestinali, urinarie e della sfera sessuale. La radioterapia preoperatoria è in grado di migliorare il controllo locale della malattia, di aumentare gli interventi chirurgici conservativi dello sfintere e, con l’impiego di tecniche ipofrazionate (5 Gy in 5 frazioni), anche di migliorare la sopravvivenza. La radio-chemioterapia preoperatoria consente di preservare lo sfintere nel 60-90% dei pazienti, di ottenere una remissione patologica completa nel 10-25% dei casi e di prolungare la sopravvivenza. Rappresenta il trattamento di scelta nei tumori in cui la stadiazione preoperatoria deponga con certezza per uno stadio III, in assenza di controindicazioni mediche.

Stadio IV Il 20% circa dei pazienti presenta una malattia metastatica all’esordio dell’affezione e circa il 30-40% dei pazienti con malattia inizialmente locale sviluppa metastasi nel corso della sua storia clinica. La maggior parte dei pazienti con malattia metastatica è candidato a un trattamento chemioterapico finalizzato a palliare i sintomi, a migliorare la qualità di vita e a prolungare la sopravvivenza. Non è comunque esclusa la possibilità, in alcuni casi selezionati, di ottenere una guarigione. Il farmaco di prima scelta è sempre il 5-fluorouracile, in grado di ottenere risposte obiettive in meno del 20% dei pazienti. La modulazione con l’acido folinico ottiene un miglioramento significativo delle risposte oggettive e della sopravvivenza. Anche in questo caso, la capecitabina, profarmaco del 5-fluorouracile assorbibile per os e in grado di raggiungere una maggiore concentrazione a livello delle cellule tumorali rispetto a quelle sane, può sostituire il 5-fluorouracile con maggiore praticità di somministrazione. La combinazione di 5-fluorouracile con oxaliplatino (FOLFOX), con irinotecan (FOLFIRI) o con entrambi questi farmaci (FOLFOXIRI), ottiene un significativo miglioramento delle risposte obiettive e della sopravvivenza. L’utilizzo del bevacizumab, anticorpo anti-VEGF, in associazione a FOLFIRI aumenta ulteriormente la sopravvivenza. L’anticorpo anti-EGFR cetuximab

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in monoterapia o in associazione a irinotecan è in grado di ottenere risposte obiettive e prolungare la sopravvivenza nei pazienti con malattia resistente al solo irinotecan. Inoltre, cetuximab e panitumumab (anticorpo monoclonale umanizzato anti-EGFR) sono in grado di aumentare le risposte obiettive e la durata del controllo della malattia ottenibili con i trattamenti polichemioterapici. L’uso di marker biologici permetterà sempre più di utilizzare in modo individualizzato questi preziosi ma costosissimi strumenti terapeutici. La scelta di ricorrere a un trattamento di combinazione o a una monochemioterapia deve comunque essere basata sull’età del paziente, sulla presenza di comorbidità o di controindicazioni all’uso di alcuni farmaci, sul performance status, e su una valutazione prognostica complessiva. Poco meno del 25% dei pazienti affetti da neoplasie del colon-retto sviluppa metastasi esclusivamente epatiche (metacrone o sincrone al tumore primitivo). La chirurgia può avere un ruolo in queste situazioni e le casistiche chirurgiche riportano una sopravvivenza a 5 anni compresa tra il 16 e il 49%, con una mortalità operatoria compresa fra lo 0 e il 9%. Analogamente, la resezione di metastasi isolate del polmone o dell’ovaio può essere curativa in casi selezionati. La chirurgia può essere considerata come il primo intervento terapeutico oppure dopo la risposta a una chemioterapia sistemica. Nel caso di malattia esclusivamente epatica, possono essere presi in

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considerazione anche altri trattamenti locali. La chemioterapia regionale intrarteriosa con FUdR (floxuridina) si basa sul principio che le metastasi epatiche ricevono il loro apporto ematico prevalentemente dall’arteria epatica, mentre il fegato sano dal sistema portale, e che i chemioterapici attivi nel cancro del colon-retto (fluoropirimidine) hanno un alto tasso di estrazione epatica. La loro somministrazione intrarteriosa riduce pertanto il rischio della tossicità sistemica. La mancanza di studi che dimostrassero con chiarezza i benefici significativi sulla sopravvivenza, l’avvento di schemi di chemioterapia sistemica più efficaci, gli elevati costi, la tossicità epatobiliare e le complicanze legate all’uso dei cateteri intrarteriosi hanno di fatto soppiantato l’impiego della chemioterapia regionale intrarteriosa. Tra le terapie locali occorre anche menzionare la termoablazione con radiofrequenze, con la quale si ottiene una necrosi coagulativa conseguente allo “shock” termico. Si tratta di una tecnica relativamente semplice (l’approccio è ecografico), praticabile ambulatorialmente per via percutanea, sostanzialmente scevra da rischi (sanguinamento soprattutto per lesioni sottoglissoniane) e in grado di garantire un buon controllo locale a patto che le lesioni non siano di grosse dimensioni (> 4,0 cm). Può essere praticata anche intraoperatoriamente per trattare lesioni non resecabili chirurgicamente. Non è ancora noto se la metodica offra dei benefici di sopravvivenza e non può quindi essere utilizzata in alternativa alla chirurgia o alla chemioterapia.

Tumori del fegato Definizione Il fegato è molto spesso sede di processi neoplastici. Di gran lunga più frequenti sono quelli secondari, ma non sono rari nemmeno i tumori primitivi. In questo capitolo si tratterà esclusivamente delle neoplasie maligne che hanno origine in questo organo.

Epidemiologia I tumori primitivi del fegato rappresentano uno dei tumori più frequenti a livello planetario con circa un milione di nuovi casi per anno. L’incidenza presenta notevoli variazioni geografiche, etniche e sessuali. In base all’area geografica, l’incidenza può variare da < 2 casi/100.000 persone/anno nei Paesi dell’Europa del nord a oltre 100/100.000 in alcuni Paesi africani, dove risulta il tumore più frequente in assoluto. Alcune zone della Cina e dell’Africa subsahariana presentano un’incidenza maschile superiore ai 30 casi/100.000 abitanti/ anno. L’Italia è in una situazione intermedia, con un’incidenza di 7/100.000. In Asia e in Africa, l’elevata incidenza è correlata alle aree che presentano alti tassi di portatori di epatite B e alla presenza di micotossine contaminanti cibo, acqua e terreno.

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Studi condotti sugli emigranti hanno dimostrato l’importanza del fattore razziale, dato che il gruppo etnico, pur riducendo il rischio di sviluppare un tumore primitivo del fegato rispetto al Paese di origine, mantiene un tasso di incidenza più elevato rispetto alla popolazione del paese di adozione. Il sesso più colpito è quello maschile (4:1); tra gli uomini, infatti, l’epatocarcinoma è la settima più comune forma di cancro; tra le donne la nona, ma la frequenza è in continuo aumento, soprattutto per quanto riguarda le forme correlate all’epatite C. L’età di più frequente insorgenza è superiore ai 40 anni in Europa e in Nordamerica, inferiore ai 40 anni in Africa e in Asia.

Eziologia e fattori di rischio Alcune sostanze chimiche presenti in natura, sintetizzate da batteri, funghi e piante, sembrerebbero essere tra i più potenti epatocarcinogeni. La più nota tra queste sostanze è l’aflatossina B prodotta dall’Aspergillus flavus, un fungo che contamina riso e granaglie non adeguatamente conservate, che rappresentano la principale fonte alimentare delle popolazioni asiatiche e africane in cui l’epatocarcinoma presenta la maggiore incidenza. Tra le sostanze chimiche, vanno annoverati anche gli ormoni anabolizzanti, l’alcol, il fumo di sigaretta, le nitrosamine, che derivano dai nitrati

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presenti in diversi alimenti, il cloruro di vinile e gli inquinanti ambientali contenuti in pesticidi e insetticidi, che sono responsabili dell’insorgenza di epatocarcinomi nei roditori. L’epatocarcinoma, soprattutto nei Paesi occidentali, si associa frequentemente a cirrosi. In realtà, non si tratterebbe di una relazione causa-effetto, quanto del fatto che entrambe le patologie avrebbero alcune possibili cause comuni. La più stretta correlazione è infatti con il virus dell’epatite B (HBV, Hepatitis B Virus). Da un punto di vista epidemiologico, dove è alto il numero di portatori dell’antigene di superficie del virus dell’epatite B (HBsAg, Hepatitis B surface Antigen) è alto anche il numero di epatocarcinomi (classico esempio sono le regioni dell’Africa in cui più del 10% della popolazione è HBsAg-positiva). In ugual modo, l’agente causale potrebbe essere il virus dell’epatite C, come è ormai ampiamente provato. L’epatocarcinoma sviluppatosi dopo epatite C è più frequentemente associato a cirrosi, spesso in fase più avanzata, rispetto a quello sviluppatosi dopo epatite B. Un altro fattore predisponente, o comunque associato, di notevole importanza è rappresentato dall’emocromatosi.

Patogenesi È ormai stata ampiamente dimostrata la capacità dell’HBV di indovarsi nel DNA degli epatociti e gli studi di biologia molecolare hanno dimostrato la presenza di materiale genetico del virus B incorporato nel DNA delle cellule del carcinoma epatico, a suggestiva conferma del ruolo eziologico di questo virus nell’insorgenza dell’epatocarcinoma. L’intervallo necessario per lo sviluppo di un epatocarcinoma è di circa 30 anni dopo trasfusioni infette con il virus dell’epatite C e di 40-50 anni dopo trasfusioni infette con il virus dell’epatite B.

Anatomia patologica I tumori primitivi del fegato possono avere origine dagli epatociti o dal tessuto mesenchimale (1-3%). Si presentano come una massa tumorale unica, per lo più a carico del lobo destro oppure come una neoplasia multinodulare diffusa, con frequenti combinazioni tra le due forme. L’origine può essere unicentrica, con eventuale diffusione metastatica intraepatica, oppure pluricentrica, come avviene più di frequente nella cancro-cirrosi. Le metastasi extraepatiche sono comuni soprattutto nei linfonodi dell’ilo epatico, ma possono coinvolgere anche quelli del mediastino e quelli cervicali, ed eventualmente il polmone, lo scheletro (specialmente vertebre e coste) e l’encefalo. Dal punto di vista anatomopatologico, il tumore è caratterizzato da una proliferazione di epatociti maligni, con grado variabile di anaplasia. Queste cellule possono formare noduli solidi, trabecole variamente anastomizzate tra loro o strutture pseudoghiandolari (molto difficile può essere la differenziazione tra adenoma epatocellulare ed epatocarcinoma ben differenziato); molto spesso il tessuto epatico circostante ha un aspetto cirrotico. Caratteristica dell’epatocarcinoma è l’invasione della vena porta e, meno frequentemente, della vena epatica. Le metastasi si diffondono per via ematogena attraverso la vena porta o l’arteria epatica. I linfatici decorrono tra i lobuli epatici e drenano, attraverso i vasi siti attorno alla vena porta, direttamente all’ilo epatico e alla cisterna chili. Il 20% circa del fegato drena tramite vasi diretti alla vena cava.

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Manifestazioni cliniche I pazienti affetti da epatocarcinoma presentano spesso all’esordio una sintomatologia varia e in genere subdola e, nel 25% dei casi, la malattia può manifestarsi in modo totalmente asintomatico. Spesso è presente un dolore sordo, di tipo profondo, mal localizzato (epigastrioipocondrio destro, talvolta anche posteriormente, in regione dorsale). Il calo ponderale può essere consistente e rapido. Poco significativi sono di solito i disturbi gastrointestinali come nausea, anoressia, pesantezza epigastrica postprandiale. Può esserci febbre, in genere non elevata; l’ittero, pur frequente, non è costante in tutti i casi e comunque non è mai molto intenso, salvo nel caso in cui si stabilisca una compressione dei grossi dotti biliari da parte dei linfonodi metastatici. L’epatomegalia è il reperto obiettivo più costante ed è presente nel 50-90% dei pazienti; molto importante dal punto di vista diagnostico è l’irregolarità del margine inferiore, talora plurilobato, di consistenza dura, a volte lapidea, in genere non molto dolente a meno che non vi sia una distensione della glissoniana o ancor più fl ogosi peritoneale; la dolorabilità è comunque maggiore che nella cirrosi e la superficie può apprezzarsi bernoccoluta. Nel caso in cui il processo neoplastico si impianti su un fegato già cirrotico, si verificano di solito un improvviso aggravamento della sintomatologia e un rapido aumento delle dimensioni di questo organo. Si può anche apprezzare all’auscultazione un soffio in regione epatica per l’aumento e l’irregolarità della vascolarizzazione arteriosa. Talvolta il quadro clinico è caratterizzato dall’improvvisa comparsa di coliche epatiche con emobilia o emoperitoneo e, quindi, anche addome acuto; infatti, il tessuto tumorale, fragile, molto vascolarizzato, senza uno stroma connettivale sufficiente può rompersi per traumi minimi e la conseguente emorragia produrre il brusco mutamento del quadro. Un’anemia è presente in oltre la metà dei pazienti. Inoltre, possono essere presenti segni di cirrosi (ittero, eritema plantare, ginecomastia, spider nevi, splenomegalia) e di ipertensione portale (ascite, varici). L’ascite è evidente nel 30-60% dei casi con liquido talora ematico o comunque di tipo misto, ma di regola con discreto contenuto di proteine. Sono anche state descritte varie sindromi paraneoplastiche, che consistono prevalentemente in anomalie biochimiche con conseguenze cliniche. Le principali includono ipoglicemia, eritrocitosi, ipercalcemia, ipercolesterolemia, disfibrinogenia, sindrome da carcinoide, aumentati livelli di globuline che legano la tiroxina, alterazioni sessuali (ginecomastia, atrofia testicolare, pubertà precoce) e porfiria cutanea tarda.

Diagnosi L’anamnesi può fornire i dati relativi a una pregressa storia di epatite, ittero, trasfusioni ematiche, utilizzo di droghe per via endovenosa, interventi chirurgici, esposizione lavorativa a carcinogeni chimici o esposizione a sostanze anabolizzanti. Nelle forme più conclamate l’elettroforesi mostra un aumento anche notevole, a banda larga, policlonale, come nella cirrosi, delle ␥-globuline e un incremento variabile delle ␣2-globuline; aumentano anche

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le transaminasi, ma soprattutto la fosfatasi alcalina, la ␥-GT e gli altri enzimi di colestasi quali la 5-nucleotidasi e la leucino-aminopeptidasi. In un caso su quattro è nettamente aumentata la quota di bilirubina coniugata. Di solito si riscontra una modesta anemia con leucocitosi neutrofila; talora è presente una poliglobulia con eritroblasti in circolo in rapporto ad abnorme sintesi epatica di eritropoietina. Abitualmente diminuiscono l’attività protrombinica e la pseudocolinesterasi. La diagnosi può trovare un dato di supporto nel dosaggio di un antigene embrionario specifico, l’␣-fetoproteina (AFP). Questa è una proteina sintetizzata dal fegato fetale, ma non dal fegato adulto. Ricompare nel siero del 50% dei pazienti con epatocarcinoma, perché l’epatocita trasformato tende a differenziarsi, riacquistando capacità proprie delle cellule fetali. In realtà, anche nell’adulto normale esistono tracce di questa sostanza (fino a 10-15 ng/mL), ma valori oltre i 200 ng/mL devono essere considerati altamente sospetti per la presenza di un carcinoma epatocellulare. I valori di AFP tendono a regredire completamente dopo l’asportazione della massa neoplastica. È utile ricordare che l’AFP non aumenta in caso di colangiocarcinoma, ma può aumentare anche in corso di altre epatopatie e, in particolare, in corso di cirrosi epatica. Il prelievo ematico deve verificare l’eventuale presenza dei virus dell’epatite A, B, C e D, includendo, se necessario, l’analisi quantitativa di DNA e RNA. Tra gli esami strumentali, il più importante è senza dubbio l’ecotomografia addominale, che permette di riconoscere lesioni del diametro inferiore ai 2 cm. Meno sensibile, ma utile per la stadiazione, è la TC, mentre la scintigrafia epatica ha perso gran parte del suo significato. Utile soprattutto nell’ipotesi di un intervento chirurgico è l’angiografia, che consente di evidenziare le caratteristiche vascolari della neoplasia. Non sono ancora del tutto chiariti i limiti e i vantaggi della RM rispetto alla TC, soprattutto se di ultima generazione. La RM permette una migliore definizione dei rapporti vascolari e della struttura della neoplasia nel contesto epatico. La diagnosi di certezza può essere posta solo con il prelievo bioptico, che può essere effettuato in corso di laparoscopia o, con minor danno per il paziente, con un prelievo citologico o microistologico sotto guida ecografica. In ogni caso, la diagnosi non invasiva di epatocarcinoma nel paziente cirrotico si può basare sulla presenza di una lesione epatica focale con un diametro maggiore o uguale a 2 cm, con caratteristica presa di contrasto in fase arteriosa e washout in fase venosa alla RM o alla TC, oppure con un diametro tra 1 e 2 cm con comportamento radiologico caratteristico nelle due metodiche radiologiche. Nel caso di lesioni con comportamento radiologico atipico, di lesioni con diametro inferiore a 1 cm o di lesioni riscontrate nel fegato non cirrotico, è invece necessaria una biopsia. La biopsia percutanea sotto guida ecografica ha una sensibilità e una specificità del 90% e del 91%, mentre quella sotto guida TC del 92% e del 98%, rispettivamente. La FDGPET è in grado di individuare solamente il 64% delle lesioni; tuttavia ha un impatto significativo dal punto di vista della decisione clinica nel 28% dei pazienti, permettendo di individuare la presenza di metastasi non rilevate da altre metodiche diagnostiche. In caso

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Tabella 45.4 Classificazione TNM per l’epatocarcinoma e per i tumori intraepatici del tratto biliare T – Tumore primitivo Tumore solitario senza invasione vascolare T1 Tumore solitario con invasione vascolare oppure T2 tumori multipli con diametro < 5 cm Tumori multipli con diametro ≥ 5 cm oppure T3 tumore infiltrante un ramo maggiore della vena porta o delle vene sovraepatiche Tumore con invasione diretta di organi adiacenti T4 (esclusa la colecisti) o con perforazione del peritoneo viscerale N – Linfonodi regionali Lo stato linfonodale non può essere definito Nx Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi N0 Metastasi ai linfonodi regionali N1 M – Metastasi a distanza Lo stato metastatico non può essere definito Mx Nessuna metastasi a distanza M0 Presenza di metastasi a distanza M1 Stadio in base al sistema TNM T1N0M0 I T2N0M0 II T3N0M0 IIIA T4N0M0 IIIB QualsiasiTN1M0 IIIC T1-4N0-1M1 IV

di sintomatologia dolorosa sospetta, è utile l’esecuzione di una scintigrafia ossea. Nella tabella 45.4 sono riportati la classificazione e lo stadio TNM per l’epatocarcinoma.

Terapia La storia naturale dell’epatocarcinoma è imprevedibile e vengono descritte sopravvivenze prolungate in assenza di trattamento. Nel caso di neoplasie in stadio avanzato, la sopravvivenza mediana in assenza di terapia è dell’ordine dei 5 mesi. I risultati del trattamento sono difficili da interpretare, dato che la sopravvivenza dipende dalla grave compromissione dell’organo sottostante più che dall’epatocarcinoma stesso. La patologia epatica di base condiziona pesantemente anche la scelta della strategia terapeutica. In ogni caso, il trattamento dell’epatocarcinoma è multidisciplinare e coinvolge chirurgo, oncologo, radiologo e patologo.

Stadi I e II Gli epatocarcinomi in stadio precoce possono essere gestiti con diverse tecniche tra cui il trapianto di fegato,

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la chirurgia, la termoablazione con radiofrequenza e l’alcolizzazione. Dato che non esistono studi di confronto tra le varie metodiche, la scelta dovrà comunque essere discussa con il singolo paziente e individualizzata. La scelta dell’opzione terapeutica deve in ogni caso tenere conto del principio fondamentale in base al quale occorre preservare la maggior quantità possibile di parenchima epatico funzionante. La chirurgia deve avere l’obiettivo di ottenere un margine libero dalla malattia di almeno 1 cm. Sfortunatamente, solo il 25% dei pazienti si presenta con una lesione epatica potenzialmente resecabile e, di fatto, solo il 10% circa viene effettivamente operato. La presenza di cirrosi epatica concomitante è considerata, specie nei Paesi occidentali, una controindicazione all’intervento, per cui solo il 20% circa dei pazienti che vengono candidati alla chirurgia risulta affetto da cirrosi. In altri Paesi si tende a estendere l’indicazione all’intervento e ciò spiega la più alta mortalità operatoria rispetto alle casistiche occidentali (9-33% versus 1-15%) e la minore sopravvivenza a 5 anni (11-19% versus il 30%). È evidente, quindi, quanto la presenza di cirrosi costituisca un importante fattore prognostico per l’efficacia della terapia chirurgica. La classificazione di Child-Pugh (Tab. 45.5) viene ancora ritenuta il fattore prognostico più affidabile per valutare la possibilità di tollerare una chirurgia epatica. Solamente i pazienti in classe Child-Pugh A dovrebbero essere candidati all’intervento chirurgico. I pazienti con classe Child-Pugh B o C dovrebbero essere valutati per il trapianto, che rappresenta una moderna e affascinante alternativa alla resezione chirurgica, data la possibilità di rimuovere la neoplasia e il tessuto cirrotico circostante. Nonostante gli interessanti presupposti teorici, i risultati sinora pubblicati non sono, tuttavia, molto incoraggianti; in un’ampia casistica solo il 24% dei pazienti è sopravvissuto e il 14% è libero dalla malattia per un tempo variabile da alcuni mesi ad anni. È probabile, però, che su questi risultati pesino fattori di selezione che hanno fatto sì che sinora venissero sottoposti a trapianto pazienti con una malattia molto avanzata. Diversamente, infatti, soggetti trapiantati per condizioni non neoplastiche e in cui incidentalmente si sono riscontrati foci tumorali hanno presentato un andamento molto più favorevole; ciò suggerisce che, anche nel caso del trapianto, siano cruciali le dimensioni del tumore. Infatti, se si selezionano i pazienti sulla base dei criteri di Milano (lesione unica < 5 cm, oppure < 3 lesioni, ciascuna delle quali con diametro < 3 cm; assenza di malattia extraepatica), la sopravvivenza a 5 anni supera il 70%. Il ruolo della terapia complementare alla resezione chirurgica o al trapianto non è definito. Gli studi prospettici randomizzati e non che hanno valutato l’impatto della terapia neoadiuvante o adiuvante non hanno finora permesso di identificare un chiaro vantaggio in termini di sopravvivenza. L’alcolizzazione è in grado di ottenere una necrosi tumorale nel 70-80% delle lesioni con diametro < 3 cm e nel 100% delle lesioni < 2 cm. Si tratta di una procedura ben tollerata, con costi limitati, eseguibile

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in regime ambulatoriale e gravata da pochi effetti collaterali. Questa tecnica è stata pressoché totalmente soppiantata dalla termoablazione con radiofrequenza, che si è dimostrata superiore all’alcolizzazione nelle neoplasie con diametro > 2 cm senza aumentare il rischio di complicanze.

Stadio III La chemioembolizzazione transarteriosa (TACE, Transarterial Chemoembolization) si basa sul principio di indurre una necrosi ischemica della neoplasia tramite occlusione arteriosa ottenuta con un embolo di lipiodol associato a un agente chemioterapico, in genere doxorubicina, mitomicina o cisplatino. La necrosi viene ottenuta nel 30-50% dei pazienti trattati, anche se la remissione completa è rara (2%). Le complicanze si verificano nel 10% dei pazienti e consistono in colecistite ischemica, nausea, vomito, rialzo delle transaminasi e dolori addominali. Viene descritta anche una sindrome post-TACE nel 50% dei pazienti con febbre, dolore addominale e un moderato grado di occlusione intestinale. La mortalità è inferiore al 5%. La TACE rappresenta il trattamento di elezione per l’epatocarcinoma allo stadio III e per i pazienti in cui si desidera ottenere una riduzione della massa neoplastica in previsione di un successivo trapianto. Inoltre, la TACE può essere proposta nei pazienti in cui la termoablazione è controindicata per sede (vicinanza alla colecisti, all’albero biliare o ai grossi vasi ematici) o per comorbidità. Il suo impiego è tuttavia limitato ai pazienti con funzionalità epatica conservata, assenza di malattia extraepatica o di invasione vascolare e senza sintomi correlati alla neoplasia, mentre è controindicato in presenza di ipertensione o trombosi portale e di ittero franco. In pratica, poco più del 10% dei pazienti è candidabile a questa terapia.

Stadio IV In generale, al momento della diagnosi, l’interessamento epatico domina il quadro clinico e solo il 25% dei pazienti presenta una disseminazione metastatica. Sono stati testati numerosi chemioterapici (5-fluorouracile, doxorubicina, cisplatino, etoposide) in monoterapia o in combinazione con risultati deludenti, tanto che non si ritiene indicato un trattamento chemioterapico sistemico per questa malattia. Analogamente, l’interferone, il tamoxifene, il chetoconazolo, la nilutamide, il goserelin (agonista LH-RH), la somatostatina, la talidomide, il megestrolo e la vitamina K hanno ottenuto risultati deludenti. Più recentemente sono stati riportati risultati incoraggianti con l’uso di bevacizumab, anticorpo monoclonale anti-VEGF, in associazione a chemioterapia con gemcitabina e oxaliplatino. Uno studio di fase III randomizzato contro placebo ha dimostrato che il sorafenib, inibitore delle tirosin-chinasi multi-target orale che agisce principalmente su VEGFR, PDGFR (Platelet Derived Growth Factor Receptor) e Raf, è in grado di prolungare la sopravvivenza di circa 3 mesi. Il sorafenib è pertanto oggi ritenuto una valida opzione terapeutica nei pazienti con epatocarcinoma in fase avanzata, non candidabili ad altre terapie loco-regionali.

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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS

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Tabella 45.5 Classificazione di Child-Pugh Parametro

Punti 2

1 Livello di bilirubina (mg/mL) Tempo di protrombina (sec) Albuminemia (g/dL) Ascite Encefalopatia

1-1,9 1-3 > 3,5 Assente Assente

2-2,9 4-6 2,8-3,4 Moderato Grado 1-2

3 > 2,9 >6 < 2,8 Grave Grado 3-4

Classe A: 5-6 punti; Classe B: 7-9 punti; Classe C: 10-15 punti.

Tumori del tratto biliare Definizione I tumori del tratto biliare possono essere distinti dal punto di vista nosografico in tumori della colecisti e in colangiocarcinomi che originano dall’epitelio delle vie biliari. I tumori delle vie biliari comprendono i tumori delle vie biliari intraepatiche, i tumori ilari (anche noti come tumori di Klatskin) e i tumori distali. I tumori ilari interessano la confluenza dei dotti biliare destro e sinistro e comprendono sia i dotti intraepatici sia quelli extraepatici. I colangiocarcinomi distali coinvolgono il dotto epatico comune o il dotto cistico senza estensione alla confluenza dei dotti biliari destro e sinistro. Comprendono inoltre la porzione intrapancreatica del dotto biliare e l’ampolla del Vater. Si tratta di neoplasie rare, di diagnosi difficile, per le quali sono disponibili limitati dati in letteratura spesso in casistiche che comprendono sia pazienti con tumori della colecisti sia pazienti con colangiocarcinoma, che hanno invece storia naturale e caratteristiche molto diverse, con le conseguenti difficoltà nel definire le linee guida per i protocolli diagnostico-terapeutici.

Epidemiologia Le neoplasie maligne della colecisti e i colangiocarcinomi rappresentano meno dell’1% di tutti i carcinomi e l’1,3-2,6% delle morti annuali per tumore a livello mondiale. I colangiocarcinomi sono più rari rispetto alle neoplasie della colecisti. L’incidenza di queste neoplasie è in aumento. Questo tumore predilige l’età avanzata con la massima incidenza tra il quinto e il settimo decennio di vita. I tumori della colecisti colpiscono prevalentemente il sesso femminile (rapporto uomo/donna 1:4-6), mentre i colangiocarcinomi prediligono il sesso maschile (rapporto uomo/donna 2:1). Le zone della colecisti più colpite sono il fondo (50-60%) e il colletto (20-30%), cioè quelle che sono più spesso interessate dalla localizzazione dei calcoli e dal conseguente processo infiammatorio. Per quanto riguarda i colangiocarcinomi, le forme ilari rappresentano il 67%, quelle distali il 27% e quelle intraepatiche il 6%. L’incidenza dei tumori della colecisti presenta una notevole variazione geografica ed etnica e può essere 25 volte più frequente in alcune aree rispetto ad altre. L’incidenza più elevata viene osservata in Cile, Bolivia, in Europa centrale, in Israele, tra gli indiani americani e gli americani di

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origine messicana (1,22/100.000 abitanti/anno). I tassi di incidenza minori sono invece stati osservati in Spagna, in India, tra i neri americani (0,17/100.000 abitanti/anno) e rodesiani. L’incidenza è minore nelle aree urbane rispetto a quelle rurali.

Eziologia e fattori di rischio L’eziologia dei tumori del tratto biliare non è nota. Nella maggior parte dei casi, i colangiocarcinomi sono sporadici e non sono stati individuati fattori predisponenti. Esistono tuttavia delle condizioni associate a un rischio aumentato di sviluppare queste forme tumorali. Si tratta in genere di fattori che causano un’infiammazione cronica dei dotti biliari. La colangite sclerosante è una patologia autoimmune associata alla colite ulcerativa, che comporta un aumento di 160 volte del rischio di sviluppare un colangiocarcinoma, spesso multifocale, che si manifesta entro 1 anno dalla diagnosi di colangite sclerosante in un terzo dei casi ed entro 2,5 anni nella maggioranza dei pazienti. La colangite sclerosante determina, nelle fasi precoci della malattia, una condizione di infiammazione cronica dei dotti biliari, alla quale fa seguito la comparsa di stenosi multifocali del sistema biliare con conseguente colestasi. Le cisti del coledoco, rara entità nosologica dovuta alla dilatazione congenita dei dotti biliari, se non trattate determinano la comparsa di un colangiocarcinoma nel 10-20 % dei casi. La colestasi è in questo caso alla base dei processi infiammatori cronici associati. Le parassitosi da Clonorchis sinensis o Opisthorchis viverrini sono endemiche in Estremo Oriente, dove è comune il consumo di pesce poco cotto, e sono responsabili di colangiti suppurative. Anche nel caso dei tumori della colecisti, l’infiammazione cronica ha un ruolo sospetto. In questa eventualità, la colelitiasi rappresenta il fattore più importante, dato che oltre il 75% dei pazienti con carcinoma della colecisti ne risulta affetto. Tuttavia, l’incidenza dei tumori delle vie biliari nei pazienti affetti da colelitiasi è solamente dello 0,3-3%. Anche in questo caso l’infiammazione cronica e la colestasi agirebbero come fattori predisponenti all’azione di altri agenti carcinogeni. Alcuni studi sperimentali condotti sui criceti hanno in effetti dimostrato che l’inserimento di calcoli di colesterolo nella colecisti aumentava l’insorgenza di tumori indotti dall’agente carcinogeno dimetilnitrosamina dal 6 al 70% circa.

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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA

L’esposizione al torotrast, una sostanza utilizzata come contrasto radiologico tra il 1930 e il 1960, è stata associata allo sviluppo di colangiocarcinoma con un periodo di latenza di 15-45 anni. Anche il fumo di sigaretta e la sindrome da immunodeficienza acquisita potrebbero essere responsabili dell’aumentato rischio di sviluppare un colangiocarcinoma. Le calcificazioni della colecisti (colecisti a porcellana) rappresentano la conclusione di un processo di infiammazione cronica e sono associate a un tumore della colecisti nel 10-25% dei casi. Anche le anomalie anatomiche della giunzione pancreato-biliare possono provocare infiammazioni croniche e, quindi, un aumentato rischio di sviluppare forme tumorali, indipendentemente dalla presenza di calcoli.

Patogenesi I tumori del tratto biliare derivano dalla trasformazione maligna dei colangiociti. La patogenesi non è chiarita; come per altre forme tumorali è verosimile che una successione di mutazioni genomiche determini la transizione da mucosa normale a iperplasia adenomatosa, displasia, carcinoma in situ e, infine, a carcinoma invasivo. La colestasi e l’infiammazione cronica creano un microambiente favorevole all’insorgenza di danni a carico dei geni e delle proteine implicati nel DNA mismatch repair, dei proto-oncogeni e dei geni oncosoppressori. Infatti, in queste situazioni si riscontrano elevati livelli di citochine, di fattori di crescita come EGF e acidi biliari che contribuiscono all’insorgenza delle alterazioni molecolari e alla prolungata sopravvivenza delle cellule alterate. Le citochine stimolano, nelle cellule epiteliali, l’espressione della nitrossidosintetasi inducibile (iNOS), che aumenta i livelli di nitrossidi e ossidi nitrogeni reattivi che interagiscono con il DNA e le proteine cellulari, provocando mutazioni e rotture dell’elica del DNA. Queste sostanze ostacolano anche l’azione degli enzimi deputati alla riparazione del DNA. Tra le principali mutazioni osservate nei tumori delle vie biliari si osservano frequentemente quelle a carico di k-ras (20-54%), p53 (20-92%), p16INK4a, DPC4/Smad4 e APC. I livelli di interleuchina 6 (IL-6) risultano elevati nei tumori del tratto biliare; si ritiene che IL-6 promuova la sopravvivenza delle stem-cell tumorali agendo su Notch-3 e MAPK. Le mutazioni a carico di EGFR e le citochine infiammatorie aumentano i livelli di IL-6 mentre il feedback inibitorio è bloccato dal silenziamento epigenetico di SOCS-3 (Suppressor of Cytokine Signaling 3). L’iperattività di IL-6 determina un aumento dei livelli delle proteine antiapoptotiche tipo Bcl-2, rendendo i tumori del tratto biliare resistenti alle terapie citotossiche, e una riduzione dei livelli di p21, proteina che regola negativamente il ciclo cellulare. Anche il fattore di crescita epatocitario e il suo recettore c-met sono frequentemente iperespressi.

Anatomia patologica Oltre il 90% dei colangiocarcinomi sono adenocarcinomi, mentre carcinomi squamosi, sarcomi, tumori a piccole cellule e linfomi rappresentano ciascuno meno del 5%. Tra i tumori della colecisti sono state anche descritte forme a origine mesenchimale, melanomi, carcinoidi, carcinosarcomi e lesioni metastatiche. I colangiocarcinomi e i tumori della

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colecisti possono essere suddivisi in sclerosanti, nodulari e papillari. I tumori sclerosanti, che sono i più frequenti, si localizzano prevalentemente a livello ilare o extraepatico e hanno la prognosi peggiore, si caratterizzano per la comparsa di un’intensa reazione desmoplastica attorno ai dotti biliari. I tumori nodulari tendono invece a formare lesioni solide intraepatiche. Il tumore papillare è raro, ha la migliore prognosi ed è caratterizzato dalla comparsa di lesioni polipoidi con crescita vegetante all’interno del lume dei dotti, con scarsa o assente reazione desmoplastica.

Fisiopatologia I tumori del tratto biliare tendono a infiltrare la parete della colecisti, causando ispessimento e indurimento, e la sottosierosa. Dato che la colecisti presenta una parete sottile con uno strato muscolare singolo, la predisposizione a infiltrare fegato e strutture circostanti e a disseminare nella cavità peritoneale è elevata. Inoltre, la penetrazione a livello dello strato muscolare comporta un interessamento dei vasi linfatici e dei piccoli vasi venosi che affluiscono direttamente al sistema portale, con precoce disseminazione linfatica ed ematogena, che sono infatti presenti in oltre il 90% e il 65%, rispettivamente, delle serie autoptiche.

Manifestazioni cliniche Il quadro clinico dei tumori del tratto biliare è vario e poco caratteristico, in quanto correlato alla sede e alla modalità di crescita della neoplasia. In genere, l’esordio è clinicamente silente e la sintomatologia è presente negli stadi più avanzati della malattia. Il dolore con carattere gravativo e continuo, ribelle agli analgesici e agli antispastici, può essere suggestivo, specialmente se si è presentato inizialmente con i caratteri tipici della colica biliare in rapporto alla presenza di calcolosi della colecisti. Obiettivamente è possibile, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, apprezzare, nell’ipocondrio destro, una massa di consistenza dura, irregolare, a volte bernoccoluta e dolente, corrispondente al fondo della colecisti coinvolto nel processo neoplastico. Frequente, sempre negli stadi avanzati, è l’insorgenza di ittero ostruttivo, che si accentua di solito lentamente nel tempo e che è dovuto a un interessamento da parte della neoplasia delle vie biliari e, in particolare, del coledoco. Le metastasi epatiche, per continuità-contiguità o anche per via linfatica o ematogena, sono in genere precoci e costanti; estremamente frequenti anche quelle a carico delle vie biliari, del duodeno, dello stomaco, del pancreas, del colon e del peritoneo; in tutti questi casi, il quadro clinico è più complesso, arricchendosi delle manifestazioni correlate all’interessamento degli organi raggiunti dalle metastasi. Oltre il 90% dei tumori del coledoco presenta all’esordio un ittero di tipo ostruttivo con andamento ingravescente, associato a prurito nei due terzi dei casi dovuto alla ritenzione dei sali biliari. Le coliche biliari vere e proprie sono eccezionali, a meno che non coesista una colelitiasi. La colangite è presente nel 10% dei pazienti. Sono inoltre evidenti tutti i disturbi dovuti al deficit dei sali biliari con i conseguenti fenomeni di malassorbimento.

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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS

Nelle forme più distali (papilla del Vater) l’ittero può essere intermittente e accompagnato da ricorrenti episodi di infezione delle vie biliari e da emorragie digestive (talora anche con melena, ma, più spesso, con stillicidio ematico cronico), che possono portare ad anemia sideropenica. Infatti questi tumori evidenziano una particolare tendenza all’ulcerazione e alla necrosi. Spesso è presente dolore addominale, prevalente nell’epigastrio, di carattere variabile, generalmente senza alcuna relazione con l’assunzione dei pasti; frequente nel corso della malattia è anche la febbre per la già ricordata sovrapposizione di complicanze colangitiche. Possono inoltre essere presenti calo ponderale, anoressia, cachessia e sudorazioni notturne. L’esame obiettivo può evidenziare, oltre all’esistenza dell’ittero e al progressivo deterioramento delle condizioni generali, la positività del segno di Courvoisier-Terrier, per la distensione della colecisti, quando è presente un’ostruzione neoplastica delle vie biliari a valle dello sbocco del cistico (in questi casi si riscontra anche un’epatomegalia di grado variabile).

Diagnosi Gli esami di laboratorio più frequentemente alterati sono gli indici di stasi biliare, mentre gli indici di funzionalità epatica sono nella norma o modestamente alterati, almeno negli stadi iniziali della malattia. In presenza di ittero, si riscontra iperbilirubinemia. Tra i marker tumorali, possono risultare aumentati CEA e CA-125, che hanno però

un valore predittivo limitato. Il CA19.9 ha maggiori sensibilità e specificità. Il marcatore, se inizialmente espresso, risulta utile per monitorare la malattia nel tempo dopo un intervento chirurgico e per ottenere informazioni sull’evoluzione della malattia stessa nel corso del trattamento chemioterapico nella malattia avanzata. L’esame radiologico di prima scelta è l’ecografia, che deve sempre essere eseguita nel paziente itterico o con indici di stasi elevati. In caso di negatività dell’esame ecografico, deve essere eseguita una TC addominale con mezzo di contrasto. Purtroppo, entrambi questi esami hanno basse sensibilità e specificità nell’individuare i tumori del tratto biliare intraepatici ed extraepatici. La valutazione della sede e dell’estensione della malattia è possibile mediante colangioRM, colangiografia transepatica percutanea o retrograda per via endoscopica (ERCP, Endoscopic Retrograde CholangioPancreatography). Queste ultime consentono anche il posizionamento di uno stent e l’esecuzione di un brushing per la diagnosi citologica. I dati relativi all’utilità della PET sono controversi. Alcuni autori ne sostengono l’utilità ai fini di una migliore pianificazione terapeutica, mentre altri sottolineano l’elevata percentuale di falsi negativi, legati alla scarsa cellularità della neoplasia e all’importante fibrosi, e falsi positivi, legati ai processi infiammatori spesso presenti in concomitanza con lesioni benigne di natura ostruttiva. Nelle tabelle 45.6 e 45.7 sono riportati la classificazione e lo stadio TNM per i tumori del tratto biliare extraepatici e della colecisti. Per i tumori intraepatici vale la stessa classificazione riportata per gli epatocarcinomi in tabella 45.4.

Tabella 45.6 Classificazione TNM per i tumori extraepatici del tratto biliare

Tabella 45.7 Classificazione TNM per i tumori della colecisti

T – Tumore primitivo Tumore limitato al dotto biliare T1 Tumore con invasione oltre la parete del dotto biliare T2 Tumore infiltrante il fegato, la colecisti, il pancreas T3 e/o un ramo della vena porta (destro o sinistro) o dell’arteria epatica (destro o sinistro) Tumore con invasione diretta del ramo principale della T4 vena porta o di entrambe le sue diramazioni o dell’arteria epatica comune o di altri organi adiacenti come il colon, lo stomaco, il duodeno o la parete addominale

T – Tumore primitivo Tumore con infiltrazione dello strato muscolare T1 Tumore con invasione oltre la parete della colecisti T2 Tumore che perfora il peritoneo viscerale e/o invade T3 direttamente il fegato e/o gli organi o le strutture adiacenti, come lo stomaco, il duodeno, il colon, il pancreas, l’omento o i dotti biliari extraepatici Tumore con invasione diretta del ramo principale della T4 vena porta o dell’arteria epatica comune o di più organi o strutture extraepatiche

N – Linfonodi regionali Lo stato linfonodale non può essere definito Nx Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi N0 Metastasi ai linfonodi regionali N1

N – Linfonodi regionali Lo stato linfonodale non può essere definito Nx Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi N0 Metastasi ai linfonodi regionali N1

M – Metastasi a distanza Lo stato metastatico non può essere definito Mx Nessuna metastasi a distanza M0 Presenza di metastasi a distanza M1

M – Metastasi a distanza Lo stato metastatico non può essere definito Mx Nessuna metastasi a distanza M0 Presenza di metastasi a distanza M1

Stadio in base al sistema TNM T1N0M0 IA T2N0M0 IB T3N0M0 IIA T1-3N1M0 IIB T4N0-1M0 III T1-4N0-1M1 IV

Stadio in base al sistema TNM T1N0M0 IA T2N0M0 IB T3N0M0 IIA T1-3N1M0 IIB T4N0-1M0 III T1-4N0-1M1 IV

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Terapia La prognosi è infausta a breve scadenza (pochi mesi in media). La chirurgia è l’unica terapia con finalità curativa ed è pertanto il trattamento di prima scelta quando fattibile. Purtroppo, nel 65-75% circa dei casi l’intervento non è indicato per la presenza, al momento della diagnosi, dell’invasione degli organi vicini o di metastasi a distanza. Nei tumori intraepatici del tratto biliare, l’intervento consiste in una segmentectomia o una lobectomia. La sopravvivenza a 5 anni è del 13-44% e i principali fattori prognostici sono i margini di resezione e l’assenza di interessamento linfonodale o di infiltrazione vascolare. Per i tumori ilari, che richiedono una resezione in blocco del segmento epatico e di almeno un lobo epatico, la sopravvivenza a 5 anni dopo chirurgia con margini negativi oscilla tra l’11 e il 41%, mentre per i tumori più distali, che richiedono una duodenocefalopancreasectomia, tra il 27 e il 37%. Purtroppo, meno del 50% degli interventi è in grado di ottenere margini negativi. Inoltre, la morbidità e la mortalità postoperatorie sono piuttosto elevate per i tumori ilari (31-85% e 5-10%, rispettivamente). I risultati del trapianto d’organo sono stati deludenti con sopravvivenze a 5 anni dello 0-18% per i tumori intraepatici e del 23-26% per quelli extraepatici. Il ruolo della radioterapia postoperatoria non è definito. Per quanto, dal punto di vista teorico esisterebbe un’indicazione all’irradiazione, dato l’elevato rischio di recidiva locale e di mancata radicalità chirurgica, non ci sono purtroppo studi prospettici che ne abbiano verificato l’impatto sulla storia naturale della malattia. Ulteriori ostacoli sono rappresentati dalla difficoltà nella definizione del target per i

tumori intraepatici e dal rischio di epatotossicità attinica. In ogni caso, l’atteggiamento più diffuso è quello di utilizzare la radioterapia quando il rischio di recidiva locale è elevato e il rischio di tossicità contenuto. Anche il ruolo della chemioterapia adiuvante non è ben definito. Il rischio di metastatizzazione a distanza è elevato, ma i dati a supporto dell’uso sistematico della chemioterapia sono carenti e attualmente non esiste un’indicazione. L’utilizzo di una fluoropirimidina come radiosensibilizzante durante la radioterapia può comunque ambire al trattamento di una micromalattia metastatica eventualmente presente. Il trattamento della malattia non resecabile si basa sulla chemioterapia sistemica. I farmaci più utilizzati sono il 5-fluorouracile e la gemcitabina, da soli o in associazione ad altri chemioterapici come cisplatino, oxaliplatino, mitomicina-C, taxani e antracicline. Una recente analisi dei risultati di oltre 100 studi prospettici condotti negli ultimi 20 anni in circa 3000 pazienti documenta che le risposte obiettive ottenute con la chemioterapia sono circa il 20-25%, che il tempo mediano alla progressione è di 4 mesi e che la sopravvivenza mediana è di circa 8 mesi. I tumori della colecisti tendono a rispondere meglio alla chemioterapia rispetto a quelli delle vie biliari, ma la sopravvivenza è inferiore. I risultati della terapia sono migliori con l’utilizzo di combinazioni di due chemioterapici rispetto all’uso di un singolo farmaco, mentre le combinazioni a tre farmaci non offrirebbero vantaggio rispetto alle doppiette. Nel trattamento dei tumori del tratto biliare non va dimenticato il ruolo degli interventi di palliazione dell’ittero (stent, drenaggio biliare percutaneo, anastomosi bilio-digestive).

Tumori del pancreas Definizione Il pancreas è una ghiandola con funzioni endocrine ed esocrine annessa all’apparato digerente con localizzazione retroperitoneale ed esteso dalla “C” duodenale fino all’ilo splenico. I tumori del pancreas possono verificarsi a carico della componente esocrina o endocrina dell’organo. In questo capitolo ci si occuperà esclusivamente dei tumori a carico della componente esocrina. La ghiandola è arbitrariamente divisa in tre porzioni: la testa, localizzata a destra della confluenza tra la vena porta e la vena mesenterica superiore, il corpo, che si estende dalla confluenza porto-mesenterica alla parete laterale sinistra dell’aorta, e la coda, che si estende dalla parete sinistra dell’aorta all’ilo splenico.

Epidemiologia Il carcinoma del pancreas rappresenta circa il 2% di tutti i tumori maligni e il 10% circa di quelli dell’apparato gastroenterico, secondo solo al tumore del colon; la sua

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incidenza è notevolmente aumentata negli ultimi decenni, raggiungendo la frequenza di 10 casi/100.000 abitanti negli Stati Uniti, dove questa neoplasia rappresenta la quarta causa di morte tra tutti i decessi dovuti a tumore (dopo polmone, mammella e colon nella donna e polmone, colon e prostata nell’uomo). L’incidenza è in netto aumento nei Paesi occidentali. Il carcinoma del pancreas è un poco più comune nell’uomo che nella donna (1,3:1), nei soggetti di colore rispetto alle popolazioni bianche; l’epoca massima di incidenza è nel quinto-settimo decennio di vita.

Eziologia e fattori di rischio Come per la maggior parte delle neoplasie maligne, l’eziologia è sconosciuta. Sono stati identificati alcuni fattori di rischio che aumentano il pericolo di sviluppare un carcinoma pancreatico. Si stima che il fumo di sigaretta sia responsabile del 30% circa dei casi. Una dieta ricca di grassi, carne, prosciutto e salumi aumenta il

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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS

rischio relativo di sviluppare un carcinoma pancreatico di 1,4-1,65 volte. Il ruolo di caffè e alcol è ancora controverso. Per diabete mellito e pancreatite cronica calcifica esistono dati contrastanti, in quanto il carcinoma pancreatico, distruggendo le isole e il parenchima sano, potrebbe essere la causa di queste patologie. Altri fattori associati sono l’obesità, la scarsa attività fisica, l’età avanzata, il basso livello socioeconomico, la razza afroamericana. Si stima che il 10-20% dei casi di carcinoma pancreatico abbia un’origine ereditaria. Tra le sindromi genetiche associate, le più comuni sono: 1) le mutazioni del gene BRCA2 responsabile del tumore mammario familiare, con rischio di tumore pancreatico aumentato di 3,5-10 volte; 2) le mutazioni di p16 implicate nella sindrome familiare MMM (Multiple Mole Melanoma), con rischio aumentato di 12-20 volte; 3) la sindrome di Peutz-Jeghers, con rischio aumentato di 100 volte; 4) la sindrome ereditaria dei tumori del colon-retto non poliposici, caratterizzata da mutazioni dei geni implicati nei processi di DNA mismatch repair.

Patogenesi Le principali mutazioni genetiche coinvolte nella patogenesi del tumore del pancreas possono essere ereditarie o somatiche. I geni KRAS2, p16, p53 e SMAD4 risultano mutati nella maggioranza dei casi. L’erosione telomerica è l’alterazione genetica più precoce e frequente e si suppone predisponga a traslocazioni cromosomiche. La mutazione di KRAS2 è presente in oltre il 90% dei casi ed è responsabile della conversione della proteina k-ras in una forma iperattiva nella trasmissione dei segnali attivati dai fattori di crescita. Le mutazioni di SMAD4 sono presenti nel 55% dei casi. Il sentiero di SMAD trasmette a specifiche regioni nucleari segnali attivati dalle proteine extracellulari TGF e attivina. Quasi tutti i tumori pancreatici presentano una perdita della funzione di p16, inibitore Cdk che controlla l’entrata delle cellule in fase S. Il gene p53 perde la sua capacità di legare il DNA nel 50-70% dei casi di adenocarcinoma pancreatico. Sono stati inoltre individuati numerosi geni coinvolti nei processi di chemio- e radioresistenza che caratterizzano il tumore pancreatico; tra questi ATDC (ataxia-teleangiectasia group D associated protein), topoisomerasi II ␣ e transglutaminasi II.

Anatomia patologica Il tumori del pancreas esocrino sono prevalentemente adenocarcinomi duttali infiltranti nelle varianti “ad anello con castone”, midollare, squamosa, anaplastica, indifferenziata con cellule giganti simil osteoclastiche e mucinosa non cistica. Non esistono differenze dal punto di vista prognostico tra queste varianti. I carcinomi a cellule acinari e i pancreatoblastomi sono più rari. Si possono riscontrare anche neoplasie cistiche, la più comune delle quali è il tumore mucinoso-cistico, più frequente nella donna (90%) con sopravvivenza a 5 anni dopo chirurgia radicale del 50%, seguito dalla neoplasia intraduttale papillare mucinosa (IPMN, Intraductal Papillary Mucinous Neoplasm), con sopravvivenza a 5 anni dopo chirurgia radicale del 40%, dalla neoplasia cistica sierosa, più fre-

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quente nella donna con un rapporto di 3:7 e dalla neoplasia pseudopapillare solida, che colpisce prevalentemente donne in giovane età (90%).

Fisiopatologia Il pancreas si estende dalla “C” duodenale all’ilo splenico, in posizione retroperitoneale. L’organo contrae stretti rapporti anatomici con i grossi vasi addominali (tripode celiaco, tronchi mesenterici superiori e inferiori, vasi splenici e vena porta) e con i plessi nervosi a essi associati, con gli organi cavi del tubo digerente (duodeno, stomaco, colon trasverso), con milza e rene sinistro. Il dotto biliare transita a livello della testa pancreatica e la sua ostruzione determina la comparsa di ittero. Nelle fasi più avanzate della malattia l’ittero può essere in relazione alla presenza di adenopatie all’ilo epatico o a disseminazione epatica con ostruzione dei dotti biliari intraepatici. La tendenza spiccatamente infiltrativa delle neoplasie pancreatiche porta precocemente a un interessamento della parete dei grossi vasi addominali, condizionando l’irresecabilità e provocando fenomeni ostruttivi a carico delle vie biliari o del duodeno con conseguente dolore. Si può verificare anche un’infiltrazione diretta a carico del retroperitoneo e dei plessi nervosi del tronco celiaco. L’infiltrazione del duodeno e della parete gastrica determina ostruzione meccanica e gastroparesi paraneoplastica con conseguenti nausea e vomito. La funzione esocrina del pancreas risulta spesso compromessa con conseguente diarrea, malassorbimento e steatorrea. Anche la funzione endocrina è spesso compromessa e la comparsa di diabete come segno anticipatorio della malattia o durante il corso della stessa è frequente. Il tumore del pancreas tende spesso a disseminare a livello peritoneale determinando stipsi e occlusione intestinale. La patogenesi del calo ponderale è multifattoriale, in quanto determinato da turbe complesse del metabolismo glicidico, lipidico e proteico correlate al rilascio da parte della neoplasia di una serie di mediatori tra cui il TNF (Tumor Necrosis Factor) e diverse interleuchine (IL-6, -1 e -8).

Manifestazioni cliniche Il sintomo di esordio più frequente è l’ittero, evidenziabile in oltre l’80% dei pazienti. Può avere un andamento intermittente, in rapporto alla variabile componente flogistica ed edematosa presente. Ha il carattere tipico degli itteri colestatici o ostruttivi, con prevalente incremento della bilirubinemia diretta (oltre il 50% di quella totale), feci ipocoliche fino ad acolia completa, urine contenenti bilirubina e povere o prive di urobilinogeno e prurito per ritenzione dei sali biliari. Il dolore addominale è presente in circa l’80% dei pazienti e si localizza a livello epigastrico con irradiazione nell’ipocondrio destro per il tumore della testa, nella regione periombelicale per il tumore del corpo e nell’ipocondrio sinistro per quello della coda. Molto spesso assume una distribuzione a cintura con coinvolgimento dei quadranti addominali superiori e irradiazione posteriore al dorso. Il dolore è di solito intenso, fastidioso, continuo o subcontinuo, talora esacerbato dai pasti, più spesso indipendente

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da questi; è tipico il suo carattere posturale: infatti, è solitamente accentuato dal decubito dorsale ed è attenuato da alcune manovre, come la flessione del tronco in avanti, il decubito laterale destro e la compressione dell’addome. Il calo ponderale, associato a dispepsia soprattutto per i cibi grassi, vomito e peso epigastrico postprandiale, è progressivo e notevole, più frequente nei tumori del corpocoda del pancreas (83%) rispetto a quelli della testa (70%). Il carcinoma pancreatico è una delle malattie che danno più rapidamente uno stato di vera e propria cachessia. Nausea e vomito sono meno frequenti nei tumori del corpo-coda (33%) rispetto a quelli della testa (45%). Il 17-26% dei pazienti può manifestare disturbi psichici che in genere portano a un ritardo diagnostico. Possono essere presenti irregolarità dell’alvo con stipsi alternata a diarrea e steatorrea. L’esame obiettivo permette di evidenziare un notevole dimagramento e il colorito itterico; l’obiettività addominale, nelle fasi più avanzate della malattia, può mostrare la presenza di una massa palpabile nell’epigastrio (nel 40-50% dei casi nel tumore del corpo e della coda). Spesso si apprezza un’epatomegalia anche cospicua, come conseguenza della stasi biliare (quindi soprattutto nel tumore della testa); la colecisti è di solito distesa, ma è direttamente palpabile soltanto nel 15-40% dei casi (segno di Courvoisier-Terrier positivo specialmente nelle neoplasie della testa, mentre la colecisti non dovrebbe essere distesa e palpabile in caso di occlusione biliare calcolotica, poiché in quest’ultima è facile che le sue pareti siano irrigidite da processi sclerotici). Frequente è anche il riscontro di splenomegalia e di versamento peritoneale, per compressione o invasione o anche trombosi delle vene del circolo portale, soprattutto della vena splenica. Talvolta è possibile apprezzare un soffio all’auscultazione dell’addome in sede periombelicale e al quadrante addominale superiore di sinistra, che è dovuto a compressione o invasione dell’arteria splenica da parte del tumore. In circa il 10% dei casi sono presenti tromboflebiti migranti agli arti inferiori, a patogenesi sconosciuta, più frequenti nelle neoplasie del corpo e della coda. Ematemesi e/o melena (o più di frequente sanguinamento occulto) si possono verificare per erosione o ulcerazione della mucosa duodenale da parte del tumore nel corso della sua propagazione agli organi contigui.

Diagnosi Gli esami di laboratorio soltanto occasionalmente sono utili nella diagnosi del carcinoma del pancreas. L’amilasi e la lipasi risultano elevate nel sangue e nelle urine soltanto nel 10% dei casi; nel 20% circa dei pazienti sono presenti iperglicemia o glicosuria postprandiali, mentre il test di tolleranza al glucosio è alterato nel 50% dei casi, e questo anche se solo il 6% dei pazienti sviluppa un diabete mellito clinicamente evidente. L’anemia, presente nel 30% dei casi, può avere diverse cause: deficit nutrizionale, perdita di sangue occulto con le feci (50% dei casi) e anemia delle malattie croniche; le feci possono essere frequentemente di consistenza diminuita (spesso poltacee), ma una vera e propria steatorrea si riscontra solo in una minoranza dei casi (10%).

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In presenza di colestasi (e quindi più spesso e più precocemente nel tumore della testa), si riscontrano un’iperbilirubinemia diretta (da cui l’ittero) e l’aumento degli enzimi del “polo biliare” degli epatociti (␥-glutamil-transpeptidasi e fosfatasi alcalina). Di recente, un particolare significato dal punto di vista diagnostico è stato attribuito alla determinazione nel sangue e nelle urine del CEA, del GT II (Galactosyl Transferase Isoenzyme II) e del GICA (Gastric Intestinal Carcinoma Associated Antigen). Elevati valori sierici di CEA e di GT II sono stati riscontrati in circa il 70% dei pazienti, anche se questi dati non sono specifici del carcinoma pancreatico, potendosi rilevare anche in altre condizioni (cirrosi epatica, pancreatite cronica, altri tumori gastrointestinali e non). Al contrario, il GICA (chiamato anche CA 19-9, sigla dell’anticorpo monoclonale diretto contro di esso) risulta essere alterato in quasi il 90% dei pazienti con questa malattia, mantenendo una buona specificità. L’approfondimento diagnostico strumentale deve essere guidato dalla necessità di stadiare la malattia per una corretta impostazione del piano terapeutico e deve tenere conto delle disponibilità tecnologiche e dell’expertise del centro. La biopsia deve essere eseguita sulla lesione più facilmente accessibile nei pazienti non operabili o candidati a un trattamento neoadiuvante. L’esame radiologico di prima scelta per la diagnosi del tumore pancreatico è la TC multidetettore trifasica (cioè con acquisizione di immagini in fase arteriosa, portale e di equilibrio), che ha un’elevata accuratezza nell’indicare le dimensioni della neoplasia, nel definire i rapporti della massa neoplastica con le strutture vicine e con i grossi vasi addominali, nell’individuare la presenza di secondarismi epatici, linfonodali o polmonari, permettendo di formulare un giudizio di resecabilità. La RM nucleare moderna con immagini a elevata risoluzione, acquisizione rapida delle immagini, valutazione volumetrica e funzionale e colangiopancreatografia, è sicuramente uno strumento affidabile per la diagnosi del carcinoma pancreatico. La sua esecuzione può essere considerata in alternativa alla TC nei casi in cui sussistano allergie alla somministrazione del contrasto organoiodato. L’esame ecografico è poco utile, in quanto condizionato dalla costituzione fisica dei pazienti e dalla frequente presenza di meteorismo intestinale che ostacola la visualizzazione della loggia pancreatica. L’ecoendoscopia risulta utile ai fini del giudizio di resecabilità, consentendo di valutare il rapporto che la neoplasia contrae con i grossi vasi addominali. Inoltre, questa metodica consente di ottenere il materiale per la diagnosi citologica mediante agoaspirato transparietale e offre la possibilità di palliare il dolore mediante l’alcolizzazione del plesso celiaco. La PET ha indicazioni più limitate data la difficoltà di esecuzione nei pazienti con diabete non compensato e l’elevata percentuale di falsi negativi. L’esame può fornire informazioni complementari alla TC nei pazienti resecabili o nei pazienti con una malattia localmente avanzata non resecabile allo scopo di escludere con maggior grado di certezza la presenza di lesioni metastatiche. Risulta inoltre utile durante il follow-up nei casi in cui un rialzo

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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS

Tabella 45.8 Classificazione TNM per i tumori pancreatici T – Tumore primitivo Tumore confinato al pancreas con diametro < 2 cm T1 Tumore confinato al pancreas con diametro > 2 cm T2 Tumore che si estende oltre il pancreas senza infiltrare T3 il tripode celiaco o l’arteria mesenterica superiore Tumore con infiltrazione del tripode celiaco T4 o dell’arteria mesenterica superiore N – Linfonodi regionali Lo stato linfonodale non può essere definito Nx Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi N0 Metastasi ai linfonodi regionali N1 M – Metastasi a distanza Lo stato metastatico non può essere definito Mx Nessuna metastasi a distanza M0 Presenza di metastasi a distanza M1 Stadio in base al sistema TNM T1N0M0 IA T2N0M0 IB T3N0M0 IIA T1-3N1M0 IIB T4NqualsiasiM0 III TqualsiasiNqualsiasiM1 IV

del marcatore tumorale faccia sospettare la presenza della malattia non individuata dalla TC. L’uso della laparoscopia di stadiazione è controverso. Si ritiene che possa essere utile nei pazienti con tumore del corpo-coda candidati alla chirurgia resettiva dato l’elevato rischio di riscontro intraoperatorio di disseminazione peritoneale. Permetterebbe di risparmiare un’inutile laparotomia nel 35% dei pazienti. Viceversa, nei tumori della testa pancreatica la laparotomia risulta più frequentemente necessaria anche per la necessità di palliare l’ittero o l’ostruzione duodenale. Nella tabella 45.8 sono riportati la classificazione e lo stadio TNM per i tumori del pancreas.

Terapia Al momento della diagnosi, il carcinoma pancreatico è resecabile solamente nel 10-20% dei pazienti, mentre nel 30-35% dei pazienti si presenta come localmente avanzato per infiltrazione dei grossi vasi addominali e in oltre il 50% dei casi sono già evidenziabili metastasi a distanza. La prognosi è tuttavia infausta anche per gli stadi iniziali, dato che le sopravvivenze mediane ottenibili con la sola chirurgia in questo sottogruppo di pazienti sono nell’ordine dei 12 mesi e la sopravvivenza a 5 anni tra il 5% e il 10%. Questi risultati sono legati alla precoce presenza di micrometastasi linfonodali e a distanza non individuabili con le metodiche diagnostiche disponibili.

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La sopravvivenza mediana per gli stadi III è di circa 10-12 mesi e per gli stadi IV di 5-6 mesi. Nessuno di questi pazienti vive oltre i 5 anni.

Stadi I e II I pazienti con malattia intrapancreatica, senza estensione al retroperitoneo o al mesocolon trasverso e senza infiltrazione dell’arteria mesenterica superiore o del tripode celiaco o dell’asse spleno-mesentericoportale, sono candidati alla resezione chirurgica con intento radicale. La valutazione preoperatoria della resecabilità presenta alcuni margini di incertezza che devono essere verificati intraoperatoriamente. La pancreasectomia (duodenocefalopancreasectomia per i tumori della testa, pancreasectomia distale per i tumori del corpo e della coda) è un intervento complesso, con complicanze perioperatorie maggiori nel 40-45% dei pazienti e tassi di mortalità perioperatoria del 5-7%. Non è dimostrata l’utilità della linfadenectomia allargata. L’importanza della presenza di un’équipe multidisciplinare (chirurghi, anestesisti, internisti con specializzazione in gastroenterologia ed endocrinologia, radiologi, nutrizionisti, infettivologi) con esperienza specifica nel trattamento del tumore pancreatico è stata dimostrata da numerosi studi, che hanno sottolineato l’impatto sulla sopravvivenza del volume operatorio del centro e dell’esperienza del singolo chirurgo. In particolare, il rischio di mortalità può aumentare dal 4% circa dei centri che eseguono almeno 16 interventi di duodenocefalopancreasectomia ogni anno al 15% circa dei centri dove si eseguono 2 interventi ogni anno. Oltre al centro, tra i fattori prognostici di rilevante importanza sono stati identificati il diametro della lesione (superiore o inferiore ai 3 cm), il grading, il valore del marcatore preoperatorio, lo stadio e il performance status postoperatorio. È invece controverso il valore prognostico indipendente del margine di resezione e della sede della lesione. Dopo chirurgia, il tumore del pancreas tende a recidivare sia in sede loco-regionale nel 25-60% dei casi, sia a distanza nel 51-79%. Le recidive locali isolate sono tuttavia rare e si verificano in meno di un terzo dei pazienti, essendo molto più frequente la contemporanea comparsa di un secondarismo. Il trattamento adiuvante postoperatorio ha dato per molti anni risultati inconsistenti e controversi, fondamentalmente attribuibili alla mancanza di farmaci realmente efficaci, alla difficoltà a somministrare dosi adeguate di chemioterapia e/o radioterapia in pazienti generalmente debilitati dalla malattia e dall’intervento chirurgico e a problematiche metodologiche negli studi eseguiti. Gli studi che hanno valutato l’impatto della chemio-radioterapia postoperatoria hanno utilizzato tecniche, schedule e dosi attualmente considerate inadeguate per il trattamento di questa malattia e, in qualche caso, hanno incluso un numero di pazienti inadeguato. Non sono stati eseguiti studi con metodi moderni e non è pertanto possibile fornire informazioni attendibili sul ruolo della chemio-radioterapia postoperatoria, che

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resta controverso. Dato l’elevato rischio di sviluppare metastasi a distanza, si tende oggi a utilizzare un trattamento chemioterapico come primo intervento terapeutico postoperatorio. Due studi hanno dimostrato che una chemioterapia con 5-fluorouracile o con gemcitabina dopo chirurgia radicale prolunga significativamente la sopravvivenza complessiva e libera da malattia. Recenti esperienze di impiego di schemi di combinazione in adiuvante hanno prodotto risultati interessanti e apparentemente superiori a quelli ottenibili con un solo farmaco, ma sono necessari studi più ampi per confermarli. L’approccio neoadiuvante chemioterapico o chemio-radioterapico è proposto e utilizzato da diverse istituzioni, ma non sono finora stati condotti studi randomizzati che permettano di attribuire un ruolo preciso a questa strategia. Durante il trattamento neoadiuvante, il 20-30% dei pazienti ha una progressione di malattia e diventa inoperabile. Secondo i sostenitori di questo approccio si eviterebbe così un inutile e pericoloso intervento.

Stadi III e IV Dato che la mortalità è praticamente sovrapponibile all’incidenza, la finalità del trattamento degli stadi III e IV è quasi sempre palliativa. Negli stadi III, il trattamento combinato chemio-radioterapico si è dimostrato superiore alla sola radioterapia, mentre i risultati di confronto tra chemio-radioterapia e chemioterapia sola sono controversi. Anche in questo caso mancano studi di fase III sufficientemente ampi per dare risposte definitive. Alcuni dati suggeriscono che il miglior impiego della chemio-radioterapia potrebbe essere quello di consolidare i risultati ottenuti con la chemioterapia sistemica nei pazienti che non hanno avuto progressione. L’impiego della chemioterapia come trattamento di prima scelta negli

stadi III appare logico, dato che il 75% dei pazienti ha una progressione a distanza, mentre solo il 25% ha una progressione locale. Per gli stadi IV, il trattamento chemioterapico è la prima scelta. Il chemioterapico più utilizzato è la gemcitabina, che è risultata significativamente più efficace del 5-fluorouracile sia in termini di risposte radiologiche, sia nel tempo alla progressione e in sopravvivenza mediana, che viene prolungata da 4,2 mesi a 5,7 mesi. Dati i modesti risultati in termini di risposte radiologiche (circa il 10%) e di sopravvivenza a 1 anno (circa il 20%) ottenibili con gemcitabina, si sono susseguiti numerosi studi di fase III che hanno valutato l’impatto sulla malattia dell’aggiunta di un secondo farmaco alla gemcitabina. Nella pratica clinica, molti continuano a utilizzare la sola gemcitabina, temendo che l’aumentata tossicità della combinazione possa peggiorare la qualità di vita del paziente, mentre altri preferiscono ricorrere alla combinazione, soprattutto nei pazienti in buone condizioni generali. Sono stati eseguiti numerosi studi di terapia di seconda linea, dopo il fallimento della prima linea, che hanno dimostrato che il trattamento di salvataggio aumenta la sopravvivenza rispetto alla terapia di supporto; non è però possibile indicare quale sia il miglior trattamento di seconda linea. Non va infine dimenticato il ruolo degli interventi terapeutici palliativi finalizzati a trattare l’ittero, l’ostruzione duodenale, il dolore, l’occlusione intestinale e il diabete che sono molto spesso presenti nei pazienti affetti da carcinoma pancreatico. Tra le varie opzioni di tipo chirurgico, endoscopico, radiologico interventistico e medico disponibili saranno da preferire quelle su cui il centro ha maggiore esperienza, anche in base alle condizioni generali del paziente e alla prognosi.

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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS

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